I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Martedì, 28 Marzo 2006 02:04

L’illuminatore (Giovanni Vannucci)

L’illuminatore
di Giovanni Vannucci


L’illuminazione del cieco nato ci rivela il drammatico cammino che la Luce vera - Cristo luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) - compie per aprire la vista interiore nella coscienza. La chiave per comprendere questo episodio, storico e metastorico insieme, è nell’identificare noi stessi col cieco nato, nel sentirci partecipi della vicenda esemplare della sua illuminazione, narrata dall’evangelista Giovanni (Gv 9, 1-41).

Consideriamo i punti salienti della narrazione. Gesù, dopo aver detto di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8, 12), incontra un cieco fin dalla nascita; ai discepoli che l’interrogano se quella sciagura fosse la conseguenza dei peccati del cieco o di quelli dei suoi genitori risponde: «No, quest’uomo è cieco perché sia illuminato, e la luce divina splendendo in lui riveli l’azione creatrice di Dio». Così, avvertiti i discepoli del significato di ciò che stava per compiere, della duplice luce fisica e spirituale che avrebbe dato al cieco, fa con la saliva e la polvere un po’ di fango e lo applica agli occhi del cieco; quindi lo invia a lavarsi in una vasca dal nome simbolico «l’Inviato da Dio». Il cieco va e, dopo essersi lavato gli occhi, comincia a vedere. Il miracolo è compiuto senza la minima partecipazione del soggetto, egli collabora con la semplice obbedienza.

La luce che si è accesa improvvisamente in quegli occhi si rivela luce che acceca gli altri, in particolare gli avversari di Cristo. I vicini di casa non sanno se egli sia o no lo stesso uomo che, seduto, domandava l’elemosina; egli afferma di esserlo: «Cosa è avvenuto che non ci vedevi e ora ci vedi?». Racconta il fatto nei suoi particolari; udito il nome di Gesù, i vicini lo conducono dai Farisei; il giorno in cui Gesù aveva ridato la vista a quegli occhi spenti era di Sabato, il racconto del cieco illuminato non può essere negato, i Farisei affermano che, essendo stato compiuto di Sabato, costituiva un’offesa dei comandamenti di Dio, chi l’aveva attuato non poteva che essere un riprovato da Dio. Il miracolato risponde: «Se egli sia reprobo o no, io non posso dirlo, una cosa è certa: prima ero cieco e ora vedo... Non si è mai sentito dire che alcuno abbia aperto gli occhi a un cieco; se non fosse amico di Dio, non avrebbe potuto far nulla». Risposero i Farisei: «Sei nato nei peccati e ci vuoi ammaestrare?». E lo cacciarono fuori. Essi, nella loro proterva chiusura, temono che la luce esteriore non si traduca in quella luce così temibile che è la luce di Dio accesa in lui, e lo cacciarono fuori dalla sinagoga, lo scomunicarono. Allora Gesù gli si rivolge: «Credi nel Figlio di Dio, nella luce di Dio in me incarnata?». Il miracolato, che aveva in sé sentita confusamente, nella luce fisica, quella spirituale, sperimenta ora l’apertura dell’occhio interiore, riconosce la presenza della luce divina in Gesù e gli s’inginocchia davanti.

Così si compie l’illuminazione del cieco: sperimenta che la luce fisica non è che simbolo e stimolo della luce spirituale. Gesù rivela il significato dell’illuminazione del cieco: la sua luce divina illumina chi a essa si offre in umiltà, acceca chi è chiuso nel proprio orgoglio di vedente. Acceca chi vede, chi non sa e crede di sapere; illumina chi è cieco, chi non sa e non riconosce la sua ignoranza; questa è la giustizia, il giudizio che compie la luce nell’uomo: «Son venuto nel mondo perché i vedenti non vedano, e i non vedenti vedano». I Farisei presenti a queste parole gli chiedono: «Forse anche noi siamo ciechi?». «Non lo sareste, risponde Gesù, se riusciste a vedere la vostra cecità. Non la vedete perché la scambiate per luce, per questo respingete la luce. La vostra cecità più si fa cieca, quanto più si crede luce».

Questo è il giudizio nel mondo della Luce divina: suscita e assume quella luce creata che a lei si arrende; rende più ottenebrata quella luce creata che stima se stessa assoluta e divina; respinge le tenebre nelle tenebre. Ognuno di noi nasce dalla luce, quando nasce sulla terra è l’estrema densificazione, nella carne, della luce iniziale, da sé nulla vede. La Luce divina ci è offerta e ognuno può scegliere: o accettarla fondendosi nel suo ritmo di ascesa; o rifiutarla ottenebrandosi in un proprio ritmo chiuso e incomunicabile. Nel primo caso si ha l’assunzione, nel secondo la distruzione dell’uomo.

Nell’alto, nel mondo di Dio, si ha la vibrazione massima della Luce divina, nel basso si ha la densificazione massima della stessa luce. La coscienza che diviene consapevole della densità della sua tenebra e comincia ad aspirare alla luce vera, inizia quel processo di ascesa che la farà incontrare con la sorgente della luce e della vita. Si libererà dall’esistenza, entrerà nel luminoso mondo dell’essenza, dell’Essere. Il punto della massima densificazione della luce ha una doppia possibilità, quella di accettare la densificazione come luce, quella di iniziare un movimento contrario di ascesa. Nell’ascesa sarà sorretto dalle forze fecondatrici della Parola eterna che discende e ascende, che aggrega la materia e la trasfigura nello spirito.

Queste affermazioni sottintendono l’inutilità di sapere solo intellettualmente che la Luce, la Parola creatrice sono in noi, e insieme la necessità di permettere alla Luce e alla Parola divine di compiere in noi la loro opera di vita e di trasfigurazione. I Farisei pensavano in termini di ideologia, di continuità di interpretazioni, di dogmi e di riti; il cieco illuminato, nel suo cedersi alla Luce vera, non poteva che essere oggetto di scandalo e di rifiuto. Per i primi la Rivelazione era una ripetizione di formule e di consuetudini, di credenze; per l’Illuminatore la Rivelazione è, ed è attiva e operosa in ogni istante, purché l’anima riconosca le sue tenebre, e sappia morire continuamente ad ogni idea, ad ogni definizione, ad ogni rapporto immaginario con un Dio di sua proiezione. La Luce non può illuminarci che nel silenzio di una mente profondamente seria.

in Giovanni Vannucci, «L’Illuminatore», 4° domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 54-56.

Martedì, 28 Marzo 2006 01:55

Introduzione

Introduzione alla storia della salvezza



1. Il posto del corso nel piano degli studi teologici

La teologia dogmatica dell’ultimo cinquantennio ha subìto un profondo mutamento: è passata dal sistema positivo-scolastico, saldamente sostenuto dalla filosofia aristotelico-tomista e basato sul concetto aristotelico di “scienza”, ad una considerazione più attenta della storia della salvezza come trama del sistema teologico. Per S. Tommaso l’oggetto formale della teologia è «Dio sotto l’aspetto della sua deità».

Viene celebrata nei Patriarcati di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia e nelle Chiese di: Cipro, Grecia, Polonia, Albania, Repubblica Ceca, Slovacchia, America, Monte Sinai, Finlandia, Giappone.

Con l’occhio del contemplativo
XX secolo e Cristo risorto
di dom Bernardo Olivera
abate generale OCSO


La storia del secolo da pochi anni terminato, può essere letta in diverse maniere: con il semplice sguardo dello storico, dell’analista o, se si vuole, del giornalista, oppure con quello del contemplativo. Il risultato di questa lettura sarà molto diverso, a seconda del punto di vista in cui ci si pone. L’abate generale dei cistercensi di stretta osservanza, dom Bernardo Olivera, si è posto nell’ottica del contemplativo e ha scritto, a partire da questo angolo di visuale, una lunga lettera all’Ordine per invitare tutti i membri della sua famiglia religiosa a fare altrettanto.

La luce entro cui egli considera il susseguirsi degli avvenimenti e il profilarsi di realtà nuove è quella di Cristo risorto, come di colui che, nonostante tutte le contraddizioni umane, dà un senso pieno e definitivo alla storia e l’apre verso nuovi orizzonti di attesa e di speranza.

La lettera è divisa in due parti: nella prima l’abate descrive a grandi linee gli avvenimenti che hanno caratterizzato questo secolo, cercando di riassumerli in alcune parole chiave; la seconda invece ne fa una rilettura che può essere raccolta in questa formula: Cristo risorto dà significato al passato, di cui egli è la pienezza; trasforma il presente in momento favorevole, dà senso al futuro, aprendolo alla speranza che vince la morte.

Abbiamo lasciato il “Millenovecento” e iniziato il “Duemila”. Dal 2001 possiamo dire di trovarci nel XXI secolo. In ogni caso, questo ha poca importanza, il nostro modo di misurare il tempo non è l’unico; esistono altri calendari in altre culture, diverse dalla nostra.

L’essere umano è un essere nel tempo, la sua vita è ritmata dalla successione: prima, ora, dopo. L’homo viator può crescere solo peregrinando nel tempo, lasciandosi plasmare dagli avvenimenti, essendo attore degli stessi e contribuendo allo sviluppo della storia. Ma questo non è tutto. Come cristiani, affermiamo che il tempo è giunto a una certa pienezza e compimento (cf. Gal 4,4) per il fatto stesso che Dio è entrato nella storia umana, e così il modo con cui l’eternità è entrata nel tempo.

In questo, l’anno 2000 ha avuto per noi un significato molto particolare. Al di là dell’esattezza dei calcoli cronologici, noi abbiamo celebrato i 2000 anni di nascita di Cristo. Questo è motivo di gioia e di giubileo speciale. Per santificare e celebrare meglio questo tempo, la Chiesa ci ha convocato al grande Giubileo dell’Anno 2000.

Il grande Giubileo è stato in relazione con le tre dimensioni del tempo e con la speranza nell’eternità. Ma questo implica anche tornare a guardare il fondamento permanente e basilare della nostra vita e della storia e aprirci nuovamente ad esso. Ciò significa dunque prendere un orientamento per il futuro e, allo stesso tempo, aprire la prigione del tempo e trovare l’accesso a ciò che permane per sempre: il Cristo morto e risorto per la nostra glorificazione.

Voglio cominciare questa lettera con due testi della Costituzione della Chiesa e il mondo contemporaneo, Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore (…) La Chiesa si sente quindi realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS 1; cf. 4).

“La Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza perché l’uomo possa rispondere alla suprema sua vocazione, né è dato in terra un altro nome agli uomini in cui possano salvarsi. Crede ugualmente di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la chiesa afferma che in tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso, ieri, oggi e nei secoli” (GA 10).

Queste parole ci hanno invitato attraversare la soglia del millennio, insieme a tutta l’umanità per seguire Cristo risorto, Signore di tutti i tempi. Come Ordine cistercense della stretta osservanza, noi siamo coscienti di essere fratelli del XX secolo. Siano nati insieme, per questo le sue gioie e le sue tristezze, i suoi progressi e i suoi regressi e le sue vicissitudini sono stati anche i nostri. Nelle due lettere circolari precedenti abbiamo già contemplato insieme il contesto mondiale ed ecclesiale, ed anche il momento culturale attuale. Tutto ciò ci è servito da quadro per comprendere la nostra identità cistercense, intrinsecamente segnata dalla dimensione mistica della vita cristiana.

Vi invito ora a fare memoria per stare fermi al presente e proiettarci nel futuro. Contempliamo il XX secolo per scoprire la presenza di Cristo risorto dietro a tanti avvenimenti e persone. Rinnoviamo la nostra fede nel Signore della storia ieri, oggi e sempre, ed agiamo di conseguenza.

Il nostro XX secolo

Il “novecento” è stato un secolo in cui non sono mancate le contraddizioni. E’ stato, nello stesso tempo, un secolo di grandi stermini e di grande sviluppo economico, un secolo delle democrazie di massa e di dittature totalitarie, della mondializzazione e dei nazionalismi aggressivi,della tecnologia a servizio della vita e della morte, della pace atomica e di innumerevoli guerre.

Nel corso di questo secolo sono state coniate e sono risuonate alcune parole-chiave. Ciascuna di esse presenta in modo semplice una realtà complessa. Non tutti oggi le conosceranno. Ma vale la pena ricordarle: nazione, psicanalisi, liberalismo, protezionismo, socialismo0, comunismo, democrazia, totalitarismo, populismo, progresso, modernizzazione, radicalismo, sviluppo, secolarizzazione, nucleare, genocidio, pace, tecnologia, cibernetica, bioetica, globalizzazione … e l’elenco potrebbe continuare.

Fin dall’inizio degli anni ’60 si annunciava: “L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo” (GS 4). Tale affermazione è ancora valida per gli anni che sono seguiti. Si può quindi affermare che fino ad ora la storia non ha mai conosciuto una accelerazione simile, e che i cambiamenti non sono stati così rapidi e profondi né con tanta varietà di protagonisti.

Alcune date sembrano aver segnato dei passaggi irreversibili: la guerra del 1914-1918, la rivoluzione bolscevica del 1917, la crisi economica e commerciale degli anni 3°, la grande guerra del 1939-1945, l’uscita dal colonialismo in Asia (1946-1948) e in Africa (1957-1967), il Concilio Vaticano II (1962-1965), la conquista della luna nel 1969, il crollo del comunismo e la caduta del muro di Berlino, la fine della “guerra fredda” nel 1989, il grande “boom” del commercio mondiale agli inizi degli anni ’90, il nuovo ordine mondiale dopo la “guerra del golfo” del 1991.

In relazione con quando detto, occorre ricordare anche il superamento di alcune frontiere e di certi sviluppi o progressi che, solo alcuni anni fa sembravano impossibili o impensabili: l’aver debellato alcune malattie millenarie, i viaggi interplanetari, la ricerca atomica, la manipolazione genetica, la comunicazione quasi istantanea su scala mondiale, la crescita demografica e l’aumento dell’età media, l’alfabetizzazione rapida della popolazione, le nuove megalopoli o città giganti….. Nonostante tutto questo, constatiamo un’altra realtà caratteristica del nostro XX secolo: le disuguaglianze di ieri esistono ancora oggi, tutte le trasformazioni non hanno potuto cambiare le gerarchie che esistevano all’inizio del secolo. Le nazioni più ricche restano l’America del nord e l’Europa occidentale, benché il Giappone e qualche paese dell’Asia orientale e del mondo arabo abbiano raggiunto un livello di prosperità mai conosciuto in passato. Le disuguaglianze che già esistevano ora sono quasi abissali: il quinto della popolazione ricca del mondo, controlla l’80% delle risorse, mentre il quinto più povero dispone appena dell’1%, e gli altrui tre quinti vivono con il 19%. Dal punto di vista del “genere”, le disuguaglianze segnano un contrasto ancora più grande. Le donne compiono il 63% del lavoro del mondo, ma non possiedono che l’1% delle terre coltivabili e ricevono solo il 10% del beneficio mondiale. Il 75% dei poveri del mondo è costituito da donne, come pure il 70% degli analfabeti…

La maggior parte degli analisti e degli storici concordano nel dire che il XX secolo è stato segnato, da una parte, dalla violenza e dalla guerra, mentre, dall’altra, nessuno nega i progressi considerevoli: a livello scientifico (sviluppo dell’informatica, delle comunicazioni, della medicina), a livello civile (diffusione della democrazia, nuovo ruolo sociale della donna, delle organizzazioni internazionali), e a livello ecologico (protezione dell’ambiente) che segnano come delle pietre miliari gli ultimi cento anni della nostra esistenza. Vi sono alcune parole del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II che sintetizzano in maniera intuitiva il nostro secolo: “Il nostro mondo è drammatico e allo stesso tempo affascinante” (Redemptoris missio 38).

