Sono uno dei pochissimi stranieri non giornalisti che ebbero l'occasione di assistere allo sbarco dei marines a Mogadiscio nel dicembre 1992, primo esempio di intervento militare "umanitario". L'impressionante messa in scena faceva sorridere alcuni vecchi somali, che in perfetto italiano dicevano: «Se credono di risolvere il problema della Somalia con il pugno di ferro, s'accorgeranno che il pugno cade sopra una pozza d'acqua. Ci saranno spruzzi, ma quando se ne andranno tutto tornerà come prima».
Sono passati più di 17 anni. Gli eserciti, compreso quello italiano, si sono succeduti agli eserciti. Ci sono state influenze esterne che hanno appoggiato l'uno o l'altro dei clan che tentavano e tentano di spartirsi il potere. Ci sono state 15 (!) conferenze di pace, l'intervento militare dell'Etiopia (col placet degli Usa) a sostegno di un governo provvisorio, la presenza delle truppe Onu (burundesi e ugandesi) dell'Amisom. Ma gli “spruzzi” sollevati dal pugno militare non hanno risolto nulla, né hanno fermato la contabilità delle decine di migliaia di morti, di milioni di sfollati e rifugiati, il triste primato di un paese che non ha rivali nel nostro tempo per durata di anarchia.
Che si sappia, nessun europeo è oggi presente in Somalia "il peggior posto al mondo", secondo la definizione delle Nazioni Unite. Sarebbe facile preda di rapitori. Le ong che riescono a fatica a lavorare lo fanno con personale somalo, e anche fra questi non manca chi viene rapito o ucciso. Accade anche agli operatori locali di Caritas Somalia, che riesce ancora a gestire alcuni progetti, in modo quasi catacombale: una scuola a Mogadiscio, un centro medico a Baidoa, un dispensario che aprirà a Chisimaio
Impotenza o complicità?
Ora tocca ai pirati attivi lungo le coste dell’Oceano Indiano, nella regione del Puntland, ricordare al mondo che la Somalia esiste. Forte è la tentazione, forse legittima dal punto di vista del diritto internazionale, di usare per l'ennesima volta il pugno di ferro. L’esperienza, dunque, non insegna. Che c'è di strano se insicurezza e violenza regnano, e si fanno più creative, dove manca un'autorità costituita? Non c'è piuttosto da chiedersi perché la comunità internazionale non riesce a far luce e a mettere ordine in quel buco nero? Non sarà che sfruttarlo conviene un po' a tutti? Ai terroristi per fame una base, ai traffici illegali per farne una di altro genere?
Notizie e mezze notizie, non sempre distinguibili, dicono di rifiuti seppelliti nella regione tra Garoe e Bosaso, di container di rifiuti tossici scaricati in mare. Nick Nuttall, portavoce del Programma Onu per l'ambiente, parla di presenza di "uranio, materiali radioattivi, piombo, cadmio, mercurio e scorie chimiche" (Internazionale, 24 Aprile 2009).
Anche in passato si sono trovate tracce di commerci assai discutibili in partenza dai paesi sviluppati. Provarli è difficile. E indubbiamente molti capi somali hanno le loro responsabilità riguardo alla situazione attuale del paese. Ma se la comunità internazionale non riesce a dare una svolta, o è indifferente, o è impotente. Il nuovo presidente Sheik Sharif ha ottenuto la promessa di aiuti per 213 milioni di dollari nella Conferenza internazionale di Bruxelles del 23 aprile. È un segno positivo (anche se i radicali islamici sono tornati ad avanzare nel centro e sud del paese, e le truppe etiopi si preparano a intervenire di nuovo), se di quei soldi si farà uso trasparente e monitorato. Altrimenti, dopo 17 anni, non sarà più un problema di impotenza o indifferenza. Ma di complicità