Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 20 Febbraio 2008 00:04

Guerra e mutamento (Rosalinda Gaudiano)

Guerra e mutamento

di Rosalinda Gaudiano


Il conflitto è un elemento costitutivo della dinamica sociale.

Quando esso costituisce operazione di scambio e di negoziazione e s'impone in positivo nei rapporti fra le persone e i gruppi, i mutamenti che ne derivano non sono causati da comportamenti violenti e sanguinari.

Il conflitto che invece da spazio a forme di violenza incontrollate, che sfociano in veri e propri atti di guerra o rappresaglia, è da attribuire ad un sentimento di deumanizzazione nei confronti dell'altro.

L'atto violento, sanguinario avviene, da parte di chi lo compie, in riferimento ad uno schema mentale che definisce la propria identità estendendo i fattori biologici fino a confonderli con quelli culturali [1]. Non vi è spazio per considerazioni d'appartenenza, non solo alla stessa cultura, ma anche alla stessa specie.

Processi umani caratterizzati da momenti di forte aggressività sanguinaria, non sono affatto frutto di tendenze naturali dell'uomo [2], essi scaturiscono solo da tendenze culturali che considerano la guerra l'unica soluzione a qualsiasi tipo di controversie.

Usare la guerra come strumento di "regolazione" di rapporti di potere è un'abitudine istituzionalizzata da parte di quegli Stati il cui popolo affonda le proprie radici in modelli culturali che giudicano l'aggressività bellica come forma di egemonia, supremazia verso chi si considera inferiore, non appartenente cioè alla stessa specie.

Purtroppo oggi assistiamo sempre più alla nascita di nuovi conflitti bellici che affliggono più parti del globo.

Ma ciò che è veramente preoccupante è l'autorizzazione alla violenza da parte di un organismo come l'O.N.U. nato per compiere ed agevolare azioni di Pace.

All'interno dello statuto dell'O.N.U., cap. 7, articolo 51, è menzionata la seguente dichiarazione: "Nessuna disposizione del presente statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la Pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quella azione che esso ritenga necessaria per mantenere e ristabilire la Pace e la sicurezza internazionale".

L'aggressione da parte degli U.S.A. alla periferia di Khartoum, dove è stata colpita e distrutta una fabbrica farmaceutica sospettata di produrre armi chimiche, è l'esempio di come uno Stato-Nazione usi la "violenza" in risposta ad un'eventuale violenza subita.

Forse nei prossimi giorni assisteremo ad un raid punitivo da parte delle forze Nato nel Kosovo.

Nonostante la Russia e la Cina abbiano obiettato all'ONU sull'uso della forza per risolvere la crisi nel Kosovo, gli Stati Uniti ribadiscono che l'intervento armato è previsto per metà ottobre. Il progettato attacco USA, conseguenza del rapporto di Annan che condanna le atrocità di Milosevic, le uccisioni a capriccio e tutti i possibili eccessi delle forze di sicurezza serba, servirebbe a scongiurare una gravissima catastrofe umanitaria.

Mi domando: possibile che l'O.N.U., organismo nato per garantire e costruire la Pace, legittimi interventi con la forza? In ogni conflitto le azioni più importanti non sono, forse, bloccare qualsiasi spargimento di sangue per comprendere le ragioni vere del conflitto siano esse di natura economica, di religione, o etniche?

Personalmente penso che la violenza, come azione umana, si è sempre dimostrata un fallimento. Tutti coloro che costituiscono forze di Pace devono convenire che ogni azione violenta genera momenti di disordine non governabile, dove il problema diventa proprio quella violenza che avrebbe dovuto esserne la soluzione.

Pace, da significato negativo che comunemente ha nell'accezione culturale: assenza di guerra, acquista significato positivo quando facciamo riferimento ad una politica costitutiva di modelli culturali riferiti a quei valori esclusivi al servizio dell'umanità [3].

Chi sostiene che politica e guerra fanno parte dello stesso continuum, commette un grande errore. E se questo modo di governare non sarà "rivisto", il nostro futuro come quello degli abitanti dell'isola di Pasqua [4], potrebbe appartenere agli uomini con le mani sporche di sangue [5].


Note

[1] Fabietti, Remotti, Dizionario di Antropologia Culturale, Zanichelli.

[2] Fromm E., Anatomia della distruttività umana, Mondadori.

[3] Altan, Manuale di Antropologia culturale, Bompiani.

[4] Gli abitanti dell'isola di Pasqua, isolati nello spazio e nel tempo, se fossero stati capaci di articolare l'idea, avrebbero dovuto pensare che il mutamento delle circostanze esigeva una rivoluzione culturale.
La guerra non portò alcuna utilità alla gente di quell'isola della Polinesia. Quando in quel posto del Pacifico si adottò quel tipo di politica che predilesse soluzioni distruttive e incontrollabili, si rivelò essere la fine prima della politica, poi della cultura, ed infine della vita stessa. J. Keegan, La grande Storia della Guerra, Mondadori.

[5] Keegan J., La grande storia della Guerra, Mondadori.

Pubblicazioni Centro Studi per la Pace
Sito Internet - www.studiperlapace.it
Martedì, 19 Febbraio 2008 23:46

La vera Torah

La vera Torah




Rabbi Shimon insegna: Guai all’uomo che pretende affermare che la Torah è venuta a donarci soltanto delle cronache e delle parole destinate al popolo. Se fosse così, infatti, anche nel nostro tempo, saremmo in grado di fabbricare una Torah con parole di questo tipo. Saremmo persino capaci di farne di più valide. Se si trattasse di puri racconti, anche nelle cronache che vanno in giro, vi sono termini più scelti…

Quando la Torah è discesa in questo mondo, questo mondo non sarebbe stato capace di sopportarla se non si fosse rivestita degli abiti di questo mondo. Perciò il racconto della Torah è il suo vestito. Chi pensa che il vestito è davvero la Torah e non un’altra cosa, il suo spirito sia scacciato via e non abbia parte nel mondo futuro. Per questo Davide esclamava: “Apri i miei occhi e io contempli le meraviglie della Torah” (Ps 119,18), cioè quel che sta sotto al vestito.

