Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Mario Polastro
Il testo fondamentale che motiva l’attività ecumenica è la preghiera d’addio di Gesù quando, alla vigilia della sua passione, chiede al Padre che i suoi discepoli siano una cosa sola. La ”spiritualità ecumenica” non consiste nel nostro darci da fare o nell’aggiungere “‘azioni spirituali” ad altre di diversa natura, ma nel rispondere al comando del Cristo.
“Una spiritualità cristiana biblica è essenzialmente una comunione di vita con Gesù Cristo crocifisso, risorto e presente con il suo Spirito nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali. Egli vuole che noi facciamo tutto il possibile per superare le divisioni tra i cristiani e ritrovare l’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ecclesiali. La principale motivazione per l’attività ecumenica non risiede nel nostro discernimento umano, per quanto rilevante, ma unicamente nella volontà di Gesù Cristo il quale, alla vigilia della sua passione ha pregato per i suoi discepoli, affichè essi fossero una cosa sola. La motivazione di una spiritualità ecumenica deve dunque essere “cristologica” e non soltanto “filantropica”. Il testo fondamentale. di una spiritualità ecumenica deve essere la preghiera d’addio di. Gesù, [...] l’inesauribile testo di Giovanni 17» (Il regno-documenti, 21(2003), p. 661).
Mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è fondamentale per impostare in modo corretto il discorso sulla “spiritualità ecumenica”.
Antidoto all’attivismo
Perché “spiritualità ecumenica” e non “ecumenismo spirituale’”? Unitatis redintegratio 8 parla di «ecumenismo spirituale» nel contesto del capitolo Il, “Esercizio dell’ecumenismo”. Stando alle affermazioni così come suonano, sembra quasi che si tratti di “azioni spirituali” le quali si aggiungono ad altre di diversa natura (ecumenismo teologico, ecumenismo della carità, ecumenismo del dialogo, ecc.).
In realtà sono tutti d’accordo, a partire da Paul Couturier, dal concilio Vaticano Il e oltre, che la “spiritualità ecumenica” non consiste nell’aggiungere qualcosa a ciò che si fa già, ma nel dare a “quello che siamo e che facciamo” la dimensione dell’anelito all’unità, in risposta alla preghiera e al comando di Gesù. Ecco allora l’importanza della citazione iniziale; è del vescovo di Basilea (Svizzera) Kurt Koch, il quale ha tenuto un’importante relazione sulla “Spiritualità ecumenica” nell’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, presieduto dal cardinale Walter Kasper (2003). Lo stesso Kasper, parlando dell’”Ecumenismo in un prossimo futuro”, indica tre compiti fondamentali:
• approfondire il tema del battesimo e della fede battesimale;
• far crescere l’ecumenismo con documenti e azioni, ma anche e soprattutto attraverso una “rete ecumenica” di amicizie;
• coltivare la “spiritualità ecumenica” come antidoto al solo “attivismo”... . nella consapevolezza che l’unità è dono dello Spirito, che può solo essere invocato nella preghiera; la conversione personale; la lettura e la meditazione comune delle Scritture, la rete di comunità oranti sparse nel mondo... sono semi da gettare nel solco fumante della storia.
C’è un aspetto della “spiritualità ecumenica” al quale si bada troppo poco: nell’avvicinamento, nell’incontro e nel confronto con “l’altro”, la diversità può diventare “ricchezza”, ma qualche volta può anche diventare “sofferenza”, in quanto sono chiamato a cambiare, a purificarmi, a compiere quella continua “trasformazione di me”, che richiede sacrificio, ma che comporta anche tanta gioia. E’ quella che viene detta «ermeneutica dell’apprendimento e della sofferenza» (Kurt Koch).
Certo, l’ecumenismo nella Chiesa cattolica romana (come d’altronde nelle altre Chiese) ha ormai una lunga storia... di esperienze, di riflessione, di dialogo. E questo vale anche e soprattutto per la “spiritualità ecumenica”, che si presenta come frutto maturo proveniente dai tempi di padre Paul Couturier (morto nel marzo 1953). Il dibattito conciliare ha fatto la sua parte, ma soprattutto “il vissuto ecumenico” ha aperto le vele al vento dello Spirito.
Verso la comunione piena
Sono parroco da molti anni, e per la mia comunità parrocchiale l’ecumenismo non è un’appendice dell’attività pastorale, ma è una dimensione permanente del nostro essere “discepoli di Gesù”. Per cui il pastore valdese, che viene a predicare la liturgia penitenziale e che chiede con grande fede di poter ricevere la comunione eucaristica, non stupisce ma edifica, non ingenera confusione ma ci aiuta a pregustare la gioia della “comunione piena”, che sta al centro... o al vertice della “spiritualità ecumenica”. Anche le coppie interconfessionali, con cui lavoro da 40 anni circa, sono una fucina di” spiritualità ecumenica”. Sempre più hanno preso coscienza del loro essere “chiesa domestica”, “unite nel battesimo e nel matrimonio”, “nutrite quotidianamente dalla preghiera e dall’amore sponsale”: ma, ahimé, divise (secondo la Chiesa) alla mensa del Signore.
