Paolo, che fu anche in grado di esprimere in un modo sorprendentemente semplice i misteri più profondi della fede, ha presentato alla nostra esistenza cristiana le esigenze fondamentali della speranza nella semplice formula: «Siate lieti nella speranza, pazienti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rom. 12,12). Sono tratti ben poco appariscenti di una testimonianza cristiana: gioia, pazienza, perseveranza. In essi avviene pero qualcosa di incomprensibile. Paolo lo definisce con le parole: «Ferventi di spirito» (Rom. 12,11). Come può la semplice realizzazione della nostra vita umana — in gioia, pazienza e perseveranza — diventare testimonianza splendente di Dio? Come può il nostro quotidiano diventare il segno dell'assoluto nel mondo? Come potrà la nostra piccola attesa di una vita migliore diventare speranza, anticipazione di un compimento eterno?
Ciò che conta, è imparare nuovamente la speranza e scrutare fino in fondo ciò che 'sogniamo'. Una gran parte dei nostri sogni è una insipida e snervante fuga; ma una piccola parte è pura, stimola, impedisce che ci accontentiamo del 'cattivo che abbiamo'. È importante — come riafferma sempre Ernst Bloch — imparare a conoscere sempre meglio questo nucleo puro della speranza e a dirigere con sicurezza la nostra dinamica dell'essere al fine giusto. Si tratta quindi di trasformare il nostro sperare quotidiano in una speranza compresa. L'uomo cerca ad ogni gradino della sua vita il non ancora conscio, il non ancora divenuto. Seguiamo in questa meditazione il sognare dell'uomo, l'immagine del 'futuro meraviglioso', il paese miracoloso del desiderio, che si manifesta in tutte le situazioni e su tutti i piani delle espressioni umane.
1. Esistenza come 'speranza sognata'
Il bambino sogna se stesso grande nelle favole. Si suole oggi vedere in favole, miti e leggende i prototipi della speranza umana. Essi ci dicono da dove prenda inconsciamente la nostra vita interiore e dove arriviamo, non appena la nostra esistenza quotidiana si apra un po' di più in profondità. Ciò dimostra che la vita non è in fondo nient'altro che il 'condensamento della fanciullezza'. Se si incrina la favola, non si priva soltanto il bambino del 'magico', ma si distrugge la sua vita interiore e il suo futuro sviluppo. Poiché in ultima analisi l'uomo è realmente uomo solo là dove sfocia nell'incomprensibile e nell'inafferrabile. Donde vengo, dove vado, qual è il senso ultimo della mia vita? Queste sono le domande primitive dell'esistenza umana. Ora, la favola, questo primo abbozzo irriflesso della speranza, dà risposte ben precise a questi primi interrogativi. Forse l'uomo, fino alla fine della sua vita, non saprà dire molto di più in proposito. Cerchiamo di mettere in luce alcune risposte fondamentali della favola e di capire anche perché la si chiami un «fenomeno primitivo della speranza».
a. Origine dell'esistenza umana
Che cosa avviene in una favola, quando si cerca di sottoporla ad un'analisi strutturale e di ricondurla ad una figura fondamentale? In fondo in una favola non succede molto, oppure la sola cosa importante! Abitualmente la favola comincia con la felicità. Poi irrompe la minaccia del male nella vita. Il male sembra aver vinto definitivamente. Ed ecco che l’uomo riceve un aiuto ed una forza inspiegabile da una sfera miracolosa dell'essere. Alla fine, il debole vince contro il cattivo, il forte e diventa felice per sempre.
Ogni uomo avverte in queste favole: È così, anzi, deve essere così. Perché? Non lo sappiamo e non possiamo neppure addurre motivi inconfutabili. Ma non è poi così importante di primo acchito. Ciò che conta anzitutto, è una visione spirituale, una intuizione della realtà. Il bambino 'sapeva già prima' dalla favola il suo catechismo. È del tutto evidente per il bambino che l'umanità sia stata un giorno pienamente felice, che siano poi sopravvenuti la caduta e il dominio del maligno, che si sia poi verificata una liberazione soprannaturale, e, infine, che il mondo si sia aperto alla felicità definitiva. In tutto questo si apre una prospettiva sui fondamenti ultimi dell'essere. Ci si intenda bene. Non vogliamo qui mettere il religioso e il metafisico sullo stesso piano della favola. La favola è solo una porta, che si deve aprire per giungere nella sfera del mistero, dove solo diventa possibile una spiegazione della vita. Ogni insegnante di religione sa quanto sia difficile da capire la storia della salvezza per bambini che a casa non hanno mai sentito raccontare favole.
