Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 29 Febbraio 2008 23:55

Caterina da Siena (1347-1380)

Caterina da Siena (1347-1380)



 

I. LA VITA

Caterina (1347-1380) nacque a Siena, nel rione Fontebranda, da Jacopo Benincasa e donna Lappa, penultima di una nidiata di ben 25 fratelli. Secondo i suoi primi biografi, la sua vita è tutta segnata da visioni e fatti straordinari, A sei anni, avrebbe avuto una visione di Cristo solenne e sorridente, circondato da una schiera di santi, A quindici anni, dopo iterati diverbi con la madre che non capiva la sua ansia di preghiera, tronca ogni discussione tagliandosi i capelli e isolandosi spesso nella sua cameretta, per dedicarsi alla penitenza e al colloquio con Gesù. Obbligata a passare lunghe ore nel frastuono di una famiglia così numerosa, impara a coltivare l’unione a Gesù nella «cella del cuore», come lei stessa diceva.

Vestito l’abito delle terziarie domenicane dette mantellate (1363), Caterina intensifica il suo impegno di vita spirituale. segnata da una carità davvero eroica verso i poveri, gli infermi e i carcerati. All’età di vent’anni le appare Gesù, assieme alla Madonna e altri santi, per darle l’anello di sposa. Man mano che gli anni passano, la sua vita diventa sempre più penitente. A partire dal 1372 si decide per la comunione frequente, abbandonando quasi ogni altro nutrimento. Ma più avanza l’esperienza mistica, più la sua vita diventa attiva. Il suo stesso esempio diventa presto contagioso. Molti devoti cominciano a unirsi a lei nella preghiera e nelle opere di carità, qualificandosi come suoi «discepoli». Molte persone le scrivono anche da lontano per esporle problemi e ottenere consigli. Non mancano però neppure le male lingue che diffondono sospetti e calunnie, tanto che nel 1374 il capitolo generale dell’ordine si sente in dovere di convocarla a Firenze per farle sostenere un esame circa la sua ortodossia. L’esame dà esito positivo ma, a scanso di rischi per il futuro, le viene assegnato come direttore spirituale un noto teologo dell’ordine, fra Raimondo da Capua, che poi sarà il suo primo biografo.

Tornata a Siena, si dedica alla cura degli appestati; ma, subito, il suo coinvolgimento nella vita civica di Siena e Firenze, e nelle tensioni politiche del tempo. è totale. Nel 1375 la troviamo a Pisa a predicare la crociata indetta da Gregorio XI.

Poco dopo è la città di Firenze che, colpita da scomunica e interdetto, chiede la mediazione di Caterina, la manda ad Avignone, ambasciatrice. ad implorare dal papa riconciliazione e pace. Ad Avignone Caterina non si limita a trattare la pace per Firenze: fa di tutto per convincere Gregorio XI, ancora indeciso, a tornare finalmente a Roma dopo il lungo esilio avignonese (1376).

Verso la fine di quello stesso anno si trasferisce a Roma con il gruppo dei suoi discepoli, per dedicarsi più da vicino alla causa della chiesa e del papa. Il suo ascendente è tale che Urbano VI, succeduto a Gregorio XI, la chiama più volte in concistoro a parlare ai cardinali. Numerose anche le lettere che, in questo periodo, scrive a principi e capi di stato, perché restino fedeli al papa di Roma, e al pontefice perché moderi il suo temperamento piuttosto focoso. Lotte e tensioni fra le contrapposte fazioni, infatti, sono ancora molto vivaci, tanto che un tumulto di popolo. nel febbraio 1380, invade lo stesso palazzo pontificio. Anche in questo caso, come si legge nelle cronache, l’intervento di Caterina «acchetò le ire del popolo e sedò la collera del pontefice”. Solo due mesi dopo (29 aprile 1380) Caterina, sfinita dalle fatiche e da questa sua passione per la chiesa, si spegne a soli 33 anni di età, lasciando un’impronta indelebile nella vita della chiesa e nella storia della spiritualità.

Il. SCRITTI

Fonte principale, per la biografia e la spiritualità di Caterina, è la Legenda aurea, scritta dal domenicano Raimondo di Capua (1393), già confessore della santa, poi maestro generale dell’ordine. Di Tommaso da Siena è la Legenda minor (1400), riassunto della precedente, nonché il SuppIernentun Iegendae prolixae di cui si conservano tre manoscritti. Di fra Tommaso della Fonte, confessore della santa prima di fra Raimondo, sono i Miracula. mentre di un anonimo fiorentino sono i Miracoli, scritti in italiano ancor vivente la santa (1374). Una miniera di notizie è anche il processo detto Castellano, perché istruito da Francesco Bembo vescovo di Castello (Venezia): vi sono raccolte le testimonianze dei discepoli che avevano conosciuto personalmente la santa.

Il fatto che la vita di Caterina sia tutta segnata da eventi straordinari ha suscitato grossi dubbi circa la credibilità dei suoi primi biografi. Ma, a parte questa enfatizzazione del meraviglioso che era tipica dello stile agiografico del tempo. la fondatezza di tutti i dati storicamente riscontrabili risulta dimostrata; per cui la critica più recente dà ora maggiore credito, anzi riconosce che nessun altro santo del XIV secolo risulta meglio documentato.

Fra gli scritti attribuiti alla santa, la critica storica riconosce certamente autentici l’Epistolario, il Dialogo e le Preghierè.

L’Epistolario raccoglie 382 lettere, scritte da Caterina ai destinatari più disparati. Caratteristici di queste lettere sono: l’inizio, sempre nel nome di Cristo crocifisso e di Maria. E’ un epistolario ricchissimo di fede, ma anche di umanità; qualcuno l’ha definito il «codice d’amore della cristianità». E’ soprattutto in questo epistolario che Caterina rivela la sua personalità. Da queste lettere traspare una religiosa modesta, ma dal cuore grande. E’ del tutto priva di mezzi umani, ma sostenuta da una fede intrepida. Molte le iniziative alle quali dà il suo appoggio (proposte di pace tra fazioni contrapposte; interventi coraggiosi per convincere il papa a lasciare Avignone e tornare a Roma: assistenza ai carcerati e agli stessi condannati a morte: Io zelo dispiegato per la crociata in Terra santa, ecc.). E anche se raramente vede i suoi sforzi coronati da successo, non per questo si scoraggia o desiste dai suoi propositi. Ai discepoli chiede il distacco dal «latte delle consolazioni» e il coraggio di mangiare il pane duro e ammuffito delle tribolazioni temporali e spirituali.

L’altra opera certamente autentica è Il Libro o, come viene chiamato dai discepoli. Dialogo oDialogo della divina Provvidenza. E’ stato «dettato» da Caterina ai suoi segretari «scrittori» dopo la pace tra Firenze e il papa (18.7.1378) e prima della partenza per Roma (nov. 1378). in un clima di altissima contemplazione.