Vieni e vedi: c’è un vestito che è manifesto per tutti, e gli sciocchi, quando vedono un uomo con un abito che sembra loro bello, non riflettono più di tanto. Ma il valore del vestito sta nel corpo e il valore del corpo sta in quello dell’anima.

Zohar II, 152 a

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Lo Zohar.

L’opera maggiore della Cabbala, considerata come il terzo pilastro del giudaismo dopo la Bibbia e il Talmud, il Sefer ha-Zohar, o Libro dello Splendore, cominciò a circolare in Castiglia nel 1293. Presentato sotto la forma di una discussione fra Shimon bar Yohai, un rabbino del II secolo che ne sarebbe l’autore, e i suoi discepoli, lo Zohar fu in seguito attribuito a Mosheh de León (1240-1305)

(da Le monde des religions 18, p.63)
Congar e la chiesa itinerante

di Giovanni Tangorra

C’è il rischio che la chiesa si ripieghi su se stessa soffermandosi nella contemplazione del suo mistero anziché protendersi verso gli altri. Occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa, personalizzando la fede. Altro rischio da evitare è il fariseismo. Perché le situazioni sfavorevoli sono maggiormente vantaggiose per la chiesa.

(...)

Una chiesa di uomini

Dopo gli anni dedicati ad analizzare l'identità della chiesa, Congar sente l'esigenza di esaminare il contatto fra questa identità e le principali realtà che costituiscono la dimensione dell'uomo: la persona, il tempo, il mondo. Lo stesso termine «itinerario» fa uscire da una prospettiva in cui la chiesa rischia di ripiegarsi su se stessa, soffermandosi nella contemplazione del suo mistero e afferma che è invece necessario che si riscopra protesa verso gli altri. In poche parole, occorre abbandonare la tentazione del narcisismo ecclesiale perché c'è una strada da percorrere, uomini da incontrare, un tempo da subire e un mondo da abbracciare.

Questo è il segno autentico che esigono i tempi, così come l’autore francese afferma in questa citazione: «Il riconoscimento della situazione reale vuole che la chiesa non esista solamente in se stessa, ma in un certo modo al di fuori di se stessa, al di là dei suoi quadri sacrali, nelle strutture stesse del mondo». (1)

Il passaggio da operare è quindi quello da una chiesa statica a una dinamica, da una chiesa introversa, ferma nella difesa del suo apparato a un'altra che decide di impegnare se stessa lungo l’itinerario degli uomini.

Mentre fino alla rivoluzione francese la società viveva ovattata in uno schema istituzionale che concedeva ben poco alla persona e dove l'autorità pensava a tutto, successivamente c’è stata un'autentica presa di coscienza da parte del soggetto che ha riscoperto il suo spazio personale. Si è così entrati in uno schema che privilegia la dignità dell'uomo a partire dall'uomo stesso, quindi con la sua capacità di essere vero responsabile degli atti che costruiscono la sua esistenza e non strumento o preteso fine di preconcette ideologie.

Di fronte a questo movimento la chiesa ha assunto diverse posizioni che vanno dalla condanna esplicita all'attesa di tempi migliori. Secondo Congar non è possibile mettersi a guardare, occorre accogliere queste nuove idee che devono addirittura diventare motivo di riespressione del cristianesimo. La soluzione proposta non è quindi quella della condanna o della chiusura in se stessi rinforzando le proprie difese, ma quella dell'accettazione.

Nasce proprio qui l’intima esigenza riformista dell’autore, dalla considerazione, cioè, di un mondo diventato adulto che egli caratterizza in questi termini: «passaggio da un mondo oggettivo, a un mondo soggettivo, da un mondo dell’ordine, della gerarchia e della tradizione ad un mondo della coscienza personale». (2)

Il tema, che occupa molte pagine delle opere congariane, si riduce a una sola conclusione: occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa. È come un leit-motif di tipo programmatico: nel messaggio cristiano sono importanti le persone e dunque la chiesa è una realtà che deve essere fatta dagli uomini, negli uomini per cui non bisogna schermirsi di fronte al principio personale, perché «sempre la fede personalizza». (3)

Questa personalizzazione va operata a due livelli: nella fede e nella considerazione della chiesa stessa.

Personalizzare la fede

Il primo passo e quello di una coerente autocritica, che deve portare a una revisione dello stesso concetto di «chiesa».

Troppo spesso questo è stato inteso più nel senso dell'apparato che in quello degli uomini. «Abbiamo elaborato - scrive Congar - una teologia. e talvolta pure praticato una pastorale. del sacramentum, dei mezzi di grazia quali esistono in se stessi allo stato di istituzioni, di istanze amministrative, di formule. di riti: li abbiamo messi troppo poco in relazione con un soggetto religioso di cui possono essere e sono effettivamente la cosa (res) e soprattutto con un soggetto religioso collettivo, con una comunità». (4)

L'autocritica riceve nuovi argomenti dalla considerazione del reale. Riferendosi ad alcune indagini, Congar mette in evidenza, in un suo studio, che se un protestante e un cattolico abbandonano entrambi la pratica religiosa, l'abbandono si fa più radicale nel cattolico e questo perché, mentre il cattolicesimo pratica una fede ancorata all'istituzione, il protestante, per l'assenza di strutture, è obbligato a fare atti religiosi personali e quindi ha una maggior possibilità di restare in una dimensione di fede, nonostante l'eventuale abbandono della pratica. Il cattolico, invece, abbandonata la struttura, sembra che abbandoni anche ogni movimento interiore.

rimedio non è quindi quello di rafforzare la dimensione istituzionale della fede, ma quello di sottoporla a un’attenta verifica, soprattutto nelle sue conseguenze più negative, come l'oggettivismo, il legalismo e il giuridismo. Tutte si riducono a una matrice comune: confusione dei mezzi col fine e materializzazione del rapporto religioso. L'oggettivismo infatti scambia la grazia coi suoi strumenti, il legalismo sostituisce l’amore con la legge e il giuridismo confonde la validità canonica con la dimensione di Dio. che Dio, in quanto soggetto primo, crea soggetti, rispettati nella loro coscienza e libertà.

