La chiesa è un portone aperto sulla strasa, ama ripetere padre Carlo, e chi passa ha il diritto di entrare. Se no, aggiunge, serve gli idoli, non le persone. Una massima che nei suoi trentuno anni da prete ha applicato alla lettera. E che continua ad applicare, nonostante tutto. A cinquantasei anni, non si cambia tanto facilmente.
Da venti anni padre Carlo si occupa della parrocchia di Bosco Minniti, nella periferia di Siracusa. L’edificio è degli anni settanta. Insieme al quartiere, di quelli che di che vengono chiamati «difficili». Ma che a padre Carlo le etichette stiano strette lo si capisce subito, basta vederlo muoversi tra i suoi «ragazzi» in maglione e pantaloni di velluto. O mentre approfitta di una chiacchierata per fumare di nascosto sigarette che la sua salute altalenante non gli consentirebbe. La sua chiesa, Santa Maria Madre della Chiesa, rispecchia le sue idee. Sulle colonne sono appuntati alcuni batik, disegni africani, preghiere di pace e i messaggi di solidarietà che ha ricevuto mentre era agli arresti domiciliari. Tra il 9 febbraio e il 17 marzo padre Carlo è stato confinato nel suo appartamento, che da tempo ha scelto di condividere con richiedenti asilo provenienti da molti paesi del mondo, a lato della chiesa. Per arrivare nell’appartamento si sale al primo e unico piano. C’è una stanza con maschere africane sui muri. A destra, una camera dai muri azzurri ospita dieci letti: vi dormono i migranti che vivono qui da un po’. C’è un’altra stanza con i tavoli dove si mangia quando gli ospiti della parrocchia sono pochi. A volte si guarda la televisione. Dall’altro lato, la cucina, e sul fuoco un grande pentolone, spaghetti per cinquanta persone. In fondo al corridoio, uno stanzino con la fotocopiatrice e la stanza di padre Carlo. Quella dove ogni giorno fa il riposino pomeridiano prima della messa delle cinque e mezza.
Al piano di sotto, i locali della parrocchia, l’ufficio del parroco dove si riuniscono i volontari, la stanza dove vengono riposti i materassi che ogni sera vengono sistemati in chiesa. Bosco Minniti funziona come un dormitorio pubblico, servizio che a Siracusa manca.
Dopo anni a fianco dei migranti, padre Carlo è stato un bel giorno accusato di «associazione finalizzata al favoreggiamento della permanenza degli stranieri nel territorio e delitti di falso, al fine di fare ottenere a cittadini extracomunitari permessi di soggiorno per asilo politico e lo status di rifugiato», spiegano le avvocate Sofia Amoddio e Marzia Capodieci. Viene contestato l’aver firmato «attestazioni di ospitalità» che consentivano agli stranieri di fare domanda di asilo, documenti ritenuti falsi dal magistrato perché gli intestatari non risiedevano stabilmente nella chiesa. Il movente, secondo il sostituto procuratore Luigi Lombardo e il procuratore capo di Catania Vincenzo D’Agata sarebbe la ricerca del «prestigio sociale» che darebbe l’essere difensore degli ultimi. Il teorema messo a punto da Lombardo e sposato da D’Agata ha prodotto i suoi frutti dopo l’arresto, in Campania, di un nigeriano coinvolto nello sfruttamento della prostituzione, che aveva in tasca un’«attestazione di ospitalità» firmata da padre Carlo.
L’accusa si è basata poi quasi interamente su intercettazioni ambientali. Secondo D’Agata, il sacerdote «non poteva non sapere che dietro c’era qualcosa per l’elevato numero di permessi siglati». E poco importa se anche il centro Astalli o la comunità di Sant’Egidio firmano a loro volta attestazioni di ospitalità, o se, come ricorda Carlo, perfino il dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del ministero degli interni ha più volte assicurato che era lecito fornire un indirizzo a chi percorre la rotta del lavoro stagionale per tutto l’anno.