Mentre l’Epistolario è un libro di vita vissuta, il Dialogo è un vero e proprio trattato di vita spirituale, che Caterina vede come itinerario d’amore, percorso dall’anima per mezzo del sangue di Cristo pontefice, fino a raggiungere la vita d’unione con la Trinità.

La terza raccolta è costituita dalle Preghiere: recitate da Caterina a voce alta in circostanze diverse e raccolte dai discepoli “scrittori”.

III. DOTTRINA SPIRITUALE

L’esperienza spirituale di Caterina è stata oggetto di molte ricerche e ha avuto le interpretazioni più disparate: H. Bremond, giudicandola da alcune raffigurazioni pittoriche, la ritiene poco energica

Il p. Deman, al contrario, vede in Caterina soprattutto una donna creativa, portata all’azione Sarebbe un non-senso, scrive, vedere in Lei una «intellettuale», anche se dotata di alte qualità teologiche. Caterina è una volontà. E’ un fuoco. La sua vita fu di «realizzare».

Per Garrigou-Lagrange invece, nel pensiero spirituale di Caterina il primo posto spetta alla fede. E per la luce della fede che lei si sente «forte, costante e perseverante».

Certo è straordinario, in Caterina, questo miscuglio di dati dogmatici quasi scolastici, insieme a stati emotivi di estrema intensità, dai quali è come trascinata all’azione. all’impegno indefesso e gioioso.

Mai però affiora in lei il timore o anche solo la preoccupazione che la preghiera sia di ostacolo all’azione, o viceversa: cosa che anche gli psicologi moderni, sulla base di ricerche positive sull’esperienza dei grandi mistici cristiani, hanno potuto costatare. Anzi il noto scrittore francese H. Bergson. in base alle sue ricerche sui mistici, è giunto ad affermare che i più contemplativi spesso sono anche i più attivi .

Una esposizione abbastanza ampia e articolata della dottrina spirituale di Caterina si può trovare nel Dialogo. In quest’opera, la santa rivolge al Dio di verità quattro domande, così formulate: conoscere la verità; che Dio usi misericordia nel mondo; che venga in aiuto alla chiesa; che estenda a tutti la sua provvidenza.

Stando a quanto scrive la Santa, il Padre celeste prende in piena considerazione queste ispirazioni, che poi corrispondono alla sua stessa volontà salvifica.

«Conoscere la verità», infatti, significa riconoscere il proprio nulla creaturale e il tutto di Dio. Tanto che qualcuno ha potuto riassumere l’intero messaggio del Dialogo con le parole: «Sappi, figlia mia, che io sono colui che è, e tu sei quella che non è». Sapere che noi non siamo nulla, o soltanto peccato. e sapere che Dio è tutto: per Caterina è questo l’essenziale di ogni cammino spirituale. In una simile mistica, il sentimento dell’umiltà è al primo piano della coscienza: umiltà che non è solo un atteggiamento dello spirito, ma conoscenza distinta e precisa. giudizio primordiale di valore. Caterina vuole «sapere». per essere «umile»; vuole essere umile per traboccare di carità.

La carità, nata dalla conoscenza e dall’umiltà, può essere messa in crisi per il contatto col mondo e con le difficoltà della vita: ma. sostenuta dalla grazia, avrà come frutto la pazienza. e poi anche la gioia, perché la vita spirituale, anche se iniziata nel timore, può progredire già in questa vita fino ai rapimenti dell’estasi.

Il tema della conoscenza quindi è, per Caterina, alla base non solo dell’ascesi in generale, ma anche di ciascuna delle sue tappe. E tuttavia questa forte accentuazione dell’aspetto «conoscenza» non rende la sua dottrina spirituale un qualcosa di esoterico. riservato a pochi iniziati.

Esperienza mistica e riflessione teologica s’intrecciano fittamente nella sua vita e nei suoi scritti, così da formare un tutto inscindibile. Ove si volesse individuare il punto d’incontro tra le due realtà che. ripeto, non possono essere separate perché germinano in maniera unitaria, è mia opinione che si dovrebbe ricercarlo nella visione cateriniana dell’amore.

Per lei Dio è amore, la Trinità è amore, Cristo è-amore, l’uomo è amore, I’ universo è amore, tutto è amore solo il peccato, il male, è disamore: coloro «che sono annegati nel fiume dell’amore disordinato del mondo, sono morti a grazia e sono diventati «arbori della morte». Se l’uomo, «arbore d’amore con vita di grazia»,vuole svestirsi del non-amore e giungere all’amore, deve salire i tre «scaloni» che portano al ponte. Cristo. Gli scaloni sono i piedi, il cuore. la bocca del crocifisso.

Questo stato di perfetta unione con la volontà di Dio, dove l’anima «trova la pace», è anche Io stato in cui si vedono le cose e gli eventi alla luce di Dio, per cui la contemplazione si trasforma in zelo di carità. Ma per quanto in alto sia ascesa, l’anima non è ancora immersa nel «mare pacifico della divina essenza»; finché è pellegrina su questa terra, la sua via rimane Cristo crocifisso. con il suo «ansietato desiderio» della gloria di Dio e della salvezza delle anime.

Ultimata la salita dei tre scaloni, l’anima viene irrorata dal sangue di Cristo. «il quale sangue inebria l’anima e vestela fuoco della divina carità».

Seguendo “l’amore crociato”, l’anima mia viene attratta completamente da Dio.

La vita cristiana è un camminare verso l’amore: e l’orazione - che ne è il segno espressivo - non può non essere un itinerario che inizia nell’umiltà per essere consumato nella carità. Secondo la mistica senese, l’orazione vocale è un mezzo metodologicamente necessario per giungere alla “casa del cognoscimento di sé”, ma a patto che vi sia consonanza tra bocca e cuore.

L’orazione contemplativa

La contemplazione viene indicata dalla santa in tutti i suoi stadi con l’espressione, comune a molti mistici del medioevo: «visitazione di Dio».

Durante la contemplazione «iI corpo sta come immobile, tutto stracciato dall’affetto dell’anima», soggetto al flusso della marea divina.

L’orazione contemplativa ha il suo respiro profondo nel Verbo incarnato.

Pagina molto distesa è quella in cui descrive la contemplazione delle anime giunte «alla perfezione dell’amore amico e filiale” e che hanno ricevuto le «stimate di Cristo crocifisso, ne’ corpi e nelle menti loro».

L’orazione, che «empie il vasello del cuore del sangue dell’umile agnello, e ricoprelo di fuoco, perché fuoco d’amore fu sparto», e «che unisce al sommo Bene»,deve essere garantita da una copiosa raccolta di frutti di carità. L’intero capitolo 69 del Libro è teso a dimostrare il primato della carità nel rapporto orazione-azione.