Non sorprende che addirittura il marxismo non possa rinunciare a tale funzione della favola per far comprendere la sua escatologia intramondana. Nel piccolo libretto rosso «Parole del Presidente Mao Tse-Tung» si trova la seguente strana storia: «In tempi antichi visse nel Nord della Cina un vegliardo dei monti nordici di nome Yü Gung (il 'Vegliardo pazzo'). Due grandi montagne sbarravano la strada, che dalla sua porta di casa andava verso Sud: il Taihang e il Wangwu. Yù Gung prese la decisione di abbattere con zappe queste montagne insieme ai suoi figli. Un altro vegliardo di nome Dschi Sou (il 'Vecchio saggio') rise vedendoli e commentò: 'È veramente senza senso quello che fate. In così pochi è impossibile che spianate due montagne di queste dimensioni!' Yü Gung gli replicò: 'Muoio io, restano i miei figli; muoiono i figli, restano i nipoti, e così si succederanno le generazioni in una serie senza fine. Queste montagne sono alte, ma non possono diventare più alte; esse caleranno anzi di tutto quello che riusciremo ad abbattere. Perché non le dovremo allora spianare? Dopo aver ribattuto il falso punto di vista di Dschi Sou, Yü Gung, senza minimamente tentennare, si mise ad abbattere le montagne un giorno dopo l'altro. Ciò commosse l'imperatore del cielo, che mandò due delle sue divinità sulla terra. Esse presero sulle spalle le due montagne e le portarono via». Segue poi l'applicazione di Mao: «Attualmente ci sono pure due grandi montagne, che pesano sul popolo cinese. Una si chiama imperialismo, l'altra feudalesimo...», ecc. Il resto non ci interessa più qui direttamente.
Detto ciò, non abbiamo timori nell'affermare che nella favola si è condensato qualcosa, che rappresenta l'esperienza dei fatti primitivi del mondo e dell'umanità. Per questo la favola è tanto evidente, così plausibile e di facile intuizione. Il bambino scorge la realtà del mondo ancora in quella profondità, dove è presente in modo immediato il dramma della storia dell'umanità; là dove il mondo piomba in una catastrofe, quando una mela viene mangiata senza permesso; là dove città vengono distrutte, quando si dimentica una parola; là dove tutto il male scaturisce da una scatola aperta. In questi eventi si raffigura che l'essere umano non si fonda sul dare e sul prendere, ma si regola secondo condizioni, che non si possono comprendere sul piano dell'equivalenza.
b. Valore unico dell'essere
In una delle più belle favole degli ultimi tempi, il «Piccolo Principe» di Saint-Exupéry, si legge: «I grandi! Se dici loro: ho visto una bella casa con tegole rosse, con gerani alle finestre e colombe sul tetto, non sono capaci di immaginarsi questa casa. Bisogna dire loro: ho visto una casa, che vale centomila franchi. Ed allora esclamano: ah, che bella!». Qui viene colto un momento essenziale della favola: le cose hanno valore nella loro unicità, non nel loro confronto quantitativo. Il mondo compare nella favola così come propriamente dovrebbe essere, anzi, così come già è nel suo intimo più profondo; un mondo, ove si può parlare di boschi, stelle, farfalle e rose, e non necessariamente – come si esprime un po' scurrilmente Saint-Exupéry – di argomenti ‘coltivati' quali bridge, golf, politica e cravatte.
A questo proposito ancora qualcos'altro: la favola è un regno interiore, in cui la verità è bontà, la bontà è bellezza e la bellezza è potenza. Si potrebbe addirittura così definire la favola: «Una storia, in cui il bene è sempre il più forte»? E questo è vero, questa è vera metafisica. Ciò significa: nell'ambito dello sfondo essenziale è realmente così, nonostante ogni apparenza contraria in primo piano. In una favola è contenuta tutta la dottrina dei trascendentali della 'filosofia perenne': l'essere è il vero, il buono, l'uno e il bello. Cose che si possono solo accennare, e che non si è mai in grado di dimostrare. Solo col cuore si 'scorgono' queste relazioni, messe in ombra dal primo piano.
Nell'esperienza del quotidiano le cose non stanno così: la bellezza può risplendere anche nel male, nel confuso, nell'indifferente, anzi, nello sciocco. Ma questa è solo 'apparenza', ci dice la favola. È così, perché il nostro cuore non è in ordine. La bellezza è propriamente il modo in cui l'essere acquista un volto per il cuore e diventa 'parlante'. Se il nostro cuore è confuso, anche la confusione può diventare forte in noi. La favola ci indica una strada fuori di questa confusione superficiale. È un luogo di esperienze metafisiche, dove ciò che è in ombra risplende. Nella favola ci parla l'essere e non solo l'apparenza.
c. Potenza dello spirito
Un'altra esperienza della favola, esistenzialmente molto significativa: «Le streghe sono rugose, non perché vecchie, ma perché cattive». Esse non stanno nell'orbita di quella potenza, che le potrebbe far belle per sempre. Vivono in un certo modo al di fuori della sfera del realmente creativo, del 'costitutivo'. Possono certo fare incantesimi e presentare anche ciò che non è mai esistito. Ma le cose, che escono dalle loro mani, sono solo apparenza, anche se possono essere potenti per un momento.