Alla rabbia e allo stupore per la violenza degli attacchi, in padre Carlo si è piano piano sostituito un senso di forza grazie alla solidarietà. Anche se la consapevolezza di essere un po’ scomodo e malvoluto da chi conta, padre Carlo l’ha sempre avuta ben chiara. Ora aspetta il processo, e che «tutto si chiarisca ». In un esposto alla procura di Siracusa, depositato l’8 febbraio, padre Carlo scrive infatti: «Continuo a ricevere, da parte dell’Ufficio stranieri della questura di Siracusa, nella persona del dirigente dottore Calafiore, comunicazioni che si configurano come un atteggiamento vessatorio e persecutorio nei confronti delle persone di provenienza extracomunitaria che nella parrocchia […] trovano un punto di riferimento per essere accolte e accompagnate dal punto di vista civico, morale, sanitario, giuridico e legale». La questura di Siracusa non ha voluto replicare.
Alfonso Di Stefano, della rete antirazzista catanese, conosce padre Carlo dal Duemila: «L’ho incontrato durante il processo per il naufragio della nave fantasma del Natale 1996 e fui colpito dal suo grande senso dell’ospitalità nei confronti dei migranti. Abbiamo denunciato insieme la questione dei lavoratori stagionali e del caporalato a Cassibile», località in provincia di Siracusa che è una specie di Rosarno siciliana. Secondo Alfonso la vicenda giudiziaria che ha coinvolto padre Carlo è una «grave provocazione. Il Gip non ha esitato a dire che lui era a capo di un’organizzazione criminale. Si è insinuato che facesse proprio quel che combatte. Per fortuna le accuse si sono sgonfiate, ma non basta. Bisogna risalire ai mandanti. Stanno cercando di sbarazzarsi di una parrocchia scomoda». Rimangono nel frattempo agli arresti domiciliari il collaboratore del sacerdote, Antonio di Carlo, l’avvocato della parrocchia, Aldo Valtimora, nonché due nigeriani e due nigeriane che al momento non sono reperibili.
Però a Bosco Minniti ci sono ora una cinquantina di persone da sfamare e una trentina da ospitare. Come sempre, alla sera, si montano i tavoli, ricoperti da tovaglie di tela cerata, su cui si servono abbondanti piatti di pasta. Oggi sono in circa ottocento, ad avere l’indirizzo della parrocchia, ma negli anni ci sono passati in più di quindicimila. È nel 1988 che la strada di padre Carlo incrocia quella dei migranti, quando viene a sapere dell’arrivo ad Augusta di due vietnamiti, Lei e Kong, ricoverati in ospedale in gravi condizioni. Sono fuggiti dalla guerra. Padre Carlo li accoglie nella sua parrocchia di allora, a Fontane Bianche. «Mi ha chiamato dicendomi che aveva accolto in parrocchia due vietnamiti – racconta l’avvocata Sofia Amoddio, che conosce Carlo D’Antoni dai tempi in cui faceva il parroco a Solarino, trent’anni fa – Ma non poteva tenerli lì, cosi vennero a casa mia. Dopo un po’, sono stati accolti in una comunità di Treviso dove un prete seguiva le procedure per la regolarizzazione, l’inserimento lavorativo. Vivono ancora lì, con un regolare permesso di soggiorno».
Per padre Carlo, che gironzola fischiettando l’Internazionale, l’unica Chiesa che ha motivo di esistere è quella sociale. «Quando ero giovane, a Solarino, ero andato a scegliere una località per il campeggio degli scout. Così arriviamo nella valle Anape, quella dove fanno il bagno gli dei, un posto bello, ma popolato di strane persone, che avevano arredato una grotta per viverci. Noi abbiamo fatto il campeggio con i lupetti e nei dieci giorni che abbiamo trascorso lì, è nata un’amicizia con quelle strane persone. Erano tossicodipendenti venuti dal nord Italia per uscire dalla droga cambiando radicalmente stile di vita. Ce l’hanno fatta. Finito il campeggio, gli proposi di venire a vivere a Solarino. E così sono stati ospiti della parrocchia per un po’. Ovviamente, dopo cinque minuti c’erano i carabinieri, in parrocchia. Qui a Bosco Minniti – dice - l’accoglienza è venuta da sé. Prima ai tossicodipendenti - seguiti in parrocchia e inseriti in comunità – poi ai migranti quando è esploso il fenomeno degli sbarchi in Sicilia, dieci anni fa. Non c’erano strutture per gli immigrati, che dopo l’identificazione si ritrovavano in mezzo alla strada. Mi hanno cercato e ho aperto le porte della chiesa. Da allora Bosco Minniti è un punto di riferimento. Qui si sono fermate persone provenienti da sessanta paesi, una geografia dei conflitti», racconta padre Carlo, seduto su una panchina del «Giardino dei popoli», dove nascono i primi boccioli della primavera. Un bambino con la maglietta della Juventus entra con il pallone, e punta verso il campo di calcio della parrocchia.
