Lo scorso decennio una valanga di critiche si è abbattuta sull’aziendalizzazione dell’università, soprattutto per l’interferenza delle multinazionali sulla ricerca, il ridimensionamento del potere di amministrativi e corpo docente e la precarizzazione del lavoro accademico. Poca attenzione è stata invece rivolta all’indebitamento degli studenti, la cui media nel 2002 era di 18.900 dollari a testa, una cifra raddoppiata rispetto ai 9.000 dollari del 1992. Se a ciò si aggiunge l’indebitamento da carta di credito [3000 dollari nel 2002, per un totale di circa 22.000 dollari], possiamo supporre che il debito medio degli studenti abbia oggi oltrepassato i 30.000 dollari, senza considerare altri prestiti privati o i debiti contratti dai genitori, o i «mutui post-laurea», più che raddoppiati in sette anni.
I prestiti per gli studenti sono un’invenzione relativamente nuova. È del 1965 il programma Guaranteed Student Loan [Gsl], nato come sostegno agli studenti meno abbienti e agli studenti lavoratori. Dal 1965 al 1978 il programma ha avuto un’entità modesta, con 12 miliardi di dollari [meno di un miliardo l’anno]. Negli anni novanta è invece cresciuto in modo spropositato [prima 15 e poi 20 miliardi l’anno], raggiungendo oggi i 50 miliardi l’anno, ovvero il 59 per cento degli aiuti all’istruzione superiore forniti dal governo federale, superando tutti i sussidi e le borse di studio.
Il motivo di una tale crescita è l’aumento delle tasse universitarie — dai community college alle Ivy League — in una percentuale tre volte maggiore dell’inflazione. Impossibilitati a far fronte ai pesanti rincari, studenti e famiglie sono ricorsi ai mutui: ipotecare la casa per pagare il college è diventata pratica comune. Il prezzo da pagare per il college, nonostante sia di difficile misurazione, è tra le principali cause del crescente indebitamento delle famiglie americane medie.
Gli studenti un tempo dicevano «mi sto facendo strada grazie al college». Oggi è impossibile. Se negli anni Sessanta uno studente poteva lavorare a salario minimo per 15 ore a settimana nel corso dell’anno accademico e 40 in estate per pagarsi un’università pubblica, in un ateneo privato avrebbe dovuto lavorare per 20 ore a settimana durante l’anno. Oggi dovrebbe lavorare 52 ore a settimana in un’università pubblica e 136 ore la settimana in una privata. Da qui la necessità del ricorso ai mutui. Le tasse universitarie sono aumentate perché i singoli stati ricevono sempre meno fondi federali per l’istruzione. Nel 1980 ogni Stato rimborsava quasi la metà delle tasse universitarie, nel 2000 solo il 32 per cento. Le università hanno cercato fonti alternative: «trasferimenti tecnologici», forme di «partenariato» con le imprese e campagne di raccolta fondi. Ma il modo più stabile, rinnovato ogni autunno come il raccolto, passa attraverso le tasse.
Così facendo i costi sono stati trasferiti dallo Stato ai singoli studenti e ai loro genitori, stravolgendo l’idea di istruzione superiore, da compito pubblico a servizio privato. Nel dopoguerra, secondo l’idea sviluppata da James Bryant Conant, presidente di Harvard, l’università era concepita come un’istituzione meritocratica, che non provvedeva semplicemente a dare ai suoi studenti un’opportunità, ma traeva vantaggio dai migliori e dagli eccellenti per costruire l’America.
