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Martedì, 09 Gennaio 2007 11:18

Un grande “campo-scuola”senza voti e senza giovani

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IL CONVEGNO DI VERONA

Un grande “campo-scuola”senza voti e senza giovani

In giro per Verona li riconosci dal cordoncino blu e arancione che regge il cartellino. I delegati al convegno ecclesiale - preti, religiosi, laici - non trascurano le bellezze della città. Anche se per poco tempo, lasciano i freddi ma funzionali spazi della Fiera e girano per piazza Bra e Castelvecchio. La mostra del Mantegna e la basilica di san Zeno.

Non sono però disinteressati a ciò che succede nelle aule di lavoro: molti di loro, in percorsi associativi, di movimento o parrocchiali, si sono preparati all’appuntamento già da tempo. Hanno partecipato ai cinque eventi nazionali che hanno preceduto i giorni di Verona, si sono confrontati in diocesi, hanno studiato la traccia introduttiva. Adesso ascoltano relazioni e omelie e si entusiasmano per l’intervento di Savino Pezzotta; poi, quando tocca a loro prendere la parola, dicono senza problemi quello che pensano, non lesinando le critiche. E chiedendo, come fanno quelli di Milano, che i lavori preparatori delle diocesi non finiscano archiviati, ma vengano tenuti in conto.

Il volto della Chiesa italiana, a giudicare dai numeri, dalla prevalenza di teste bianche e di colori scuri, appare forse un po’ vecchio e stanco. E con qualche timore nei confronti del laicato. Si è parlato molto della responsabilità dei laici e del loro protagonismo, ma poi poco meno di metà dei delegati, 1.252 su 2.700, sono laici. «Questo non rispetta la composizione della Chiesa popolo di Dio, dove i fedeli laici sono la maggioranza», sorride una delegata. E, per bilanciare un po’ la composizione dell’assemblea,

la Cei ha dovuto aggiungere una delegazione ad hoc di 40 giovani.

Un terzo delle ore di lavoro è dedicato ai trenta gruppi di studio, sei per ognuno dei cinque ambiti. «E’ qui che si vive maggiormente l’esperienza di Chiesa come popolo: seduti fianco a fianco, vescovi e laici, in fila per il proprio intervento, a confrontarsi», dice Ivan. Il problema. aggiunge Piergiorgio, è tradurre questo stile nella quotidianità. E «capire qui, e in generale nella Chiesa, qual è la natura della discussione: confronto su qualcosa di già dato dall’alto o spazio di discernimento comunitario per elaborare proposte nuove?». È nei gruppi di studio che quella che sembra un’assemblea compatta negli umori, mostra le differenze dei cammini formativi e delle varie sensibilità .

Diversamente dall’assemblea di Palermo qui non si vota, e quindi non si “corre il rischio” che qualche ambito bocci la sintesi dei lavori. D’altra parte c’è chi giura che in questi anni non c’è mai stata la tentazione di ridurre la pluralità delle espressioni, ma solo la volontà di arginare la frammentazione e di trovare un passo comune per camminare insieme.

Un passo faticoso che però va cercato «nella lotta alla corruzione, alla disoccupazione e alla criminalità organizzata. Sono temi», spiega Vincenzo, «che toccano così profondamente la vita delle persone, che il magistero dovrebbe quasi imporre l’impegno comune».

Si registra un po’ di paura delle differenze», fa eco uno degli invitati eppure, dice il teologo Severino Dianich, «quanto più nella Chiesa siamo uniti nella medesima fede in Gesù, tanto più possiamo permetterci il lusso di avere posizioni diverse. Solo da una dialettica anche vivace nasce qualcosa di nuovo». Il teologo fa riferimento alla preoccupazione che qualcuno manifesta sui possibili rischi di contrapposizione laicato-gerachia che potrebbero scaturire dalla nascita di un “Sinodo dei laici”, già richiesto a Palermo come luogo di discernimento comune, caduto nel dimenticatoio, e qui invocato a gran voce soprattutto nell’ambito cittadinanza”. «Se pensiamo a come gli interventi dell’episcopato sui problemi politici in questi ultimi anni abbiano creato tanti disagi, non solo negli ambienti laicisti anticlericali, ma dentro la stessa comunità ecclesiale, allora penso sarebbe utile avere un organismo leggero ma permanente e rappresentativo del laicato, con il quale i vescovi potrebbero consultarsi in particolar modo sui temi più politici», dice Dianich.