Lode, Ammirazione stupore

L’orazione cateriniana è permeata di lode, ammirazione, adorazione, ringraziamento, intercessione, supplica: ma specialmente di stupore.

Stupore di fronte alle pazzie della misericordia del Padre : celeste

Stupore di fronte alle pazzie d’amore del Verbo incarnato.

Stupore per il fiume di «sangue dolce» sgorgato dall’agnello immolato.

Stupore per l’ardente fuoco di carità di Cristo. Stupore nel guardare Dio umiliato nel grembo di Maria dolce. «arbore di misericordia».

La contemplazione della vergine domenicana viene ritmata da un largo respiro che ignora le richieste taccagne di molti cristiani ibernati nel bozzolo dell’egolatria: il suo pregare è l’eco delle necessità della chiesa e dell’incendio d’amore che la divora per far dissetare le anime nel sangue dell’agnello.

Per le necessità della chiesa la preghiera di Caterina diventa tenera come il chiedere dei bambino.

Sembra sentire nel suo pregare il battito della preghiera sacerdotale del Signore.

L’anima contemplativa che ha ricevuto la visita di Dio, allo sparire dell’ospite si scopre interiormente spalmata della sua presenza.

«E però riceve umilmente, dicendo: - Ecco l’ancilla tua: fatta sia in me la tua volontà».

O deità ineffabile

Stupore. ammirazione, lode, adorazione, ringraziamento, intercessione. supplica, troviamo a profusione nelle grandi «orazioni» cateriniane quando le ali robuste della contemplazione la fanno penetrare nel mistero delle persone divine con volo altissimo teologicamente perfetto.

IV. INFLUSSO

Sono diverse le figure femminili che soprattutto nel tardo medioevo, hanno segnato della loro presenza la chiesa e la storia in modo indelebile. E sono sorprendenti le affinità che le legano tra loro: da Ildegarda di Bingen a Matilde di Magdeburgo; da Brigida di Svezia a Caterina da Siena, ecc., tutte figure caratterizzate da intensa vita spirituale, tutte favorite da visioni mistiche straordinarie, e tutte profondamente coscienti di una grave missione, da assolvere con impegno instancabile, per il bene delle anime e della chiesa di Dio.

Enorme è stato l’influsso che ha esercitato Caterina da Siena sulla vita della chiesa e della società del suo tempo. soprattutto in Italia. E grande anche la stima e la venerazione di cui era circondata da molti dei suoi contemporanei. se è vero che alla sua morte han voluto celebrare ben tre funerali solennissimi: uno voluto dal pontefice; un altro da rappresentanti del senato romano; e il terzo dall’Ordine domenicano.

Il suo influsso sulla vita spirituale dei secoli successivi può essere dovuto alla sua santità, alla diffusione dei suoi scritti, e in questo caso particolare, anche alla sua presenza nel campo dell’arte, soprattutto la pittura.

Dopo la morte della Santa, attorno alla sua tomba si sviluppò ben presto il culto dei devoti, che da Siena e da Roma si estese poi a tutta la chiesa. Nel 1461. terminato lo scisma. Pio Il la inserì nel catalogo dei santi. Nel 1970 Paolo VI l’ha proclamata «dottore della chiesa», solo una settimana dopo che lo stesso titolo era stato attribuito a Teresa d’Avila: sono, così, le prime due donne ad avere questo titolo. E’ la chiesa stessa quindi che, attraverso i suoi rappresentanti ufficiali, riconosce a Caterina un ruolo significativo che, anziché attenuarsi col tempo. è andato crescendo sempre più.

L’esperienza mistica di Caterina da Siena è talmente originale ed emblematica da diventare punto di riferimento obbligato anche per gli specialisti, soprattutto quando si tratta di studiare il rapporto tra vita cristiana ed esperienza mistica, tra vita attiva e vita contemplativa, tra esperienza mistica e fenomeni straordinari come le visioni o le estasi, ecc. La cosa diventa ancor più delicata quando si tratta di studiare certi fattori che entrano la qualificare la vita mistica in quanto evento esperienziale. come, ad esempio, il fattore «emotività». o il fattore «volontà», o il fattore «ragione» o «verità», senza parlare dei dati soprannaturali come la carità infusa, i doni dello Spirito, ecc.

Le Parole della Bibbia

La preghiera di Gesù
nel Vangelo di Luca

di Sr. Germana Strola o.c.s.o

 

La Lectio Divina sui testi liturgici, illuminata dalle introduzioni specifiche e dai ritiri spirituali che abitualmente vengono assicurati nei nostri monasteri, rende estremamente familiare ad ogni monaco e monaca il testo evangelico, che pur non cessa di permanere sempre inesauribile nella sua ricchezza teologica e antropologica. Ripercorrerne i temi principali offre ogni volta di nuovo l’opportunità di riscoprire o rivivere non solo momenti di grazia e di incontro vissuti nella preghiera, ma soprattutto di approfondirne le prospettive, che si rivelano costantemente nuove e vitalizzanti.

Dialogo ecumenico

La diversità nelle visioni ecclesiologiche

di Andrea Pacini



L’intesa futura dipenderà dal nesso tra sinodalità e unità e dalla dialettica tra ministero episcopale e dimensione monastico-carismatica.

Il tema ecclesiologico costituisce come è noto un argomento centrale del dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, e non è un caso che l’intero lavoro della Commissione internazionale di dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse si sia sviluppato e articolato su temi inerenti tale argomento. Anche la recente ripresa dei lavori della Commissione nel settembre 2006 non si è discostata da tale interesse, essendo stata messa all’ordine del giorno la questione del rapporto tra conciliarità e autorità nella Chiesa. Esistono certamente alcuni punti importanti sui quali è emersa e si è consolidata una diversa visione ecclesiologica in ambito ortodosso e in ambito cattolico: il primato petrino, con le sue prerogative di giurisdizione universale sulle Chiese e di infallibilità nell’insegnamento – poste determinate condizioni – e la conseguente tendenziale unità centralizzata della Chiesa cattolica, è lontano dall’ecclesiologia elaborata nell’Oriente ortodosso.

All’interno dell’ortodossia si è sviluppata e tuttora è teologicamente sostenuta e praticata un’ecclesiologia di ispirazione più nettamente sinodale a tutti i livelli: sia nella comprensione della Chiesa locale, sia nella comprensione della Chiesa universale, che trova espressione nella pluralità delle Chiese ortodosse in comunione reciproca, e in cui la somma autorità in materia di fede, di morale e di disciplina è il Concilio ecumenico. Abbiamo già evidenziato su queste pagine come tale posizione delle Chiese ortodosse non sia affatto esente da rischi e da cortocircuiti. Come hanno fatto notare alcuni teologi, quali Olivier Clément e Christos Yannaras, l’ortodossia ha fortemente indebolito al proprio interno la presenza di strutture ecclesiali di unità, senza le quali è difficile garantire un vissuto e un funzionamento realmente e pienamente comunionale delle Chiese ortodosse.