Numerose sono le caratteristiche che conferiscono un volto particolare e una precisa identità al nostro secolo. Forse fin troppe. Considerandole insieme, possiamo forse giungere a qualcosa di concreto. Se guardiamo al passato, prima di fermarci sul presente, constatiamo che il XX secolo è:

- Il secolo della libertà: non solo per la fine dell’imperialismo colonialista in Asia e in Africa, ma anche perché i sistemi democratici che hanno vinto i vari totalitarismi si sono affermati in più della metà della popolazione mondiale;

- Il secolo del capitalismo; la libertà politica di solito va di pari passo con la libertà; dopo aver trionfato sul sistema comunista, il capitalismo è diventato la struttura economica della maggior parte delle società del mondo;

- Il secolo dell’elettronica: se la stampa ha ridotto dall’1/1000 il costo della comunicazione, la radio a transistor l’ha ridotta dell’1/1.000.000. il risultato è stato il passaggio dall’era industriale all’era informatica e tecnologica;

 - Il secolo del mercato globale e di massa: tutto è fabbricato in grande quantità e per un numero maggiore possibile di consumatori;

- Il secolo dei genocidi: a cominciare dal dramma del genocidio degli Armeni, fatto passare sotto l’eufemismo di “necessaria evacuazione militare per motivi di guerra” (1915), attraverso l’”olocausto” degli ebrei, per giungere alle versioni più recenti di “pulizia etnica”, “crimini contro l’umanità” e “deportazione forzata”. Cambiano le parole, ma non la brutalità della realtà;

- Il secolo dei cosiddetti nuovi popoli barbari (del terzo mondo), che invadono pacificamente, con l’emigrazione i paesi del primo mondo tecnico-industriale, modificando così la composizione delle società e dando origine a reazioni razziste di carattere minoritario;

- Il secolo dell’imprevedibile: semplicemente perché sono accadute molte cose insperate che confermano il detto popolare: l’imprevisto orienta di nuovo la storia.

E possiamo aggiungere ancora questa altra caratteristica che definisce l’identità del nostro XX secolo: si tratta di un’epoca che si apre verso una nuova era rivoluzionaria:

- rivoluzione digitale: andiamo dal “riconoscimento della voce” alla “intelligenza artificiale”;

- rivoluzione biotecnologia che ci condurrà a fare dei miracoli o a creare dei nuovi mostri;

- rivoluzione contro il sistema democratico, sia sotto forma di trialismo (minoranze che diventano forti), sia di fondamentalismo (semplificazione manipolatrice della società) e di totalitarismo (rifiuto delle libertà individuali)…;

- rivoluzione contro il sistema capitalista patrocinata dall’ecologia (per difendere la “salute” del pianeta, minacciata dal “progresso”),a causa delle diverse forme di socialismo (poche persone vivono a spese di molte altre, e molti restano esclusi dal sistema che è in vigore dappertutto nel mondo) e del femminismo integrale (con la sua visione più globale dell’umano e il suo progetto di profonda trasformazione del sistema relazionale).

E’ possibile dare del XX secolo una interpretazione unitaria? Si può trovare una sola caratteristica che da sola possa rappresentare lo specifico del nostro secolo?... Varie solo le interpretazioni unitarie del XX secolo. Dal punto di vista nord-occidentale si è parlato di:

- Secolo “corto”: il significato unitario di questo secolo sta negli eventi accaduti tra la prima guerra mondiale e la fine dell’impero sovietico;

- Secolo della “grande illusione”: una illusione che consiste nel dire che la storia dell’umanità possiede una intrinseca necessità razionale che conduce al comunismo bolscevico;

- Secolo della “fine della storia”: con la fine del conflitto ideologico e la vittoria del capitalismo sul comunismo, la storia ha raggiunto il punto culminante e quindi il suo termine;

- Secolo della”paura”: paura della guerra, della fame, della rapina, del terrorismo, delle dittature;

- Secolo di “passioni civili”: dal voto concesso alle donne ai diritti dell’uomo, passando per l’indipendenza dei paesi coloniali;

- Secolo “nullo” perché alla fine si ritrovano gli stessi fantasmi dell’inizio: nazionalismo, razzismo, violenza, mancanza di rispetto per la persona umana;

- Secolo delle “guerre ideologiche”: tra il 1914 e il 1945 ha luogo il conflitto europeo e mondiale con due guerre sanguinose; tra i 1945 e il 1991 si sviluppano molti altri conflitti nazionali (Corea, Vietnam,Afghanistan ecc.);

- Secolo del “mondo bipolare” centrato su due grandi superpotenze, gli Stati Uniti e la Russia con le loro zone di influenza e i rispettivi paesi-satelliti.

Una tale diversificazione di risposte indica chiaramente che non è facile valutare in un’unica sintesi cento anni di storia umana. E che cosa accadrebbe se ci collocassimo in Orienta o al Sud del mondo?.

Condividere primato e responsabilità

Verso la metà del nostro secolo, e più precisamente nel 1945, le democrazie liberali e capitaliste dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti, insieme all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, hanno infranto la minaccia totalitaria e imperialista di Germania, Italia e Giappone. Dopo il conflitto, ha avuto inizio la guerra fredda, ma non meno reale, tra la Russia e gli Stati Uniti. Contemporaneamente, le potenze sconfitte sono state aiutate nella ricostruzione della democrazia e del benessere economico. Le nuove nazione asiatiche e africane, liberate dal giogo coloniale, non hanno creato nuove alternative sociali, politiche o economiche. Quasi tutte si sono allineate o al sistema comunista o a quello capitalista. La caduta del comunismo russo ha dimostrato la maggior efficacia dell’economia liberale capitalista e la maggior capacità di adattamento dei sistemi democratici.

Di conseguenza, dal punto di vista geopolitica e socio-economico, tutto sembra indicare che l’Occidente euro-americano è uscito vincitore da questo secolo così contrassegnato da conflitti. Per essere più precisi, constatiamo che oggi sono gli Stati Uniti d’America a esercitare il maggior influsso mondiale a livello economico, politico, sociale e culturale. La globalizzazione del capitalismo industriale e tecnologico deriva dalla loro indiscutibile supremazia. Nel “villaggio globale” che è il nostro mondo contemporaneo, la cultura nordamericana domina il linguaggio e le comunicazioni, così che, in un modo o nell’altro, tutte dipendono da questa.

Senza dubbio l’Occidente euro-americano non è stato il solo protagonista del secolo che sta per concludersi altri agenti hanno influito e forse influiranno più ancora. Il capitalismo globale di oggi è impensabile senza l’autodeterminazione dei paesi latino-americani, asiatici e africani. Ciò ha comportato una maggiore democrazia negli scambi internazionali. Analogamente, l’integrazione nel gioco democratico di soggetti in precedenza esclusi – ad esempio le donne, gli operai, i popoli di colore, le minoranze religiose - è stato possibile grazie alle loro rivendicazioni e alle loro lotte. Inoltre, realtà e fenomeni come la rinascita della Cina, la ricchezza tradizionale e tecnologica del Giappone, le riserve di valori umani e spirituali dell’India, la profonda sensibilità dell’africano indigeno, il capitalismo del sud-est asiatico e la crescita del mondo islamico… ci ricordano che il futuro del mondo non si trova soltanto nell’Occidente americano-europeo.

Siamo sempre più coscienti che il mondo “policentrico” del XXI secolo – anche se una sola superpotenza fa da “gendarme internazionale” – esige uno sforzo unitario in favore della pace e della concordia universale, tramite il dialogo, il riconoscimento della dignità dio tutti gli interlocutori e un rafforzamento delle istituzioni internazionali. E soprattutto, dobbiamo dire anche che la concordia universale può essere realizzata solo grazie a uno sforzo di riconciliazione e di perdono vicendevole. Ascoltiamo qualcuno che è stato compagno di strada di più di una generazione del secolo appena trascorso: qualcuno che si sente investito di una paternità universale, che abbraccia tutti gli uomini e le donne di questo tempo, senza distinzione alcuna:

Possiamo domandarci se questo secolo sia stato anche un “secolo di fraternità”. Non si può certamente dare una risposta priva di sfumature (…). Per questo a me sembra che il secolo che inizia dovrà essere un secolo di solidarietà. Oggi, lo sappiamo meglio di ieri, non saremo mai felici e in pace, se continuiamo a non fare affidamento sugli altri, e peggio ancora se saremo gli uni contro gli altri (…). Mai più gli uni contro gli altri! Mai più gli uni contro gli altri! Tutti insieme, solidali, sotto lo sguardo di Dio! Tutti siamo responsabili di tutti”. (Giovanni Paolo II, Discorso al Corpo Diplomatico,10.1.2000).

La Chiesa e i trappisti

Non è questo il momento di mostrare come i grandi eventi politici, sociali, economici e culturali del secolo hanno segnato e continuino a segnare la nostra storia monastica e cistercense. Non cercherò quindi di fare una cronaca della vita della Chiesa e dell’Ordine, in questo secolo. Tutto ciò andrebbe al di là di una semplice lettera, come questa. Sembra tuttavia opportuno ricordare che la nostra interpretazione della storia non può essere semplicemente secolare o sacrale. In quanto abitanti di frontiera, posti tra l’al di qua e l’al di là, dobbiamo leggere la storia come un luogo di grazia e di incontro salvifico tra Dio e gli uomini, e un luogo di conflitto tra la città di Dio e quella di Satana.

Possiamo dire perciò che la storia dell’umanità non è ciò che si vede e ciò che si legge tutti i giorni nei periodici e nei servizi di attualità. Né gli uni né gli altri tengono conto della mano della Provvidenza che guida il corso finale di ciò che accade. Noi non possiamo negare che “la compenetrazione tra città terrena e città celeste non può essere percepita se non con la fede; resta, anzi, il mistero della storia umana” (GS 40). Ciò che davvero orienta e dirige il cammino storico dell’umanità, è la ricerca radicale del regno di Dio e della sua giustizia, nella sequela del Risorto, nella fiducia che il resto sarà dato in soprappiù.

Con ancor maggior ragione si può dire che la storia della Chiesa è al tempo stesso una storia umana e una storia teologale: esiste nelle coordinate del tempo e dello spazio e vive del mistero rivelato e accettato nella fede. La storia dell’Ordine fa parte della storia della Chiesa, possiamo quindi dire che quanto è valido per essa in certo qual modo è valido anche per il nostro Ordine. La storia dell’Ordine è una storia umanamente contestualizzata, e al tempo stesso una storia divinamente assunta nel piano di salvezza di Dio-Amore. la nostra storia ha due grandi attori che insieme cooperano ed agiscono: lo Spirito Santo e ciascuno di noi. E’ facile riconoscere le tracce che abbiamo lasciato nel tempo e in diversi luoghi, ma è difficile scoprire le orme di Dio, perché sfuggano al “quando” e al “dove”. Nella storia della Chiesa, e ciò vale anche per l’Ordine, ogni Giubileo o anniversario è preparato dalla Provvidenza divina. Invito ciascuno di voi – secondo la sua grazia, e nel momento che gli sembrerà opportuno – a guardare con gli occhi della fede, alla storia della Chiesa e dell’Ordine, soprattutto durante gli ultimi cento anni, per rendere grazie e convertirsi, per assumere e lodare.

Rendere grazie e lodare, soprattutto per i segni di speranza che risplendono nel cielo ecclesiale alla fine del secondo millennio: l’accettazione dei carismi e la promozione ecclesiale del laicato; il riconoscimento del ruolo della donna nella Chiesa; la fioritura dei movimenti ecclesiali; la dedizione alla causa dell’unità dei cristiani; l’apertura al dialogo inter-religioso; il dialogo con la cultura moderna o contemporanea; cattolicità o universalità rispettosa delle diverse culture; appoggio incondizionato alla pace, alla giustizia, alla dignità e alla vita umana; l’emergere del “profilo mariano” della Chiesa.

Rendere grazie e lodare, perché non mancano sprazzi di risurrezione nell’oggi dell’Ordine, quale frutto di un passato vissuto nella fedeltà alla grazia: numerosi martiri hanno sigillato con il sangue l’offerta della loro vita; un insieme di documenti legislativi ispiranti, per il loro spirito e chiari nella loro normativa; fedeltà fino all’eroismo in situazioni estreme; inculturazione del patrimonio in nuovi contesti culturali; fondazioni nelle giovani Chiese; desiderio di radicalismo evangelico e monastico come contributo alla nuova evangelizzazione; crescente collaborazione tra monaci e monache nel servizio dell’autorità; apertura affettiva ed effettiva verso la Famiglia cistercense; partecipazione al carisma cistercense di gruppi laici....

Uno sguardo contemplativo sulla nostra storia ci ricorderà anche questa parola del nostro patriarca Benedetto: “se uno scorge in sé qualcosa di buono, lo riferisca a Dio, non a se stesso. Il male invece sia convinto d’averlo commesso lui e ne ritenga se stesso responsabile” (RB4, 42-43).

Gesù risorto

Apriamo ora gli occhi alla luce divina, a questa luce della vita che illumina i nostri passi e ci permette di correre in avanti, perché non ci sorprendano le tenebre della morte (RB, Prol 9-10. 13).

Gesù Cristo, pienezza del tempo, è il Signore dei secoli, e forse più ancora del nostro XX secolo. Egli dà alla storia il senso definitivo e la trasforma in storia di salvezza. Vale a dire successione di eventi divini e di risposte umane perché si compia il disegno di Dio. Quando Dio si incarna e risuscita dai morti, il divino irrompe, come mai prima di allora, nella storia umana. In tal modo Dio, fatto uomo e risorto dai morti per il potere dell’alto:

- dà senso al passato, di cui egli stesso è la pienezza;
- trasforma il presente in momento favorevole;- dà senso al futuro, aprendolo alla speranza che vince la morte.