«Nel corso degli anni, tra 15 e 18 mila stranieri hanno fatto tappa qui – prosegue padre Carlo – e per ciascuno di loro abbiamo seguito l’iter della regolarizzazione, della domanda di asilo. Diecimila solo dall’Africa subsahariana, da Somalia, Sudan, Eritrea, Etiopia, Costa d’Avorio, Mali. Siamo sommersi dalle emergenze. Spesso qui vivono più di cento persone. Ce la caviamo con le risorse della parrocchia e di molta gente di buona volontà. Questa parrocchia ha un bilancio di 25 mila euro l’anno. Il vescovo, Salvatore Pappalardo, ci dà 28 mila euro di contributo. Ha fatto sua la nostra esperienza rilanciandola a livello cittadino, prendendo le parti di questi ragazzi».
Non è sempre facile, però, con la gente del quartiere. Accanto alla chiesa, dove sono parcheggiate l’auto di padre Carlo e qualche vespa, ci sono i resti del motorino di Ali, che è stato incendiato. Gli insulti sono quotidiani, a volte vengono lanciate pietre o bottiglie o lasciati biglietti di minacce. «Questa presenza massiccia di neri è stata un pugno nello stomaco, per la gente del quartiere. I parrocchiani che vengono in chiesa si sono dimezzati, ma allo stesso tempo tanti ragazzi si sono avvicinati. Cattolici, agnostici, persone che capiscono la bellezza del mettersi al servizio degli altri per salvare vite umane ed evitare la clandestinità», spiega Carlo.
Uno di questi ragazzi è Massimiliano Perna, giovane giornalista autore del libro «La società aperta e lo straniero». «Carlo – dice Massimiliano – è un amico, una persona che mostra meno di quello che è. Ha il dono dell’intellettuale vero, un’immensa cultura che non ostenta mai. Spesso cita don Tonino Bello, il vescovo pacifista: ‘A me non interessa chi sia Dio, mi interessa sapere da che parte sta’. È semplice e provocatorio nel modo di fare. Per le istituzioni è un rompiscatole. Uno che non fa più le processioni, ‘perché bisogna portare in giro le persone, non i pupi’. Uno che, al sindaco e ad altri esponenti politici e istituzionali siracusani, ha inviato una lettera di Cattivo Natale». «Padre Carlo – dice l’avvocata Marzia Capodieci, che dal 2004 è stata anche volontaria in parrocchia – o lo ami o lo odi».
«Questa continua emergenza non ci ha mai permesso di organizzarci bene, troppe persone per una parrocchia, una tra le 26 mila che ci sono in Italia – dice ancora Carlo - Qui si incontrano le differenze, i bambini che vengono per il catechismo devono avere tra i piedi i richiedenti asilo. I migranti dormono e mangiano dove si svolge il culto. Non è un luogo a parte, così deve intendersi l’integrazione. Qui i musulmani pregano, i protestanti fanno catechesi, i pentecostali fanno corsi. C’è chi porta cibo, vestiti. Ci riscopriamo uguali e felici di condividere un valore comune, l’essere umano. Non è carità né buon cuore ma lavorare perché ciascuno possa godere di diritti che gli competono in quanto persona».