La sua volontà di dialogo con la cultura contemporanea porta quindi Congar a condividere l'odierno disagio istituzionale e, soprattutto per ciò che riguarda il mondo della fede, lo giudica positivamente, sostenendo che il futuro della chiesa dipende proprio dall'accoglienza o meno di questo principio, ossia da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti». (5)

Personalizzare la chiesa

Tre concetti congariani aiutano a comprendere questo tema e a chiarire meglio le idee finora esposte. Essi sono legati ad altrettanti termini specifici, che approfondirò singolarmente: qualcuno / interiore /reale.

1. Il primo si oppone a «qualcosa», un termine che in Congar esprime il rischio di una cosificazione della grazia, con un'accentuazione esagerata del «mezzo» e delle regole per attuarlo. L'autore si serve della dialettica qualcosa/qualcuno per indicare che tutto ciò che ha a che fare con la vita della chiesa non è solo gesto di «qualcosa», ma è atto di «qualcuno», sentito e ricercato in modo personale, con sincerità e autenticità. Si tratta di operare un passaggio dalla cosa in sé, alla cosa in qualcuno, dal primato delle cose a quello delle persone.

Molte sono le applicazioni di questo principio, non solo al livello di ritualismo religioso, ma anche nelle discussioni dottrinali dove si è spesso più preoccupati dell’esattezza dell’enunciato che del suo contenuto di verità.

2. «Interiore»per Congar è un termine che esprime l'indole del progetto divino. Questo si sviluppa attraverso un movimento di interiorizzazione per cui procede dall’esteriorità delle figure e dei riferimenti all’interiorità del cuore umano. È la dinamica della presenza divina che dalle pietre delle stele e dei templi, dalle tavole della legge, avanza per interiorità fino a diventare una presenza dello Spirito all’interno del cuore stesso del discepolo. (6) Il cammino non si fermerà che in cielo, sinonimo di interiorità assoluta. (7)

Se questo progetto prosegue dalle forme verso il cuore, dalle pietre verso l’interiorità, non bisogna allora avere paura del principio personale, ma favorirlo in tutti i modi.

3. «Reale» sta invece per vero e nel nostro caso indica una cosa che è vera perché diventata atto soggettivato. Sotto questo aspetto un rapporto religioso si dice «reale» nella misura in cui è gesto che parte da un soggetto. Congar si spiega ricorrendo al concetto scolastico della res. Per gli scolastici la res è ciò che di fronte al sacramentum (il mezzo) e alla res et sacramentum (l’effetto), costituisce il sacrificio spirituale dell’uomo e quindi produce l’effetto di grazia. (8) Unendo queste tre dimensioni si deve allora sostenere che il sacramento non è completo finché non raggiunge un grado di interiorità, finché, in sostanza, non è il gesto di «qualcuno».

Non sono però solo gli atti a beneficiare della visione personalista introdotta all’interno della fede. È il mistero della chiesa che deve diventare «reale» nel soggetto umano. «La chiesa stessa che è come un grande sacramento – scrive l’autore – deve avere il suo compimento e la sua verità nell’uomo stesso. Essere reale, potremmo dire, è affermare la sua realtà, raggiungere la sua verità». (9) Dunque la chiesa non è reale o vera finché non raggiunge la sua res nel cuore dell’uomo, finché non diventa vita stessa della persona. La chiesa deve essere gesto di qualcuno e non qualcosa; deve vivere nell’uomo e non nelle cose, siano esse riti, verità, leggi, gerarchie.

La denuncia implicita è quindi contro una specie di materialismo ecclesiologico: la chiesa raggiunge la sua integrità non solo nell'applicazione oggettiva dei suoi contenuti e delle sue regole, bensì diventando contemporaneamente una realtà generata nelle coscienze, nei cuori dagli uomini, rinnovandosi come atto esistenzializzato.

Da queste poche note si comprende come Congar abbia quasi preparato, con molto anticipo, le problematiche principali che hanno coinvolto la chiesa europea degli anni settanta-ottanta, a noi note col titolo di Evangelizzazione e sacramenti, nonché un tema ecclesiologico di grande attualità, strettamente collegato allo dimensione antropologica: quello della chiesa come «noi».

Il fatto che questi argomenti fanno parte del passato non vuol dire che sono superati, anzi credo che oggi stiano ridiventando di profonda attualità, in un periodo in cui il cosiddetto ritorno religioso rischia di confondersi con un tentativo di restaurazione, e quindi con un'isolata conferma dell'elemento istituzionale, oppure con una sorta di atteggiamenti magico-sacrali che al fondo costituiscono proprio il massimo livello dell'umiliazione della persona.

La tentazione ecclesiale

Per Congar intraprendere un cammino contrario rispetto a quanto esposto finora equivale a cadere nella prima delle due grandi tentazioni ecclesiali: quella del fariseismo. (10)

Questo coincide con la tentazione di sostituire il fine ai mezzi lasciando prevalere la forma sullo spirito. I farisei. almeno quelli dei vangeli, avevano per fine la legge e non l'uomo, piegando la sua dignità al dettato scritto. La chiesa cade in questa tentazione tutte le volte che lascia prevalere l'elemento istituzionale-organizzativo su quella personale-spontaneo, tutte le volte che la struttura soffoca i carismi e l'unità elimina la diversità. «Il pericolo insomma – scrive il teologo francese – è che ciò che è principio e fine non venga ricoperto, offuscato e alla fine rimpiazzato da ciò che doveva restare mezzo». (15) L'orientamento farisaico umilia l'uomo in quanto misura la sua fede non tanto dalla sincerità dei gesti, quanto dall'aderenza delle cose. Il rapporto religioso perde così la sua purezza e il volto di Dio diventa estraneo e irraggiungibile perché gli viene sostituita un’idea e un’immagine di tipo autoritario. Il vangelo autentico è invece grande antagonista del fariseismo, basta pensare al ricorrente e lapidario principio del «sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).