Evento metastorico

I testimoni presentano la risurrezione come un evento limite: quanto la precede è incarnato nella storia, ma essa, e quanto segue, supera le frontiere di ciò che è storico. Il Risorto si trova in uno stato di vita che trascende le coordinate del tempo e dello spazio, e in tal senso è “metastorico”.

D’altra parte, i testimoni del Risorto e le testimonianze della resurrezione possono essere datate e localizzate. E si può dire la stessa cosa dell’impatto e delle conseguenze di questo evento lungo tutto il corso della storia umana. L’esistenza e la presenza secolare della Chiesa ne costituiscono la prova. Di qui il grande paradosso della fede cristiana: essa è fondata su un evento metastorico, con delle conseguenze storiche rivoluzionarie.

Dopo il Calvario tutto sarebbe finito se Gesù, risuscitato dal Padre, non avesse cominciato a lasciarsi vedere, mostrarsi, rivelarsi, apparire (Lc 24,34; At 7,2-30; 13,39; 1Cor 15,5-8). Si tratta di qualcosa che si impone dall’esterno, a differenza dell’esperienza oggettivamente verificabile della croce e della morte. Ciò significa che l’iniziativa appartiene a lui, Gesù; le discepole e i discepoli l’accolgono, la ricevono.

E’ qui che Gesù Cristo si lascia vedere o si mostra nella sua nuova condizione di gloria (At 22,11). Si tratta di una apocalisse (rivelazione) di Gesù Cristo (Gal 1,12.16). la gloria rivelata è un’anticipazione dell’evento escatologico, di ciò che è ultimo e definitivo.

L’esperienza dell’incontro con il Risorto è unica nel suo genere, e non offre alcun punto di contatto o di confronto con altre esperienze spirituali. Essa dà origine a una “conoscenza” che non è semplicemente oggettiva, esterna a colui che la sperimenta. Chi incontra il Risorto rimane totalmente coinvolto e posseduto dal Signore. Questa conoscenza non è indipendente dalla fede, ma non è una conseguenza della fede; è il Risorto che costituisce il fondamento della nostra fede: “Se il Cristo non è risorto, vana è la nostra fede” (1Cor 15,17).

La nostra fede nel Risorto poggia sulla testimonianza apostolica, non abbiamo dubbi in proposito. Ma non è tutto. La nostra testimonianza di Gesù risorto, per essere vera, non deve poggiare semplicemente su qualcosa che si è sentito dire: deve appoggiarsi anche sulla nostra “esperienza” personale del Risorto, per mezzo dello Spirito Santo, nel contesto della comunità ecclesiale dei credenti.

“Noi conosciamo Dio sia per fede sia per sentito dire: ma è attraverso l’amore contemplativo che si rivela a noi come per una manifestazione della sua presenza. Colui che si fece conoscere con la parola e l’ascolto, ora si scopre come se fosse realmente presente. Colui del quale si era solo sentito parlare e che non ci aveva manifestato la sua presenza, ci risultava prima uno sconosciuto” (Gregorio Magno, Commentario sul primo Libro dei Re, Sch 391).

E’ in questo modo che la Chiesa, in ogni momento della sua storia, “fa esperienza del Cristo in sé e si sente fiorire della pienezza di vita”. In tal modo essa può testimoniare con fiducia e audacia il messaggio della salvezza (Paolo VI, Ecclesiam suam 6).

L’esperienza è possibile solo quando la fede accetta Cristo “assiso alla destra del Padre, non più nella sua condizione di servo, ma nel suo corpo celestiale, identico al precedente, benché in forma diversa. Questa fede purifica il cuore e permette di fare esperienza del Risorto: con la mano della fede, con il dito del desiderio, con l’abbraccio dell’amore, con l’occhio dello spirito” (San Bernardo, SC 28,10).

La comunità, in quanto comunione fraterna di amore nello Spirito, è “uno spazio teologale dove si può fare esperienza della presenza mistica del Signore risorto” (VC 42; cf Mt 18,20). L’Abate di Chiaravalle ha qualcosa da dire in proposito. “Ti sbagli, Tommaso, ti sbagli quando pensi di poter vedere il Signore allontanandoti dal collegio apostolico. Alla verità non piacciono i cantucci e i nascondigli. Essa si trova al centro, cioè, ama l’osservanza, la vita comune e la volontà della maggioranza” (San Bernardo, Asc 6,13).

Queste esperienze non tolgono assolutamente nulla alla vita di fede; al contrario, la rendono possibile, con tutto ciò che essa comporta di spogliamento e di dimenticanza di sé, inerenti alla vita di fede e di amore. Chi ha toccato il Risorto con la mano della fede potrà affermare: “Mi basta che Gesù viva! Se egli vive, anch’io vivo, perché da lui dipende la mia anima. Più ancora, egli è la mia vita, egli solo mi basta. Cosa potrebbe quindi mancarmi, se Gesù vive? Mi manchino pure tutte le cose – non mi importa nulla, purché Gesù viva. Quindi, se a lui piace che io manchi a me stesso, a me basta che egli viva, anche se è solo per lui” (Guerrico, Sermone33,5).

Bisogna dire infine che la nostra esperienza è simile, ma non identica a quella dei primi testimoni: la nostra presuppone la loro. La loro poggia sugli anni vissuti con il Maestro. In ogni caso, se ci fosse soltanto la testimonianza dell’esperienza degli apostoli, il Risorto sarebbe un personaggio del passato, che non agisce nel presente e difficilmente potrebbe essere la causa della nostra speranza futura.

Ricordo che nella conferenza dei Capitoli generali del 1990 ho detto qualche parola sui miei “punti deboli e punti forti”. Tra questi ultimi, ho ricordato: “Poter testimoniare la presenza costante e attiva del Risorto e della Madre sua in seno alla Chiesa”. Posso affermare, oggi, dopo dieci anni, la stessa cosa? Grazie alla testimonianza evangelica dei 9 nostri sette fratelli dell’Atlas, rispondo con una convinzione e un’audacia più grandi di prima. Sì. Questa affermazione è un atto di fede, che pone ancora una volta la mia libertà e la mia coscienza sotto l’influsso della grazia divina. Tale affermazione sarà creduta e accettata se io la incarno in una vita docile e feconda nello Spirito Santo.

Avvenimento inesprimibile

Non è stato facile, per i nostri primi fratelli nella fede, trovare le parole appropriate per descrivere l’esperienza nuova che avevano vissuta. Fin dal primo annuncio, i testimoni utilizzano un vocabolario diversificato che si può riassumere in tre espressioni: risurrezione, esaltazione, vivificazione. I testi seguenti spiegano quello che ho appena detto:

- “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm 10,9);

- “Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9);

- “Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito” (1Pt 3,18).

Come si può constatare, i primi testimoni hanno comunicato l’evento attraverso formule che divennero presto pubbliche e vincolanti. Tali formule derivano da contesti diversi: predicazione, catechesi, liturgia e missione. Ecco altri due testi, molto antichi, che l’apostolo Paolo ha ripreso più tardi nelle sue lettere:

- “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor 15,3-5);

- “Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-5).

Abbiamo infine i discorsi kerymatici di Pietro e di Paolo, compresi negli Atti degli Apostoli (At 2; 3; 4; 10 e 13). Al di là della narrazione di Luca, tali discorsi presentano un nucleo arcaico (cf. la presenza di semitimi) che fa parte dell’annuncio proclamato alla comunità primitiva. Troviamo in esse tre elementi tipici: l’opposizione tra il rifiuto da parte dei capi giudei e l’azione efficace di Dio che risuscita Gesù; la conversione dei discepoli, grazie alle apparizioni, in testimoni del vigore escatologico con cui Dio ha compiuto la salvezza; conferma dell’agire divino attraverso la testimonianza della Scrittura.

Tutti questi testi, al di là della varietà delle formule, ci trasmettono un unico messaggio di vitale importanza, perché su di esso poggia la nostra fede cristiana:

- Gesù è apparso dopo la sua morte ad alcuni discepoli;
- è’ stato annunciato come risorto dai morti;
- il Risorto è la stessa persona di colui che è stato crocifisso, ma non è piùil medesimo;
- il suo corpo fisico è ora un corpo spirituale e glorificato.

Non solo la nostra fede poggia su queste verità. Senza il Cristo glorificato, la nostra vita monastica, in quanto vita di fede, non avrebbe identità cristiana e sarebbe del tutto priva di significato. La nostra vita monastica è “una risurrezione progressiva nel Cristo Risorto!” (cf Guerrico, Sermone 35,5).

Un avvenimento pieno di senso

Tutti i testi del Nuovo Testamento sono una “rilettura” del fatto della risurrezione e della realtà del Risorto. Ciò significa che la risurrezione e il Risorto sintetizzano in sé tutta òa realtà. Questo nucleo fondamentale dell’evento e del messaggio cristiano è di una inesauribile ricchezza. Cerchiamo di penetrare in questo mistero e di coglierne il senso. La risurrezione di Gesù Cristo, considerata globalmente, può essere compresa come l’irruzione nella nostra storia umana della dimensione escatologica (ciò che è ultimo, insormontabile, definitivo). Vale a dire, è lo Spirito che fa irruzione nella carne mortale e la vita assorbe completamente la morte. Si tratta della rivoluzione definitiva nell’evoluzione cosmica, umana e storica.

Dal punto di vista del Padre e dello Spirito Santo, possiamo dire, benché sembri un’affermazione audace, che la Paternità divina, verginalmente feconda, raggiunge il vertice, in modo umanamente imprevedibile, nella risurrezione del Figlio unico. E’ l’opera suprema della creazione e della spiritualizzazione. La prima creazione venne dal nulla, la seconda dalla morte. La risurrezione rivela l’autodonazione amorosa del Padre e dello Spirito in risposta a una vita donata alla spogliazione totale sulla croce. Così si è compiuta la profezia del salmista: “non lascerà che il suo santo veda la corruzione e non abbandonerà la sua anima negli inferi, gli ho fatto conoscere le vie della vita e lo ha colmato di gioia, alla sua presenza”.

Per Gesù, la risurrezione è innanzi tutto la sua piena riabilitazione dopo una ignominiosa condanna. Il “Sì” luminoso di Dio contro il “No” tenebroso degli esseri umani. E’ infatti una testimonianza incontestabile che Gesù è il profeta ultimo e definitivo di Dio. Soffrendo l’abbandono e rimettendosi nelle mani del Padre, Gesù ha corso un rischio che non poteva non concludersi felicemente e per questo egli è beato e le sue beatitudini sono vere. Il peccato e la morte, assunti dal Cristo nella propria carne, sono in tal modo detronizzanti e vinti. Gesù ha sperimentato la sua risurrezione come:

- trasformazione in un corpo spirituale e spirito che dona la vita (1Cor 15,44-45);

- ri-creazione in un uomo nuovo, nuovo padre dell’umanità e primogenito dei risorti (Rm 5,7; 1Cor 15,20 ss);

- incarnazione piena, la pienezza della divinità risiede ora in lui corporalmente (Col 2,9);

- donazione dello Spirito che fa di lui il datore dello Spirito (Gv 20,22);

- novità e “rinascita” nella sua filiazione divina (Rm 1,3-4);

- ricevere il Nome che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2,9).

A partire dalla sua risurrezione, Gesù può identificarsi completamente con i perseguitati e i piccoli: egli gode della possibilità di una presenza sacramentale sotto le specie del pane e del vino per essere mangiato e bevuto dai credenti. In una parola, il Risorto è “la pienezza di Colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1,23).

Gli Apostoli hanno sperimentato la risurrezione come trasformazione di Gesù di Nazaret in Gesù Cristo Signore e, da semplici discepoli, sono divenuti testimoni del Risorto. Hanno compreso in tal modo che Dio era già presente nel Crocifisso, il cui volto si mostra nella risurrezione.

Il Vangelo non ci parla di apparizioni del Risorto a sua Madre. Forse, perché la sua gioia raggiungesse il massimo credendo senza aver veduto (Gv 20,29); e per poter essere più ancora gradita a Dio (Eb 11,6). In ogni caso, in quanto madre, la risurrezione del figlio l’ha coinvolta fin nel più profondo dell’anima. Maria cominciò così, fin da quello stesso momento, l’esperienza della sua gloriosa assunzione, al seguito del primogenito tra i morti.

Se il Signore risorto sostiene e vivifica la nostra fede, la sua risurrezione spiega completamente la nostra vita in lui. Difatti, la risurrezione sta all’origine della Chiesa e della nostra
fede. Quando siamo stati battezzati nella sua Pasqua e abbiamo ricevuto
il suo Spirito, siamo stati trasformati nel corpo del Cristo glorioso.
La risurrezione è il motivo della nostra speranza e il pegno della
nostra futura risurrezione; ci assicura che il nostro lavoro e i nostri
sforzi per il Regno non sono infruttuosi. Ci permette di proclamare con
fede il Padre Nostro, di chiedere che il suo nome sia santificato e che venga il suo Regno, cioè, la risurrezione alla fine dei tempi. E perché non pensare che le donne hanno avuto il privilegio e il dono di essere le prime testimoni della risurrezione? Comunque, sia loro che noi sappiamo bene che credere nel Kyrios significa allo stesso tempo seguire il Crocifisso, ma con la forza e la grazia del Risorto. Grazie a Lui, viviamo senza paura di morire e moriamo senza perdere la vita.

Fratelli e sorelle, all’inizio di questa lettera vi ho invitati a contemplare il XX secolo; a scoprire nel suo cuore il Risorto. Il tempo è abitato da colui che è il Signore della storia. La nostra speranza dunque non muore; ogni momento di questa vita è un seme dio eternità. Tutto ciò che succederà fino alla fine del mondo, sarà una espansione e una esplicitazione di ciò che è accaduto il giorno della risurrezione. In quel giorno, il corpo del Crocifisso fu trasformato dalla forza dello Spirito e divenne a sua volta fonte dello Spirito per tutta l’umanità.

La domenica è il giorno in cui il Risorto dai morti si rende presente. Per lo stesso motivo, la domenica è il giorno che rivela il significato del tempo: germogliato dalla risurrezione, attraversa il tempo umano, i mesi, gli anni e i secoli, come una freccia che orienta tutto verso la seconda venuta di Cristo. La domenica è la prefigurazione del giorno finale, il giorno della parusia, già anticipata nell’evento della Risurrezione. Amen, marana tha, vieni Signore Gesù! Sì, vengo presto!

(da Testimoni)

Quadro sintetico delle relazioni
 tra le comunioni ottobre - dicembre 2004
(a cura di P. Franco Gioannetti)



I - CATTOLICI ED ALTRI CRISTIANI

Ortodossi

Il 27 novembre 2004, le reliquie di due Santi Padri della Chiesa e Patriarchi di Costantinopoli, Gregorio di Nazianzo e Giovanni Crisostomo, sono state restituite dal Papa Giovanni Paolo II al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I.

Luterani

La nona riunione della quarta fase della Commissione Luterano-Cattolica sull’unità si è tenuta dal 9 al 17 luglio 2004 a Baltimora nel Maryland (USA).

