A 40 ANNI DALLA DICHIARAZIONE CONCILIARE “NOSTRA AETATE”: I PASSI AVANTI FATTI E I PROBLEMI ANCORA APERTI
SCRUTANDO IL MISTERO QUARANT'ANNI DOPO
Il documento del Vaticano II è una “Magna Charta” che ridefinisce i rapporti tra cristianesimo e altre religioni, in particolare l’ebraismo. Il dialogo ebraico-cristiano, i suoi primi passi e progressi, gli aspetti problematici legati all’asimmetria del rapporto, le sfide dal versante cattolico e da quello ebraico.
Quarant'anni sono un'età importante. In chiave biblica, è l'età della pienezza e della maturità: il che vale anche per i quarant'anni della Nostra aetate, la dichiarazione conciliare firmata il 28 ottobre 1965 su cui Settimana si è già soffermata, presentandone la collocazione storica e i contenuti.[1] Qui, perciò, rifletteremo piuttosto sugli effetti di quel testo «a un tempo modesto e profondamente innovatore»,[2] e sugli aspetti che – rispetto agli auspici dei padri conciliari – appaiono ancora aperti, sfuocati o disattesi, e sui tratti che dimostrano la necessità di esperire passaggi ulteriori, nello spirito del documento, ma per certi versi andando oltre lo stesso.
Ammettendo da subito che, per un reale bilancio, nel nostro caso un quarantennio è uno spazio ampio ma persino limitato, se ripensiamo a quale fosse lo standard dei rapporti fra ebrei e cristiani prima del Vaticano II: ma sarebbe ingeneroso negare che – finalmente – un iniziale tratto di cammino è stato realmente effettuato. Secondo molti studiosi, si tratterebbe senz'altro del tratto più arduo, perché compiuto dopo due millenni di assolute incomprensioni, condanne senza appello, persecuzioni vere e proprie. Una considerazione tanto più rilevante se conveniamo col card. Martini, secondo cui nel dialogo ebraico-cristiano la posta in gioco «non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge d'Abramo e delle conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa e addirittura per la sua stessa missione nel mondo d'oggi».[3]
Certo, Nostra aetate non affronta solo il panorama delle relazioni fra ebrei e cristiani, e non andrà dimenticato che il documento si presenta più propriamente come la Magna Charta – ancor meglio, la Legge-quadro – dei rapporti con tutte le religioni mondiali, che dichiara definitivamente conclusa la lunghissima stagione dell'extra ecclesiam nulla salus (cf. n. 2: «La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni», riferendosi all'islam, al buddismo, all'induismo e alle altre fedi presenti su scala planetaria).
Peraltro, anche un semplice sguardo sincronico e quantitativo alle cinque parti che compongono il testo ci rivela quanto pesi il quarto paragrafo, dedicato ad Israele, che da solo ne occupa quasi la metà. Persino il suo contenuto e l'incipit solenne («Scrutando accuratamente il mistero della chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe d'Abramo…») ne fanno una sorta di trattato a parte, che ne giustificano la centralità strategica da ogni punto di vista.
I passi avanti
«Abbiamo fatto esperienza di come sia possibile che persone di differenti religioni e culture vivano armoniosamente l'una accanto all'altra per anni, per secoli anche, ma poi accade qualcosa che rompe l'equilibrio e rende difficile recuperare fiducia e tornare a coabitare in pace. La conoscenza reciproca profonda è necessaria in società pluralistiche come le nostre per assicurare una pace duratura». Così mons. Michael Fitzgerald, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, aprendo il 25 settembre scorso alla pontificia università Gregoriana i lavori del convegno internazionale “Nostra aetate oggi”, organizzato dall'Istituto di studi su religioni e culture e dal Centro cardinal Bea per gli studi giudaici.
Per tentare di fare il punto sul dialogo ebraico-cristiano (meglio: cristiano-ebraico), innanzitutto, bisogna fare un passo indietro e sapere che il suo avvio reale risale ad appena una sessantina d'anni fa: in genere si adotta quale riferimento la conferenza internazionale del 1947 di Seelisberg, in Svizzera, dove i settanta convenuti (cattolici, protestanti ed ebrei) si riunirono per verificare la possibilità di una cooperazione nella lotta contro l'antisemitismo. Il documento conclusivo, ispirato da una proposta del funzionario dell'amministrazione francese Jules Isaac (che aveva perso l'intera famiglia nel lager di Auschwitz), detto I dieci punti di Seelisberg, eserciterà una vasta influenza sulla riapertura del cammino.