Congar non è il tipo di contrasti e quindi non li crea lì dove per principio non esistono. Così la dialettica spirito/forma non è vista come un conflitto ineluttabile, per cui la strada più giusta da seguire deve essere la complementarietà dei principi.

Tuttavia, se si deve scegliere, Congar non ha dubbi, al punto che egli augura alla chiesa di trovarsi sempre in una situazione sfavorevole anziché di successo rispetto alle istituzioni civili, perché le considerazioni ufficiali favoriscono la chiusura, l’arroccamento, il conformismo, e il cristianesimo diventa un dato biografico, più che una scelta. (12)

Il messaggio conclusivo è molto semplice: gli uomini non si utilizzano, si servono. La chiesa non deve allora scambiarsi per un partito che cerca consensi, ma si ritroverà ogni volta che si perderà.

Note

1) «Structures essentielles pour l’Eglise de demain», in Concilium, suppl.to 60/1970, p. 153 (tr. it. «Strutture essenziali per la chiesa di domani», in Il Regno, ott. 1970, pp. 517-519.

2) Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, Cerf, Paris 19692, p. 36 ; cf. soprattutto le pp. 49-52 : «Religion et institution», in Théologie d’aujourd’hui et de demain, Cerf, Paris 1967, pp. 81-97 ; «Renouvellement de l’Esprit et réforme de l’institution», in Concilium, 73 (1972), pp. 37-45.

3) Questo motivo percorre tutte le pagine del libro sulla Riforma, ancora oggi uno dei saggi più discussi di Congar, quello che gli valse addirittura l’accusa di sospetto modernismo, cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 127-131; anche Sainte Eglise, Cerf, Paris 1963, pp. 43-68, 89-97.

4) Jalons pour une théologie du laicat, Cerf, Paris 1953, p. 81.

5) «L’Avenir de l’Eglise», in L’Avenir, atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, p. 212.

6) Su questo tempo soprattutto Le mystère du temple (tr. it. Il mistero del tempio, Borla, Torino 1963).

7) Cf. «Le ciel, buisson ardent du monde», in Vie spirituelle, 618 (gennaio 1976), pp. 69-79.

8) Cf. «Pour une liturgie et une prédication réelle» in La maison Dieu, 16 (1948), pp. 75-87 ; ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation, Cerf, Paris 1962, pp. 161-173.

9) Ivi, p. 165.

10) Cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 143-157.

11) Ivi, p. 145.

12) Sempre attento alle parole, in un altro studio Congar propone un’interessante verifica dell’azione pastorale e alle missioni, applicando queste idee alla distinzione fra discepolato e proselitismo. La prima è un’azione motivata dal bene dell’uomo visto come soggetto, il proselitismo è, invece un rivolgersi agli uomini come strumenti per il trionfo della propria organizzazione: cf. «Réflexions sur prosélytisme et évangélisation» in Rythme du Mond, 2 (1946), pp. 58-68, ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation o. c. pp. 51-64.

Spazio sacro. Tempo mistico. L'arte e l'architettura come ponti fra origine e destino per dire l'«oltre».

Martedì, 19 Febbraio 2008 01:15

Per entrare nel mondo biblico

Per entrare nel mondo biblico



I volumi proposti ubbidiscono ad una duplice attenzione: offrire semplici strumenti di lavoro che aiutino il lettore ad entrare correttamente ed attivamente nel mondo biblico; proporre, quindi, qualche esemplificazione di come si legge un testo biblico. La complessità degli studi biblici e la necessità di strumenti concretamente fruibili, personalmente e comunitariamente, orientano la nostra scelta su testi che, un lettore medio, può utilmente utilizzare per sé e a vantaggio di altri.

STEPHEN TRAVIS, Primi approcci all’Antico Testamento(Coll. Piccole Guide Elle Di Ci/Seconda serie), Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 64.

Il volume è un ideale punto di partenza per chi voglia iniziare un primo viaggio nel mondo dell’ Antico Testamento. Dall’iniziale domanda (Cosa possiamo trovare nell’Antico Testamento?), l’Autore propone un breve ma stimolante itinerario: come orientarsi, la storia di Dio e del suo popolo, le fondamenta, Dio nella storia, il portavoce di Dio, poesia e sapienza, l’Antico Testamento alla prova, come leggere l’Antico Testamento. Il volume è destinato a chiunque voglia disporre di una guida facile, puntuale e aggiornata, alle narrazioni, ai personaggi e alla storia veterotestamentaria.

STEPHEN TRAVIS, Primi approcci al Nuovo Testamento(Coll. Piccole Guide Elle Di Ci/Seconda serie), Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 64.

Con la stessa prospettiva e metodologia del precedente volume, l’Autore propone al lettore di iniziare il suo viaggio all’interno del Nuovo Testamento a partire dal vangelo di Luca. Si sofferma quindi sulla questione sinottica, sugli Atti degli Apostoli, sulle lettere di Paolo, sul libro dell'Apocalisse. Due brevi capitoletti sottolineano l'attualità del messaggio del Nuovo Testamento. Valido strumento per chi vuole iniziare una prima lettura del Nuovo Testamento.

Gérard Rossé, Come leggere i vangeli. È storia vera?, Città Nuova, Roma 1995,. pp. 64.

Spesso – afferma l’Autore – sottolineiamo talmente la dimensione attualizzante dei testi dei vangeli da dimenticare la necessità di una comprensione più «scientifica» del vangelo, indispensabile per acquistare una giusta intelligenza delle parole di Gesù, del senso del suo messaggio e del suo comportamento originali. Alla luce di questa fondamentale attenzione, l’Autore, dopo aver delineato brevemente chi sono i quattro evangelisti, offre alcune preziose chiavi di accesso ai vangeli.