Il permanentemente reale proviene sempre dalla potenza del bene. E questa potenza è nella favola illimitata: la roccia scoscesa in mezzo al deserto è un castello meraviglioso; basta che sia raggiunto da un soffio dello spirito, perché diventi ciò che nel segreto già sempre era. Non esistono confini della trasformazione: al dodicesimo tocco della mezzanotte, la carrozza diventa una zucca. Non è necessario che l'idea o il processo della creazione venga 'rappresentato' nella favola, perché il 'principio creazione' venga scorto interamente. Basta sperimentare che nel mondo agisce una potenza, che dal poco può far uscire il molto, che non è delimitata da nulla, che può trasformare le cose in modo sovrano. Ed è così, poiché in fondo tutto il bene è parente, tutto ha la stessa origine, tutto è uno in Dio. In ogni cosa ci sono forme sonnecchianti, pronte a svegliarsi e a svilupparsi perfettamente. Queste sono intuizioni, che nessuna filosofia o interpretazione della vita potrà mai superare: esperienze dell'essere di validità generale.
d. Futuro
Nella favola si dice continuamente: «Ed essi vissero felici ed ebbero molti figli». Così o press’a poco finisce quasi ogni favola, e così ha fine una storia, o meglio, 'la' storia. Come l'inizio fu assoluto («C'era una volta...»), così è assoluta anche la fine. La fecondità è la fine. Al di là sembra non ci sia più nulla da dire. Il matrimonio conclude la storia. Un matrimonio perfetto, ideale e simbolico, come prototipo delle 'nozze' del Creatore con la sua creazione.
Ma prima successe ancora qualcosa: prima, Cenerentola ha lasciato la cucina; prima, la principessa fu svegliata con un bacio dal sonno; prima, i sette corvi si svestirono delle loro penne nere; prima, venne giù un palazzo di cristallo; prima, le streghe furono buttate nell'abisso. Con una parola: prima, avvenne il giudizio, in cui i cuori si aprirono. E sorse i un mondo di fecondità eterna: un ambito, in cui i nostri sogni, il nostro anelito, la nostra i continua anticipazione di un mondo salvo, cominciano a diventare realtà. Tutto questo è già una visione dell'Apocalisse. O forse solo una sua intuizione irriflessa. Vi si vede anche l'idea della mercede nel suo reale significato: Non 'si ha' una mercede, che venga solo esternamente 'accollata' all'uomo. La vita eterna è l'esplicazione, l'espansione dello spazio interno dell'essere, dello spazio del cuore dell'uomo. La favola contiene così in germe tutta un'etica escatologica, la sola che abbia validità nel pensiero cristiano.
e. Mondo salvo
Nella favola si tratta in fondo della speranza, di ciò che è più radicale nella esistenza umana. Perché si racconta la storia di una minaccia, che dovette essere vinta? Perché nella favola si giunge sempre solo alla felicità attraverso le prove? Perché si descrive come l'amore vince la morte o come un prigioniero dall'incantesimo ritornò alla vita vera? Sono chiaramente dei fatti, che si possono interpretare e valutare solo con categorie della salvezza. Una volta è uno dei sette fratelli o un semplice figlio di contadini, ma più spesso è un giovane principe, vestito da contadino o da pastore, che con un bacio risveglia per sempre (o richiama di nuovo alla vita?) la principessa addormentata. Il più delle volte il 'redentore' deve soffrire tormenti e sostenere sforzi. Egli viene tentato da potenze maligne, deve camminare per tutto il mondo, scendere nel profondo. E in questo gli è di aiuto una schiera di esseri mirabili, di buone fate e nani, di vecchie donnine e di vegliardi esperti. Tutto questo non è a caso. Il volto di Cristo dagli stessi inizi della creazione sorse in lui, attraverso di lui e per lui, essenzialmente scolpito nell'anima umana (cfr. Col. 1,15-23). È la traduzione di un profondo desiderio di purezza, di redenzione e di salvezza, che si devono regolare ad uno perché le si è perse da qualche parte.
f. Essere come co-essere
Nella favola l'amore è forte, è addirittura la sola cosa forte. Nella «Principessa della neve», di Andersen il piccolo Kay è percorso da un freddo disumano, dal freddo dell'intelligenza pura. Ma la piccola Gerda lo trova. Il calore delle sue lacrime scioglie il cuore fatto ghiaccio del suo amico, la parola dimenticata viene ritrovata; tutto è salvo. L'amore ha potere sul male, che minaccia gli altri. La paura non li tocca; essi camminano tenendosi per mano attraverso boschi spaventevoli, dove è di casa il pericolo. Sono sempre coppie, semplici, pure e felici coppie, che si possono salvare a vicenda. L'una parte senza l'altra sarebbe meno della metà della coppia; non sarebbe nulla.
Ma queste sono affermazioni sulla costituzione fondamentale dell'essere umano. L'uomo diventa uomo soltanto nella con-partecipazione della propria esistenza, nella dualità, nella comunicazione. L'esistere come uomo include un orientamento al Tu, dice anzi che l'una parte riceve se stessa nell'amore come dono e regala a sua volta l'essere dell'altra parte. E questo è tanto vero, che la propria vita viene fuori dalla potenza del Tu amato: l'amore può richiamare morti alla vita. E così la favola sveglia nel bambino quella evidenza primitiva dell'amore, che sonnecchia in ogni esistenza. Forse mai nessuno ha trovato la figura dell'amore che emerge dalla favola. Anzi, forse questo amore non si può affatto 'trovare' nella vita. Esso tende infinitamente oltre come l'incontro umano minacciato da delusioni. Dietro l'amore descritto nella favola c'è un infinito. Queste sono intuizioni, sulle quali i filosofi hanno riflettuto per millenni, senza andare propriamente più in là della favola per i bambini.