In precedenza non erano mancati esperimenti e pionieri, cristiani ed ebrei, sin dalla metà del XIX secolo, fra i quali nomi noti alla storia della cultura: sul versante cristiano, dal Léon Bloy autore del libro La salvezza dagli ebrei a Jacques Maritain, che pone al centro della sua visione del mondo Israele, l'ebraismo, il popolo ebraico; da Franz Rosenzweig con la sua Stella della redenzione allo stesso Martin Buber, sul versante ebraico.
È proprio a Seelisberg, peraltro, che esplode l'esigenza nuova di agire risolutamente affinché l'antisemitismo che aveva provocato la Shoà non sia più alimentato da influenze religiose cristiane. Accanto all'impegno di correggere definitivamente “l'insegnamento del disprezzo” (espressione, poi invalsa nell'uso, di Isaac), culminato nell'accusa di deicidio, affiorerà poi ben presto la coscienza dell'esistenza di un legame speciale delle chiese con l'ebraismo.
Da allora, il percorso fatto non è stato irrilevante. Da parte delle gerarchie, con la cancellazione della preghiera del venerdì santo pro perfidis iudaeis, operata da Giovanni XXIII nel 1959, e lo storico abbraccio tra Karol Wojtyla e rav Elio Toaff nel 1986 nel tempio maggiore a Roma, la promozione di ben 18 incontri del Comitato di collegamento cattolico-ebraico (1970-2004) e l'attesa apertura di relazioni diplomatiche tra lo stato d'Israele e la Santa Sede (1993), ma anche con una lunga serie di documenti di episcopati nazionali, chiese evangeliche, comunità locali. Da parte di ambienti specifici particolarmente sensibili, come (per limitarci al versante italiano) le varie Amicizie ebraico-cristiane e i Colloqui di Camaldoli, il SIDIC e il Centro card. Bea, riviste come SeFeR e QOL, gli appuntamenti del SAE e del Gruppo milanese Teshuvà…
Un evento rilevante riguarda poi l'intuizione dei vescovi italiani che dal 1990, in perfetta sintonia col dettato di Nostra aetate, proposero alle chiese locali di vivere una “Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano”, il 17 gennaio di ogni anno. La scelta della data non fu casuale: la ricorrenza, infatti, si situa immediatamente prima della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), con la doppia, evidente intenzione di sottolineare la priorità dell’incontro con Israele, radice santa della nostra fede, rispetto a qualsiasi pur apprezzabile sforzo ecumenico e, nel contempo, l’impossibilità che quest’ultimo possa produrre risultati concreti di un certo livello senza un rinnovato invito a porsi appunto alla scuola di Israele. Su tutti i piani, come si augurava qualche anno fa la Commissione diocesana per l’ecumenismo e il dialogo di Milano: «Il rapporto cristiano-ebraico, impostato su basi nuove dal concilio Vaticano II, non deve più essere un impegno solo di vertice nella chiesa, di alcuni gruppi o movimenti, ma deve diventare coscienza ecclesiale di base».
I problemi del dialogo
Credo sia necessario confessare che siamo tuttavia ancora dell'abc del dialogo. E quindi annotare con onestà, come – oltre ai problemi cronici irrisolti – da qualche tempo il dialogo cristiano-ebraico si stia facendo particolarmente faticoso, e la stessa Giornata del dialogo meno sentita dalle comunità locali. Stanchezza, ripetitività, illusione di avere già rapidamente raggiunto la meta prefissa, ma anche – mi parrebbe – un investimento troppo timido nella pastorale ordinaria delle parrocchie, nella prassi dei movimenti e nei curricoli degli studi teologici.