Prova di questo sono a tutt’oggi le dinamiche conflittuali e le tensioni centrifughe che caratterizzano le relazioni interortodosse, rispetto alle quali le Chiese stesse non sembrano avere strumenti atti a concretizzare soluzioni efficaci. Probabilmente la mancanza di tali strumenti che possano promuovere l’esercizio di una reale comunione è dovuta alla mancanza di una più approfondita riflessione teologica sull’importanza delle "strutture di unità" nella Chiesa, che, una volta teologicamente fondate, possano essere valorizzate nel vissuto ecclesiale a tutti i livelli. In questa prospettiva la ripresa della riflessione sul rapporto tra autorità e conciliarità nella Chiesa all’interno del dialogo ecumenico è certamente importante: essa sarà però feconda nell’orizzonte di un reale progresso verso l’unità della Chiesa solo se prenderà in serio conto la questione delle strutture ecclesiali atte a promuovere e a esprimere la comunione nella Chiesa e della Chiesa, e in questa prospettiva una riconsiderazione del ministero petrino è imprescindibile.

Da questo punto di vista se la Chiesa cattolica è chiamata a una sempre più profonda adesione a quanto indicato autorevolmente dal concilio Vaticano II riguardo alla collegialità e alla sinodalità, valorizzando il ruolo specifico del ministero petrino in tale contesto – che è il suo contesto vitale – le Chiese ortodosse sono chiamate a un coraggioso e non facile itinerario di riappropriazione teologica di strutture ecclesiali di unità che trovino espressione nel governo stesso della Chiesa, rispetto alle quali il principio petrino si pone come richiamo eloquente e inevitabile. Non si può d’altra parte non ribadire come all’interno dell’ortodossia il dialogo ecumenico su tali e altre questioni avvenga all’interno di un contesto ecclesiale caratterizzato da relazioni interortodosse non certo facili. Proprio la tensione ecclesiale esistente tra le diverse Chiese o all’interno di porzioni di Chiese per questioni di ordine giurisdizionale, mostra l’intrinseca debolezza di una teologia di comunione priva di un riferimento reale a strutture ecclesiali di unità che siano in grado di promuovere in modo efficace la comunione.

Si potrebbe però anche aggiungere che il dibattito sulle questioni ecclesiologiche si sviluppa all’interno dell’ortodossia in un contesto in cui si confrontano due posizioni teologiche di fondo, che sono state più volte delineate dal metropolita Giovanni di Pergamo (Ioannis Zizioulas), uno dei più importanti teologi ortodossi contemporanei. Le due posizioni teologiche sono riconducibili a due visioni di Chiesa e a due contesti ecclesiali. Molto in sintesi la prima visione ecclesiologica è quella denominata "terapeutica", in cui prevale una visione della Chiesa come spazio di "guarigione" dell’uomo – guarigione dalla caduta, dal peccato, dal disordine morale e spirituale – e in cui storicamente si è sviluppata una grande valorizzazione dell’impegno ascetico, non indenne talvolta da qualche tensione con il primato della pratica sacramentale. Nella migliore teologia e spiritualità orientale la sacramentalità e l’ascesi non sono certo in opposizione, ma sono semmai le due ali della mistica, ovvero dell’esistenza cristiana consapevole, vissuta in comunione con Dio in Cristo per lo Spirito.

Non solo, ma la stessa sacramentalità ha una chiara priorità nell’ordine della grazia e del vissuto cristiano. Tuttavia l’insistenza sull’ascesi, tipica soprattutto dell’ambito monastico, che nell’ortodossia ha avuto e continua ad avere notevole influenza sui fedeli e nel vissuto ecclesiale concreto, ha condotto a una visione ecclesiologica terapeutica, in cui l’impegno ascetico di ispirazione monastica viene proposto come strutturale per la vita credente, e il monaco diviene non solo il modello della vita cristiana, ma anche colui che detiene l’autorità carismatica nella Chiesa e per l’esistenza credente. In altre parole l’accentuazione della centralità dell’ascesi accanto alla vita sacramentale, avrebbe condotto secondo l’analisi di teologi ortodossi – tra i quali spicca Zizioulas – a una comprensione dell’autorità nella Chiesa in cui l’elemento monastico-carismatico rischia di divenire una sorta di soggetto alternativo rispetto al ruolo episcopale, con un reale depotenziamento dell’autorità dottrinale e pastorale del vescovo.

L’altra tendenza ecclesiologica, che si è sviluppata in epoca contemporanea rivalorizzando la teologia patristica, è quella denominata "ecclesiologia liturgica" o "eucaristica", che mette al centro il primato della sacramentalità nella generazione della Chiesa e del suo vissuto – dunque nella vita dei fedeli – enfatizzando nel contempo la dimensione escatologica di cui la Chiesa grazie ai sacramenti è intessuta. Ne consegue che in tale prospettiva viene pienamente valorizzato il vescovo, che della sacramentalità della Chiesa è nello stesso tempo espressione e ministro, e cui viene riconosciuto il ruolo di guida dottrinale e pastorale della Chiesa, al cui discernimento viene anche sottoposto il vissuto carismatico monastico.

Identificare con lucidità queste due prospettive ecclesiologiche è importante per interpretare il vissuto ortodosso contemporaneo, anche in rapporto alla dimensione ecumenica. Spesso sono infatti gli ambiti monastici che, per un senso di responsabilità nei confronti della tradizione di cui si considerano carismaticamente i custodi, sono più inclini a valutare in modo critico il dialogo ecumenico e i suoi risultati: è quanto avviene in Grecia – si pensi al Monte Athos ma non solo – e in Russia.

L’influenza degli ambiti monastici tra i credenti e la loro possibilità concreta di influenzare e condizionare le scelte ecumeniche dei vescovi non è frutto solo di dinamiche contemporanee, ma di una lunga evoluzione storica che si è sedimentata nelle prospettive ecclesiologiche sinteticamente delineate sopra. Tutto questo diviene poi importante nel processo di recezione dei risultati dei dialoghi ecumenici, in cui la risposta della "base" in ambito ortodosso è fondamentale. Emerge allora come il futuro dell’ecumenismo con l’ortodossia sul piano ecclesiologico dipenderà dalla convergenza su posizioni teologiche comuni intorno al nesso sinodalità-unità, ma anche dalla dialettica tra ministero episcopale e dimensione monastico-carismatica all’interno delle Chiese ortodosse stesse: quest’ultima questione avrà una rilevanza fondamentale per la recezione progressiva dei risultati del dialogo.