Obiettivo del dialogo luterano-cattolico è l’unità visibile della Chiesa.

Il tema principale della fase attuale è l’apostolicità nella Chiesa .

Le discussione della Commissione si sono svolte sui temi seguenti:

  1. L’apostolicità della Chiesa: i fondamenti del Nuovo Testamento.
  2. Il Vangelo apostolico e l’apostolicità della Chiesa.
  3. La successione apostolica ed il ministero ordinato.
  4. L’insegnamento della Chiesa si basa sulla verità.

Riformati

La Commissione di dialogo internazionale riformato-cattolico si è riunita dal 13 al 19 ottobre 2004 a Venezia.

Tema principale era: “La Chiesa come comunità di testimonianza comune del Regno di Dio”.

Pentecostali

Il settimo incontro della quinta fase del Dialogo internazionale tra le Chiese dei responsabili pentecostali e la Chiesa cattolica si è tenuto nel Centro diocesano di Torhout in Belgio dal 25 giugno al 1 luglio 2004.

Per descrivere i loro rispettivi modi di comprendere la fede cristiana, Pentecostali e Cattolici, hanno citato le Scritture ed i Padri della Chiesa.

La fase attuale del dialogo ha studiato i temi seguenti:

1. Iniziazione cristiana e battesimo nello Spirito Santo.

2. Fede ed iniziazione cristiana.

3. Conversione ed iniziazione cristiana.

4. La formazione Cristiana e la qualità del discepolo.

II - ORTODOSSI ED ALTRI CRISTIANI

Cattolici

La 67ª riunione del dialogo teologico Cattolico-Ortodosso dell’America del Nord si è svolto, dal 21 al 23 ottobre 2004 al St. Paul’s College, a Washington (USA). Il tema: “Conciliarità-Sinodalità e primato nella Chiesa”.


III - ANGLICANI ED ALTRI CRISTIANI

Vecchio-Cattolici

La Conferenza dei Vescovi anglicani e Vecchio-Cattolici dell’Europa continentale si è riunita dal 17 al 19 novembre in Svizzera a Wislikhaven.

Il tema era “False immagini dei cristiani e dei musulmani”.

E’ stata condannata ogni tendenza a presentare l’Islam come una religione che spinga alla violenza.

Una raccomandazione è stata rivolta ai politici ed ai giornalisti affinché siano maggiormente responsabili quando parlano o scrivono dell’Islam.

IV - LUTERANI ED ALTRI CRISTIANI

Cattolici

Una serie di avvenimenti hanno avuto luogo in diversi paesi per commemorare il quinto anniversario della firma della “Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione”.

Riunioni accademiche, dichiarazioni, conferenze, giornate di riflessione, culti ecumenici si sono svolti in Germania, USA, Slovacchia, Canada, Inghilterra per commemorare l’evento.


V - C.O.E.

Gruppo misto di lavoro

Il Gruppo Misto di Lavoro (G.M.T.) tra la Chiesa cattolica ed il Consiglio Ecumenico tra la Chiesa cattolica ed il Consiglio Ecumenico delle Chiese (C.O.E.) si è riunito nell’Accademia Ortodossa di Cipro dal 6 al 13 maggio 2004.

Temi proposti:

- Le implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche del battesimo comune.

- La natura ed il fine del dialogo ecumenico.

- La partecipazione cattolica nei Consigli delle Chiese Nazionali e Regionali.

I partecipanti hanno definito il lavoro del G.M.T. un “pellegrinaggio di fede”, hanno valutato i risultati raggiunti fino a quel momento ed hanno espresso le loro speranze per il futuro.


VI - TRA CRISTIANI

KEK

Il Comitato Centrale della Conferenza delle Chiese Europee (KEK) si è riunita a Praga dal 27 settembre al 3 ottobre 2004.

Varii gli argomenti all’ordine del giorno:

- Il terzo Incontro Ecumenico Europeo che si terrà a Sibiu in Romania nel settembre 2007.

- Il comitato congiunto KEK e CCEE che si terrà nel febbraio 2005 a Chartres in Francia.

- L’approvazione del processo di fusione del KEK con il CEME (Commissione delle Chiese presso i Migranti in Europa).

- Il futuro delle attività sociali delle Chiese.

- La visione e la vocazione del KEK come comunità in crescita delle Chiese in Europa che si impegnano a favore di valori quali la solidarietà, la condivisione, la testimonianza.

Una attenta riflessione teologica si è svolta su “missione e secolarizzazione”.

“Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli….” (Mt. 28,10)

Venerdì, 24 Marzo 2006 00:32

La vita di Pierre Teilhard de Chardin

La vita di Pierre Teilhard de Chardin



Pierre Teilhard de Chardin è nato il 1° maggio 1881 a Sarcenat, nella regione dell’Auvergne in Francia, da genitori di antica nobiltà provinciale. Compie gli studi secondari nel Collegio dei Padri Gesuiti di Mongré e, dopo il Baccalaureato, entra nella Compagnia di Gesù (1899). Dopo due anni di noviziato a Aix-en-Provence, compie i suoi studi a Laval, e nell’isola di Jersey. Nel 1905 è al Cairo dove rimane tre anni per insegnare fisica nel Collegio dei Padri Gesuiti. E’ il suo primo contatto con l'oriente; risalgono a quel tempo le sue prime ricerche ed escursioni geologiche.

Nel 1909 inizia gli studi di Teologia ad Hasting (Inghilterra) e viene ordinato sacerdote (1911). Nel 1912 inizia un periodo di tirocinio al Museo Nazionale di Storia Naturale, a Parigi, che allora era diretto dal Prof. Marcellin Boule.

Allo scoppio della prima guerra mondiale viene mobilitato e presta servizio di barelliere della Croce Rossa sulla linea del fronte. Nei periodi di riposo nelle retrovie ha tempo di meditare a lungo sul significato dell’evoluzione generalizzata, cioè estesa dal campo della vita a quello del cosmo, della storia e della religione. Tali riflessioni, riportate negli “Scritti del tempo di guerra”, saranno poi sviluppate durante tutta la sua vita e pubblicate postume in 13 volumi.

Dopo la sua smobilitazione prosegue nei suoi studi di geologia e paleontologia, fino al dottorato che consegue discutendo una tesi su “Les Mammiféres de l’Eocène inferieur français” (1922).

Nominato professore aggiunto di geologia all’”Institut Catholique” di Parigi, viene poco dopo allontanato dall’insegnamento per le sue idee ritenute pericolose. Parte allora per la Cina con una missione scientifica che avrebbe dovuto essere temporanea; ma, ritornato in Francia nel settembre 1924, è costretto poco più di un anno dopo, a prendere la vita dell’esilio. Salvo sporadici ritorni in Francia, egli rimarrà tutta la vita lontano dall’Europa, compiendo studi e missioni scientifiche in tutto il mondo.

In Cina, dove rimane molti anni, ha l’avventura di partecipare alla scoperta del famoso “sinantropo”. Va in India, in Somalia, a Giava, in Africa; partecipa a congressi negli Stati Uniti, in Canadà, Londra e Parigi, pubblica memorie scientifiche, che ora sono raccolte in 10 volumi; però è sempre oppresso dal fatto che l’autorità ecclesiastica gli impedisce di pubblicare gli scritti in cui ha riversato il meglio del suo pensiero, la sua visione dell’uomo, del Cosmo e della fede. Muore improvvisamente a New York, in casa di amici, il giorno di Pasqua 1955.

Pubblicati postumi, questi ultimi scritti produssero subito un notevole scalpore, sono raccolti in 13 volumi e trattano di fenomenologia della scienza e della religione, di cosmologia e antropologia.

Partendo da un esame globale dei dati della scienza circa la formazione del cosmo, della terra e della vita su di essa, Teilhard ritiene di poter affermare che, anche se tutto in natura avviene per “tatonnements” (cioè per tentativi successivi in tutte le direzioni, secondo la legge dei grandi numeri), il risultato finale di questo processo rivela l’esistenza di un moto evolutivo verso l’infinitamente complesso, cioè verso la vita e, precisamente, verso le forme superiori di essa: l’uomo.

Le asserzioni di Teilhard sono naturalmente contestate da quegli scienziati che negano alla scienza ogni possibilità di constatare l’esistenza di un finalismo in natura. A questa obiezione egli risponde con la seguente argomentazione: la posizione dell’uomo nella natura è pienamente comprensibile se si ammette l’evoluzione orientata, cioè il Cosmo ha un senso solo se è come una enorme macchina destinata a produrre “pensiero riflesso”, cioè l’uomo. Così l’Uomo è investito di una responsabilità senza pari: è quello che dà significato a tutta la natura.

Se invece l’uomo non è che un “caso fortuito”, un felice incidente della natura, non solo non ha nessuna responsabilità, ma neanche uno scopo o un motivo per migliorarsi e pensare al suo avvenire, e il Cosmo intero non ha più significato di un pugno di polvere lanciata nello spazio.

Durante e dopo il Concilio Vaticano II l’influsso delle sue idee è stato piuttosto importante negli ambienti teologici cattolici e cristiani in genere, e, anche se il suo nome non viene fatto esplicitamente, molte delle sue ipotesi di lavoro sono oggi accettate normalmente dai teologi cristiani.


Per continuare le ricerche sulla linea da lui indicata, si sono costituiti gruppi e associazioni di persone, di cui i principali sono:

In Italia:

Associazione Teilhard de Chardin: Centro di ricerca per il Futuro dell’Uomo

Viale Don Minzioni, 25/a – 50129 Firenze – Tel. 051-576.551

Pubblica trimestralmente il periodico: “Il Futuro dell’Uomo”.

In Inghilterra:

The Teilhard Centre for the Future of Man

81 Cromwell Road

London SW7 5BW

Pubblica quadrimestralmente il periodico: “The Teilhard Review”.

Negli Stati Uniti:

American Teilhard Association for The Future Man

867 Madison Avenue

New York N.Y. 10021

I Convegni di Dimensione Speranza
Firenze, dicembre 2004

Globalizzazione- glocalizzazione-frammentazione


-    Introduzione: dott. Claudio Caffarena sociologo

In una cornice particolarmente accogliente (Villa 'I Cancelli' di Careggi-Firenze) si è svolto l' incontro fra un gruppo  di partecipanti provenienti   da Roma, da  Torino e da Brescia.
Da ottiche diverse e certamente complementari (teologica, giornalistica, politica, sociologica ed economica), i vari relatori hanno fornito una lettura, sintetica ma efficace, di alcuni temi e problemi che nascono dal fenomeno 'globalizzazione' e che hanno una ricaduta su tutti noi e su tutti i contesti in cui viviamo. Alcuni elementi emersi, sia dalle relazioni che dal dibattito che ne è seguito, evidenziano l'importanza di mantenere una attenzione continua affinchè si possa, pur con le difficoltà e le resistenze che quotidianamente si incontrano, tentare una rilettura attenta e costante degli avvenimenti che ci circondano. La realtà complessa ed in costante cambiamento nella quale siamo immersi, ci obbliga a non fermarci al qui ed ora, ma ad aggiornare le nostre chiavi di lettura, creando collegamenti, superando stereotipi, schemi rigidi e barriere ideologiche.
Al termine dell'incontro si è registrata la volontà di proseguire il confronto avviato, attraverso strumenti e modalità differenti.




-    1° Intervento: dott. Gianluca Carmosino  giornalista


La bolla di sapone. Viaggio tra Globalizzazione e informazione.

Prima di inserire la globalizzazione in un rapporto con l’informazione, è necessario definire questo nuovo concetto che, con grande velocità, è entrato a far parte della nostra vita quotidiana. L’origine del processo è da cercare principalmente nel vorticoso e generale sviluppo tecnologico avvenuto negli ultimi 20 anni, che oggi ci permette uno scambio di informazioni in tempo reale con ogni parte del globo.
A livello storico, la globalizzazione nasce con la fine della guerra fredda, quando il modello economico neoliberista non ha più avversari e diventa preponderante in numerosi paesi.

Le conseguenza principali di questo processo di globalizzazione sono due: prima di tutto, aumenta la forbice tra ricchi e poveri del mondo. Secondo l’Onu, oggi il 20% della popolazione gode dell’83% delle ricchezze. Ma questo non basta: con il liberismo aumenta anche la povertà all’interno degli stessi paesi ricchi, concentrando il denaro nelle mani di pochi.
Accanto al modello economico liberista si afferma l’ideologia consumista, seconda conseguenza della globalizzazione, secondo cui tutto è merce.
Tutto questo ha reso il lavoro flessibile e precario, non è più un’arte in cui esercitare la propria fantasia e affezionarsi né un’àncora sicura nella progettazione del futuro.
Questa precarietà lavorativa porta ad una caduta o inclinazione delle reti familiari e di vicinato, che ha come estrema conseguenza la mixofobia, cioè la paura dell’estraneo.

Ma una conseguenza sociale e culturale da analizzare con maggiore cura è l’omogeneizzazione culturale, cioè l’adozione di uno stile di vita uguale in tutto il nord del mondo.
Questo modo di vivere è arrivato ben presto a coincidere con “l’idea di sviluppo”, che altro non è che una “occidentalizzazione del pianeta”, cioè l’adozione di un unico modello economico, sociale e culturale. Questo modello si basa su tre elementi: l’industrializzazione, cioè l’industria come settore dominante delle economie, l’urbanizzazione, che ha visto nascere le grandi città, con più di un milione di abitanti, che oggi sono oltre 300, e la nazionalizzazione.
Quest’idea di sviluppo e le multinazionali si sono affermate anche grazie all’invenzione della proprietà intellettuale, cioè la mercificazione delle idee.

Ma l’omogeneizzazione culturale odierna è alimentata soprattutto dal monopolio dell’informazione, che oggi è in mano solo a 4 grandi agenzie; Associated Press e United Press International, americane, Reuter, inglese, Agence France Presse, francese. Questo significa che il 65% delle informazioni mondiali viene dagli USA.
Il modello liberista favorisce inoltre la concentrazione dei media  e delle agenzie culturali, creando colossi come la Time Warner e la Disney e schiacciando le piccole produzioni indipendenti. Questo ha portato alla scomparsa dell’editoria pura e alla nascita di grandi gruppi industriali nelle cui mani è concentrata informazione ma anche divertimento ed intrattenimento. L’informazione stessa si è andata ad ibridare con l’intrattenimento, portando alla nascita dell’infotainment, cioè informazione/spettacolo, segnale ulteriore di una globalizzazione in realtà per pochi.




-    2° Intervento: Don  Enrico Chiavacci  teologo, docente emerito di Morale  presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Firenze

Cosa può fare la Chiesa nel mondo globalizzato.


Globalizzazione e famiglia umana.


Nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo redatta nel 1948 possiamo osservare due consistenti novità:
-    non c’è solo il diritto di libertà ma esiste anche il DIRITTO DI SOLIDARIETA’, cioè il diritto ad essere aiutati.
-    Questi diritti valgono per ogni uomo, sempre e ovunque.

Oltre ai diritti fondamentali citati dalla dichiarazione, nel Novecento emerge un altro pilastro fondamentale per la società: la famiglia umana. Durante il Concilio Vaticano II, la famiglia viene posta al centro della società, al posto dello Stato, costituendo il bene comune di oggi.


La situazione del mondo oggi.

Sicuramente oggi esistono tutti i presupposti tecnologici per favorire e tutelare la costruzione e la convivenza della famiglia umana. Ma la gestione di queste risorse è nelle mani di pochi, che detengono oltre al potere tecnologico anche il potere economico e finanziario, pilotando, così, anche i movimenti di massa. Tutto gira intorno al denaro e alla massimizzazione del profitto privato.
Difficile è quindi non imporre la cultura occidentale in tutto il mondo e in tutti gli ambiti: sociale, economico, culturale.


Cosa può fare la Chiesa.

La Chiesa deve saper stimolare una pluralità di visioni, di esperienze, di culture; ma la sua struttura odierna, il suo forte accentramento, ma soprattutto il timore del relativismo culturale ed etico la ostacolano in questa missione.
Bisogna riumanizzare il mondo cogliendo la ricchezza della sua pluralità. Per l’uomo la parola d’ordine deve essere ETERODOCUMENTARSI, per conoscere il diverso e arricchirsi insieme ad esso. La Chiesa può favorire la pluralità di informazione e l’incontro di persone diverse ma unite nel nome di Dio.
Lo strumento per fare questo è ancora una volta il VANGELO. Deve essere annunciato in tutto il mondo, con il rispetto delle altre culture e religioni, valorizzando, attraverso questo, le diversità.
La Chiesa deve quindi essere aperta, propositiva e accogliente, per il mondo di oggi ma con un occhio a quello che verrà.




-    3° Intervento: Dott.  Luìs Gerardo Guzman-Valencia  diplomatico presso l’ONU a Ginevra

Globalizzazione, frammentazione, diplomazia.


La globalizzazione rischia di amplificare la frattura nel livello di sottosviluppo fra popoli. Ma il pericolo maggiore è la scomparsa di molte identità culturali, di intere popolazioni, tenute fuori da questi processi di scala mondiale.
La causa di tutto questo è l’instaurazione di un nuovo ordine culturale imposto dalla modernizzazione e dalla globalizzazione; questa cultura omogenea appiattisce le diversità fra popolazioni e fra persone, relegate ad un ruolo passivo nella costruzione della propria identità. Anche a livello linguistico si assiste alla predominanza di una sola lingua nella comunicazione mondiale, destinando alla scomparsa di molte lingue particolari. Ma lingua corrisponde ad identità.

La comunicazione e l’informazione potrebbero aiutare le popolazioni a creare interazioni umane e sociali fra persone, ma la mancanza di tecnologie e infrastrutture crea delle frontiere simboliche invalicabili. Le tecnologie della comunicazione potrebbero inoltre essere un valido strumento di appoggio agli sforzi per uscire dalla povertà.
Lo sforzo di tutti, dalle istituzioni nazionali e internazionali agli organi di informazione alla società civile, è quello di RICONOSCERE E RISPETTARE LE IDENTITA’, PROMUOVENDO IL DIALOGO FRA CULTURE.
La promozione, il riconoscimento e la preservazione delle diverse lingue e identità culturali contribuirà ad arricchire la Società dell’Informazione, impedendo la frammentazione culturale.
La diversità deve promuovere il rispetto dell’identità culturale, per creare una società basata sul dialogo fra culture nell’ambito della cooperazione nazionale e internazionale.





-    4° Intervento: Dott. Claudio Caffarena  sociologo

Identità, educazione, lavoro: un intreccio a più dimensioni


Quello della globalizzazione è un tema su cui oggi si discute tanto, in molti contesti e con mille sfaccettature. Sociologia, politica, economia, media trattano di globalizzazione, arrivando a definire con questa una categoria esplicativa generalissima, un’idea-chiave che caratterizza il terzo millennio.
Ma le migliaia di parole spese su questo argo,mento hanno un’origine comune: descrivono due posizioni autentiche e radicali che non trovano un punto d’incontro.
C’è chi vede la globalizzazione come uno sviluppo coerente della rivoluzione industriale e della modernizzazione; dall’altra parte c’è chi ne enfatizza gli aspetti negativi, come la polarizzazione della distribuzione delle ricchezze e l’occidentalizzazione degli stili di vita.
La velocità e i risultati di questo processo creano in tutti noi un senso di smarrimento, di incertezza e di estrema precarietà; tuttavia queste emozioni negative possono aiutarci a trovare la spinta per affrontare quello che abbiamo intorno, oltre che a trovare comunque degli aspetti positivi nei cambiamenti in cui siamo coinvolti.
La globalizzazione deve essere osservata ed analizzata secondo due livelli: il micro, cioè la singola persona e il suo ambiente e il macro, quello dei grandi processi, trovando collegamenti tra questi due piani.

IDENTITA’     (definizione) senso del proprio essere continuo, attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre.
Ma oggi, con i cambiamenti così rapidi e globali cui siamo sottoposti, come cambia il processo di costruzione d’identità personale? Il rischio che corriamo è la perdita delle radici di riferimento.
Infatti, le relazioni tra individui e l’appartenenza ad una comunità non hanno più il vincolo territoriale e spaziale, dando vita a nuovi tipi di comunità (virtuali). Questo porta l’individuo ad appartenere a comunità differenti, e quindi a costruirsi identità diverse. Il problema da affrontare è l’integrazione e la connessione di queste identità, spaziale e non.
Oggi l’individuo pone la propria identità come una barriera e non come una membrana che permetta lo scambio e l’interazione con gli altri.

EDUCAZIONE
    Le istituzioni educative, scuola e università, sono in crisi davanti al loro compito di creare cittadini con un’identità ben definita, visto che oggi l’individuo è multiidentitario.
L’educazione oggi è una parte di una azione congiunta di una comunità educante, di una rete, che aiuti il ragazzo ad essere consapevole della sua multiidentità.

LAVORO    Flessibilità, che mette in crisi la costruzione dell’identità ma stimola creatività e inventività. Purtroppo la sicurezza economica e le prospettive a lungo termine non sono permesse in una situazione di mutamento continuo.

Si può affrontare questa situazione con l’idea che il progresso non è un evento garantito da leggi ma una possibilità che dobbiamo sfruttare con la forza della ragione. Siamo in una fase di transizione, in cui bisogna essere consapevoli dei cambiamenti,dei rischi e dei limiti
del proprio essere,cercando un continuo confronto con gli altri e superando l’individualismo e la separatezza.





-5° Intervento. dott. Fabrizio  Galimberti  economista, corrispondente de Il  Sole 24 ore
(per una serie di contrattempi abbiamo del relatore che vive e lavora in Australia soltanto una breve sintesi del suo intervento)


L’economia della globalizzazione

A livello economico, la globalizzazione è caratterizzata da due fenomeni:
-    la prima è la FUSIONE ECONOMICA, cioè il legame che si crea tra i paesi favoriti dall’enorme quantità di scambi economici, al basso costo e alla facilità dei trasporti.
-    La seconda caratteristica è la FISSIONE POLITICA, cioè la frammentazione e la rottura dei legami tra Paesi e popolazioni. Questi due fenomeni sono legati perché politica ed economia non danno più importanza al mercato interno, ma favoriscono le specializzazioni lavorative, e l’outsourcing (cioè la formazione permanente e il passaggio di risorse umane tra i diversi settori dell’economia). Ma questo processo non è accompagnato da una rete di sicurezza sociale, che evidenzia di eccessi di povertà e delle popolazioni delle campagne e delle periferie delle città.
Le leggi economiche ci insegnano che la distribuzione della ricchezza non è mai uniforme ma si concentra in poche persone per poi diffondersi tra le altre. Dobbiamo chiedere perciò alle istituzioni economiche di aiutare questo processo di distribuzione economica, per evitare che la globalizzazione crei nuovi poveri.




CONCLUSIONI E SPUNTI DI RIFLESSIONE


-l’essere umano non deve essere trascinato dal processo di globalizzazione ma deve essere PROTAGONISTA e ATTORE  principale.questa si può fare usando la tecnologia come uno STRUMENTO e non come padrona del nostro destino.

-il concetto di globalizzazione si deve allargare a tutti gli ambiti produttivi, a partire dall’agricoltura. Inoltre, l’ETICA deve poter entrare nei processi economici, anche se le leggi che regolano questo mondo sono difficili da cambiare, possono tuttavia concorrere ad aumentare il bene comune.

-la globalizzazione positiva avverrà solo quando OGNUNO CAPIRA’ DI ESSERE PARTE DELL’ALTRO

-la globalizzazione deve essere accompagnata dall’INTERCULTURA,che valorizza le parti in comune tra popoli,più che dalla multicultura, cioè dalla pura convivenza.

-lo spirito critico va sempre stimolato, perché la globalizzazione dà l’ opportunità di conoscere altre culture. Non bisogna avere paura della diversità. Pur mantenendo la propria identità si può tendere la mano all’altro. ILMONDO DEVE ESSERE UNA MACEDONIA;IN CUI TUTTI I FRUTTI SONO INSIEME CONSERVANDO OGNUNO IL PROPRIO SAPORE,non un frullato!

-non c’è un modello, un esempio da seguire per creare una buona globalizzazione, si può  solo imparare facendo.
-la globalizzazione non è solo economica ma tocca tutti gli ambiti della vita, anche le religioni, che devono trovare un punto d’incontro.


-la debolezza è un punto di forza. La precarietà permette di staccarsi ed abbandonare ciò che sembra essenziale ma che invece non lo è.

-servono degli organismi internazionali che regolino il processo della globalizzazione, che risulta essere positivo solo se non è intaccato dagli interessi privati.


NOI COSA POSSIAMO FARE?

-capire l’efficacia dell’UNIONE e dell’AZIONE di molte persone.
-agire con azioni di disturbo e boicottaggio
-usare al meglio gli strumenti e le fonti d’INFORMAZIONE, cercando trasparenza ed obiettività.
-appoggiare la FINANZA ETICA,basata sulla trasparenza e sulla scelta degli investimenti
-favorire il COMMERCIO EQUO ed il CONSUMO CRITICO
-educare a fare delle scelte e agire secondo il trapasso delle nozioni e dei valori ai giovani
-rispettare le 4 R,cioè RIVALUTARE e dare il giusto valore alle cose; RIUTILIZZARE invece di gettare; RICICLARE; RISPETTARE l’ambiente e quello che ci circonda.

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La formulazione di SC 34 rappresenta davvero un piccolo gioiello, in quanto evidenzia come si possono affermare solidi principi in maniera chiara e con sobrietà di dettato:

Note sul sacerdozio femminile nell'antichità
in margine a una testimonianza di Gelasio I
di Giorgio Otranto


In un’epoca come la nostra che ha riconsiderato, profondamente rivalutandoli, il ruolo e la presenza della donna nella famiglia, nell’ambiente di lavoro e nella società, il problema dell’ammissione delle donne al sacerdozio non poteva non suscitare un rinnovato interesse; esso è diventato anzi una delle più dibattute questioni ecclesiologiche di questi ultimi quindici anni. Sono sorti agguerriti movimenti di opinione, si sono levate voci di studiosi di diverse estrazioni culturali e professionali, si è sviluppato un vivace dibattito e nel 1976 si è registrato un intervento della Sacra Congregazione per la dottrina della fede che, nella Dichiarazione Inter insigniores, ha ancora una volta ufficialmente ribadito la posizione della Chiesa cattolica, da sempre contraria all’ammissione delle donne al sacerdozio e all’episcopato (1). Dopo questa Dichiarazione si sono moltiplicate le indagini, il dibattito si è fatto ancora più serrato, ma sostanzialmente le posizioni non sono cambiate, direi anzi che si sono cristallizzate e radicalizzate.

Come sempre succede quando si tratta di dare soluzioni adeguate a questioni dottrinali e disciplinari, anche in questo caso ci si è rivolti, con diversi intendimenti e risultati, al mondo antico. E qui il Magistero ordinario ha ritrovato le motivazioni su cui si radica la sua tradizionale opposizione al conferimento del sacramento dell’Ordine alle donne: il Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei Dodici e tutta la tradizione della Chiesa si è mantenuta fedele a questo dato interpretandolo come volontà esplicita del Salvatore di conferire soltanto all’uomo il potere sacerdotale di governare, insegnare e santificare; e solo l’uomo, per la sua naturale rassomiglianza col Cristo, può esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo stesso nell’Eucaristia. D’altra parte, coloro che sono su posizioni antitetiche, nel richiamarsi pure alla cristianità antica, con diverse argomentazioni fanno rilevare che la posizione ufficiale della Chiesa è conseguenza di un’antropologia tutta calata nel mondo antico e difficilmente accettabile dalla sensibilità moderna un’antropologia che risente dello stato di inferiorità palese in cui la donna era tenuta nell’ambiente greco e romano e, ancor più in quello palestinese che vide nascere il cristianesimo.

Queste, sostanzialmente, sono le posizioni anche se al loro interno si possono cogliere diverse sfumature e articolazioni, che non è qui il caso di richiamare, anche perché questo contributo, ben lungi dal voler entrare nel merito della vexata quaestio, mira solamente a fornire ulteriori elementi per la ricostruzione storica di un quadro che sia il meno frammentario ed approssimativo possibile. D’altro canto, ogni volta che si è data, da una parte e dall’altra, una soluzione decisa alla questione, si è dovuto dare il massimo rilievo ad alcuni elementi e motivi trascurandone, spesso pregiudizialmente, altri.

Tra le non poche ricerche incentrate in modo specifico sull’argomento in questione vanno segnalate almeno quelle di Van der Meer (2), Gryson (3), Galot (4), i quali mettono in rilievo nella Chiesa antica la donna non ha mai esercitato il ministero sacerdotale e che la sola funzione consentitale a partire dal III secolo, nell’ambito della comunità, era il diaconato in Oriente, tranne che in Egitto; i compiti assegnati a tale ministero erano la cura delle donne inferme e l’assistenza al battesimo delle donne. L’istituzione del diaconato femminile non ha varcato i confini dell’Oriente e i tentativi fatti nel IV e V secolo per introdurlo in Occidente non ebbero praticamente successo (5). Questa conclusione è senza dubbio corretta, ma non dà conto (o lo fa solo sommariamente) di alcuni episodi e fenomeni in forza dei quali la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio si presenta come problema abbastanza vivo sin dai primi secoli cristiani.