Per di più, dobbiamo sempre ricordare che sono anni, questi, assai delicati per il numericamente esiguo mondo ebraico (italiano, ma non solo): il quale, anche per quanto sta accadendo su scala internazionale, dai fragili equilibri del Medio Oriente agli insensati appelli ad uno scontro di civiltà, dagli esiti sciagurati della guerra in Iraq alle recenti dichiarazioni del nuovo leader iraniano Ahmadinejad – con conseguente invito a cancellare dalla carta geografica lo stato israeliano (!) –, da un lato, sta conoscendo una certa chiusura identitaria mentre, dall'altro, intravede lo spettro del riemergere di un antisemitismo mai del tutto sopito in Europa. Cito ad esempio il sondaggio dell’Unione Europea del 2003 su quale sarebbe il paese che mette più a rischio la pace nel mondo (in cui stravinse Israele), o l’inchiesta statistica presentata da Renato Mannheimer sul Corriere della Sera un paio d'anni fa, secondo cui l’antisemitismo sfiorerebbe un italiano su cinque, mentre chi apprezza lo stato ebraico raggiungerebbe appena il 42% dei nostri connazionali. Risultati che, una volta di più, rimandano alla necessità di un investimento serio in chiave di formazione e di educazione, a scuola ma non solo: per uscire da stereotipi stantii, da pregiudizi tanto inveterati quanto ancora dominanti in troppa pubblicistica e in troppo sentire comune. Non sarà facile e, al proposito, il ruolo della chiesa cattolica, per il peso di un antigiudaismo storico, non può essere davvero sottovalutato.[4]
È sempre un’arte complicata, quella del dialogo, un chiarirsi reciproco che si paga a caro prezzo, perché comporta la capacità di ascoltare e la convinzione autentica che anche nell’altro da sé alberghi almeno una porzione, una scintilla di verità: ma oggi lo è più del solito, ad ogni livello; oggi che le carte d’identità si vanno frantumando, per un verso, e le frontiere fra il dentro e il fuori si fanno impalpabili, mentre si impongono certezze identitarie chiuse, integraliste, quasi tribali. Ma con l'ebraismo la questione è ancor più complessa, e si pone – come coglieva lo stesso Giovanni Paolo II nel 1979, in uno storico discorso a Mainz – al livello dell'identità della chiesa, della sua autocoscienza profonda. Non è agevole neppure sul piano psicologico, da parte del popolo cristiano, accettare di essere figlio di uno scisma, di una frattura originaria – quella, appunto, con Israele – che non è stata ancora ricucita.
Un testimone attento delle relazioni cristiano-ebraiche come Paolo De Benedetti, docente di giudaismo alla Facoltà teologica dell'Italia settentrionale a Milano, mette in guardia (non senza ottime ragioni) contro un uso poco accorto della parola “dialogo”: «Dei valori umani, della giustizia? Spesso si dice che ebrei e cristiani devono parlare di questo; ma di questo si parla con tutti gli uomini. Il dialogo non sarà una di quelle parole da mettere nel dizionario delle parole morte o che meritano di morire, che noi usiamo come segnaposti e che ci vanno bene purché non ci guardiamo dentro? Un dialogo cristiano-ebraico è necessario: ma è il dialogo della chiesa con se stessa al cospetto di Israele…».[5]
Per cogliere le contraddizioni in atto basterebbe accennare ad un paio di temi essenziali tuttora scarsamente considerati dalla coscienza cristiana, le ripercussioni – anche sul piano teologico – della Shoà e il significato unico e cruciale che per il mondo ebraico ha la terra d'Israele. Oppure tornare al 2000, quando – nel contesto del Grande Giubileo – accanto alla richiesta da parte di papa Wojtyla di perdono per i peccati commessi da non pochi cristiani contro il popolo dell'alleanza e al suo riuscito viaggio a Gerusalemme, furono registrate altresì alcune significative pietre d'inciampo: con le proteste ebraiche per la beatificazione di Pio IX (il caso del battesimo forzato del bambino ebreo Mortara!), le mai sopite discussioni sui silenzi di Pio XII sulla Shoà, la problematica assenza di riferimenti ad Israele della Dominus Iesus e la relativa, amara cancellazione della già prevista liturgia dedicata alle relazioni cristiano-ebraiche nel quadro dell'Anno Santo. Episodi che, abbinati ad altri trascinati a lungo (per fare un esempio, il caso del convento delle carmelitane ad Auschwitz), se non potrebbero in alcun modo cambiare di segno la direttrice maestra del dialogo, invitano a non abbassare la guardia, a non dare alcun esito come definitivamente scontato.
Un rapporto asimmetrico
Un contesto che va tenuto presente, nel rileggere le preziose e franche considerazioni su “Percorsi fatti e questioni aperte nei rapporti ebraico-cristiani oggi” del rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, tracciate il 19 ottobre 2004 alla pontificia università Gregoriana.