Innanzitutto, si sofferma sul modo di narrare degli evangelisti; quindi, richiama l’attenzione sulla necessità di avere presente il contesto di ogni brano; poi, si sofferma sulle tre tappe che hanno condotto alla formazione dei vangeli e sugli elementi che sono entrati in gioco; si sofferma ancora sul rapporto testi-storia nelle narrazioni evangeliche; offre, infine, una pista di lettura del vangelo di Giovanni. Uno strumento di lavoro utilissimo personalmente e per lavorare in gruppo.

AA.Vv., Leggere la Bibbia con i ragazzi. Nella scuola di religione e nella catechesi, Elle Di Ci, Leumann (To) 1995, pp. 342.

È una originale introduzione alla Bibbia. Nel volume, infatti, noi troviamo: notizie riguardanti l’autore; annotazioni rapide e precise che spiegano il significato del titolo e del contenuto; un breve schema e una lista di personaggi principali che aiutano a vedere, in sintesi, il contenuto dei singoli libri; tavole cronologiche che indicano la sequenza degli avvenimenti unitamente a cartine e mappe che lo collocano nel loro contesto geografico; agili «riassunti» di ogni libro biblico che hanno la funzione di evidenziare la collocazione delle varie sezioni che lo compongono; richiami alle scoperte archeologiche che aiutano a comprendere usanze e tradizioni ai tempi biblici; numerose e utilissime illustrazioni che «visualizzano» gli eventi storici e danno vivacità ad ogni pagina; un abbondante ed esauriente «vocabolarietto» che aiuta a comprendere parole un po' desuete, concetti religiosi non sempre facili, usi e costumi che sono lontani dalla cultura e dalla tradizione di oggi.

Utile tanto sul versante catechistico quanto su quello scolastico. Una vera miniera di informazioni e possibilità di lavoro.

Vincenzo Giorgio – Rinaldo PaGANELLI, Il catechista incontra la Bibbia(Coli. Educatori e catechisti), EDB, Bologna 1995, pp. 288.

«Agli occhi di molti – affermano gli Autori – la Bibbia continua ad essere un mondo lontano, un "libro difficile”. Inoltre, troppo a lungo e troppo sovente, ancor oggi, Bibbia e catechesi sono state e sono separate nella teoria e nella pratica, tendendo a calcare vie diverse quando, invece, dovrebbero percorrere un medesimo tragitto».

Per questo gli Autori descrivono nei diversi capitoli, il rapporto tra Bibbia e catechesi, individua linee di teologia biblica e pastorale, propone metodologie adeguate affinché la Bibbia sia sempre fonte di catechesi. Nel volume sono presentate brevi sintesi di ermeneutica, narratologia, esegesi; ad esse sono affiancate proposte di esercizi per entrare nella costruzione del testo e per utilizzarlo adeguatamente nella catechesi.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, Leggere la Bibbia: una parola di vita(Coll. «La tua parola è vita», 1), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1994, pp. 112.

La collana biblica «La tua parola è vita» si apre con questo primo volume. In esso si percorre il cammino della spiritualità biblica della Tradizione ecclesiale in cui occupa un posto centrale la Lectio Divina. Questa ha avuto la sua origine all’interno dell’esperienza monacale ma può essere oggi riattualizzata e diventare forma di vita di ogni credente.

Il volume affronta, inizialmente, il tema «la lettura della Bibbia sorgente di preghiera» (Considerazioni generali sulla Lectio Divina; I quattro gradi della Lectio Divina; Come fare la Lectio Divina? Il metodo). Poi, delinea tracce e sussidi per i gruppi biblici. Quindi propone cinque itinerari esemplificativi fondati sulla tematica dell’Esodo riletta in diversi testi biblici. Vengono proposte, complessivamente, cinque tracce di lavoro veramente significative. L’ Appendice monografica («La visione globale della Bibbia: rileggere il passato alla luce del presente») offre un prezioso contributo per una visione globale della Bibbia in cui i vari avvenimenti ricevono una corretta spiegazione ed un’adeguata interpretazione.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, La formazione del popolo di Dio(Coll. «La tua parola è vita», 2), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1995, pp. 192.

Questo secondo volume si colloca nella stessa prospettiva del precedente e insiste su di una prospettiva: quella comunitaria. Esso propone, pertanto, un itinerario che guida il popolo a diventare popolo di Dio. Con questa attenzione di fondo, sono accostati il libro del Genesi, dell'Esodo, del Deuteronomio, di Giosuè, dei Giudici. Ogni capitolo premette una breve introduzione, la storia della formazione del libro, alcune chiavi di lettura. Un’Appendice, infine, offre un significativo itinerario per comprendere e vivere correttamente il rapporto tra Bibbia e formazione cristiana.

Nel suo insieme, il volume offre al lettore sedici tracce di lavoro per entrare nel mondo di questi libri biblici e da essi lasciarsi interpellare. Una lettura che – attraverso la comprensione dei testi – si apre alla preghiera per una rinnovata comprensione dell’oggi.

Conferenza dei Religiosi del Brasile, La lettura profetica della storia(Coll. «La tua parola è vita», 3), Ed. La Piccola Editrice, Roma 1995, pp. 246.

Il terzo volume affronta una tappa ulteriore: la testimonianza profetica. Dopo una breve introduzione sui libri profetici, sull’identità dei profeti e la loro funzione nel popolo di Dio, il volume propone cinque blocchi di lavoro. Nel primo blocco (La profezia nei libri storici. Da Samuele a Elia) sono offerte sei proposte di lavoro; nel secondo (da Elia all’ Esilio), cinque proposte di itinerari; nel terzo (I profeti durante l’Esilio) il lettore dispone di altre cinque tracce di lavoro per comprendere tematiche e figure di profeti; nel quarto (La profezia dopo l’Esilio) abbiamo tre tracce di lavoro sul terzo Isaia, su Aggeo, su Zaccaria e Gioele.