* * * * * *

Tra questi episodi ha un valore particolare uno di cui è tramandata notizia in un’epistola di Gelasio I (492-496), che fornisce elementi finora non adeguatamente valutati dagli studiosi (6). Van der Meer (7) le dedica non più che un accenno, mentre Gryson (8) e Galot (9), pur soffermandosi un po’ più distesamente sulla testimonianza gelasiana, non ne traggono alcuna conclusione e lamentano nell’epistola la mancanza di indicazioni precise: un’affermazione, quest’ultima, che non mi trova del tutto concorde. Ma vediamo di che si tratta.

Gelasio nel 494 (10) indirizza una lunga ed interessante epistola … ad universos episcopos per Lucaniam, Brutios et Siciliam constitutos. Essa è costituita da 27 decreti in cui il vescovo di Roma affronta numerose e rilevanti questioni (11) che, ad esclusione di alcune più propriamente sacramentali, riguardano in massima parte l’organizzazione interna delle comunità, le condizioni richieste per accedere alla dignità clericale, i rapporti tra vescovo, presbitero e diacono, le ordinationes e i negotia dei clerici, la dedicazione di nuove basiliche, la disciplina del clero. Quattro dei decreti sono dedicati alla presenza delle donne nell’ambito delle comunità cristiane: il XII tratta della consacrazione delle vergini; il XIII e il XXI riguardano il divieto della velatio per le vedove; il XXVI, infine, è quello che ci interessa più da vicino in quanto affronta esplicitamente il problema del sacerdozio delle donne:

“Nihilominus impatienter audivimus, tantum divinarum rerum subiisse despectum, ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur, cunctaque non nisi virorum famulatui deputata sexum cui non competunt, exhibere” (12).

Gelasio, dunque, dichiara di aver appreso con rammarico che il disprezzo per quello che riguardava la religione cristiana era arrivato a tal punto che le donne venivano ammesse a sacris altaribus ministrare: espressione che indica senza possibilità di dubbio lo svolgimento di un servizio liturgico presso gli altari. In tal senso il termine ministrare, corrispondente del greco diakonein, è adoperato in tutta la letteratura cristiana delle origini e trova sicura, antica attestazione negli Atti (13,2) e nell’epistola agli Ebrei (10,11) (13).

In Giuliano Pomerio, autore contemporaneo di Gelasio, ricorre la medesima espressione altari ministrare per designare lo svolgimento del servizio cultuale sacerdotale (14). Lo stesso termine (o il sostantivo minister-ministra) veniva adoperato anche in riferimento all’azione liturgica di diaconi e diaconesse. E’ qui appena il caso di ricordare la celebre lettera di Plinio il Giovane a Traiano in cui vengono menzionate due diaconesse (duae ancillae, quaeministraedicebantur) (15). Nel c. II del concilio di Tours del 461 si vieta a sacerdoti e diaconi di plebi ministrare in determinate circostanze (16).

Stabilire se l’espressione ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur faccia riferimento al servizio liturgico di diaconesse o presbitere potrebbe essere, almeno in questo caso, di secondaria importanza, dal momento che subito dopo Gelasio aggiunge di aver anche saputo che le donne compivano tutte le funzioni che erano state assegnate solamente al ministero degli uomini e non competono al sesso femminile:cunctaque non nisivirorumfamulatui deputata sexum, cui non competunt, exhibere. Galot considera famulatui termine generale per designare il servizio del culto e su questa base, così come aveva fatto Gryson (17), rimane sostanzialmente in dubbio se si tratti di servizio diagonale o sacerdotale (18). A me pare, invece, che tutta l’espressione, abbia un suo significato preciso in margine al quale si impongono alcune considerazioni. Va rilevato innanzitutto che Gelasio in un altro locus della stessa epistola adopera ecclesiasticus famulatus come sinonimo di ministerium clericale (19). E che nel nostro caso virorum famulatus indichi non il ministerium clericale del diaconus, ma quello più comprensivo del presbyter si desume dal cuncta che qualifica la pienezza delle attribuzioni, liturgiche, giurisdizionali e magisteriali, del virorum famulatus: le funzioni esercitate dalle donne presso gli altari non possono quindi, che riferirsi all’amministrazione dei sacramenti, al servizio liturgico e all’annunzio pubblico e ufficiale del messaggio evangelico, che costituiscono praticamente i compiti del sacerdote ministeriale.

In definitiva ritengo che Gelasio, piuttosto che l’esercizio di un servizio liturgico diagonale femminile, abbia voluto stigmatizzare e condannare un abuso che gli doveva apparire di gran lunga più grave: quello di vere e proprie presbitere che svolgevano tutti i compiti tradizionalmente riservati solo agli uomini. Si comprende così non solo il tantus divinarum rerum despectus, ma anche la durezza e l’insistenza con cui Gelasio, nel prosieguo del decreto, condanna l’operato di quei vescovi che o commettono tali abusi o, non denunziandoli pubblicamente, danno a vedere di favorirli; sempre che, continua il papa con sarcasmo, si possono chiamare vescovi coloro che sminuiscono a tal punto il ministero loro affidato e non hanno alcun rispetto per le regole invalse nella Chiesa. Che cosa bisogna pensare di questi uomini che, completamente assorbiti dai loro affari, hanno procurato con diverse iniziative una grande rovina che non solo sembra travolgere loro stessi, ma anche provocare, se non rinsaviscono, un danno fatale a tutte le Chiese? Sia questi vescovi, sia gli altri che, pur sapendo, non hanno denunciato la situazione, per Gelasio, di perdere la propria dignità episcopale. Nessuna attenuante può esserci, conclude il papa, né per quanti, pur conoscendo i canoni, non li hanno fatti rispettare né per quanti, ignorandoli, non si sono preoccupati di informarsi sulla condotta da tenere (20).

Gelasio, dunque, fa riferimento alla questione del sacerdozio delle donne solo nella parte iniziale del decreto; nel prosieguo di esso si limita a denunciare con un linguaggio altisonante la gravità dell’errore, prospettando con insistenza, le conseguenze dannose che possono derivare alle Chiese da quell’abuso; e fa tutto questo senza mai entrare nel merito della questione, senza cioè enucleare eventuali motivazioni di ordine scritturistico o teologico per rifiutare l’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine. Fa solo riferimento a più riprese alla regula christiana, alle regulae ecclesiasticae e ai canones che alcuni vescovi avevano o violato o ignorato. Evidentemente il ripetuto richiamo alla tradizione doveva essere ritenuto dal papa sufficiente per far apparire in tutta la sua gravità la natura dell’abuso condannato.

Il riferimento insistente alle gravi responsabilità dei vescovi qui ista committunt e qui haec ausi sunt exercerepuò avere un significato preciso che è indicativo della consistenza e della ratio del fenomeno in questione. I verbi committere ed exercere postulano una partecipazione attiva e fattuale di alcuni presuli alla perpetrazione dell’abuso; e questa partecipazione non può esaurirsi in un atteggiamento di semplice assenso o di indifferenza e distacco verso il fenomeno in questione; essa deve necessariamente coinvolgere in modo diretto i vescovi nell’exercitium del loro potere. Sono convinto che con le espressioni ista committunt e haec ausi sunt exercere Gelasio intende richiamare un mandato preciso conferito da alcuni presuli alle donne per l’esercizio sacerdotale: il richiamo, trattandosi di vescovi, non può che essere alla ordinazione sacerdotale che consentiva, appunto, l’esercizio del sacramento dell’Ordine da parte di alcuni rappresentanti del sesso femminile. Non si tratterrebbe, in sostanza, di semplici abusi perpetrati da alcune donne, ma di iniziative più consistenti che vedevano coinvolti in prima persona anche i vescovi. Una conferma a tale ipotesi può vedersi nell’espressione secondo cui questi vescovi hanno procurato una grande rovina alla Chiesa con diverse iniziative (multimodis impulsionibus); una di queste, certamente la più grave, è a parer mio quella di aver conferito il sacramento dell’Ordine alle donne. D’altra parte, la differenza e l’insistenza con cui Gelasio condanna l’operato dei vescovi lasciano ragionevolmente supporre responsabilità dirette molto gravi da parte di alcuni di loro nella vicenda trattata; per altri l’accusa è più generica e si limita ad evidenziare un atteggiamento di tacito e colpevole assenso ad un comportamento che contravveniva ai canones. I canoni ai quali potrebbe voler far riferimento Gelasio sono il XIX del concilio di Nicea (21), l’XI e il XLIV del concilio di Laodicea (seconda metà del IV secolo) (22), il II del concilio di Nǐmes (394 o 396) (23) il XXV del I concilio di Orange (441) (24), che proibiscono alle donne di svolgere il servizio liturgico comunque configuratesi o di far parte del clero. E’ superfluo in questa sede analizzare tali canoni anche perché questi sono stati esaminati da Van der Meer (25), Gryson (26) e Galot (27).

Circa l’estensione del fenomeno lamentato da Gelasio va tenuto presente che il papa ne tratta, come ho già detto, in un’epistola che affronta numerose questioni di ordine disciplinare, organizzativo e dottrinale e che fu inviata a tutti i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia. Con la lettera in questione, comunque, Gelasio molto probabilmente intendeva risolvere situazioni che non erano esclusive delle regioni ricordate. L’epistola,infatti, come il suo autore chiarisce in apertura, prende le mosse da una relazione che Giovanni, vescovo di Ravenna (477-494), gli aveva mandato per sollecitare il riordinamento delle Chiese di diverse regioni d’Italia, sconvolte dalla carestia e dalla guerra tra Odoacre e Teodorico (28). Lanzoni ha supposto che l’iniziativa del vescovo Giovanni dovesse essere stata concordata con la corte di Ravenna (29): in effetti a Teodorico, che si accingeva ad una difficile opera di ricostruzione politica e che doveva risolvere anche il problema della convivenza tra cattolici ed ariani, necessitava operare in una società senza urti e contrasti.

Anche se è difficile pensare che il fenomeno del sacerdozio femminile fosse capillarmente diffuso in tutte e tre le regioni o in molto altre parti d’Italia, è probabile che episodi quali quelli condannati dal papa non siano rimasti fenomeni isolati e circoscritti in un ambito ristretto. L’intervento perentorio di Gelasio, che coinvolge parecchi vescovi nella questione, prova anzi che la situazione doveva essere giunta a un punto tale da preoccupare seriamente Roma. D’altra parte, se si fosse trattato di qualche caso isolato, probabilmente il papa, non fosse ’altro che per motivi di prudenza, non avrebbe trattato in un’epistola che, considerata la rilevanza degli argomenti affrontati, doveva avere diffusione non solo in Lucania, Bruzio e Sicilia, ma praticamente anche in altre regioni che fossero per un verso o per l’altro interessate alle numerose questioni trattate nel documento o solo a qualcuna di esse. Epistole come quella in oggetto erano destinate a circolare in tutte le comunità e costituivano per la gerarchia una sorta di prontuario per poter affrontare determinati problemi interni di ordine disciplinare, organizzativo, dottrinale. E non è da escludere che Gelasio abbia inviato la medesima epistola ad altre chiese che erano interessate agli stessi problemi in essa trattati (30).

In definitiva dall’analisi dell’epistola mi pare possa desumersi che sul finire del V secolo in una vasta area dell’Italia meridionale, se non anche in altre non identificabili regioni d’Italia, alcune donne, ordinate da vescovi, esercitavano un vero e proprio sacerdozio ministeriale.

E’ difficile, allo stato attuale della ricerca, precisare la genesi di tale fenomeno. Va tenuto, comunque, presente, come è stato opportunamente sottolineato (31), che l’area entro cui esso si verific0, l’Italia meridionale, era tradizionalmente collegata con gli ambienti greci e bizantini, dove a partire dal III secolo le donne esercitarono stabilmente il diaconato; alla fine del IV secolo le diaconesse venivano annoverate tra i clerici, giacché, come questi, ricevevano l’ordinazione con l’imposizione delle mani secondo un preciso rituale, precisi obblighi e condizioni giuridiche (32). Né va dimenticato che proprio in Oriente, in Asia Minore, soprattutto in ambiente gnostico e montanista si erano registrati sin dal II secolo casi di donne con le funzioni di presbitero o di vescovo che la Chiesa aveva condannato.

Ireneo tramanda che lo gnostico valentiniano Marco si circondava di donne cui ordinava di consacrare alla sua presenza calici contenenti vino (33).

Firmiliano di Cesarea, in un’epistola a Cipriano, condanna duramente l’attività di una donna che, attorno al 235, in Asia Minore attirava un gran numero di fedeli, battezzava e celebrava l’Eucaristia secondo il rituale della Chiesa (34).

Uguale condanna esprime Epifanio di Salamina per alcune sette montaniste della Frigia che consentivano alle donne l’accesso al sacerdozio e all’episcopato (35).

Su questa base mi pare possibile ipotizzare un’influenza dell’ambiente greco e bizantino che avrebbe determinato o favorito il sorgere del fenomeno della donna-presbitera in Italia meridionale.

Naturalmente non sorprende trovare in queste regioni, soprattutto nel Bruzio e nella Sicilia, a livello di faciespassim quocumque tempore (37). culturale cristiana, elementi e motivi che riconducono, per un verso o per l’altro, al mondo bizantino ancor prima della guerra greco-gotica (535-553), basti pensare che nel 447 Leone Magno esorta i vescovi di Sicilia a non amministrare il battesimo, secondo l’usanza greca, anche nel giorno dell’Epifania, oltre che a Pasqua e Pentecoste (36). E Gelasio intende molto probabilmente ribadire proprio questo divieto quando nel X decreto dell’epistola in questione invita i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia ad amministrare il battesimo solo a Pasqua e Pentecoste e non

Il fenomeno del sacerdozio delle donne in Italia meridionale andrebbe, dunque, visto nel contesto della particolare sensibilità di questa area geografica al richiamo del mondo bizantino. Sensibilità che porterà, tra VII e VIII secolo, ad una sempre più evidente ellenizzazione della Chiesa nelle regioni interessate, soprattutto in Sicilia e Bruzio (38). E se nel fenomeno del sacerdozio delle donne si può genericamente cogliere una matrice greca e bizantina, va specificato che l’episcopato di Lucania, Bruzio e Sicilia (o parte di esso), conferendo l’Ordine sacro alle donne e consentendo loro di svolgere presso gli altari cuncta non nisi virorum famulatui deputata, era andato ben al di là del modello cui probabilmente guardava.

La presenza, sul finire del V secolo, di presbitere nel Bruzio non può non richiamare un’epigrafe che riveste notevole importanza come documento storico in relazione alla questione che sto trattando: B(onae) m(emoriae) s(acrum). Leta presbitera / vixit annos XL, menses VIII, dies VIIII / quei (scil.cui) bene fecit maritus. / Precessit in pace pridie / idus Maias (39). L’epitaffio fa riferimento ad una Leta presbytera, defunta poco più che quarantenne, alla quale il marito aveva posto la tomba; esso proviene dalla catacomba di Troppa, una cittadina che ha restituito la più consistente documentazione epigrafica e monumentale del Bruzio paleocristiano (40).