Alcune coppie non possono più attendere e, spinte dalla “grave necessità spirituale”, fanno la comunione insieme senza peraltro staccarsi dalle rispettive Chiese, ma andando “oltre” le discipline ecclesiastiche. E lo Spirito attraverso i piccoli incoraggia a proseguire il cammino. E’ festa. Chiara fa la prima comunione. Papà è cattolico, mamma è protestante. Tutti si avviano alla mensa e la mamma rimane nei banchi. Chiara va, prende il pane di Gesù, che è il suo corpo e il suo sangue, lo rompe... metà lo prende lei e metà lo dà alla mamma. Stupore e commozione. Se non è spiritualità ecumenica questa, cos’altro possiamo invocare dal Signore?!
Ti rendo grazie, o Padre, perché tu riveli le cose grandi ai piccoli (cf Mt 11,25) come Chiara.
* Presbitero di Pinerolo (To)
(da Vita Pastorale, dicembre 2005)
BIBLIOGRAFIA
Couturier P., Ecumenismo spirituale (a cura di M. Villain), Ed. Paoline 1965, pp. 370; Pattaro G., Corso di teologia dell’ecumenismo, Queriniana 1985, Brescia, pp. 436; Cullman O., L’unità attraverso la diversità, Queriniana 1987, Brescia, pp. 138; Sartori L., L’unità delta Chiesa. Un dibattito e un progetto, Queriniana 1989, Brescia, pp. 230; Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, La spiritualità ecumenica. Contributi di W. Kasper e di K. Koch: Il regno-documenti, 21(2003), pp. 653-664.
Per intendere rettamente questo sacramento, detto anche sacramento della penitenza, occorre una valutazione secondo la fede di ciò che chiamiamo peccato. Esso è l’evadere consapevolmente e liberamente la vincolante volontà di Dio, è il no superbo ed egocentrico al Creatore e ai suoi ordini. Esso significa aprire una separazione tra il Creatore e la creatura.
Johan Galtung
Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero è eterno. Potremmo definire un impero come un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Non c'è solo una dimensione economica.
Un famoso pianificatore del Pentagono (Ralph Peters, colonnello dell' Esercito americano durante gli anni '80 e '90, ndr), ha affermato che il fine delle Forze armate degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire l'interesse commerciale e l'offensiva culturale americana, aggiungendo: "Toward this end there will be a fair amount of killing" ("Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti"). Per questo, a partire dal secondo dopoguerra, in seguito a 70 interventi militari, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra 12 e 16 milioni.
UNA NUOVA TEORIA
Io non sono antiamericano: sono contro l'imperialismo americano, e quindi contro la guerra che provoca. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell'impero sovietico che aveva come fondamento la "sinergia delle contraddizioni sincronizzate" e che prevedeva il crollo dell'Urss entro 10 anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Nell'ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate: quella tra l'Unione Sovietica stessa e gli Stati satelliti, tra la nazione russa e le altre nazioni dell'impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. E' possibile che un sistema possa dominare con le baionette una contraddizione, ma quando tutte crescono e tra di loro si crea una sinergia, allora bisogna cambiare il sistema per evitarne il crollo. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, e' stato abbattuto il muro di Berlino; subito dopo si e' smembrato l'impero sovietico. Al momento gli Stati Uniti hanno ben 15 contraddizioni. Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l'impero americano non sarebbe andato oltre il 2025. Da quando e' stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche ciò si chiama "acceleratore di sistema".
GOLPE FASCISTA O PROCESSO DI VERITÀ?
Quando tra quindici o venti anni un presidente americano dichiarerà alla televisione che gli Stati Uniti ritireranno le proprie truppe di occupazione, elimineranno tutte le loro basi militari dislocate all'estero, e parteciperanno alle Nazioni Unite come uno Stato uguale a tutti gli altri, allora potremo prevedere due cose: o che toglieranno il collegamento durante il suo intervento, o che ci sara' un golpe militare fascista. Cio' e' possibile. Siamo stati vicino a questo negli anni '30, durante la presidenza Roosevelt. Cio' che dobbiamo fare fin da ora, e' insegnare al popolo americano i valori dell'uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che viviamo tutti sullo stesso pianeta e che insieme possiamo migliorare le cose. Per fare questo c'e' bisogno dell'Onu, non dominata da una sola potenza e nemmeno da un Consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi. Gli americani non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. Sono convinto che negli Usa ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione. E' importante ricordare che l'emancipazione dei cittadini tedeschi dall'eredità del passato nazista, e' avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo che essi hanno compiuto non soltanto grazie all'ammissione delle proprie colpe, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici in cui la parola "Auschwitz" ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute hanno avuto la possibilità di capire e di imparare. Una scossa positiva negli Stati Uniti favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo, ad esempio, in America latina, processo che vedo destinato a sfociare nella costituzione degli Stati Uniti dell'America latina, una nuova entità istituzionale e politica, ma senza la bomba atomica.
UN MODELLO FEDERATIVO PER AFRICA E MEDIO ORIENTE
L'idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto e' interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico che lo attesti. Credo nella legittimità dell'esistenza di uno Stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei "due popoli, due stati" sia la migliore. Oltre a un "bilancio militare" esiste anche un "bilancio di pace". Israele e' troppo forte, la Palestina troppo debole. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di Paesi mediorientali, di cui facciano parte uno Stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto, e in cui proprio le nazioni arabe possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele.
Dopo mille anni senza traccia alcuna di una cultura delle sinergie, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l'affermazione di un'economia cooperativa, confini aperti per la libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell'intera regione. Del resto, la pace in Europa occidentale non si e' fatta sulla base di un trattato tra Germania e Lussemburgo. E' stato creato un contrappeso alla Germania, ed esso era rappresentato da Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia e Italia.
Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente, e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto insegnamenti preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile della regione, perché discutano tra loro sul Medio Oriente in cui vorrebbero vivere. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato.
Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l'Africa centrale. Qui, dove e' molto forte il peso dell'imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una confederazione bioceanica che comprenda Tanzania, Uganda, Rwanda, Burundi, RdCongo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: essi non conoscono la direttrice Est-Ovest, ma solo quella Nord-Sud. Cio' rappresenta il loro "crimine geografico". Il Sudafrica ha gia' fatto questo. Per quanto riguarda, inoltre, l'intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.
LA TERZA GUERRA MONDIALE
Spostiamoci ora nella zona piu' delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale concepita da un geografo britannico nei primi anni del '900, e che si può sintetizzare così: chi domina l'Europa orientale domina l'Asia centrale; chi domina l'Asia centrale domina l'isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l'isola mondiale domina il mondo.
Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante documento che attesta l'attuale linea geopolitica americana, il documento JCS570/2. Questo rappresenta la risposta all'interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L'esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo: l'Europa occidentale, l'Asia orientale e l'America latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l'Ampo e il Tiap. Tornando alla regione di Cina, India e Russia, appare subito evidente che essa presenta il 40% dell'intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell'espansione della Nato, da una parte, e dell'Ampo dall'altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell'ex-Unione Sovietica, e che i tre Paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione. L'idea poi di fare dell'Afghanistan e dell'Iraq due Stati unitari e' un' illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità: curda, turcomanna, sunnita e sciita. Su quello afghano ben undici. Un modello federale è l'unica alternativa praticabile per questi due Paesi.
(da Missione Oggi, febbraio 2005)
Risposte raccolte da Aurelie Godefroy e Frédéric Lenoir
“Per me è naturale entrare in una chiesa, accendere una candela e pregare”.
Figura insostituibile dell’intellighentia francese, Philippe Sollers occupa da quarant’anni il primo piano della scena letteraria parigina. Dopo i suoi inizi, celebrati da François Mauriac e Louis Argon, questo osservatore ironico della società non smette di punzecchiare i costumi del suo tempo. Detestato o adulato, questo scrittore provocatore non lascia nessuno indifferente. Il mistero Sollers, come alcuni si compiacciono di designarlo, turba con le sue prese di posizione anticonformiste.
La contemplazione buddista è un’autentica esperienza interiore, che ha come fine illuminare il più profondo dell’essere umano. Non si tratta di un’esperienza di tipo religioso, cioè dell’incontro con”Qualcuno”, ma piuttosto del divenire partecipi,coscientemente, della realtà di ciò che è l’Uno e della sua unione con la dottrina universale. Questa contemplazione, non consiste soltanto nell’adozione di tecniche [somatiche(?)] posturali o psicologiche, ma è piuttosto un fatto vitale (esistenziale).
Nello zen, l’esperienza della meditazione guida ad un approfondimento verso il centro del proprio essere, verso quella natura originaria che possiede le caratteristiche dell’assoluto. Lo zen può essere avvicinato alla meditazione mistica cristiana, in quanto anch’essa aspira ad incontrare nel profondo dell’essere, colui che vi abita. In Santa Teresa di Avila, la settima stanza del suo Castello interiore, è il luogo centrale in cui risiede il Re. Il cammino verso il centro dell’essere è presente sia nella mistica orientale che nella mistica cristiana.
Seguendo questo itinerario,il contemplativo zen,attraversa il vuoto ed il nulla;la stessa esperienza è stata fatta anche dai mistici cristiani come S. Giovanni della Croce. Nello zen, inoltre, l’abbandono, il superamento dei pensieri, delle immagini, dei ragionamenti, è uno stato psicologico ricercato, provocato artificialmente per mezzo di tecniche particolari. Nella mistica cristiana tradizionale, colui che medita non è invitato ad abbandonare pensieri, ragionamenti, immagini, ricordi se non quando è divenuto capace di una preghiera semplificata e sa attendere dalla grazia il dono della liberazione dai sensi.Provocare questo stato artificialmente,può rappresentare come un’invasione dello spazio di libertà,proprio dello Spirito Santo. É comunque di grande aiuto cercare di allontanare pensieri, preoccupazioni, ricordi, per concentrarsi solo sul momento presente,sul fatto che siamo al cospetto di Dio,e che soltanto questo è quello che conta.
La contemplazione nella mistica zen culmina nell’illuminazione, che è l’incontro con il centro dell’essere; nella mistica cristiana l’illuminazione avviene nell’incontro con Dio alla luce della fede. Ci si è chiesto se i metodi zen possono essere applicati nella meditazione cristiana;questo è possibile, in quanto possono aiutare il cristiano a progredire nell’arte della meditazione, a condizione che si evitino forme di sincretismo religioso e ricordando sempre che l’incontro con Dio non può essere risultato di tecniche. In ogni caso la meditazione è un esercizio benefico in particolare come metodo di concentrazione. Il distacco dalle cose che crea un vuoto completo attraverso un percorso simile allo zen è possibile anche al cristiano. Dobbiamo tuttavia tener presente che per accedere all’illuminazione cristiana, dobbiamo sempre ricordare che è solo il Cristo la luce del mondo.
Per questo motivo nelle sessioni cristiane dello zen, il koan Mu sarà sostituito dal Koan Shu (Signore)un addestramento alla morte di Gesù in vista della redenzione dell’uomo nuovo. Divenire uno con Gesù, morire con lui e risuscitare grazie a lui, questa è l’Illuminazione cristiana.