Abbiamo preso in esame sei temi della favola che interpretano l'esistenza, segnando quei posti dove la favola apre una porta sulla realtà spirituale. Ma se ne potrebbero trovare ancora molti di più. Ad esempio: il carattere simbolico di cose e di avvenimenti nella favola; il modo proprio della favola di interpretare il sapere, la potenza, la vecchiaia, la morte e la fanciullezza (le realtà di fondo dell'esistere). Sono intuizioni, in cui l'anima di un bambino si apre all'assoluto, in cui egli si trova a vivere nella realtà primitiva. Senza favole avremmo forse perduto il senso del mistero.
2. Esistenza come 'speranza fatta cosciente'
Le favole, come già abbiamo mostrato, possiedono una funzione comunicatrice di futuro ed escatologica. Nella sua opera «Principio Speranza» (Prinzip Hoffnung), Ernst Bloch ha cercato di elevare la dinamica di speranza dell'esistenza umana nella sfera dell'attuazione cosciente. Egli constata: anche nei desideri non regolati e non concettualizzati del bambino è già all'opera una coscienza anticipatrice. Già in essi la coscienza tende in avanti. Il bambino mette ancora le mani su tutto, per trovare ciò che 'intende'. Una volta vuole essere conduttore, un'altra volta pasticciere. Il bambino vuole condurre una vita 'più nobile' di quella del padre. Bisogna semplicemente trovare qualcosa, che gli altri non hanno ancora saputo trovare. Ma anche in seguito i desideri non diminuiscono, diminuisce solo il desiderato. L' 'istinto cresciuto' del desiderare mira con più precisione; si orienta meglio e si regola in proposito. Ora come prima manca però qualcosa di importante, di essenziale. E così non cessa il sognare. Il sogno rispecchia il desiderato, come avrebbe potuto essere, il giusto, come avrebbe dovuto essere. In un modo stranamente facile l'uomo si lascia sorprendere in ogni fase della vita dall'inatteso, come se nessun posto della vita fosse tanto buono, da non poterlo lasciare ad ogni momento. La ricerca del meglio permane, anche se questo meglio può restare a lungo impedito. I desideri tendono nel loro insieme al non ancora cosciente, al non divenuto e al non compiuto, alla sfera utopica. In essi, l'esistenza umana ricerca un contrappunto: lo storto vuol diventare diritto, e il mezzo intero.
Ma come è fatta quella coscienza – domanda Ernst Bloch –, che può sognare in questo modo? Accenniamo a due momenti fondamentali di un'esistenza impregnata di anelito: l'oscurità dell'attimo vissuto e il farsi luce in avanti. Il 'polso della vita', che sentiamo in modo immediato, batte in noi senza essere udito. Per lo più resta oscuro l'adesso, quell'attimo in cui ci troviamo di volta in volta a vivere. Ciò che viene appunto vissuto nel momento, è il meno sperimentabile. Ai piedi del faro non c'è luce. Nell'immediatezza puntuale tutto il mondo è ancora oscuro. Ma ciò che ci viene incontro, il desiderato, ha la distanza sufficiente, di cui il raggio della coscienza ha bisogno per illuminarlo. E da questo si trae anche il fatto strano che nessun uomo esiste del tutto, nessun uomo vive realmente. C'è insieme qualcosa che ci spinge fuori all'aperto, fuori dall'oscurità della vicinanza alle cose. Nel nostro essere immediato siamo vuoti e quindi avidi, in tensione e quindi inquieti. Nessuno di noi si è scelta da sé questa condizione incalzante. Essa è nostra, da quando e poiché siamo. Il 'non ancora' si esprime nel nostro essere come 'fame': come intendere, tendere, desiderio, anelito, sogno ad occhi aperti con tutte le colorazioni di ciò che ancora manca.
Ma ogni desiderare contiene un no a ciò che esiste. E così il nostro desiderio si trasforma in una forza esplosiva contro la prigione della privazione. La speranza non vuole 'andare a dormire' in noi. Anche nel disperato non si irrigidisce del tutto nel nulla. Anche il suicida si rifugia ancora nella negazione, come in un grembo. Egli si aspetta pace. Il fatto che si possa ancora così 'navigare' in sogni dimostra l'importanza dell'ancora aperto ed incerto nell'esistenza umana. L'uomo favoleggia desideri e trova per questo in sé una valanga di materiale. L'animale non conosce fenomeni del genere. Solo l'uomo è per così dire meno 'denso' e 'compatto'. In lui qualche cosa è rimasto vuoto, anzi, in lui è sorto un 'vuoto' dell'essere. Qui si concentrano sogni e desideri, e molto di ciò che non può divenire all'esterno, si rifugia all'interno. In molti modi si rispecchia nel nostro mondo, divenuto la sola cosa necessaria e mancante. Il fascino del vestire, l'avventura, l'alienazione del leggere, il ballo, il teatro e in generale il sogno ad occhi aperti — tutto questo è dominato dall’artificioso saliscendi del desiderio. Tutto questo è soltanto inganno? Forse sarebbe più comodo dimenticare il desiderio; ma dove condurrebbe un tale atteggiamento? Il volere una vita migliore, più bella o anche semplicemente diversa, tutto questo non si addormenta nella esistenza umana. Il desiderio è radicato indistruttibilmente nell'istinto umano di felicità. Dovunque si eleva quindi dall'essere umano l'ottativo: «Oh, se potesse essere diversamente!».