A volte, i confini della parrocchia sembrano stretti a padre Carlo. «Da quando gli sbarchi non ci sono più perché preferiscono fare morire la gente nel Sahara o rimandarla in Libia, ci troviamo di fronte a un altro fenomeno. Accogliamo persone già in Italia, che tornano per rinnovare il permesso di soggiorno e si fermano per le pratiche burocratiche. A Siracusa la presenza degli stranieri è cresciuta anche perché ci siamo noi, e oggi c’è una cospicua comunità africana. Il sogno è riuscire a mettere in rete le istituzioni, la chiesa, il comune, la prefettura, i sindacati, i lavoratori agricoli e creare un laboratorio, da chiamare Solare [Solidarietà lavoro rete]. Un luogo con cooperative di badanti, di braccianti, dove si produce cultura, che mette su un albergo sociale. Dove, come direbbe don Tonino Bello di Molfetta, ‘sia possibile costruire una città bella usando pietre di scarto’. Entro aprile firmeremo lo statuto dell’associazione, cui aderiscono il sindacato, Cna, Arci, Amnesty e molte altre associazioni. Siracusa non offre nulla per l’ozio a parte pub, pizzerie e discoteche: bene, noi vogliamo aprire una discoteca multietnica con serate indiane, afro, europee, con cucina a tema e musica dal vivo. Servono stimoli, ai giovani che fanno professione di noia. Ci faranno donazioni di cultura e noi faremo le trasfusioni. Mentre c’è chi parla di globalizzazione e pensa alle merci dobbiamo parlare di internazionalizzazione della cultura».
Il vero problema, non si stanca di ripetere don Carlo, è l’emigra ione, non l’immigrazione. Molte attività della parrocchia, come quelle dedicate ai ragazzi di strada italiani, sono state abbandonate perché chi ci lavorava ha preferito andare a costruire la sua vita più a nord.
«Padre Carlo – racconta Ali, un sudanese che vive qui da un anno e sette mesi – è molto semplice. Mangia con noi, gioca. Vive con noi. Cuciniamo, lui offre quello che manca. La maggior parte dei ragazzi che dormono qui non lavora. Ogni tanto ci riuniamo per discutere dell’organizzazione, delle pulizie». Ali ha l’obbligo di firma, per reati legati alla clandestinità. Ha le chiavi della parrocchia e fa da Cicerone a chi arriva. Parla arabo, una lingua del Sudan, italiano, siciliano e un po’ di francese. Insieme a Edmond gestisce la casa quando padre Carlo non c’è. Edmond è camerunense, è in Italia da cinque anni e parla di sé come di un avventuriero. È stato per un po’ a Milano, poi a Foggia e a Cassibile. Ma cerca altro. «Il vecchio - come lo chiama lui - è una persona perbene. Non vuole che ci scordiamo perché abbiamo attraversato il Mediterraneo. È anche per questo che ci spinge a non stare tutto il giorno qui, a non stare fermi». Abdou è senegalese, è sbarcato in Sicilia nel luglio 2008 e ha passato un mese in carcere, a Florindia, vicino Siracusa. «Sono stato accusato di guidare il barcone, quando siamo arrivati. Lo facevamo a turno. Quando mi hanno liberato, mi hanno abbandonato sulla strada. Ho seguito le indicazioni per Siracusa e ho camminato fino alla stazione: era scritto su un foglietto che mi avevano dato. Così sono arrivato da padre Carlo. Per me è come un padre. Ogni tanto ci sgrida. Ma poi ci compra le sigarette o il credito per il telefono. Fa quello che dovrebbe fare lo Stato». Ali, come molti di quelli che passano per la casa di padre Carlo, ha lavorato a Cassibile. Un’esperienza «molto difficile»: «Non riusciamo a fare rete su Cassibile – spiega Carlo – Ora che abbiamo smesso di firmare le attestazioni ha iniziato a farlo l’Arci, ma prima eravamo gli unici».
Padre Carlo continua a fare quello che, per Alfonso di Stefano, «è unico, in Sicilia, e assomiglia all’esperienza di Riace: l’accoglienza». E Moussa, un rifugiato sudanese che ha passato due anni in parrocchia, continua a trascorrere parte del suo tempo libero a Bosco Minniti. Lavora da tempo in un magazzino della frutta e ha un appartamento in affitto. Torna per padre Carlo, per i suoi amici e per dare una mano.