Monastero Trappista di Valserena
La comunità monastica di Monte Oliveto Maggiore ha ospitato un evento significativo e bello accogliendo il convegno che si proponeva di fare un bilancio della attuazione della Riforma Liturgica a 40 anni dalla costituzione SC, la prima votata al concilio Vaticano II.
Il lavoro del Convegno è stato scandito come ogni giornata monastica dal canto dei salmi in gregoriano, la Messa all’inizio della giornata, celebrata con pacatezza e solennità, cantata con arte rara, pregata dal coro e dagli ospiti, e al termine della giornata raccolti in una cripta laterale il canto del Salve Regina, tradizionale chiusura della giornata per ogni monaco o monaca.
Attualmente la Congregazione benedettina di Monte Oliveto ha monasteri in Italia, Francia, Inghilterra, Brasile, Guatemala, Stati Uniti, Israele e nella Corea del Sud. Tutti questi monasteri sono talmente uniti all’Archicenobio di Monteoliveto in modo da formare una sola famiglia, un «unico corpo», sotto la guida dell’Abate di Monte Oliveto, che perciò è anche Abate Generale della Congregazione e che è ora Dom MICHELANGELO RICCARDO TIRIBILLI1.
Egli ha presieduto sia la celebrazione dell’ufficio Liturgico, sia lo svolgimento del convegno, la cui segreteria scientifica era affidata a Dom Roberto Nardin.
Padre Roberto Nardin OSB, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Universitas Lateranensis, e docente a S. Anselmo, in un’intervista rilasciata al Sir, dice: «Il convegno è stato una grossa opportunità per approfondire e riconfermare l’importanza della liturgia per la vita spirituale in genere oper la vita monastica in particolare... Ha permesso di spaziare all’interno delle tre fasi che hanno contraddistinto la liturgia negli ultimi decenni. La prima fase èstata quella del movimento liturgico, con la crescente consapevolezza da parte dei credenti dell’importanza di una liturgia più vissuta e partecipata. La seconda fase ha coinciso con il Concilio Vaticano II e con le novità introdotte. La terza fase, quella attuale, consiste invece - continua p. Nardin - nella necessità di formazione alla riforma».
In tutto questo percorso storico, che abbraccia vari decenni, durante il convegno si è riflettuto — in particolare — sul ruolo avuto dal monachesimo. «Dai lavori del convegno è emersa chiaramente — aggiunge p. Nardin — la disponibilità del mondo monastico, maschile e femminile, a rendere partecipe il popolo di Dio alla liturgia, collaborando all’animazione e formazione liturgica e cercando di agire come il lievito nella pasta».
Tra le notazioni emerse durante i lavori, i rappresentanti delle comunità monastiche francesi hanno mostrato una particolare «unità di intenti» per quanto riguarda l’adozione di forme e preghiere liturgiche. Lo ha testimoniato Dom Marie Gèrard Dubois, per più di vent’anni abate della Grande Trappe e presidente della commissione di Liturgia dell’o.c.s.o. raccontando il lavoro della Commissione Francofona cistercense, che ha come suo strumento di diffusione la rivista Liturgie e che offre sempre una ampia scelta di studi, documenti del magistero, proposte di testi per la liturgia a servizio del mondo monastico. Da parte italiana sono intervenuti, tra gli altri, i rappresentanti delle comunità di Valserena, Praglia, Camaldoli e Bose.
Il mondo monastico italiano è più vario, e non esiste in esso uno strumento di coordinamento come la CFC.
Ogni comunità si muove un po’ all’interno dell’ordine cui appartiene senza troppo collegamento con altre realtà... Il convegno è stato anche un buon tentativo in questo senso di conoscenza e di confronto.
«L’aspetto visibile, concreto della religione, il rito e il simbolo, viene compreso sempre meno, non è più colto e vissuto in modo immediato — ha detto uno dei relatori, il prof. Andrea Grillo, coordinatore della specializzazione in teologia dogmatico — sacramentaria presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma. Grillo ha sottolineato che trattare oggi di liturgia significa «l’approfondire quelli che appaiono ancora come luoghi comuni: il primo è la formazione liturgica intesa come istruzione circa i riti, il secondo è il rafforzamento della separazione tra formazione e spiritualità e il terzo riguarda la soggezione della formazione liturgica ad una lettura sostanzialmente clericale della Chiesa».
Tra i relatori oltre il Prof Grillo e il prof. GIORGIO BONACCORSO, Preside dell’istituto di Liturgia pastorale Abbazia di santa Giustina di Padova. Goffredo Boselli, monaco di Bose ha parlato de prima e dopo la riforma liturgica. PAUL DE CLERKDirettore della rivista La Maison Dieu, membro del Comitè national de Pastorale liturgique (CNPL) già direttore dell’lnstitut Supérieur de Liturgie (ISL) di Parigi ha descritto la ricezione teologica, applicazione pratica e tentazioni di ripiego rispetto alla Sacrosanctum Concilium oggi, mentre DANIEL SAULNIERDirettore dell’istituto di Paleografia musicale dell’Abbazia Saint Pierre di Solesmes e docente presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, ha parlato del canto gregoriano, del suo recupero e del compito che lascia oggi alle generazioni in cerca di una formula musicale altrettanto duratura e valida.