In questo quadro le tasse sono rimaste basse e le porte dell’università si sono aperte a classi prima escluse. L’ho chiamata «università dello stato sociale», perché esemplifica le politiche e l’etica dello stato sociale del dopoguerra. Oggi, invece, l’università è un servizio privato: i cittadini ne pagano una parte considerevole dei costi. Questa è l’università del «post-stato sociale», che applica le politiche e l’etica della «rivoluzione reaganiana» attraverso la «riforma Clinton», fino all’odierno smantellamento dei servizi sociali. Il principio è che i cittadini pagano i servizi pubblici, che a loro volta vengono privatizzati. Il ruolo dello Stato diventa quello di oliare le ruote del mercato sovvenzionando i cittadini affinché vi partecipino e le imprese affinché provvedano ai servizi sociali. I mutui seguono la logica del post-Stato sociale perché riconfigurano il finanziamento degli studi universitari non come diritto ma come un’auto-sovvenzione: dunque, come un servizio privatizzato, amministrato da mega-banche come Citybank, o da istituti federali di credito non profit come Sallie Mae e Nellie Mae. Lo Stato incoraggia la partecipazione al mercato dell’istruzione superiore finanziando gli interessi, come nel caso di un prestito per l’avvio di un’impresa. Per il resto, bisogna cavarsela da soli.
Si tratta di un capovolgimento dell’idea di istruzione superiore, da bene sociale a bene individuale. Nel dopoguerra l’istruzione superiore era concepita come impegno nazionale. In parte era il retaggio dell’etica di guerra, in parte l’eredità del New Deal, in parte una risposta alla guerra fredda. Adottava un socialismo modificato come un vaccino per rimanerne immune. L’orizzonte era il valore dell’individuo, ma il bene comune rappresentava lo scopo unificante: produrre ingegneri, scienziati e umanisti per far crescere il paese. Oggi l’istruzione superiore è quasi totalmente un bene individuale, per ottenere un lavoro e una paga migliore, Chi frequenta l’università è un individuo atomizzato che fa una scelta personale nel mercato dell’istruzione per ottimizzare il suo potenziale economico.
È un modello fondato su una concezione della società non come cooperazione sociale, ma come mercato concorrenziale che definisce bene comune ciò che apre un mercato redditizio. I prestiti sono un investimento personale sul potenziale di mercato di una persona piuttosto che un investimento pubblico sul suo potenziale sociale. Come negli affari, ogni individuo è depositano di capitale umano, e l’istruzione superiore produce plusvalore.
Ciò rovescia l’idea di istruzione superiore: dall’esonero all’arruolamento dei giovani nel mercato del lavoro, mutando radicalmente la visione del futuro. Tradizionalmente l’idea di istruzione si fondava sull’aspettativa sociale che i giovani sviluppassero i propri interessi e le proprie attitudini per diventare buoni cittadini, con un vantaggio per l’intera società. La società pagava in anticipo l’istruzione primaria e secondaria e, nell’era industriale, anche l’università, secondo un ragionamento che teneva insieme ideali di cittadinanza e scopi utilitaristici.
L’idea classica di università americana di Thomas Jefferson legava la partecipazione democratica alla formazione ai principi democratici, perciò la formazione era un obbligo della democrazia, secondo Il principio del suffragio: come non si paga una tassa elettorale per votare, non si dovrebbe neanche pagare per diventare un cittadino istruito. Secondo l’idea utilitarista di Charles Eliot Norton [della fine del diciannovesimo secolo] e di James Conant [della metà del ventesimo], la società avrebbe dovuto offrire la formazione necessaria a un mondo industrialmente e tecnologicamente sofisticato.
Seguendo un obiettivo ai contempo ideale e utilitario, l’università dello stato sociale ha imposto tasse ridotte e favorito l’espansione del corpo accademico, proponendosi come fondamento per una forte cultura civica. Il nuovo paradigma dei fondi, invece, rende i giovani non un gruppo speciale da esonerare e proteggere dal mercato, ma un obiettivo per l’estrazione di lavoro sia tramite la misurazione delle ore di formazione sia, per mezzo dei mutui, tramite il lavoro futuro. Essere studenti diventa condizione lavorativa anziché sociale, il debito un’ipoteca sulle aspettative sociali.