Secondo Di Segni, se qualcuno ritiene ingiustificata o ingenerosa la riluttanza di molti ambienti rabbinici ad alcune forme di apertura dei cristiani e si meraviglia della lentezza delle loro reazioni, non si rende conto della caratteristica fondamentale che distingue il rapporto ebraico-cristiano. Non è un rapporto tra uguali, né un rapporto simmetrico; come non è simmetrico il rapporto tra figlio e padre, tra chi è grande numericamente e chi è piccolo, tra chi per secoli ha dominato e chi è stato, nella migliore delle ipotesi, appena tollerato; e soprattutto per l’essenza stessa delle due fedi. Per il cristiano, infatti, è impossibile una fede che non sia radicata in quella originaria di Israele, ma nella quale si manifesta l’incarnazione; per l’ebraismo quell’incarnazione è negazione della fede originaria. Per il cristiano l’incontro con l’ebraismo è la riscoperta delle radici della sua fede; per l’ebreo l’incontro con il cristianesimo è quello della diversità inserita nelle sue radici. Teologicamente il cristiano non può fare a meno di Israele; l’ebreo, nella sua fede, deve fare a meno di Cristo se non vuole negarla.
È proprio a causa di questa fondamentale asimmetria teologica, e di tutte le conseguenze che ha determinato nel corso della storia – proseguiva il rabbino – che il rapporto ebraico-cristiano, come si è sviluppato a partire dal Vaticano II, è stato, salvo poche eccezioni, un grande processo promosso in prima persona dalle chiese cristiane, che ha visto le varie componenti dell’ebraismo ora scettiche, ora riluttanti, ora collaboranti con entusiasmo; ma quasi sempre nel ruolo dell’invitato.
Particolarmente significativo – e a mio parere ancora poco noto – è del resto il fatto che siano già parecchi gli studiosi ebrei ad essersi interessati all'ebraismo di Gesù, concentrandovisi come argomento ineliminabile del dialogo: a partire dal già citato Jules Isaac, che con il suo pionieristico Gesù e Israele proprio negli anni di Auschwitz assolse il compito catartico di denunciare i pregiudizi cristiani antiebraici su Gesù, per proseguire coi vari Aron, Ben Chorin, Lapide, Flusser e Vermès. Mentre Martin Buber è giunto ad aprire nuovi orizzonti di riflessione, arrivando ad ammettere: «Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello… Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero».[6]
Sull'argomento, non mancano oggi le sorprese, e le posizioni, scarsamente valorizzate, che sarebbero in grado di aprire orizzonti inattesi. È il caso, ad esempio, di un intellettuale ebreo di primo piano, l'esegeta francese Armand Abécassis, docente di filosofia comparata presso l'università Michel-de-Montaigne di Bordeaux,[7] secondo il quale, il ritorno alla figura di Gesù sarebbe in grado di promuovere reali progressi nel cammino del dialogo.
«Io credo che ci siano condizioni favorevoli – ha ammesso in occasione di una recente intervista, durante una tournée canadese – per avviare un vero dialogo ebraico-cristiano, improntato alla franchezza. Non un equivoco sincretismo, non un'esposizione di lagnanze e di colpe, non un richiamo a valori che potrebbero essere arcaici e superati, ma un sincero sforzo per comprendere ciò che separa ebrei e cristiani e ciò che realmente li unisce. La riscoperta comune della vita di Gesù potrebbe favorire l'avvicinamento tra gli appartenenti alle due religioni».[8]
I limiti della dignità altrui
Stando ad Abécassis, nonostante esse siano sempre necessarie, sarebbe ormai tempo di andare oltre le Amicizie ebraico-cristiane: «In Europa, i gruppi di Amicizie ebraico-cristiane sono in crisi. Al di là del dialogo convenzionale, bisogna che gli ebrei e i cristiani si siedano intorno allo stesso tavolo per studiare insieme i testi della Torà e dei vangeli. Tale arduo lavoro è già iniziato in molti paesi europei, specialmente in Francia, in Svizzera e in Belgio. Io stesso partecipo a seminari di studio sia dei rabbini che studiano i vangeli che di sacerdoti cattolici e protestanti i quali, padroneggiando perfettamente l'ebraico e l'aramaico, studiano gli scritti della Torà. Senza rimettere in discussione il cristianesimo, questi esegeti non ebrei purificano così la loro fede dalle inesattezze antisemite divulgate dalla chiesa durante i secoli. Al giorno d'oggi, solo lo studio comune delle scritture sante care alle due tradizioni potrà permettere al cristianesimo e all'ebraismo di unire i loro sforzi per risolvere le divergenze teologiche che li contrappongono da gran tempo».
E ancora, per lo studioso bisognerebbe che i cristiani comprendessero che esistono due Gesù, Gesù l'ebreo e Gesù il Cristo: una distinzione fondamentale per cogliere la natura del contenzioso che oppone, sul piano teologico, il cristianesimo all'ebraismo («Il Gesù ebreo turba il cristiano perché è un concetto che sconvolge completamente la sua convinzione»).