Nell’ultimo blocco (la profezia alle soglie del Nuovo Testamento) quattro tracce: il profeta Daniele, la profetessa Anna, il profeta Giovanni Battista, il profeta Gesù. Due allegati («Storiografia degli ultimi secoli dell'Antico Testamento» e «Linea del tempo») concludono il volume. I tre volumi, apparsi finora in lingua italiana, sono una affascinante iniziazione alla Bibbia sullo schema della Lectio Divina. Sono, anche, un pressante invito al singolo credente a riscoprire una categoria spesso tanto proclamata quanto poco attuata: quella di «popolo di Dio».

Franco Mosconi, «Oggi si è adempiuta questa scrittura»(Coll. Quaderni di Camaldoli, 4), EDB, Bologna 1995, pp. 152.

I testi proposti nel volume sono esempi di lettura sapienziale e attualizzante dei Vangeli e non solo dei Vangeli. Sono una vera Lectio Divina, un meditare davanti a Dio, una meditazione fatta con familiarità orante, nella profonda convinzione che per la Bibbia il credente è propriamente l'uomo che si apre all'ascolto, che accoglie la Parola di Dio e risponde. Ascolto, comprensione, interiorizzazione, risposta-preghiera: questo l’itinerario seguito. Il volume propone un’educazione all’ascolto del testo; un ascolto che richiede pazienza e perseveranza: dare spazio e tempo alla Parola di Dio, lasciandola vivere e lavorare dentro di noi.

In questa prospettiva, l'Autore si sofferma su: la trilogia lucana (battesimo, genealogia, tentazione di Gesù); Gesù compimento delle profezie (Lc 4,14-30), «Costituì Dodici» (Mc 3,.13-19); Tu sei il Cristo (Mt 16,13-28); Il mistero di Maria (Gu 2,1-12: 19,25-27); I di-scepoli di Emmaus (Lc 24,13-35); L’esperienza cristiana di S. Paolo (At 22,3-16; Fil 3,3-16); Capisaldi della vita cristiana in Paolo (Fil 3,4-14: Cor; Eb; Gai); Il cieco di Gerico (Mc 10,46-52); Le parabole della misericordia (Le 15,1-31).

(da Parole di Vita, 3, 1996)

La terza apparizione di Gesù (Gv 21,1-14)

di Gabriella Grossi

Il racconto si apre con una frase che definisce il contenuto del racconto: si tratta di una manifestazione di Gesù (ephanérosen); si precisa che è successiva ad altre («di nuovo»), è diretta ai discepoli e avviene sul mare di Tiberiade. Ci accorgiamo, però, che già dalle prime battute il racconto suscita molti interrogativi. Si dice che Gesù si manifesta di nuovo, rispetto alle apparizioni narrate nel c. 20? Queste però non sono definite come tali. Si afferma che egli si manifestò dopo queste cose (meta tauta). Quali? È un modo per legare il capitolo a ciò che precede? Si ha l’impressione che, con questo racconto, il narratore voglia riunire i fili importanti che sono stati intercettati lungo il grande racconto del Vangelo.

Nella sua posizione di onnisciente, il narratore non solo racchiude la trama del racconto che segue sotto l’azione del manifestarsi, ma ne dà anche la modalità: «Si manifestò così». Alla fine del racconto viene annotato con più accuratezza che essa è la terza (triton ephaneróthe).

La menzione del lago di Tiberiade richiama al lettore la moltiplicazione dei pani e all’approssimarsi della festa di Pasqua (6,1-15): un richiamo che viene focalizzato ancora meglio alla fine del racconto (21,13 = 6,11).

La manifestazione riguarda l’incontro di Gesù con i discepoli, la cui modalità viene rivelata per prima dal discepolo amato. È lui infatti che, dopo la pesca, riconosce Gesù come il Signore e lo rivela a Simon Pietro (21,7); pure gli altri arriveranno alla stessa conclusione, anche se non in modo così esplicito (21,12). Essa raggiunge il culmine con i gesti di Gesù che evocano l’eucaristia (21,13). L’occasione di un tale riconoscimento è una pesca fallimentare di un gruppo di discepoli, presentato all’inizio.

Possiamo allora dividere il racconto in due sequenze:

a) presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)

b) manifestazione di Gesù risorto fallimentare (21,2-3);

- attraverso la pesca prodigiosa (vv. 4-8)

- attraverso il pasto in comune (vv. 9-13)

Presentazione dei protagonisti e azione fallimentare (21,2-3)

Il primo personaggio che forma il gruppo dei discepoli che si trova insieme è Simon Pietro e ciò è indice del ruolo preminente che giocherà nell’intero racconto (cf. anche la seconda parte, 21,15-23). Dopo il rinnegamento (18,25-27), Pietro era riapparso nella corsa verso il sepolcro, trovato vuoto da Maria di Magdala, insieme al discepolo che Gesù amava (20,1-10), dove, però, si dice solo che arrivò dopo l’altro discepolo e entrò nel sepolcro e vide i teli e il sudario (20,6-7). In realtà il lettore aspetta che si dica qualcosa di lui, visto il ruolo che assumerà nella Chiesa, com’è attestato da tutti i racconti del Nuovo Testamento.

Accanto a lui sono indicati Tommaso il Gemello e Natanaele di Cana di Galilea. Sembra che il narratore, con la menzione di questi due discepoli, voglia raccordarsi all’inizio del vangelo, ma anche alla fine. Tommaso, infatti, è il protagonista del racconto dell’apparizione nel Cenacolo otto giorni dopo la risurrezione, dove egli confessa Gesù risorto come suo Signore e suo Dio (cf. 20,28). È una professione di fede che, per sua densità, è da porre sullo stesso piano del prologo dove il narratore ci fa contemplare il Verbo fatto carne, come colui che era rivolto verso il Padre, che era Dio lui stesso (1,1), ma essa richiama anche la confessione di fede di Natanaele: «Rabbi tu sei il figlio di Dio, tu sei il re d’Israele» (1,49).