Nel termine presbytera finora tutti gli studiosi, da De Rossi (41) a Crispo (42) a Ferrua (43), sulla spinta che non ha mai fatto alcuna concessione al sacerdozio femminile hanno sempre visto la moglie del presbyter. Alla luce di quanto emerso dall’epistola gelasiana mi pare si possa ragionevolmente ipotizzare che la Leta dell’epigrafe di Troppa fosse una vera e propria presbytera, una donna, cioè che svolgeva il ministero sacerdotale nella comunità cristiana di Troppa. Anche la datazione dell’epitaffio, che Ferrua fa risalire alla metà del V secolo (44), avvalora questa ipotesi. Le due notizie, dunque, quella gelasiana e quella tradita dall’epigrafe, si illuminano e si confermano a vicenda, attestando l’esistenza del sacerdozio femminile nel Bruzio tra la metà e la fine del V secolo.

Oltre che questa significativa convergenza con l’epistola gelasiana, un altro motivo mi induce a vedere in Leta una vera e propria presbitera. Se Leta fosse una uxor presbyteri dovremmo inferirne che il marito, che le ha posto la tomba, ha rinunziato a qualificarsi come presbyter per trasferire sulla moglie tale qualifica. Operazione di cui sinceramente non so vedere alcuna ragione valida di cui non si ha riscontro nella documentazione epigrafica. Stando alle testimonianze che ho potuto raccogliere, ogni volta che un presbyter dispone la tomba o provvede alla sepoltura della moglie, questa viene sempre indicata col termine coniux (45) e, in qualche caso,amatissima (46). D’altra parte, anche a livello letterario è ricorrente l’accostamento presbyter-presbytera per indicare in presbytera la moglie del presbyter (47), ma non è mai stato attestato, a quel che mi risulta, maritus (o coniux o vir) - presbytera.

Un’altra presbytera è ricordata in un’epigrafe su un sarcofago proveniente da Salona, in Dalmazia che porta la data consolare del 425 (48). D(ominis) n(ostris) Thaeodosio co(n)s(ule) XI et Valentiniano/viro nobelissimo Caes(are). Ego Thaeodo/sius emi a Fl(avia) Vitalia per(es)b(ytera) sanc(ta) matro/na auri sol(idis) III. Sub d(ie)… (49) L’epigrafe richiama il fenomeno dell’assegnazione e della vendita dei posti nei cimiteri comunitari cristiani. Tale attività a Roma, città per la quale siamo meglio informati, fu gestita inizialmente dai fossores e successivamente da praepositi e presbiteri (50). Stando all’epigrafe, Teodosio aveva acquistato per tre solidi d’oro un posto nel cimitero subdiale di Salona dalla presbytera Flavia Vitalia (51). Pure in questo caso,dunque, una presbytera è investita di un compito ufficiale che nella comunità, da una certa epoca in poi, fu proprio del presbyter (52). Anche se l’epigrafe non offre elementi sufficienti per poter dire che la presbbytera in questione svolgeva il ministero sacerdotale, sulla base della documentazione di cui attualmente disponiamo, a me pare che contratti di quel tipo si stipulassero direttamente con chi aveva un ruolo o una funzione ufficiale nell’ambito della comunità – il fossor, il praepositus, il presbyter (nel nostro caso la presbytera) – e non con la uxor presbyteri.

Proviene pure da Salona un frammento di coperchio di sarcofago, probabilmente del V-VI scolo, che reca la scritta (sace)rdotae (53). Potrebbe trattarsi, anche in questo caso, di una donna investita, come la conterranea Flavia Vitali, di funzioni sacerdotali.

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Oltre al fenomeno testimoniato dall’epistola gelasiana, la cristianità antica ha conosciuto altri casi di donne che svolgevano il servizio liturgico; questi interessano, come ho già rilevato, a partire dal II secolo, gli ambienti gnostici e montanisti, contro cui polemizzano a più riprese i Padri della Chiesa.

Agli inizi del VI secolo, in un’epoca quindi molto vicina a quella dell’epistola gelasiana, si ha notizia di un altro caso di donne che partecipavano attivamente alla liturgia. Il caso è segnalato per il 511 in Gallia dai vescovi Licinio di Tours, Melanio di Rennes ed Eustochio di Angers che indirizzarono un’epistola ai sacerdoti bretoni Lovocario e Catiherno, rimproverandoli di servirsi, durante la Messa, di donne che prendevano in mano il calice e distribuivano al popolo il sangue di Cristo. I vescovi condannano severamente l’operato dei due presbiteri e, appellandosi alla tradizione, li minacciano di escluderli dalla comunione ecclesiastica qualora non smettano di farsi assistere da quelle donne (conhospitae) (54), con le quali inoltre convivevano (55).

Dall’epistola si desume che queste conhospitae svolgevano il servizio liturgico proprio non del presbyter ma piuttosto del diaconus, cui era consentito amministrare la comunione: si tratta, in ogni caso, di attribuzioni che andavano al di là dei compiti tradizionalmente riservati in Oriente alle diaconesse.

E proviene dai dintorni di Poitiers, una zona molto vicina a quella nella quale operavano i tre vescovi, un graffito di dubbia datazione (56) che attesta lo svolgimento di un servizio della donna presso gli altari: Martia presbuteria/ferit oblata Oleari/o par(iter) et Nipote. Contrariamente a Mommsen (57) e a Diehl (58) che riferiscono presbyteria ad obblata (= oblationes presbyterales), ritengo che presbytera stia per presbytera proprio come nel canone XX del concilio di Tours (59) e nel canone XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo (60). Non è facile precisare la natura del servizio svolto da Marzia: questa è la uxor presbyteri che porta (ferit = fert) il pane e il vino per la celebrazione eucaristica come una semplice fedele o è una presbytera con compiti più specifici nella liturgia eucaristica? Olybrius e Nepos sono quasi sicuramente due presbyteri che officiavano nella comunità di cui faceva parte anche Marzia; ed è probabile che questa collaborasse abitualmente con loro durante la sinassi eucaristica. Il fatto che si sia voluto ricordare un’azione svolta da Marzia nell’ambito della celebrazione liturgica potrebbe significare che non ci si trova di fronte al gesto usuale dei fedeli al momento dell’offertorio, ma piuttosto di fronte ad un atto abitualmente compiuto dal diacono o da un altro membro del clero. Potrebbe trattarsi in definitiva di un servizio liturgico analogo a quello delle conhospitae che collaborano con i presbyteri Lovocato e Catiherno.

A me pare di notevole interesse questa convergenza tra documentazione letteraria e documentazione epigrafica che attestano, nella stessa zona o in zone confinanti della Gallia, una funzione particolare, e certo non abituale, della donna nell’ambito della celebrazione eucaristica. Può, beninteso, anche trattarsi di un semplice caso, ma va tenuto presente che la medesima convergenza si è rilevata anche per il Bruzio.

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Le notizie raccolte sul sacerdozio delle donne nell’antichità sono scarse e sparse. Alcune vanno ulteriormente verificate in un quadro ampio che includa anche la documentazione iconografica da cui possono venire nuovi stimoli per un ulteriore approfondimento del problema, come credo ne siano venuti da quella epigrafica.

Anche se sono attestati pochi casi di donne che svolgono le funzioni di presbyterae, la frequenza con cui deliberati conciliari e autori cristiani si soffermano, sempre polemicamente, sulla questione dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine fa pensare che i casi di donne che svolgevano le funzioni di presbytera o un altro tipo di servizio liturgico doveva essere molto di più di quelli attestati dalla documentazione letteraria ed epigrafica. Basta scorrere i saggi di Van der Meer, Gryson e Galot per rendersi conto della continuità con cui la gerarchia, i Padri e le assemblee conciliari hanno affrontato il problema dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine.

Tutto questo, a dispetto della lamentata esiguità della documentazione e contrariamente a quanto abitualmente si sostiene da parte di quelli che sono contrari al sacerdozio femminile, significa che la posizione assunta al riguardo dalla Chiesa antica – da tutta la Chiesa e non dalla sola gerarchia – non può configurarsi come una tradizione monolitica, ben definita cioè in tutti i suoi aspetti e risvolti o comunque accettata da tutti, ma piuttosto come una realtà in cammino, come una questione vivamente avvertita (61), dibattuta e qualche volta, anche se raramente, diversamente risolta. La tradizione diventa o è diventata monolitica nel momento in cui si condannano o si sono condannate tutte le soluzioni che nel passato si sono discostate da quella ufficialmente accettata e difesa dalla Chiesa cattolica. Su questo atteggiamento della Chiesa può avere influito anche il fatto che dal II secolo alcuni gruppi, condannati come eretici, ammettevano le donne al presbiterato e all’episcopato. Ma non necessariamente la presenza di una presbytera connotava la sua eterodossia o quella della Chiesa in cui viveva e svolgeva il suo ministero. Lo attesta in modo esplicito Attone, vescovo di Vercelli, vissuto tra IX e X sec., di cui sono noti l’attività riformatrice e l’impegno contro la corruzione del clero. Scrisse tra l’altro un tratto canonistico e raccolse, vita sacramentale ed espressione liturgica.

A lui si era rivolto un sacerdote di nome Ambrogio per chiedergli come si dovessero intendere i termini presbytera e diacona della canonistica antica. La sua risposta non lascia adito a dubbi. Egli comincia col rilevare che siccome nella Chiesa antica molta era la messe e pochi gli operai (Mt 9,37; Lc 10,2),anche le donne ricevevano gli Ordini sacri ad adjumentum virorum, come prova Rom 16,1 (Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris); fu il concilio di Laodicea, della seconda metà del IV secolo, a proibire, per Attone, l’ordinazione presbiterale delle donne: Quod Laodicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitus quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes in Ecclesiis ordinari (62). Molto siè scritto sul c. XI del concilio di Laodicea (peri tou mh dein tas legomenas presbutidas etoi prokaqemenas en th ekklesia kaqistasqai) (63) e sul significato del termine presbutidas, del quale si sono date diverse spiegazioni e si è sistematicamente escluso che possa indicare vere e proprie presbyterae. Ma questa esclusione è il risultato di un modo di procedere a tesi che ha fortemente condizionato non pochi studiosi. Basti leggere quello che scrive al riguardo Galot: “il canone 11 del concilio di Laodicea imbarazza i commentatori… Le incertezze riguardano il significato di ‘presbiteri’ e di ‘presidenti’, come del verbo ‘stabilire‘ o ‘ordinare‘. Se ci si dovesse fidare del titolo che ha il canone: ‘Non bisogna stabilire donne-preti nella chiesa‘ , si intenderebbe le ‘presbitidi‘ nel senso di ‘pretesse‘. Ma simile significato sembra impensabile nella chiesa cattolica, e si è cercato di identificare queste ‘presbitidi‘ sia con diaconesse superiori, sia con semplici diaconesse, sia con donne anziane, incaricate della sorveglianza delle donne nella chiesa (64). Alla luce di quanto finora osservato, perché non dare del c. XI di Laodicea l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere, come fa Attone che esso proibisce l’ordinazione presbiterale delle donne? Lo stesso Galot ammette che si tratta di proibizione del sacerdozio femminile, anche se ne circoscrive la portata riferendola alla polemica antimontanista (65).

Ma ritorniamo al vescovo di Vercelli. Egli, dopo essersi soffermato sulla figura della diaconessa, ribadisce che nelle comunità cristiane antiche non solo gli uomini ma anche le donne venivano ordinate (ordinabantur) ed erano a capo della comunità (praeerant ecclesiis), erano chiamate presbyterae ed avevano il compito di predicare, comandare, insegnare (Hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, iubendi vel edocendi… officium sumpserant) (66): in questi tre termini è condensato il ruolo del sacramento dell’Ordine.

Conoscitore profondo della canonistico e delle istituzioni ecclesiastiche, il vescovo di Vercelli precisa che il termine presbytera poteva indicare nella Chiesa antica anche la moglie del presbyter;delle due accezioni egli dichiara di preferire la prima (67); ma questa affermazione va vista nel contesto della polemica che Attone di Vercelli e numerosi altri autori medievali condussero contro la cosiddetta Nicolaitica haeresis e in favore del celibato sacerdotale (68).

Questa di Attone è una testimonianza di notevole rilievo per la questione del sacerdozio femminile nell’antichità; e stranamente nessuno degli autori che si è interessato del problema, da Van der Meer, che pure fa una ricca raccolta di fonti antiche e medievali, a Gryson, a Galot ne ha fatto cenno.

Il solo Martimort, nel suo recentissimo saggio, l’ha presa in considerazione mostrandosi sorpreso per la spiegazione del termine presbytera data da Attone (69). In altri casi la stessa testimonianza è stata volutamente ignorata (70) evidentemente perché non in linea con quella che sembrava la tradizione unanime; essa avrebbe dovuto ingenerare per lo meno il dubbio, dal quale soltanto può derivare una certezza motivata, quale che sia. Ho l’impressione, invece, che nel corso dei secoli si sia operata, in parte accidentalmente in parte per motivi di prudenza o per conformismo, una decisa selezione o una preconcetta interpretazione delle già scarse notizie riguardanti l’esercizio del ministero sacerdotale da parte delle donne. Alla luce della testimonianza di Attone bisogna tentare di recuperare anche quelle testimonianze che a prima vista ci appaiono solo come schegge o frammenti di storia per ricomporre un quadro il più ampio possibile. E forse, quanto la ricerca sarà più spassionata, questo quadro potrà fornire utili punti di riferimento affinché la questione dell’ammissione delle donne all’ordine sacro venga affrontata col supporto di una più ampia base documentaria.

Note

1) La dichiarazione, firmata Paolo VI il 15 ottobre 1976, fu resa pubblica il 27 gennaio 1977 sull’Osservatore Romano; AAS 69, 1977, n. 2, pp. 98-116.

2) H. VAN der MEER, Sacerdozio della donna? Saggio di storia della teologia, Brescia 1971 (trad. it.; ed. or. in tedesco pubblicata a Basel nel 1969)

3) R. GRYSON, Il ministero della donna nella Chiesa Antica, Roma 1974 (trad. it.; ed. or. in francese pubblicata a Gembloux nel 1972).

4) J. GALOT, La donna e i ministeri nella Chiesa, Assisi 1973. Sulla questione cfr. i contributi di P.H. LAFONTAINE, Le sexe masculin, condition de l’accession aux ordres aux IV° et V° siècles: Revue de l’Université d’Ottawa 31, 1961, 137-182; Les conditions positives de l’accession aux ordres dans la première législation ecclésiastique (300-492), Ottawa 1963.

5) Mentre Van der Meer tratta solo di sfuggita il problema delle diaconesse (Sacerdozio… cit. pp. 119-122), Gryson (Il ministero… cit. passim e pp. 201-202) e Galot (La donna… cit. passim e pp. 24-46) analizzano più diffusamente questo tema.