(da Vita Pastorale, 4, 2007)

Le nostre liturgie


Il sacerdote che presiede l’assemblea

di Rinaldo Falsini



Occorre prendere atto della funzione liturgica del sacerdote nell’assemblea eucaristica, imparando a usare bene il Messale. Il rito della pace esprime la comunione e la carità fraterna. Se ne richiama la sobrietà.


La terza edizione italiana del Messale si fa attendere e a nostra disposizione abbiamo soltanto l’Ordinamento generale del Messale romano (OGMR, marzo 2004). Ma i problemi di vario genere emergono in continuazione; tra questi la rinnovata figura, con la funzione relativa, del sacerdote nella celebrazione eucaristica risulta la più attuale e tra le primarie in ordine di importanza. Non a caso la Conferenza episcopale italiana ne ha richiamato l’attenzione nella presentazione all’edizione 1983 (terzo paragrafo "Stile di celebrazione e arte del presiedere", 9) con questa raccomandazione: «[Il sacerdote] dovrà conoscere a fondo lo strumento pastorale che gli è affidato per trarne [...] tutte le possibilità di scelta e di adattamento».

Vita morale e luoghi comuni: «È stato lui»

L’uomo responsabile, specie in estinzione


di Giordano Muraro


Prenderemo in considerazione frasi fatte, luoghi comuni che contribuiscono a formare l’opinione pubblica e che sono moralmente dubbi. Perché la cultura è fatta anche di slogan che possono far dimenticare i principi veri. Nella prima puntata parliamo della crescente difficoltà a trovare una persona responsabile, capace di riparare il male fatto. La colpa è sempre di qualcun altro o di qualcos’altro. La scarichiamo da noi, dicendo: «È stato lui!».

Non si riesce più a trovare una persona responsabile. Bisognerebbe affiggere i manifesti wanted, con relativo premio. Quando avviene un fattaccio si cerca il colpevole, ma per quanti sforzi si facciano il colpevole non si trova. O meglio, c’è, ma non è lui. Magari ci sono le prove provate, la confessione aperta, le testimonianze sicure, ma il colpevole non è lui. È la società che gli ha impedito di maturare, la famiglia che lo ha educato male, i "vissuti" personali che non gli permettono di essere consapevole e gli tolgono la libertà, la capacità di intendere e di volere; e senza consapevolezza e libertà non c’è responsabilità e tanto meno colpevolezza.

Quando poi si entra nelle relazioni sociali, le cose peggiorano in modo esponenziale. Il fatto è avvenuto, e magari si fanno nomi e cognomi precisi. Ma non si procede, perché è un complotto politico, una persecuzione, un tranello. L’esecutore è solo una vittima, la sua unica responsabilità è stata quella di essere stato un po’ ingenuo, e in genere l’ingenuità non si punisce. È vero che l’ingenuità può essere presa in considerazione nei bambini; ma tutti siamo e restiamo un po’ bambini.

C’è poi un altro sistema per deresponsabilizzare, ed è il «così fan tutti»; oppure il ricorso a una commissione di inchiesta che si prolunga nel tempo fino a perdersi nella nebbia dove si smarrisce la direzione, e tutto viene ingoiato dalle sabbie mobili dell’oblio

Scaricabarile

La storia è antica. È iniziata già nel paradiso terrestre quando Adamo si è assolto, scuotendosi la responsabilità di dosso e addossandola a Eva: «È stata lei». Eva non è più quella creatura splendida che lo ha tolto dalla solitudine, ma è quella disgraziata che ha rovinato la sua vita. Eva a sua volta si deresponsabilizza attribuendo la colpa al tentatore. Da allora la storia continua senza fine. Caino cerca di sfuggire alla sua responsabilità, dicendo che non sa nulla del fratello Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello?», e così di seguito, di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio, fino agli imputati di Norimberga che cercano di assolversi scaricando la colpa sui loro superiori: «Abbiamo ubbidito a ordini precisi».

Ma che cosa vuol dire essere responsabile? E quando si è responsabili? Potremmo rivolgerci alla morale classica e troveremmo subito la definizione. Ma preferiamo utilizzare strumenti più attuali che sembrano corrispondere meglio al modo di pensare della gente d’oggi. Il Conciso (Vocabolario della lingua italiana, Treccani 1998, Roma, p. 1378) dice che il responsabile è colui «che risponde delle proprie azioni e dei propri comportamenti, ne prevede i rischi e gli effetti, rendendone ragione e subendone le conseguenze». Quindi la responsabilità suppone da una parte una persona che agisce, e dall’altra un fatto da lei prodotto in modo consapevole e libero; ma suppone due altri elementi: la imputabilità non solo dell’azione, ma anche degli effetti prodotti, e il dovere di riparare al male fatto.

La responsabilità non si limita al fatto, ma si estende alle conseguenze dell’azione e all’obbligo di rimediare in qualche modo al danno prodotto. Se io investo un pedone, sono responsabile non solo della morte di una persona, ma anche delle conseguenze che questa morte produce nei suoi familiari, con il dovere di risarcirli. La descrizione è esatta. Ma richiede ancora una serie di precisazioni che complicano tutto.

Anzitutto la distinzione tra responsabilità e colpevolezza. Se inavvertitamente mi sfugge un colpo e uccido un uomo, sono responsabile di questa morte e delle conseguenze di questa morte; ma non sono moralmente colpevole, perché mancava l’intenzione di uccidere. Dovrò pagarne le conseguenze, perché la morte del compagno di caccia è attribuibile a me, ma non ne sono moralmente colpevole. A meno che non abbia trascurato di adottare le precauzioni che normalmente si prendono in questi casi. Sono nozioni che abbiamo appreso fin dall’inizio dello studio della morale.

Oggi l’attenzione si sposta principalmente su altri elementi che si tende a dimenticare e ai quali la morale una volta era molto attenta per responsabilizzare nella giusta proporzione tutti quelli che in qualche modo concorrono alla produzione di un fatto o di un comportamento dannoso, ma specialmente in ordine al dovere di riparare il male fatto, perché chi sbaglia deve pagare, e chi danneggia deve riparare il male causato.

Tutti quelli che devono restituire

Nei manuali veniva presentato un preciso elenco che aveva il vantaggio di ricordare in due righe tutti coloro che in qualunque modo possono essere chiamati in causa quando si produce un danno. Per esempio, in san Tommaso troviamo questo elenco in un articolo che a prima vista sembra curioso: «Se siano tenuti a restituire la roba altrui quelli che direttamente non l’han presa» (S.Th. II-II, q.62, a.7). Oggi questo titolo può sembrare provocatorio, perché spesso non restituiscono nulla neppure quelli che sono stati presi con le mani nel sacco. Si tratta di nove personaggi che concorrono con il loro modo di comportarsi alla realizzazione del fatto delittuoso: «Iussio, consilium, consensus, palpo, recursus, participans, mutus, non obstans, non manifestans». Si è responsabili di un fatto delittuoso, e quindi obbligati alla riparazione, perché si è autori di quell’azione o comandandola, o consigliandola, o acconsentendo, o elogiando chi la compie, o ricattandolo, o ricettando le cose trafugate; ma anche quelli che prima del fatto non hanno parlato, o durante il fatto non lo hanno impedito, e dopo il fatto non lo hanno denunciato

L’elenco è stato fatto per i furti di cose; ma vale proporzionalmente per qualunque furto. C’è il furto di cose, ma c’è anche il furto di onore con la calunnia e la maldicenza, come c’è il furto di valori con l’irrisione e l’arroganza, il furto dell’innocenza per il quale Gesù ha consigliato la macina del mulino, c’è il furto del buon senso con i persuasori occulti, il furto dell’onestà con la diffusione della corruzione, ecc.