Di Natanaele si specifica, a differenza della sua prima comparsa nel Vangelo (1,45-51), il suo paese d’origine, Cana. Ora il lettore sa che proprio in questa cittadina egli dà inizio ai segni e manifesta (phaneróo) LA SUA GLORIA (2,11). A Cana, con il cambiamento dell’acqua in vino, Gesù anticipa la sua ora (cf. 2,4), cioè la rivelazione piena del mistero della sua persona di Messia e Figlio di Dio che si compirà con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, ossia con la sua morte, risurrezione e dono dello Spirito (19,28-30). Cana è presentata, di nuovo, dal narratore come il luogo dove Gesù fece il secondo segno (4,54), che pose l’accento sul passaggio dalla morte alla vita del figlio del funzionario regio (4,49-50).

Segue l’indicazione di due coppie di altri discepoli: i figli di Zebedeo, menzionati per la prima volta nel Vangelo, e due altri dei discepoli di Gesù. Questi ultimi richiamano ancora la scena iniziale del racconto:

Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!» (1,35).

Il numero dei discepoli che si trovano insieme è così di sette. L’essere insieme e il numero che si ricava dalla somma dei discepoli menzionati, ha certamente, per il narratore, un valore simbolico. Si tratta dell’immagine della comunità post-pasquale che vive tra le due venute del figlio dell’uomo (21,22), chiamata di nuovo a confermare la sua vocazione di discepola dietro al suo Signore e Dio.

Il racconto, infatti, più che essere la testimonianza del ritorno dei discepoli al loro mestiere (in questo caso solo di Simon Pietro, e non secondo la testificazione del quarto Vangelo), vuol essere la conferma della loro vocazione. Se la missione del figlio dell’uomo si compie con il suo innalzamento, anche la vocazione dei suoi discepoli trova compimento in questa pagina. La cosa riguarda soprattutto Pietro che verrà confermato dal Risorto dopo lo smarrimento dovuto al peccato.

Inoltre, si può affermare che se Cristo vive, anche la sequela dei suoi continua e, proprio grazie alle loro azioni, il Risorto si renderà predente nella sua Chiesa. In questo il racconto di Giovanni è affine alla finale di Marco (16,1-8) dove risuona l’annuncio dell’angelo alle donne di portare la bella notizia della risurrezione di Gesù ai suoi fratelli e che egli li avrebbe preceduti in Galilea (Mc 16,8). Per il secondo evangelista, dalla Galilea parte la comunità post-pasquale per ripercorrere il cammino di Gesù dell’annuncio del regno, ma ormai con gli occhi illuminati dalla Pasqua.

Simon Pietro si distingue per l’iniziativa che prende: «Vado a pescare». Gli altri lo seguono, ma in quella notte non prendono nulla.

Manifestazione di Gesù, risorto dai morti (21,4-13)

La pesca, mai evocata sinora nel racconto di Giovanni, ha una valenza simbolica. Con essa il narratore vuole alludere all’attività apostolica che ora è consegnata alla comunità: «Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto» (15,16). Essa esce per andare a lavorare nel campo del mondo (cf. 4,35), simboleggiato dal mare, «realtà cosmica minacciosa». Ma il loro lavoro non dà alcun frutto.

La notte si rivela sterile (cf. 6,16; 13,30), poiché solo la presenza di Gesù-luce permette di compiere le sue opere: quelle di aprire gli occhi ai ciechi, cioè di illuminare gli uomini sul progetto di Dio (cf. 9,6). Senza Gesù la comunità sperimenta la sua impotenza e la sua sterilità, perché senza di lui non può far nulla. (cf. 15,5)

La pesca prodigiosa

Sul far del mattino Gesù sta (éste) sulla riva. È la presenza del Risorto, come quella al Cenacolo (éste) in mezzo ai suoi discepoli (20,19.26). Gesù si rende presente alla sua comunità che sperimenta la notte nella pretesa di andare da sola a compiere l’opera del Padre, ma essi non sanno (ou mentoi édeisan) che è Gesù. È la stessa ignoranza riscontrata in Maria di Magdala che non riconosce il Risorto che le parla (20,14 ouk édei). Anche qui la dinamica è la stessa, giacché c’è un elemento che porterà a riconoscere il Risorto: lì il sentirsi chiamare per nome (20,16), qui il prodigio della pesca.

L’iniziativa è di Gesù, come nel racconto di Maria di Magdala (20,15). Egli si rivolge ai suoi discepoli con un appellativo affettuoso, «figlioli» (paidìa); il rimando alla similitudine della donna che è nella gioia quando ha partorito un bambino (paidìon), è chiaro (cf. 16,21). Essi sono nati dalla risurrezione e non sono lasciati orfani, perché Gesù è tornato a loro (cf. 14,18).

La sua richiesta rimanda a quella fatta alla samaritana («Dammi da bere»: 4,7), ma egli chiede per donare; infatti anche qui sarà lui a offrire l’alimento (21,9.13). Lo chiede per sé? La missione è qualcosa di vitale per la Chiesa e si può paragonare al cibo di cui si nutriva Gesù:

Mio cibo è che io faccio la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera (4,34).

La domanda rende consapevole la comunità del suo fallimento e della sua incapacità di unire la sua opera a quella di Gesù (prosphágion = in aggiunta al pane . La loro risposta secca («no!») è il segno della delusione al venire meno del loro programma.

La presenza di Gesù è l’inizio di un cambiamento della situazione. Infatti l’interesse della condizione attuale dei discepoli da parte di Gesù non è per lasciare le cose come stanno, cioè la comunità nella sua delusione e tristezza, ma per imprimervi una svolta radicale (cf. 5,5). Occorre però l’obbedienza da parte dei suoi. L’invito-comando è legato a una promessa. La parola di Gesù si rivela efficace e l’obbedienza ad essa è condizione perché la promessa possa compiersi.