Domandiamoci ora: qual è il contenuto ultimo di tutte queste intenzioni nella sfera del desiderio? Senza dubbio, è la cosa ultima, a cui aspirano gli uomini che dovunque sperano, una patria. Essa è il 'non trovato', il substrato dei desideri, il 'non ancora esperienza'. Essa sta sul fondo oscuro di tutti i sogni ad occhi aperti e di tutte le aspirazioni. Tutti i segni della speranza convergono in qualche cosa di indeterminabile, le cui 'cifre' potrebbero essere: conquista di sé, potenza dell'essere, identificazione ultima dell'uomo con il suo desiderio, ultima autoidentità senza alienazione, pace definitiva nella somma concentrazione dell'essere presente.
Questo fine della speranza è ancora velato in noi, il substrato del volere resta ancora inscoperto. L'assoluto ci è presente soltanto come attesa, come allegato a qualche cosa, come tendenza a qualche cosa. L'uomo che spera vive ancora, in qualche modo, nella preistoria del suo vero essere. Un'esistenza umana si capisce soltanto dal suo fine, in forma di tendenza, non ancora raggiunto. L'essere dell'uomo non è un essere-stato. Al contrario: l'essere dell'uomo è ancora sul fronte, deve ancora essere conquistato. L'uomo non ha ancora davanti a sé il suo essere umano. La sua vera realtà non è ancora cominciata, è suo possesso solo come speranza. La genesi reale dell'uomo non è al principio, ma ha inizio sempre di nuovo, di volta in volta, nell'uomo che spera. Il culmine insuperabile di una pienezza ultima è accennato grandiosamente nella frase di Paolo: «Mai nessuno ha visto, nessuno mai ha udito, e non c'è cuore umano che abbia mai presagito ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1 Cor. 2,9). Questa è l'eredità della speranza più radicale. Il cielo è il senso centrale, più intenso del divenire dell'uomo.
Fa parte dei compiti più nobili, e fino ad oggi non ancora esauriti, della teologia il cogliere la speranza umana nelle sue funzioni di strutturazione della vita, formazione della storia ed anche di creazione dell'essere, il rendere la realtà umana trasparente della sua dinamica essenziale. In fondo L'uomo sogna continuamente il cielo. Ed egli è un uomo, in quanto e nella misura in cui così sogna. E così il cielo appare come già sempre 'calato' nella coscienza umana; come ciò che solo rende possibile il divenire cosciente dell'uomo e il movimento in avanti della storia; come ciò che, secondo l'apparenza, è già sempre e dovunque qui e in cui nessuno ancora è stato. Nell'uomo, le forze del mondo vanno incontro a qualcosa di radicalmente nuovo. Il cristianesimo ha mai capito la sua verità in un modo così chiaro?
3. Cristianesimo come 'religione della speranza'
Cristiani si diventa con il sacramento del battesimo. Ma questo è insieme il sacramento di una speranza essenziale. Oggi se ne parla sorprendentemente poco. Non così però nella Chiesa primitiva. Allora i grandi maestri della fede tenevano lunghe introduzioni, le cosiddette «Introduzioni nel mistero» (le catechesi mistagogiche). Esse illustrano il mistero della vita cristiana sulla base di eventi veterotestamentari, con letture, in cui le 'grandi opere di Dio' (magnalia Dei) nell'Antico Testamento venivano rese presenti al battezzando. Alcune di queste letture, le ascoltiamo oggi ancora nella liturgia della veglia pasquale, che è la vera e propria liturgia battesimale della Chiesa. Il mistero del battesimo e quello della risurrezione sono intimamente congiunti nella fede cristiana. Questi misteri dell'Antico Testamento contengono un'esperienza primitiva dell'uomo. Se vogliamo approfondire il mistero della speranza e trasformarlo in speranza compresa, ci dobbiamo necessariamente ad essi richiamare. Nelle catechesi mistagogiche dei Padri della Chiesa ritornano sempre cinque prototipi del battesimo:
a. Creazione come tipo della nuova creazione del battesimo
Per i Padri della Chiesa la creazione del mondo è il tipo, l'immagine di quella nuova creazione del cosmo, che Cristo ci ha portato nella sua risurrezione ed in cui entriamo attraverso il sacramento del battesimo. Leggiamo nel Genesi: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e deserta, c'erano tenebre sulla superficie dell'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Dio disse: 'Vi sia luce!'. E vi fu luce». Il simbolismo di questa lettura era illuminante per i Padri della Chiesa: come nella creazione del mondo, per l'intervento dello spirito di Dio, la terra emerse dai flutti delle acque, così anche nell'uomo, che emerge dall'acqua del battesimo, avviene una 'nuova creazione'. L'immergersi nell'acqua esprime un fatto misterioso del nuovo divenire, un fatto, che è tanto travolgente, che non si oserebbe affatto, senza il linguaggio ardito di Cristo, interpretare in questo modo il battesimo: in esso avviene un'immersione nella vita divina. Dio stesso abita in noi mediante la grazia del battesimo. Noi siamo realmente diventati, con corpo ed anima, con tutta la nostra realtà umana, il Cristo risorto, il figlio del Padre, la cui luce, lo Spirito santo, aleggia su di noi. È sorta una nuova creazione, il nuovo cielo e la nuova terra. Noi siamo cresciuti con Cristo in un unico essere: «Perciò se uno è in Cristo è nuova creazione; ciò che era antico è passato: ecco, il nuovo è sorto» (2 Cor. 5,17). Leonida, il padre di Origene, raccolse queste dimensioni del sacramento, inginocchiandosi davanti al figlio appena battezzato e adorando così Cristo vivente in questo bambino.