Chi è il responsabile di questi furti? Chi deve riparare al male fatto e restituire le cose rubate? Gli esempi sono infiniti. Chi è responsabile delle cattedrali nel deserto, degli ospedali finiti e mai utilizzati, dei centri sportivi mai messi a disposizione della gente? Chi è responsabile del fatto che i soldi raccolti per precise opere di beneficenza si perdano per strada e non arrivino che in minima parte alle persone da beneficare o alle opere da costruire? Chi è responsabile del bullismo diffuso, delle stragi del sabato sera, della caduta di autorevolezza degli educatori, della banalizzazione del pudore, eccetera?

Anche in questi casi quando si giunge al dunque vediamo il fuggi fuggi generale. Tutti hanno un alibi, oppure si ricorre alla falsa umiltà del culpa mea generalizzato, che diventa in realtà l’assoluzione di tutti: siamo tutti colpevoli, quindi non è possibile puntare il dito contro persone ben precise e chiedere che riparino e restituiscano.

I cattivi maestri

Si ha l’impressione che la società sia diventata come quella nave dove nessuno ha una funzione ben precisa di cui deve rendere conto. I cattivi maestri non sono solo quelli che promuovono in prima persona comportamenti delittuosi, ma anche quelli che li consigliano, li promuovono, li elogiano, li diffondono, come ci sono quelli che tacciono, non si oppongono, non li denunciano.

Non c’è solo il mafioso che emette sentenze di morte, ma c’è anche il responsabile dell’amministrazione pubblica che dispone le cose in modo da trarne vantaggi personali; come c’è la persona abile ed esperta che può suggerire il modo più opportuno per evadere le tasse, o il potente che trucca i concorsi per far vincere il suo protetto che non ha i titoli per vincerlo; come ci sono gli omertosi che non denunciano chi organizza furti e ricatti, o i molti Ponzio Pilato che si lavano le mani tirandosi fuori del fatto che sta per avvenire e che potrebbero impedire. Così pure ci sono gli ispettori che non ispezionano, gli educatori che rinunciano a educare, i promotori del bene comune che promuovono il bene di se stessi, i magistrati che non amministrano la giustizia o sono impediti dall’amministrarla.

Pudore del male e gusto del bello

Dove sono i responsabili a cui chiedere conto di questo stato di cose? Domenica 11 marzo è apparso su La Stampa un articolo a firma di Mina. Dopo aver ricordato le parole del Papa dice che: «L’uomo è arrivato al suo orrido burronale nel momento in cui ha scelto di manifestare senza inibizioni tutto se stesso. Si potrebbe dire che non è cambiata la sua essenza, ma che sono apparsi il coraggio e la sfrontatezza di rappresentarla. I media in ogni forma possibile accettano l’incarico della diffusione della mediocrità quando va bene, dello schifo normalmente, del bello raramente».

San Tommaso direbbe che si è perso il pudore del male e il gusto del bello. Di chi è la colpa? C’è un responsabile o dobbiamo dire che ci sono molti responsabili? Ma la distribuzione della responsabilità non significa l’assoluzione generale in nome del «tutti responsabili, quindi nessun responsabile».

È un modo inaccettabile di pensare e di agire, perché in forza della nostra natura sociale siamo in qualche modo un corpo unico, e il male come il bene di uno si ripercuote negli altri, danneggiando tutta l’umanità. La persona non può mai dire: «Non è affar mio», oppure «ognuno per sé e Dio per tutti». Ognuno è responsabile di tutti. Dio ci ha affidati gli uni agli altri. Ma questo principio vale ancor più quando la nostra persona è coinvolta in qualche modo nella produzione di un fatto. Si è responsabili non solo per commissione, ma anche per collaborazione o per omissione.

La verità è che non si tenta neppure più di cercare il responsabile, perché si è persa la speranza di trovarlo. Non esiste più. È stato sostituito da un "lui" non ben identificato («è stato lui»), che però è diventato comodo per assolversi da ogni responsabilità e dall’obbligo di riparare il male fatto e di restituire alle persone e alla società i beni materiali e spirituali che le sono stati rubati.

(da Vita Pastorale, 4, 2007)

Con questo brano Paolo introduce nella lettera un Inno a Cristo. Un testo, probabilmente, precedente a Paolo e che Paolo riprende, ripensandolo.

Sabato, 23 Febbraio 2008 00:05

17. Profeti e profetismo (Rinaldo Fabris)

Il termine italiano “profeta” trascrive il vocabolo greco prophétes, che significa “colui che parla davanti” o “al posto di qualcuno”.

Venerdì, 22 Febbraio 2008 23:33

Al banchetto dei giusti (Giuseppe Laras)

Giudizio di Dio, castigo o ricompensa, immortalità dell'anima: sono i capisaldi della concezione ebraica sulla vita nell'aldilà.

Cinquant'anni fa, gran parte delle parole che un americano sentiva, venivano rivolte personalmente a lui come individuo o a qualcuno che gli stava vicino.

La cooperazione del giorno prima
e della riconciliazione

di Massimo Toschi




Il tempo della guerra, i cui segni crescono ben oltre il dato puramente militare, pone una domanda radicale anche alla cooperazione. Quando la guerra in Iraq degenera in guerra civile e lo scontro di civiltà rischia di diventare una delle chiavi per leggere il nostro tempo, quando la povertà come guerra arriva a cifre indicibili, non ci possiamo accontentare di una qualunque cooperazione.

Se la cifra di questo tempo è la guerra, sia quella guerreggiata, sia quella esibita delle culture, sia quella invisibile delle grandi povertà, la cifra della cooperazione deve essere la riconciliazione, il ricomporre le società, il dialogo tra i Paesi, la piena assunzione del dolore dell'altro e dei suoi diritti.

C'è un volto dell'umanitarismo compassionevole che è entrato dentro di noi. Alla fine, di fronte alla tragedia della guerra e al dramma della povertà del Sud del mondo, ogni progetto va bene, perché porta risorse e cambia qualcosa. Questa è una logica minimalista che non tiene conto della complessità e della gravità della partita nella quale tutti siamo coinvolti.