Le urgenze dei delegati sono tante: la questione del Sud e del suo sviluppo e quella del Nord e della perdita della qualità delle relazioni; il confronto con le altre culture e religioni; il tema dell’immigrazione; la cura dei malati; l’accoglienza dei divorziati risposati, dei preti sposati, degli omosessuali. Ma anche questioni più ‘tradizionali”, come la «qualità della formazione integrale della persona, senza separatezza tra l’essere cristiano e cittadino», spiegano Franco e Gabriella o, per dirla con Fabio, «l’educazione a una grammatica della cittadinanza, che manca spesso nelle stesse comunità ecclesiali». La base dei fedeli ha voglia di parlare, di confrontarsi sulle esperienze concrete, «per lasciare poi le scelte finali alle Chiese locali, che conoscono i bisogni e le risorse del territorio», aggiunge suor Ester.

I delegati applaudono il Papa in molti passaggi, ma poi qualcuno confessa la propria «delusione per l’ultima parte del discorso, che non ha messo all’ordine del giorno le questioni che investono realmente la vita delle persone. Sarà anche importante il tema della scuola cattolica, ma i dolori e le sofferenze della gente si misurano in altri ambiti che sono prioritari rispetto a questo discorso. Va benissimo parlare di postmoderno, ma per i poveri è più urgente sentire parole di speranza che toccano la loro esistenza».

Tra un padiglione e l’altro della fiera campeggiano i cartelloni con i volti dei sedici santi che

la Chiesa italiana propone come testimoni di speranza cristiana. Tra questi, il piemontese Gesualdo Nosengo che, come consulente del ministero della Pubblica istruzione, lavorò per una maggiore qualificazione della scuola statale e per l’istituzione di una scuola media obbligatoria per tutti; la romagnola Annalena Tonelli, assassinata in Somalia lo scorso anno, che da missionaria ha cercato di dialogare anche con le frange islamiche più estremiste; e il fiorentino Giorgio


La Pira, il politico che nell’assemblea Costituente lavorò sul rapporto Stato e Chiesa, sulla dignità della persona, e firmò l’articolo in base al quale l’Italia ripudia la guerra.

Proprio sulla guerra i delegati restano un po’ frustrati:: «La via della riconciliazione, del perdono, del servizio, della non- violenza sono segni di speranza che

la Chiesa italiana è chiamata a dare, ma che in questo convegno non sono emersi in alcun modo», dice don Fabio Corazzina, coordinatore di Pax Christi. «L’ordine del giorno, come diceva don Tonino Bello», sottolinea Domenico, «lo deve fare la società con i suoi problemi. E qui molti temi non sono stati affrontati».

Il cardinale Ruini finisce di parlare, i delegati sciamano via. Se ne vanno come sono arrivati, contenti come dopo un campo scuola. Promettono di incontrarsi di nuovo, si scambiano indirizzi e numeri di telefono. Alle loro spalle

la Fiera è vuota; la vela della barca, all’ingresso dei padiglioni, sta per essere smontata; le luci degli stand sono spente; gli ultimi che partono si scambiano altre impressioni. Di domande ne restano molte, ma una per tutte, serpeggiata già dai primi momenti tra i delegati al convegno, resta nella memoria. E’ scritta in rosso a lettere maiuscole su un grande striscione esposto allo stadio: poche parole che sintetizzano un pensiero comune: «Speranza..... Siamo noi giovani?».

Vittoria Prisciandaro

Annachiara Valle

Jesus/Novembre 2006

Letto 1760 volte Ultima modifica il Martedì, 13 Marzo 2007 01:57
Fabrizio Foti

Architetto
Area Mondo Oggi - Rubrica Ecclesiale