b. Salvezza del mondo dopo il diluvio universale
L'immagine seguente, in cui i Padri della Chiesa erano soliti vedere il sacramento della speranza, è il diluvio universale. Il contenuto simbolico del racconto è la salvezza del mondo dalla distruzione totale. Basta un solo giusto, perché Dio abbia misericordia del mondo. I santi proteggono il mondo. C'è una protezione misteriosa, una zona di luce della grazia, in cui vivono anche quelli che non ne sanno nulla. La giustizia di Noè salvò il mondo.
Ma con questo non è ancora di gran lunga esaurito il significato simbolico del racconto. La Bibbia racconta come Dio strinse con Noè un patto nuovo, cosmico: «Quanto a me, ecco, io stabilisco la mia alleanza con voi, con la vostra discendenza dopo di voi e con ogni essere vivente che è con voi: volatili, bestiame e fiere della terra, con tutti gli animali che sono usciti dall'arca. Io stabilisco con voi la mia alleanza: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né più verrà il diluvio a guastare la terra. E Dio disse: Questo è il segno dell'alleanza che io pongo tra me e voi e tra ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. Io pongo il mio arco nelle nubi ed esso sarà un segno di alleanza fra me e la terra» (Gen. 9,9-13). Qui si tratta perciò di un patto, che Dio non stringe con un determinato popolo particolare, ma con l'intera umanità e, inoltre, con tutta la terra. E così il cosmo (il cui centro nell'immagine del mondo di allora era costituito dalla terra) entra nell'evento della salvezza. Questo patto è l'inizio di una nuova creazione, di un mondo salvato dalla perdizione. Con questo patto la natura divenne storia. Essa fu coinvolta nel rapporto di amicizia e di amore tra Dio e gli uomini. In questa luce comprendiamo che cosa significa il battesimo per il mondo intero: in Cristo si compì ciò che in Noè era stato raffigurato; la sua risurrezione ebbe potenza universale; in essa fu promessa al mondo una sussistenza eterna ed uno splendore indistruttibile; nel Risorto comparve su tutto il mondo 'l'arco di una speranza eterna'. Questa promessa di un mondo nuovo, di un mondo salvo e fatto interamente patria, viene data nuovamente come incarico ad ogni cristiano nel battesimo. Anche il cristiano si impegna con il battesimo di fronte al suo Dio ed al mondo a sperare, a mantenere la speranza nel mondo, così come Dio si impegna, pure di fronte al mondo intero, che esso non perirà, ma riceve una sussistenza eterna. Il battesimo è il segno cosmico di Dio non per il singolo cristiano, ma per tutta l'umanità e, inoltre, per l'universo intero. Grande è il pensiero: nel battesimo Dio è in cammino verso il mondo, per creare un nuovo cielo ed una nuova terra; e tutto il mondo si trova nelle doglie del parto di una nuova creazione, tutto il mondo è pregno di cielo (cfr. Rom. 8,18-24).
c. Uscita dalla terra di schiavitù
Il terzo simbolo battesimale dei Padri della Chiesa è l'uscita di Israele dall'Egitto, l'esodo. Sulle rive del Mar Rosso fu cantato il primo inno pasquale.