Le relazioni erano seguite da testimonianze delle varie comunità rispetto al lavoro fatto da ciascuna per applicare al proprio interno gli esiti della riforma liturgica, e ora per dare una adeguata formazione liturgica. Una sorpresa per chi ha partecipato al Convegno è stata la presenza viva e numerosa di molta parte del mondo benedettino italiano, comunità giovani e in piena evoluzione, numerica e vitale, ad esempio la comunità di Santa Marta di Firenze, o la Comunità di Poffabro, così come, da parte francese, la Comunità del Bec. Ci si può augurare che si sviluppi ancora meglio l’apporto della dimensione sapienziale femminile così che ad incontri simili ci si possa rallegrare di vedere coniugati insieme relazioni dotte e testimonianze di esperienza, comunità maschili e comunità femminili, nella edificazione di un mondo monastico che proprio nella nostra Europa pare chiamato a ritrovare la sua funzione positiva e profetica, e ha necessità dunque di ogni apporto e di ogni voce. A Monte Oliveto il doppio apporto di testimonianze e relazioni dottrinali ha dato al convegno l’aspetto non solo di un incontro puramente accademico ad alto livello ma di un reale incontro di comunità monastiche in ricerca all’interno di una chiesa desiderosa di riscoprire e riappropriarsi delle fonti della preghiera.
Quali luoghi più appropriati a questo se non i monasteri benedettini, olivetani, cistercensi e trappisti?
(1) Abate ordinario di Monte Oliveto Maggiore, OSB. Nato a Firenze, il 18 marzo 1937, Ordinato presbitero il 2 luglio 1961, nominato abate ordinario di Monte Oliveto Maggiore il 3 ottobre 1992; confermato il 16 ottobre 1992. Membro della Conferenza Episcopale Toscana.
Mi capita spesso di incontrare persone che si dichiarano non credenti. E c’è un aspetto che sorprende. Ben presto, parlando, emergono elementi che mi lasciano stupito...
di Franco Gioannetti
Nel cantico del Magnificat ci viene presentato un itinerario che occorre percorrere per vivere la virtù della “povertà” in esso; per le nostre comunità, la “povertà” può divenire infatti missione e testimonianza davanti al mondo.
La virtù-povertà è infatti un segno con cui Dio rivela il suo amore verso di noi ed un atteggiamento di vita con cui testimoniamo il suo amore al mondo.
Il Magnificat inizia con un dialogo d’amore “L’anima mia magnifica il Signore”, è l’espressione della gratitudine che risponde al Signore il quale “ha fatto di me grandi cose”.
In questo dialogo noi troviamo Maria “la donna povera” perché da un lato si lascia preparare dal Signore e riceve da lui i doni che le riempiono le mani, e lascia fare grandi cose al Signore, ma nello stesso tempo è povera perché oltre a questa disponibilità ad essere “preparata”, dimostra anche disponibilità ad essere “mandata”. E’ sempre con le mani attivamente vuote per ricevere i doni, come quando si è sentita “colmata di grazia”; è ancora con le mani vuote per offrire questi doni, come quando si è sentita dire “lo chiamerai Gesù”; in una espressione che indicava tutta la missione di Cristo; accanto alla sua, aperta al mondo. Maria è povera, con le mani vuote, “preparata da Dio, cioè continuamente espropriata di se stessa per accogliere i doni del Signore; Maria è povera anche quando è continuamente “mandata” da Dio, perché ancora espropriata dei doni che le ha dato in funzione degli altri.
Noi maristi non possiamo non essere coinvolti in questa povertà, dobbiamo perciò avere le mani attivamente vuote per accogliere tutti i doni che il Signore ci dà. E’ un aspetto fondamentale, mi sembra, della nostra spiritualità. “Mio Dio, fate attraverso di me delle grandi cose... io riconosco il mio nulla, l’onnipotenza di Dio, facendo questa preghiera” (E.S., Doc 132, § 28).
Ma è anche “povertà” permettere che egli ci espropri continuamente di noi stessi e dei suoi doni, quando lasciandoci ancora con le mani attivamente vuote, egli ci chiede di non conservare per noi i doni, perché essi diventano veramente tali quando ce ne sentiamo espropriati dalla missione che il Signore ci affida; diventiamo così i poveri a cui è annunciato e che annunciano il Regno.
A questo punto saremo dei poveri, ma la povertà non sarà solo una nostra virtù, sarà anche il mezzo con cui il Signore rivela il suo amore verso di noi che riempie di doni per invitarci “in missione”.
Così la povertà deve divenire veramente il nostro stile, uno stile che permette a Dio di manifestare il suo amore per ogni singolo “che invia” verso il mondo.
Ma questa povertà che accoglie e che dona non è una virtù anonima, e neanche una virtù innata; è una virtù che ha nella storia della salvezza dei protagonisti, dagli anâwim del Vecchio Testamento di cui il Cantico di Anna è un’espressione, ai due grandi protagonisti del Nuovo Testamento Maria e Gesù.
E’ attraverso questi modelli che riusciamo a comprendere i lineamenti veri di questa povertà.
Di fronte ai grandi problemi della vita dobbiamo ispirarci a questi modelli, per presentarci con una volontà chiara in risposta alle esigenze che ci vogliono presenti nel mondo.
Quali sono questi lineamenti di Maria e Gesù poveri?