LA COOPERAZIONE COME STRUMENTO

Forse varrebbe la pena prima o poi di fare una analisi della cooperazione italiana di questi anni, non solo quella promossa dal Ministero degli esteri, ma anche di quella decentrata, dei loro criteri di scelta, dei risultati ottenuti, dei partenariati promossi, dell'efficacia e dell'efficienza dei progetti, della loro capacità di impatto nelle situazioni. Penso che almeno dal Kossovo in qua il quadro ha molte luci ma anche molte ombre. Abbiamo inseguito gli eventi e non li abbiamo anticipati. È la cooperazione del giorno dopo che non ci convince, senza nulla togliere a quanto di bello abbiamo fatto di fronte a emergenze umanitarie, legate alla guerra o a grandi calamità naturali.

Si dovrebbe capire se è stata in grado di leggere i primi segni premonitori del tempo della guerra e di costruire programmi alternativi a esso o al contrario se si sono inseguiti gli eventi tappando buchi che sono rimasti sempre aperti. E si dovrebbe anche comprendere se la cooperazione legata alla lotta contro la povertà in tante parti del mondo si è accontentata di fare qualcosa oppure è stata capace di spezzare il grande nodo che unisce la povertà alla guerra. Fino a riconoscere nella povertà una dimensione costitutiva del tempo della guerra.

Se nel tempo della guerra, facciamo la scelta della cooperazione per la riconciliazione, affermiamo che la cooperazione è uno strumento per una grande politica, che pone al primo posto la pace, la giustizia, i diritti, la democrazia . La cooperazione non è il fine ma il mezzo, lo strumento non neutrale che è alternativo alla guerra per costruire un mondo più giusto. Cooperare significa lavorare insieme, Paesi, culture, continenti diversi, ad un comune disegno di pace e di riconciliazione. Lavoriamo insieme non per disegni di guerra ma per obiettivi di pace, senza i quali la giustizia è retorica, i diritti sono ideologia, la democrazia una vuota formula. La cooperazione ha inscritto nel suo Dna questa vocazione di pace. È vero che spesso questa parola è usata in modo neutro (si parla anche di cooperazione militare), ma in realtà la preposizione -con- indica un lavorare con gli altri che è l'alternativa alla cultura del nemico, contenendo in sé la cultura dell'incontro e non dello scontro. Sta qui il costruire ponti e l'abbattere muri, la formula lapiriana che meglio esprime la nuova cultura della cooperazione.

Essa contiene una pars destruens : la cooperazione come abbattimento dei muri culturali, politici, economici, spirituali che dividono i popoli. E una pars costruens : il costruire ponti di dialogo, di giustizia, di pace e di riconciliazione. Questo è l'esatto contrario del tempo della guerra, quando si innalzano i muri e si distruggono i ponti.

IL TEMPO DELLA GUERRA

Quando si parla di tempo della guerra si vuole indicare un tempo medio, non breve, di cui la guerra e la sua cultura sono la dominante. Questo non significa mettere al centro le guerre di cui quella dell'Iraq è la principale, ma non unica. La guerra diventa la chiave che attraversa tutti i rapporti: economico, militare, culturale e spirituale. Se davvero vogliamo combattere la povertà dobbiamo combattere la guerra, che uccide non solo perché uccide, ma uccide perché drena imponenti risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate per fronteggiare pandemie, la siccità e la fame. Non si può lottare efficacemente contro la povertà senza avviare coraggiosi impegni nel campo del disarmo .

Ma in realtà il tempo della guerra impone il riarmo. La paura che ne è come l'anima spinge in questa direzione. Basterebbe confrontare la crescita esponenziale che è avvenuta in questi quattro anni dopo la distruzione delle due Torri. La paura ha reso possibile questa nuova corsa alle armi, che dopo la caduta del muro di Berlino si era progressivamente attenuata. Si combatte la guerra per sconfiggere la paura e in realtà la guerra stessa produce paura e a questa spirale corrisponde la spinta incessante agli armamenti come elemento insostituibile di sicurezza.

È singolare notare come la guerra inaugurata dal terrore sia una guerra tipicamente asimmetrica, nel senso che chi attacca usa mezzi radicalmente diversi da chi è attaccato, ma chi risponde usa i mezzi tipicamente tradizionali e usa questa guerra asimmetrica per giustificare enormi investimenti nei mezzi tradizionali della guerra.

E come se dovesse partecipare a una guerra tradizionale. Anzi più il nemico è oscuro e più cresce la domanda di una risposta tradizionale di mezzi militari.

In questo senso il terrorismo non solo uccide con il terrore ma anche imponendo questa corsa al riarmo, con il risultato di prosciugare molte risorse che potrebbero essere meglio utilizzate nella partita della vita e della giustizia per interi continenti.

Si potrebbe dire con una formula di Colin Powell: “ La guerra al terrore è legata a doppio filo a quella alla povertà” . Questo significa non solo che prosciugando i bacini della povertà si prosciuga il consenso al terrorismo, ma che nel medio periodo la lotta al terrorismo avviene combattendo la povertà e dunque investire contro il terrore significa non aumentare gli armamenti, ma ridurre gli armamenti per costruire progetti e programmi che diano futuro, sviluppo, diritti e democrazia a milioni di persone. Questa è la versione nel tempo della guerra della frase del profeta: trasformare le lance in falci e le spade in vomeri.

COOPERARE PER LA GUERRA, COOPERARE PER LA PACE

La cooperazione internazionale, che vuole essere strumento di riconciliazione, si deve misurare con questo orizzonte culturale e politico che attraversa popoli e conflitti. Non si può rimanere catturati solo in una logica economicistica o sviluppistica, che alla fine è la nuova faccia dell'umanitarismo compassionevole, che la destra proclama. Qualche aiuto purchessia. Oppure non si può rimanere prigionieri di una logica corporativa che ci spinge ad andare là dove ci sono fondi per progetti e dunque si inseguono i progetti per avere fondi. Basti ricordare in questi anni come le stesse guerre dal Kossovo all'Afghanistan sono diventate luogo di attività imponente di Ong, non per fare la pace ma per garantirsi il futuro. Solo pochissime hanno seguito una strada diversa e più feconda. Altre, addirittura, sono state parte della politica dei governi. Ricordiamo tutti a proposito dell'Afghanistan la polemica tra Emergency e il Ministero degli esteri.

La cooperazione per la riconciliazione è il nuovo orizzonte che fa della cooperazione il grande strumento per fare la pace e il fondamento di una nuova politica internazionale. È necessario attraverso la cooperazione costruire rapporti di partenariato non solo tra istituzioni locali ma anche tra governi nazionali in un disegno comune che valorizzi i popoli e le comunità come comuni protagonisti di un processo di pace, di stabilità, di sviluppo e di democrazia.