6) Ep. 14 (In A. THIEL, Epistulae Romanorum pontificum genuinae, Hildesheim-New York 1974, rist. Ed. 1867, pp. 360-379)

7) Sacerdozio… cit. p. 128.

8) Il ministero… cit. pp. 194-195.

9) La donna… cit. pp. 86-87.

10) L’epistola è datata all’11 marzo (Ep. 14,28; Thiel p. 379).

11) Il Lanzoni, per l’importanza e la ricchezza delle questioni trattate, la definisce epistola-enciclica. (La diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, vol. I, p. 329).

12) Ep. 14,26; Thiel 376-377.

13) Cfr. A.M.P. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary of the ancient orations in the Missale Romanum, Nijmegen-Utrecht 1963,p. 104; A. BLAISE, Le vocabulaire latin des principaux thèmes liturgiques, Turnhout 1966, pp. 502-503.

14) Vita cont. 2,7,3: PL 59,452.

15) Ep. 10,96,8.

16) In Concilia Galliae A. 314-A. 506 (C. Munier): CCL 148, 144.

17) Il ministero… cit p. 195

18) La donna… cit p. 86, n. 56.

19) Ep. 14,14; Thiel 370.

20) Ep. 14,26; Thiel 377-378: Nisi quod omnium delictorum, quae singillatim perstrinximus, noxiorum reatus omnis et crimen eos respicit sacerdotes, qui vel ista committunt, vel committentes minime publicando pravis excessibus se favere significant: si tamen sacerdotum jam sint vocabulo nuncupandi, qui delegatum sibi religionis officium sic prosternere moliuntur, ut in perversa quaeque profanaque, sine ullo respectu regulae Christianae praecipitia funesta sectentur. Quumque scriptum sit: Minima qui spernit, paulatim decidit; quid est de talibus existimandum, qui immensis ac multiplicibus pravitatum molibus occupati, ingentem ruinam multimodis impulsionibus ediderunt, quae non solum ipsos videatur obruere, sed et ecclesiis universis mortiferam, si non sanentur, inferre perniciem? Nec ambigant non solum qui haec ausi sunt exercere, sed etiam qui hactenus cognita siluerunt, sub honoris proprii se jacere dispendio, si non quanta possunt celeritate festinent, ut lethalia vulnera competenti medicatione salventur. Quo enim more teneant jura pontificum, qui pontificalibus excubiis eatenus injuncta dissimulant, ut contraria domui Dei, cui praesident, potius operentur? Quantumque apud Deum possent, si non nisi convenientia procurarent, tantum quid mereantur adspiciant, quum exsecrabili studio sectantur adversa, et quasi magis haec regula sit, qua ecclesiae debeant gubernari, sic quidquid est ecclesiasticis inimicum regulis perpetratur: quum et si cognitos habuit canones unusquisque pontificum, intemerata debuerit tenere custodia, et si forsitan nesciebat, consulere fidenter oportuerit ignorantem. Quo magis excusatio nulla succurrit errantibus, quia nec sciens proposuit servare quod noverat, nec ignorans curavit nosse quod gereret.

21) Cfr. testo e discussione in R. GRYSON, Il mistero… cit. pp. 98-100.

22) Cfr. infra pp. 84-86

23) In CCL 148-50. Per la datazione di questo concilio che oscilla tra il 394 e il 396 cfr. CCL 148,49.

24) In CCL 148,49.

25) Sacerdozio… cit pp. 126-28.

26) Gryson dedica un capitolo all’analisi delle fonti canoniche greche dal IV al VI secolo (pp. 90-147) e un altro a quelle latine dello stesso periodo (pp 187-199)

27) La donna… cit. pp. 80-83 (per i canoni XI e XLIV di Laodicea).

28) Ep. 14,1; Thiel 362: … et reparandis militiae clericalis officiis, quae per diversas partes ita belli famisque consumpsit incursio, ut in multis ecclesiis, sicut fratris et coepiscopi nostri Johannis Ravennatis ecclesiae sacerdotis frequenti relatione comperimus…

29) Le diocesi… cit. vol. II, p. 754.

30) Cfr al riguardo le osservazioni di G. MINASI, Le Chiese di Calabria dal quinto al duodecimo secolo, Napoli 1896, pp.79-80.

Il decreto gelasiano sulla proibizione del sacerdozio femminile è richiamato in un documento dell’829 (cfr. inPL 97, 821-822; H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. p. 131).

31) R. GRYSON, Il ministero… cit. p. 195; J. GALOT, La donna… cit. p. 87.

32) La bibliografia sull’argomento è molto vasta. Oltre agli studi di Gryson (passim) e Galot (passim, spec. Pp. 22-46), cfr. quelli specifici di C. VAGAGGINI (L’ordinazione delle diaconesse nella tradizione greca e bizantina: Orientalia Christiana Periodica 4, 1974, 145-189) e G. FERRARI, Le diaconesse nella tradizione orientale: Oriente cristiano 14, 1974, pp. 28-50.

Solo in fase di ultima revisione del presente lavoro, ho potuto prendere visione del recente e documentato saggio di A. G. MARTIMORT (Les diaconesses. Essai historique, Roma 1982) che tende sostanzialmente a ridimensionare la presenza e il ruolo delle diaconesse nella Chiesa antica.

33) Adv. Haer. 1,13,2 (A. Rousseau-L. Doutreleau) SC 263,190-192 ; cfr. R. GRYSON, I misteri… cit. p. 44 ; J. GALOT, La donna… cit. pp. 67-69.

34) L’epistola è tramandata, tradotta in latino, nel corpus ciprianeo (Ep. 75,10: CSEL 3/II, 816-818); cfr. J. GALOT, La donna… cit. pp. 77-80.

35) Panarion 49,2,2-6 (K. Holl) GCS 31,242.

Per un quadro ampio delle testimonianze antiche sulle attribuzioni sacerdotali delle donne in ambiente montanista e colliridiano cfr. H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. pp. 66-70; R. GRYSON, I ministeri… cit. pp. 152-156; J. GALOT, La donna… cit. pp. 72-80.

36) Ep. 16,1-6: PL 54,695-702. l’uso orientale andava comunque diffondendosi anche in altre regioni dell’Occidente; cfr. M. RIGHETTI, Storia liturgica, IV, Milano 1959, pp. 91-93.

37) Ep. 14,10; Thiel 368. in caso di pericolo di vita per il battezzando, il battesimo naturalmente poteva essere amministrato in qualsiasi momento.

38) Cfr. G. GAY, l’Italia meridionale e l’impero bizantino dell’avvento di Basilio I ALLA RESA DI Bari ai Normanni (867-1071), Firenze 1917 (trad. it.) pp. 5-16; F. BURGARELLA, La Chiesa greca di Calabria in età bizantina (VI-VII secolo), in AA.VV, Testimonianze cristiane antiche ed altomedievali nella Sibaritide, Bari 1980, pp. 89-120; Q. CATAUDELLA, La cultura bizantina in Sicilia, in AA.VV, Storia della Sicilia, vol. IV, Palermo 1980, pp. 1-56.

39) CIL 10,8079; G. B. DE ROSSI in Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4; E. DIEHL, Inscriptiones Latinae Christianae Veteres 1192 (Dublin-Zürich 1970).

40) Cfr. A. Crispo,Antichità cristiane della Calabria prebizantina: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 14, 1945, 127-141; 209-210; A. FERRUA, Note su Troppa paleocristiana: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 23, 1955, 9-29. Sul Bruzio paleocristiano fondamentali sono i contributi di F. Russo (cfr. la bibliografia in F. RUSSO, Introduzione del cristianesimo nella Sibaritide, in AA.VV., Testimonianze cristiane… cit. pp. 5-21).

Recenti scavi effettuati dalla Soprintendenza alle Antichità di Reggio Calabria hanno portato alla luce nuovi reperti, attualmente allo studio.

41) In Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4:

42) Antichità cristiane… cit. p. 134.

43) Note su Troppa… cit. p. 11. Per Ferrua (ibidem) Leta fu probabilmente moglie del presbyter Monsens, ricordato in un altro epitaffio proveniente pure da Troppa (Diehl 1150).

44) Note su Troppa… cit. p. 25.

45) DIEHL 393.1130.1139Aa.1154.

46) 1163ab.

47) Cfr. il c. XX del concilio di Tours del 567: Nam si inventus fuerit presbiter cum sua presbiteria aut diaconus cum sua diaconissa aut subdiaconus cum sua subdiaconissa … (Concilia Galliae A. 511-A. 695 – C. DE CLERCQ – CCL 148A,184); c. XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo: Non licet presbytero post accepta benedictione in uno lecto cum presbytera dormire … (CCL 148A,268); GREG. M., Dial. 4,12: Qui (presbyter) ex tempore ordinis accepti presbyteram suam ut sororrem diligens... (U. MORICCA, Roma 1924, p. 243); Cod. Dipl. Long. A.724-725 (C. TROYA, Napoli 1853, vol. III, pp. 398-399); A.768 (Napoli 1855, vol. V, pp. 460-461).

48) Per la datazione cfr. A. DEGRASSI, I fasti consolari dell’impero romano dal 30 avanti Cristo al 613 dopo Cristo, Roma 1952, p. 89.

49) F. BULIĆ, Iscrizione inedita: Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 37, 1914, 107-111.

50) Cfr. P. TESTINI, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Bologna 1966, pp. 221-226; J. GUYON, La vente des tombes à travers l’epigraphie de la Rome chrétienne (III-VII siècles): les rôles des fossores, mansionarii praepositi et prétres: MEFRA 86, 1974, 549-596.

51) Probabilmente Teodosio aveva acquistato da Flavia Vitalia anche il sarcofago Bulié (Iscrizione inedita …cit. p. 110) fa riferimento solo all’acquisto del sarcofago; questo naturalmente non sposta i termini del problema che riguarda le funzioni della presbytera in questione.

52) Per l’evoluzione del fenomeno della vendita dei posti nei cimiteri cristiani comunitari cfr. J. GUYNON, La vente … cit.

53) In Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 21, 1898, 147, n. 2428 (F. Bulić); CIL 3,12900. Una presbiterissa è attestata in un’epigrafe proveniente da Ippona (Cfr4. “L’Année épigraphique” 1953, pp. 196-197, n.107).

54) Col termine conhospita si indicava una donna che conviveva con un uomo legato alla continenza: R. GRYSON, Il ministero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna … cit. p. 90.

55) In P. DE LABRIOLLE, Les sources de l’histoire du montanisme, Fribourg-Paris 1913, pp. 226-230 : Dominis beatissimis in Christo fratribus Lovocato et Catiherno presbyteris Licinius, Melanius et Eustochius episcopi. Viri venerabulas Sperati presbyteri relatione cognovimus, quod gestantes quasdam tabulas per diversorum civium capanas circumferre non desinatis, et missas ibidem adhibitis mulieribus in sacrificio divino, quas conhospitas nominastis, facere praesumatis; sic ut erogantibus vobis eucharistias illae vobis positis calices teneant et sanguinem Christi populo administrare praesumant.

Per l’individuazione delle diocesi dei tre vescovi cfr. R. GRYSON, Il mistero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna cit. p. 88.

56) Quicherat lo data V o VI secolo (CIL 13,1183 in nota), a Mommsen (ibidem) sembra multo recentior.

57) CIL 13,1183.

58) Inscriptiones … cit. 1191.

59) In CCL 148A,184 (vedi in apparato ad locum).

60) In CCL 148°,268. (vedi in apparato ad locum).

61) Di avviso completamente diverso è Van Der Meer per il quale “… il problema del sacerdozio della donna fino a poco tempo fa non è mai stato acutamente sentito” (Sacerdozio … cit. p. 141).

62) Ep. 8; PL 134,114: Igitur quod vestra prudentia consulere judicavit, quid in canonibus presbyteram, quidve diaconam intelligere debeamus: videtur nobis quoniam in primitiva Ecclesia, quia secundum Dominicam vocem: Messis multa, operarii pauci videbantur, ad adjumentum virorum etiam religiosae mulieres in sancta Ecclesia cultrices ordinabantur. Quod ostendit beatus Paulus in epistola ad Romanos, cum ait: Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris. Ubiintelligitur quia tunc non solum viri, sed etiam feminae praeerant Ecclesiis, magnae scilicet utilitatis causa. Nam mulieres diu paganorum ritibus assuetae, philosophicis etiam dogmatibus instructae, bene per has familiarius convertebantur, et de religionis cultu liberius edocebantur. Quod Loadicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitur: quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes, in Ecclesiis ordinari.

63) In C. J. HEFELE-H. LECLERCQ, Historie des conciles d’après les documents originaux,Paris 1907, vol. 1/II, p. 1003.

64) J. GALOT, La donna … cit. p. 80; cfr. R. GRYSON, Il ministero … cit. pp. 105-108; A. G. MARTIMORT, Les diaconesses … cit. pp. 102-103.

65) J. GALOT, La donna cit., pp. 82-83.

66) Ep. 8; PL 134-114: Diaconas vero talium credimus fuisse ministras. Nam diaconum ministrum dicimus, a quo derivatam diaconam perspicimus. Denique legimus in concilio Chalcedonensi, cap. 15 diaconam non ordinandam ante annum quadragesimum, et hanc cum summo libramine. Talibus etiam credimus baptizandi mulieres injunctum esse officium, ut absque ulla penitus verecondia aliarum corpora ab his tractarentur … Sicut enim hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, jubendi vel edocendi, ita sane diaconae ministrandi vel baptizandi officium sumpserant: quod nunc jam minime expedit.

67) Ep. 8; PL 134-115: Possumus quoque presbyteras vel diaconas illas existimare, quae presbyteris vel diaconis ante ordinationem conjugio copulatae sunt … Libentius tamen, charissime doctor, secundum superiorem sensum quae esplicata sunt accipimus, donec a vobis mereamur certius informari.

Nella Chiesa antica il termine presbutera poteva indicare anche una vedova o una donna anziana.

68) Per questa polemica cfr. G. FORNASARI, Celibato sacerdotale e “autocoscienza” ecclesiale. Per la storia della “Nicolaitica haeresis” nell’Occidente medievale, Trieste 1981.

69) Les diaconesses … cit. pp. 209-210.

70) E’ il caso del Lexicon imperfectum che alla voce presbytera, rimandando all’epistola di Attone, stranamente registra solo la seconda accezione conosciuta dal vescovo di Vercelli (Latinitatis Italicae Medii Aevi inde ab a. CDLXXVI usque ad a. MXXII Lexicon imperfectum, F. ARNALDI-M, TURRIANI, Bruxelles 1951-53, p. 573). Degli altri lessici, a quel che mi risulta, solo il Glossarium di Du Cange registra l’accezione preferita da Attone.

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