Direi che Maria è stata povera e “per la sua umile condizione” e per la sua assoluta adesione alla proposta di Dio: “Sia fatto di me secondo la Tua parola”. Gesù ha abbandonato ogni avere: “il Figlio dell‘uomo non ha neanche dove posare il capo”, ha rifiutato la tentazione del “potere-contare” rifiutando di essere Re, rifiutando le altre proposte, non lasciandosi avvolgere dalle cose che contano quando si è espropriato di se stesso, offrendosi al Padre ed agli uomini nel suo abbassamento (kenosis).
Siamo dunque, come figli di Maria, invitati a far divenire vita questo Cantico; impegnandoci ad essere continuamente in cammino, evitando le posizioni che installano, per vivere veramente al di là dell’avere”, al di là del “potere” attraverso una serie di gradini che l’esperienza di Dio ci farà percorrere.
Può essere questo per noi una parte della scala della nostra kenosis o abbassamento
- dall’avere non solo fino al dare ma... fino ai darsi; dare è sempre un atto di ricco; darsi è…condividere
- dal potere all’accoglienza
- chi ha potere invade la vita dell’altro
- chi accoglie fa come Maria che sa apparire e ritirarsi, per essere “serva” nella missione di Gesù
- chi accoglie non invade la vita degli altri, neppure con la scusa di far loro del bene.
- dal valere al valorizzare
- passare dal “valere” delle cose che contano nel mondo al “valorizzare” ciò che è piccolo.
Un grande impegno ci si offre allora ed un lungo cammino, se crediamo che povertà sia trascurare le cose che valgono di fronte al mondo, per valorizzare le cose trascurate
- essere sempre per via, andando lì dove gli altri non vogliono o non possono andare
- trascurare ciò che “brilla” per scegliere il servizio nelle situazioni di emergenza sia come religiosi che come gruppi laicali
- saper rifiutare la cultura dell’apparire e dell’effimero per realizzare nelle comunità e nelle famiglie ciò che la nostra vocazione esige
- non far contare, nelle comunità, in primo luogo, le grandi iniziative, le statistiche, i successi ma la santità invisibile.
Passare dal valere al valorizzare ci porterà come discepoli e discepole di Colin al servizio degli emarginati: i poveri della malattia, del reato, della fragilità, dell’anonimato; i “pellegrini” della carta bollata” negli uffici della burocrazia, dell’assistenza pubblica.
In questi d’altronde si realizza oggi la kenosis di Cristo, perché ci richiamano una vera presenza del Signore nel mondo.
Maria è la Serva del Signore
Cristo è il Servo di Yawhé
Il Padre ha guardato “alla sua povera serva” o “alla sua umile condizione”. Il Padre ha mandato “il Figlio diletto”.
Mi sembra che questa sia una strada essenziale, per la nostra missione, perché sarà la nostra povertà a divenire servizio come è stato per un Colin, uno Champagnat, una Chavoin, una Perroton.
Questa riflessione ha tentato di presentare Gesù e Maria come poveri.
A noi di seguirli!
E nel seguirli ripensare con fiducia e gioia le parole di Maria:
“Il Signore ha fatto in me grandi cose”
e le parole di Gesù:
“Lo Spirito del Signore è sopra di me”.
Il dono dello Spirito ricevuto, nella docilità, ci renderà capaci di diventare “poveri servi”, che fanno crescere il mondo nella risurrezione di Cristo e che sono un segno trasparente che il mondo viene ricostruito nella verità.
di Rosangela Vegetti
La situazione di questa nazione è di grande speranza per l’avvenire dell’Europa. Sul piano religioso (l’86% della popolazione è ortodossa), potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche. In un recente viaggio una delegazione di responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi lombarde, ha incontrato, mesi addietro, esponenti della Chiesa ortodossa, in vista della III Assemblea ecumenica europea che è stata tenuta lo scorso settembre a Sibiu.
La Romania è un paese vicino a noi, vanta radici culturali latine a partire dalla conquista dell’imperatore Traiano, è membro della comunità europea, assorbe parecchie attività italiane “delocalizzate” e faticosamente sta ricostruendo la propria vita sociale e politica dopo il lungo periodo comunista, per noi però è ancora da scoprire nelle sue varie connotazioni, a partire dalla sua profonda tradizione religiosa. Potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche di incontro e dialogo in vista di progetti nuovi di amicizia e solidarietà in questo tempo di ricostruzione e apertura al futuro, e questo è l’intento che si sono dati da tempo i responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi di Lombardia con capofila Milano.
Capofila perché già il cardinale Martini aveva aperto il cammino con, scambi di visite con il patriarca di Bucarest e altri metropoliti, e inaugurato un metodo di “intervento” per progetti di solidarietà connotato da ampie intese di collaborazione per evitare ogni ingerenza o presenze fuori misura. Tale è infatti il timore di chi si trova nella necessità e vede sorgere opere e iniziative che superano ogni possibile gestione locale (ospedali, scuole, chiese, seminari, case religiose, strutture di servizio) e assumono il carattere di “imprese straniere”.
In un recente viaggio, una delegazione lombarda di incaricati ecumenici diocesani, giornalisti e operatori pastorali, con monsignor Coccopalmerio, vescovo delegato per l’ecumenismo della Cei (ora presidente del Pontificio consiglio per le leggi), ha incontrato esponenti della Chiesa ortodossa e insieme valutato quanto si possa fare per il prossimo futuro, sia in vista della III Assemblea ecumenica europea, che culminerà a Sibiu nel prossimo settembre, sia per conoscere la realtà della Chiesa sorella cui appartiene il gruppo più numeroso di immigrati est-europei in Lombardia. I metropoliti hanno manifestato le molteplici difficoltà ed esigenze di vita cui stanno cercando di rispondere perché la popolazione romena molto cammino ha ancora da fare e molto si attende dal sostegno dei popoli europei. Si è parlato di possibili gemellaggi tra parrocchie - in alcune città lombarde esiste già tale forma di collaborazione con parrocchie romene - tra diocesi e istituzioni, magari anche enti locali, e si sono visitati centri diocesani e monasteri.