Il popolo oppresso, guidato dalla colonna di nubi, fuggì dalla terra della schiavitù. Il Faraone si mise all'inseguimento con i suoi carri di battaglia. Il popolo arrivò intanto al mare. Esso era condannato all'annientamento o a una nuova schiavitù. Non si deve dimenticare la disperazione della situazione, la disperazione del popolo che si ammassa sulla sponda del mare; solo questo aspetto dà al fatto il suo pieno significato. Poiché proprio in questo momento, in cui è impossibile agli uomini salvarsi con le proprie forze, Dio interviene ed opera ciò che essi stessi non erano in grado di fare. Mosè stese la sua mano sul mare e Dio comandò al vento. Egli fece ritirare il mare, sospinto da un violento vento dell'Est. Israele poté passare attraverso il mare; le acque stettero come due pareti alla destra ed alla sinistra. Mosè stese di nuovo la mano e le acque rifluenti sommersero tutto l'esercito che li inseguiva. Quando il popolo, sul fare del giorno, dopo quella notte tremenda e pure miracolosa, si sa definitivamente in salvo, intona il canto dell'esodo: «Canto in onore di Jahvé, poiché ha fatto splendere la sua gloria...» (Es. 15,1-18). Si dice poi che Maria, la sorella di Aronne, prese in mano un tamburello. E tutte le donne la seguirono con tamburelli e danze. Questa grande azione di Dio, che ha liberato il suo popolo dalla disperazione, resterà per secoli il più grande ricordo nella storia di Israele.
Noi cantiamo ancora oggi lo stesso cantico nella veglia pasquale. È il nostro inno battesimale. Celebriamo con esso simbolicamente la nostra liberazione attraverso la risurrezione di Cristo. Cristo attraversò il regno della morte, il mare dei tormenti e uscì all'alba del giorno di Pasqua dal profondo della sua situazione umanamente disperata. E come allora il mare si aprì davanti al popolo, come la morte di Cristo si è aperta, così il cristiano scende nell'acqua battesimale, attraversa il mare della morte, lascia alle spalle la caducità e risale sull'altra sponda, sulla spiaggia della risurrezione. Così descrive anche Paolo il processo nascosto del battesimo: «Noi tutti che siamo stati battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte. Fummo, col battesimo, sepolti con lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo di una nuova vita» (Rom. 6,3-4). Nell'esistenza cristiana furono così realizzati i sogni più arditi dell'umanità: noi siamo divenuti immortali e abbiamo infranto le mura di ogni paura. La nostra morte, che dovremo ancora patire, sarà solo l'attuazione definitiva del nostro battesimo, della nostra speranza cristiana, l'immersione definitiva nella gloria eterna del nostro corpo e della nostra anima.
d. Ingresso nella terra della speranza messianica
Il passaggio del popolo ebraico oltre il Giordano ci fornisce un nuovo elemento simbolico per la nostra comprensione del battesimo. Per quarant'anni il popolo vagò nel deserto del Sinai. Mosè morì. Giosuè si assunse la guida. Ora avviene la presa di possesso della terra, che nei sogni di Israele doveva diventare il Regno di Dio, un regno di promessa messianica. Qui si ripete il miracolo della divisione delle acque. Le acque che discendevano dall'alto, formarono come una sola massa, e le acque che discendevano al mare, finirono di scorrere. Così il popolo passò all'asciutto, avviandosi verso Gerico (Gios. 3,14-17).
Questa volta non è una salvezza miracolosa dalla disperazione, ma l'inizio di un processo che durerà a lungo, l'inizio di una nuova conquista, ove il racconto del passaggio del Giordano diventa il prototipo del battesimo. Nel battesimo ci viene donata la vita di Cristo. Non nella sua esplicitazione piena, ma come potenza attiva, come tendenza, come una dinamica interna di trasformarci secondo Cristo. Spinto da questa dinamica della grazia – può essere data ad uno come battesimo di acqua, o battesimo di sangue o battesimo di desiderio –, il cristiano deve crescere sempre più in profondità in una comunione di vita con Cristo. Paolo descrive questo processo nella lettera agli Efesini: «...finché perveniamo tutti all'unità della fede e della piena conoscenza del Figlio di Dio, a formare l'uomo maturo, al livello di statura che attua la pienezza del Cristo» (Ef. 4,13-15).
La grazia battesimale non è quindi soltanto un dono, ma anche una sfida. Essa è qualcosa di dinamico e di impellente. Come dice l'apostolo, ci dobbiamo da essa «lasciar muovere» (Rom. 8,14). Cristo vuole acquistare sempre più forma in noi (cfr. Gal. 4,19). Secondo questa concezione paolina, la grazia battesimale non è altro che l'intera vita cristiana, in quanto significa una crescita nella dimensione dell'essere del Risorto. E qui il cristiano diventa sempre più cosciente della sua comunione con Cristo, vive sempre più profondamente e responsabilmente il mistero della sua risurrezione. Con le sue opere, insieme a tutti gli altri battezzati, egli edifica il Cristo finale, pieno, immerge la sua esistenza in Cristo, realizza un continuo nuovo divenire, finché nella morte, nell'ultimo atto del suo battesimo, trova definitivamente una patria nella realtà di Cristo risorto, che riassume in sé l'universo.
e. Strappato dal turbine dello Spirito
Dobbiamo ancora infine ricordare quell'immagine, in cui molti Padri della Chiesa scorgono la profondità ultima del mistero del battesimo: il rapimento del profeta Elia. Dopo una vita profetica bruciante e consumatasi, venne per Elia la fine. Egli trasmise l'ufficio profetico al suo discepolo Eliseo. Poi andarono ambedue nel deserto. Elia fece qui ancora un miracolo: egli divise le acque del Giordano; ambedue passarono a piedi asciutti. Mentre si addentravano nel deserto immersi nella conversazione, venne un carro di fuoco e li separò l'uno dall'altro. Elia fu strappato da un turbine di fuoco. Solo il suo mantello di profeta rimase sulla sabbia (2 Re 2,1-13).