Secondo Abécassis, per avvicinarsi ai cristiani, è inoltre imperativo che gli ebrei ricostruiscano un pensiero ebraico sul cristianesimo: sarebbe assolutamente necessario che gli ebrei si impegnassero meglio a conoscere la spiritualità cristiana, «una spiritualità nobilissima che predica l'amore e la fraternità». Lo studio della spiritualità cristiana permetterà agli ebrei di distinguere gli aspetti della tradizione cattolica che possono, o non possono, essere accettati dalla tradizione ebraica. Ad esempio, quando un ebreo legge i vangeli, scopre che questi testi celano una morale straordinaria… e tutto ciò che Gesù dice è perfettamente valido da un punto di vista talmudico. Egli affronta temi che rivestono un ruolo centrale nella tradizione religiosa ebraica: l'amore, la giustizia, il prendersi cura dell'altro...
In conclusione, credo vada ripetuto senza stancarci e con estrema nettezza: mancando un riferimento alla radice d’Israele, i cristiani rischiano di trovarsi come il sale che ha perso il proprio sapore (Mt 5,13). Una radice che, però, non è solo residuo del passato, ma protagonista del presente proiettata sul futuro. Ancora Giovanni Paolo II, il 6 marzo del 1982: «Cristiani ed ebrei, pur non identificandosi, non si escludono né si oppongono, ma sono legati al livello stesso della loro identità».
Forse, la via migliore per tornare a quella radice e per riacquistare il sapore smarrito è quella di percorrere, col dovuto rispetto, il cammino dell’incontro, ancora più che del dialogo (esigenza certo più cristiana che ebraica per la citata asimmetria del dialogo), prendendo le mosse proprio da rabbi Yehoshua da Nazaret, ebreo in tutto e per tutto e, in quanto tale, avvicinabile sia dagli ebrei sia dai cristiani, ciascuno secondo la propria strada, e ciascuno conservando la propria specificità. La via di un simile incontro potrebbe passare, paradossalmente ma non troppo, attraverso Gesù, poiché egli «rimanda l’ebreo al suo ebraismo e la reazione ebraica verso Gesù può, è sperabile, aiutare il cristiano nella sua cristiana intelligenza di se stesso» (D. Flusser). Del resto, «un dialogo è maturo – come ha scritto Massimo Giuliani, in un articolo prezioso – quando tiene conto degli squilibri storici, delle asimmetrie psicologiche e delle conflittualità teologiche senza farsene travolgere; ma è maturo anche quando vigila costantemente sul proprio linguaggio e sta attento a non trasgredire i limiti della dignità altrui».[9] Da questo punto di vista, è innegabile che la delicata pianticella del dialogo abbia ancora bisogno di molta acqua e di molta cura, per offrire frutti finalmente saporiti.
Brunetto Salvarani
Settimana dicembre 2005 n. 44
NOTE
[1] Cf. in particolare Valentini D., «La svolta della “Nostra aetate”», in Sett. n. 39/05, p. 13.
[2] De Goedt M., articolo su La Croix (12/8/1989), p. 2.
[3] Martini C.M., “Ebrei e cristiani di fronte alla sfida del nostro tempo”, in Nuova Umanità n. 37 (1985), p. 51.
[4] Per un quadro storico del problema, cf. L. Buccheri, “Le radici antiche di un male moderno”, in Sett. n. 45/03, p. 3.
[5] De Benedetti P., “Un balbettio necessario”, in QOL nn. 40-41 (1991), p. 26.
[6] Cit. in S. Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985, p. 27.
[7] Autore di molti saggi su ebraismo e cristianesimo – tra cui La Pensée juive, un imponente studio in quattro volumi (Hachette-Biblio-essais, 1996), e En vérité je vous le dis - Une lecture juive des Évangiles (Hachette, 1999) –, questo commentatore di provata esperienza sui testi del Primo e del Nuovo Testamento ha pubblicato da poco un saggio provocatorio che ha suscitato varie reazioni, Judas et Jésus, une liaison dangereuse, opera di grande erudizione che riabilita l'apostolo Giuda, maledetto dalla chiesa per due millenni.
[8] Levy E., “Intervista ad A. Abècasissis”, in La Presse (30/12/2001).
[9] Giuliani M., “Ebrei e cristiani, un dialogo che rispetti le differenze”, in Vita e Pensiero n. 2 (2005), p. 101.