Attenzione ai gravi bisogni sociali
La Chiesa ortodossa romena conta sei metropolie autonome, ognuna con il suo sinodo dei vescovi, ma solo dopo, il 1989 ha potuto organizzare un dipartimento per l’assistenza «sociale, perché nel periodo comunista non poteva svolgere alcuna attività filantropica. Ora lo Stato non è più in grado di rispondere alle svariate necessità ed è la Chiesa che deve intraprendere iniziative idonee, che vanno dalle mense per i poveri, al sostegno ai disoccupati, a forme di aiuto e protezione per i minori, a interventi contro il dilagare della droga tra i giovani, violenze in famiglia, anziani soli, ecc. «Sono stato 4 anni responsabile del dipartimento dei problemi sociali a Craiova», spiega monsignor Nicodim, vescovo di Severin e Strehaia, «quando ero vescovo vicario del vescovo Teofan. Siccome ero stato quattro anni in Grecia, ho visto il loro sistema messo a punto da tempo, qui invece abbiamo dovuto prima attrezzare gli uffici, poi stabilire i progetti e formare personale; abbiamo assunto assistenti sociali dalla nostra facoltà di teologia ma abbiamo avuto scarsità di spazi; abbiamo ottenuto diversi finanziamenti da ong estere, cercando di stare nei limitati spazi disponibili». In pochi anni si è passati da una vita religiosa circoscritta a monasteri e liturgie al compito complesso di organizzare risposte a gravi bisogni sociali.
«Oggi il rapporto Stato-Chiesa soffre di una certa tensione», spiega il vescovo Nicolae di Timisoara, la seconda città del Paese con 276 parrocchie ortodosse, 300 sacerdoti, e 650.000 fedeli, «perché la Chiesa desidera recuperare le proprietà che le sono state confiscate negli anni passati. Lo stato comunista aveva infatti nazionalizzato e acquisito tutti i beni ecclesiali, e per decine ne ha usufruito, oggi lo Stato dice che la Chiesa è autonoma e può fare quello che vuole, però dimentica come era prima, non sostiene l’attività della Chiesa se non su richiesta e in piccola misura. Il finanziamento ci viene dai fedeli. Circa l’attività sociale-caritativa, nella nostra diocesi, abbiamo un settoreche si occupa di questo .ed è coordinato da un responsabile amministrativo; si volgono attività in particolare per i bambini, che provengono da famiglie sciolte e abitano in strada o in orfanotrofi statali; la diocesi ha cinque case di tipo familiare, dove questi bambini sono presi in affido,e alcuni rappresentanti della diocesi si occupano dei bambini ammalati di Aids per la loro integrazione nella società; lavoriamo anche con i rispettivi genitori e abbiamo una casa che si occupa delle persone che vengono dal traffico degli esseri umani per prostituzione. Attraverso rappresentanti della Chiesa assicuriamo assistenza liturgica, religiosa ed educativa negli asili, nelle scuole e nei licei di Timisoara, abbiamo insegnanti di religione. (uomini e donne) per una minima catechesi nelle scuole. Dopo il 1989 nelle scuole si sono manifestati problemi nuovi come droga e prostituzione, così cerchiamo di assistere questi casi nelle scuole. Adesso ci prepariamo ad aprire un servizio in soccorso agli anziani per assicurare assistenza a domicilio».
La situazione generale è di grande speranza, ma certamente difficile e complessa perché i fedeli non raggiungono il 10% dell’intera popolazione e necessitano di una formazione che vada oltre la sola devozione inoltre i più giovani sono spesso costretti ad emigrare per trovare - sostentamento alle famiglie ed interi paesi sono spopolati; solo la prospettiva di nuove infrastrutture create con l’appoggio europeo fanno sperare nel ritorno di tanti lavoratori emigrati e di donne romene attualmente lontane dalla. famiglia.
Apertura ecumenica
La Chiesa ortodossa romena è comunque interpellata dal corso dell’evangelizzazione dei tempi presenti, secolarizzati e attratti dal progresso materiale, dalla proposta di maggiore apertura ecumenica verso le altre Chiese cristiane e di mediazione tra antiche tradizioni e modernità: «In Romania da molti secoli abbiamo la stessa lingua per la liturgia e la vita quotidiana, per cui il linguaggio liturgico non è distante dal linguaggio parlato; avete sentito che la Chiesa ortodossa è conservatrice ed è così. È difficile introdurre elementi totalmente diversi nella vita e nell’espressione della Chiesa; è impossibile cambiare alcune preghiere della liturgia, portare musica strumentale in chiesa, allontanare la ricchezza iconografica per soddisfare chi vorrebbe uno stile artistico più sobrio, introdurre certe danze nelle celebrazioni. Secondo il mio parere», afferma il vescovo Teofan, metropolita dell’Oltenia e arcivescovo di Craiova, «è un’opera che non va fatta, col rischio di non rispondere alle esigenze di alcune categorie di fedeli.