Rapimento dell'uomo nel turbine di fuoco dello Spirito santo, questo è il senso più profondo del sacramento del battesimo. Attraverso la grazia battesimale il cristiano vive già nel cielo, nel mondo fatto nuovo dell'immediatezza di Dio. Questo 'già vivere nel cielo' è certo nascosto ai suoi sensi. Solo nella morte gli diviene manifesto. Fino a quel giorno egli diventa sempre più silenzioso, paziente, umile e buono; in quanto atteggiamento di maturità cristiana si compie il nostro battesimo, si realizza la speranza per il mondo. Il cristiano fa emergere il cielo dai nascondimenti del mondo. Ogni agire cristiano – credere, amare, sacrificarsi, perseverare e coraggiosamente procedere –, tutto questo fa più vicino il cielo, che si vuole 'accostare'. Il cristiano è quindi mediatore di una speranza universale.
Va qui espresso ancora un pensiero: chi è in fondo un cristiano? Cristiani sono coloro che sono battezzati, o meglio: coloro che sono immersi nel senso di Cristo. Lo possono essere uomini, che hanno ricevuto il sacramento del battesimo o nella sua forma piena (battesimo di acqua) o nell'impegno totale della loro vita (battesimo di sangue) o anche nel nascondimento di un desiderio concettualmente non ancora articolato e forse per nulla articolabile (battesimo di desiderio). Ogni agire positivo nella vita, anche l'accenno più insignificante di un rivolgersi al fratello è già un'assimilazione del senso di Cristo. Tutti questi uomini sono già membri della Chiesa, che ne siano o no consapevoli. In questo senso, l'enunciato teologico 'Extra ecclesiam nulla salus' ('al di fuori della Chiesa non c'è salvezza') è uno dei messaggi più liberanti della dottrina cristiana di fede. Se si rovescia infatti questa affermazione, servendosi delle regole più elementari della logica, si ottiene un testo profondamente consolante: «Dovunque c'è salvezza, c'è Chiesa». Ridotto alla formula semplicissima: «Ubi ecclesia, ibi salus» - «Ubi salus, ibi ecclesia». Ciò che fa della Chiesa visibile un segno particolare tra coloro che vivono già il loro essere cristiano, pur senza ancora riconoscersi espressamente come cristiani, è la sua testimonianza della speranza. La Chiesa è la speranza escatologica vissuta concretamente, una comunità dell'esodo, il popolo di Dio in cammino (cfr. Eb. 13,13-14). Per questo si è tanto stupiti nel vedere e nello sperimentare quanto poco i cristiani vivano consciamente del pensiero del cielo, quanta poca attesa viva in loro. La testimonianza della speranza è una delle funzioni più essenziali del cristiano nel mondo. Ma per questo bisogna vivere consciamente la realtà del cielo ed averne 'esercitato' la presenza. Nel richiamo a Tommaso d'Aquino, generazioni di cristiani hanno imparato che la salvezza definitiva dell'uomo consiste nella visione immediata e beatificante di Dio. Dovrebbe oggi essere incontestato che tale concezione è ampiamente attinta da motivi extra-biblici, più precisamente, greci. Il Nuovo Testamento è molto parco nel parlare della visione di Dio. Per esprimere la condizione finale della speranza, esso preferisce proporre altre immagini. Descrive il fine di tutti i desideri come pasto in comune, come sposalizio, come nuova condizione del mondo, come nuovo nome, come partecipazione all'amicizia di Dio. In queste immagini, Dio non viene trattato come 'oggetto', che si 'scruta' nella sua natura più intima per analizzarlo e conoscerlo, ma come un essere personale, con cui ci si intrattiene amabilmente come con persone, mentre si cresce, in un continuo processo di interiorizzazione, nella partecipazione del suo amore.
È necessario coraggio ed una grande anima per pensare così dell'uomo e per poter far posto nel proprio cuore al grande impulso della speranza. Noi viviamo realmente in un angolo molto angusto del mondo. Spesso siamo prigionieri della nostra propria piccolezza. Sono sempre le stesse valli anguste della inanità, quelle in cui guardiamo. Per questo anche il migliore di noi ha sempre bisogno di un continuo incoraggiamento. Ha bisogno di incontri umani, che riaccendano di nuovo lo slancio della speranza. Dove troviamo questi uomini e qual è la loro funzione nella nostra vita? Come sono fatti? Tutto questo vorremmo sapere per poter cercare in essi, nelle ore dello scoraggiamento, una nuova forza ed una nuova giovinezza. (...).
Ladisalus Boros
(tratto da Ladisalus Boros, Noi siamo futuro, Brescia 1970, pp. 51-79)