Nel tempo della guerra la cooperazione per la riconciliazione è l'unica che ha futuro , perché è capace di incidere e di operare a livello delle società, dei governi locali e nazionali, investendo sul futuro dei Paesi, perché ne accoglie la domanda più radicale che è quella di vivere nella pace.

Questa cooperazione mette al primo posto le persone e quelle più colpite, le vittime, piuttosto che un'astratta discussione sui modelli economici e sociali. La cooperazione per la riconciliazione nasce dalla domanda quotidiana di vita e di pace delle persone e delle comunità e a essa deve rispondere, altrimenti è un'operazione che parte e ritorna in occidente, da usare forse mediaticamente, ma incapace di costruire veri ponti di pace e di giustizia.

La cooperazione per la riconciliazione punta alla realizzazione del concreto riconoscimento dei diritti delle persone, in primo luogo delle vittime, come diritto alla vita, al futuro, che è fatta di scuola, di salute, come avvio e sostegno di un processo di autogoverno delle comunità locali e nazionali, che ha come suo punto di arrivo le forme della democrazia. Anche qui senza integralismi, rispettando le storie e le culture di popoli ed etnie. Basterebbe ricordare il peso che hanno nel continente africano i poteri tradizionali come punto di equilibrio per la prevenzione e il superamento dei conflitti tra le etnie e dentro le etnie.

Nell'orizzonte di una cooperazione per la riconciliazione è necessario scegliere i progetti di cooperazione, perché non è più possibile una qualsiasi cooperazione ma quella che prevenga i conflitti e li porti a un suo superamento. Il problema non è solo la grandezza di un progetto ma il suo valore aggiunto sul piano politico, il suo peso specifico in ordine all'ispirazione, la sua capacità di coinvolgere società e istituzioni.

LA SFIDA DEL PERDONO E DELLA RICONCILIAZIONE

Il perdono è una grande parola pubblica e politica. Essa si fonda sulla verità, cioè sul pieno riconoscimento delle responsabilità di ciascuno, di ciascun gruppo, di ciascun popolo verso il dolore dell'altro che è accanto a noi, dentro e fuori la comunità a cui apparteniamo. Questo riconoscimento di responsabilità, fatto in modo trasparente, crea le condizioni per il superamento dell'ingiustizia subita, permette di superare la cultura della paura e della diffidenza che anima sempre qualunque conflitto , crea le condizioni per una conversione profonda della politica, che ha generato e alimentato la violenza.

LA GUERRA VISIBILE E QUELLA INVISIBILE

A una lettura superficiale si potrebbe dire che tra la povertà di interi continenti e la guerra non c'è nessun rapporto diretto e significativo. Sembra che la guerra abbia precise responsabilità dirette da parte di governi e gruppi che la promuovono, mentre la povertà risale a cause di medio-lungo periodo non facilmente identificabili se non in termini generico ideologici. In realtà la situazione attuale è molto diversa. Ogni giorno muoiono ventimila persone a causa della povertà e delle malattie a essa connesse. Sette volte le vittime delle due torri. In un anno muoiono circa sei milioni di persone per lo stesso motivo. Nel 2004 sono stati investiti nel commercio delle armi 1.044 milioni di dollari, con un aumento del 20% in quattro anni. Nell'ultimo G8 dell'anno scorso è stato deciso di investire cinquanta miliardi in cinque anni per combattere le pandemie in Africa, dieci miliardi l'anno. Una cifra importante ma non commensurabile rispetto a quella impegnata nel commercio delle armi.

Queste cifre mostrano che tra la guerra visibile della guerra e la guerra invisibile della povertà certamente non c'è un rapporto automatico, ma un qualche rapporto c'è, nel momento in cui si investono enormi capitali nel mercato delle armi e si danno cifre poco più che simboliche per combattere la povertà. O per meglio dire si promettono cifre poco più che simboliche. Come sempre è accaduto, solamente una parte dei fondi promessi arriva concretamente a destinazione. Se poi si guarda agli impegni dei Paesi rispetto allo 0,70% del Pil stabilito dall'Onu e da tutti accettato, si rimane sgomenti con il nostro Paese all'ultimo posto della graduatoria con lo 0,11- 0,12%. Non si tratta solamente di violare gli standard Onu o di non rispettare delle statistiche: si tratta di percorrere la linea di una politica che uccide perché lascia andare alla deriva intere generazioni di Paesi e di continenti.

VITTIME E CARNEFICIL'esempio del Sudafrica mostra che l'esperienza della Commissione verità e riconciliazione ha innestato un percorso virtuoso, che ha evitato al Paese la guerra civile e il collasso sociale e ha promosso un nuovo tipo di convivenza. Il Sudafrica è diventato punto di riferimento dei Paesi attraversati da conflitti in tutta l'Africa. Un gruppo di intellettuali israeliani ha posto la medesima questione al governo israeliano, chiedendo un pieno e unilaterale riconoscimento delle sue responsabilità nel dolore e nella sofferenza del popolo palestinese. Questo aprirebbe spazi inediti e originali al processo di pace, perché sarebbe un contributo irrinunciabile al superamento della cultura della negazione dell'altro e della sua dignità.Il perdono rinvia sempre alle vittime, che hanno bisogno di perdonare, e ai carnefici, che hanno bisogno di essere perdonati. Questo tipo di giustizia riconciliativa cambia i rapporti all'interno dei popoli e tra i popoli e avvia processi di ricomposizione sociale e culturale del tutto imprevedibili. Quando la politica è violenta non basta il cambiamento della politica, è necessaria la conversione della politica. Cambiare politica non significa cambiare solamente i contenuti di superficie, ma lo stesso modo di pensare e di agire politicamente. La conversione della politica tocca il profondo delle scelte, gli abiti culturali attraverso cui leggere la realtà.Quando si dice che l'Europa investe di più su una mucca francese che su un bambino del Burkina Faso, si denuncia una grave stortura e si domanda un cambiamento, affermando innanzi tutto la violenza di una politica che uccide. Ma mettere al centro il bambino del Burkina significa rovesciare la politica, investire su uno sviluppo che abbia la misura del futuro di quel bambino, su una sanità che ne garantisca la vita contro tutte le pandemie, su istituzioni che producano una politica che metta al primo posto i suoi diritti al cibo, alla scuola, alla salute e alla pace, altrimenti non c'è futuro per lui. Questa è la conversione della politica e la politica come conversione da un passato che ha privilegiato gli interessi economici europei rispetto alla vita delle persone africane, in primo luogo i bambini. Questo crea le premesse per la riconciliazione tra gli Stati, tra i popoli e tra i continenti. È la vera alternativa alla guerra e al suo tempo. È possibile su queste basi costruire un nuovo partenariato euroafricano. La cooperazione è lo strumento di questa grande politica, che accetta la sfida del perdono per costruire riconciliazione. (da Missione oggi)