di Marco Ronconi
Ricordo con grande affetto la prima lezione di "Storia ecclesiastica recente" all'università. Al suono della campanella, con signorile eleganza gesuitica e lieve cadenza fiamminga, il professore scandì un elenco di date ed eventi disposti a coppie sulla lavagna luminosa. 10 marzo 1791 e 7 dicembre 1965: da un lato il giorno in cui Pio VI definì la libertà religiosa una mostruosità, dall'altro la data di promulgazione di Nostra aetate, in cui il Concilio Vaticano II affermò che il diritto dell'uomo alla libertà religiosa «affonda le sue radici nella rivelazione cristiana». 8 dicembre 1864 e 6 agosto 1964: Pio IX afferma che il Papa non deve venire a patti con la moderna civiltà, mentre un secolo dopo Paolo VI spiega che la Chiesa deve dialogare con il mondo in cui si trova. 20 novembre 1704 e 27 ottobre 1986: Clemente XI vieta ai cristiani di celebrare secondo i riti cinesi, mentre sull'altra colonna Giovanni Paolo II prega ad Assisi con i leader delle principali religioni mondiali. L'elenco potrebbe essere molto lungo, ma penso si sia capito. La storia della Chiesa ha conosciuto grandi continuità ma anche forti discontinuità. Al di là dei giudizi, negarle non è mai un buon segno. Mi torna in mente quella lezione tutte le volte in cui, insegnando ad adolescenti, ho l'impressione che oggi circolino alcuni immaginari molto diversi tra loro, ma accomunati dal dare per scontato che alcuni elementi del cristianesimo (o delle religioni in generale) «esistono da sempre così». Eppure - solo per stare a questioni tipicamente romane - l'ultimo Conclave in cui fu esercitato il veto di un imperatore non risale al Medioevo, ma al 1903: nella Chiesa cattolica la massima autorità è quella papale, ma quando Benedetto XV invocò la pace alla vigilia della prima guerra mondiale, molti vescovi francesi e un cardinale belga lo presero quasi a pernacchie; la lingua latina non è la più antica delle lingue liturgiche e quando la si introdusse al posto del greco ci fu chi si oppose per decenni, ma la fede non crollò...
L'immaginario, poi, mi sembra diventare ancora più fantasioso se si allarga il confine dello sguardo. In questa stessa rubrica ho già presentato alcune figure che incrinano il pregiudizio per cui "mediorientale" "islamico", o comunque non cristiano. Dalle attuali Palestina, Libano, Turchia, Siria, Iraq (per tacer di Egitto e Maghreb, ma sarà per un'altra volta) proviene invece la maggior parte non solo dei protagonisti biblici, ma anche dei Padri della Chiesa. Nella storia, alla voce "arabi e cristiani", non corrispondono solo le crociate, ma anche una quantità di medici, teologi e vescovi che, ad esempio tra il IX e l'XI secolo, «hanno lasciato un patrimonio letterario di primaria importanza che può qualificarsi anzitutto come "patrimonio del dialogo": un dialogo tra credenti che non si sentono ancora figli di religioni contrapposte, ma solo di interpretazioni diverse dell'unico monoteismo»: così, ad esempio, scrive il monaco di Bose Sabino Chialà introducendo la traduzione di Unità e divisione dei cristiani (edizioni Qiqajon), libretto medioevale attribuito al cristiano Ali lbn Dawud Al-Arfadi. È impressionante leggerne alcun brani pensando a come il nostro immaginario rischia di aver pericolosamente riempito la distanza (temporale e geografica) che ci separa. Ali Ibn Dawud, infatti, si rivolge alla Chiesa araba di circa un millennio fa scandalosamente divisa da tensioni e condanne, sottintendendo che imparare il dialogo tra cristiani è condizione indispensabile e previa per praticare la stessa arte all'esterno. Molto prima del famoso discorso di Giovanni XXIII all'apertura di un Concilio non a caso definitosi «ecumenico», è qui invocata la distinzione tra «il patrimonio della fede cristiana» e il «come viene formulato»: «Su quanto divergono a parole, i cristiani (delle diverse fazioni) sono d'accordo nel significato: su quanto si contraddicono in apparenza, sono unanimi nella sostanza (…) Non c'è divisione né separazione, se non per la passione, lo spirito di parte e il desiderio di supremazia». Non è infatti la diversità delle formule e delle consuetudini che può escludere qualcuno dal cristianesimo, quanto piuttosto la «mancanza di amore e umiltà» che fa «svanire la fede». «A mio giudizio sono come della gente che si dirige verso una città, sulla cui autenticità ed esistenza sono tutti d'accordo, ma che dissentono sulle vie e sulle strade che portano a essa. Ogni gruppo prende una strada che afferma essere la via giusta per la città, ad esclusione delle altre. Terminata la via si riuniscono tutti nella città». Tutti, tranne coloro che hanno usato del Vangelo per la propria vanagloria e per seminare odio. Sono essi e solo essi, quelli che si perdono.
Ora, è tornato di moda tra gli oratori contemporanei stupire con dotte citazioni. Avrei un piccolo (e mi rendo conto immodesto) suggerimento: nel prossimo futuro qualcuno potrebbe richiamare - non necessariamente da solo, anche in coppia come faceva il mio professore - un testo come quello di Ali Ibn Dawud Al-Arfadi? Il nome è ostico perché abbiamo perso la familiarità con quel mondo cristiano, ma la sua memoria - fortunatamente in non totale continuità con altri rami della nostra storia - potrebbe tornarci utile.
(da Jesus febbraio 2008, p. 49)