Il frutto apostolico è un segno della sua presenza, ma chi la rivela è il discepolo che Gesù amava. Egli lega l’effetto della parola di Gesù al suo essere (éste) sulla riva e ciò lo porta a confessare: «È il Signore!». La sua confessione dice due cose al lettore: egli fa parte del numero dei discepoli che sono a pesca; egli si rivolge a Pietro per rivelargli il Signore. Nella comunità continua la presenza e la funzione di colui che è il testimone per eccellenza della vicenda di Gesù. È lui, grazie all’esperienza dell’essere amato, che per primo riconosce il Signore e lo comunica a Simon Pietro. Come la parola di Gesù ha prodotto un effetto, così pure la confessione del discepolo prediletto fa reagire Pietro che ascolta la rivelazione. Egli si cinge la sopravveste e si getta in mare. Colui a cui il Signore darà la cura del suo greggio (21,15ss) è prima di tutto quelli che si sottomette alla sua signoria.

Il cingersi la sopravveste (diazónnymi), perché era nudo, potrebbe richiamare il cingersi di Gesù dell’asciugamano, prima di lavare i piedi ai discepoli (13,4). Pietro assume la sua realtà di discepoli, come Gesù aveva assunto la natura di servo (cf. Fil 2,6ss.), e sfida la morte – si getta in mare – per andare incontro a colui che riconosce come suo Signore attraverso la testimonianza del discepolo amato.

Il narratore, però, non segue Simon Pietro fino all’incontro con il Signore, anzi esso sembra volutamente rimandato, ma torna indietro dagli altri discepoli che con il loro gesto di trascinare la rete colma di pesci partecipano all’evento che manifesta il Signore.

Il pasto comune

Appena approdati a terra, il loro sguardo, messo in risalto dal narratore, è attirato dalla brace e dal cibo preparato: pesce posto sul fuoco e pane. Sono altri segni di manifestazione, come quelli dati il mattino di Pasqua, la tomba vuota alla Maddalena e i teli e il sudario ai due che corsero. Pesce sul fuoco e pane rimandato in modo discreto al gesto supremo del suo amore, reso presente nei segni eucaristici. A questo cibo già preparato Gesù chiede che si unisca del pesce appena pescato, simbolo dei discepoli che come Gesù si donano. C’è un intrecciarsi del pesce frutto del lavoro e quello preparato.

Non ha senso mangiare con Gesù se non si contribuisce a prepararlo, ma ciò che si porta non si ha senza di lui.

La richiesta fatta da Gesù trova pronto di nuovo Pietro che sale e trae fino a terra la rete colma di 153 grossi pesci.

Non si specifica dove sale Pietro. Non si può immaginare sulla barca, perché per questo gesto il narratore aveva già usato il verbo em-báino e soprattutto perché, stando su una barca, non si può tirare a riva una rete piena. Qui il verbo ana-báino (andare-su) indica piuttosto il risalire di Pietro dall’acqua. In fondo il lettore lo ha lasciato lì. Il suo rimontare dal mare potrebbe indicare il cambiamento dopo il rinnegamento (è ciò che sarà messo in evidenza nella seconda parte del capitolo). È lui comunque che tira (helkyo) la rete a terra. Anche questa volta non ci viene detto nulla circa il compimento del comando di Gesù; ciò che viene sottolineato invece è il gesto di Pietro che trae la rete a terra, il numero dei pesci pescati, la loro qualità e la situazione della rete, che nonostante la grande quantità di pesci, non si lacerò.

Il numero costituisce ancora un rebus nella spiegazione del testo. Dall’insieme esso potrebbe indicare la quantità e l’universalità della missione della Chiesa; la rete invece è il simbolo della sua unità. La diversità e l’universalità non è a scapito della sua unità che rimane come qualcosa che non dipende dalla diversità; nonostante i pesci siano molti e grandi, la rete non si spezza (eschìsthe). La sua integrità rimanda a quella della tunica inconsutile che non fu spezzata dai soldati (mè schìsomen), ma tirata a sorte (cf. 19,23-24). L’unità della Chiesa non si spezza, perché essa è il frutto del dono di Gesù, anche se oggi appare, nella sua visibilità, lacerata.

La presenza di Gesù culmina con l’eucaristia. Gesù invita tutti a mangiare. Egli non è il padrone intransigente che chiede conto del lavoro svolto, ma è colui che accoglie i discepoli come amici alla sua mensa (cf. 15,14-15). Ora sanno che è Gesù, perciò non hanno bisogno di fare domande. La pesca, i segni del pane e del pesce e l’invito a mensa li hanno portati a riconoscere colui che prima non sapevano chi fosse (21,4). Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza è avvenuto grazie al prodigio della pesca e ai segni eucaristici sulla riva. La certezza non è evidenza. Il mistero rimane; la fede è una componente importante; quella fede che i discepoli hanno fin dal primo incontro (cf. 2,11) e che troviamo nella prima conclusione del vangelo:

Perché crediate… e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,30-31)

Conclusione

Gesù viene, prende il pane e lo dà loro e così pure il pesce. A differenza delle apparizioni nel Cenacolo (20,19ss. 26ss.) e delle azioni della moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,11) qui i verbi sono al presente. Si tratta del continuo venire di Gesù nella comunità. Il Risorto viene mediante l’eucaristia. Questa è espressa con i gesti che caratterizzano quelli della moltiplicazione dei pani (6,11).

Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti (21,14).

Si torna all’inizio del racconto: quanto è stato narrato costituisce la terza manifestazione, cioè quella definitiva. Essa è legata ormai all’attività apostolica della comunità, in obbedienza alla parola del Risorto e ai segni del suo amore supremo per noi (cf. 15,13).

Induismo non è solo reincarnazione

di Marino Parodi


Senza pensarci tanto, si citano pagine di Tagore e di Gandhi in prediche o in incontri di preghiera. E non si fa male. Perché sotto un profilo ascetico l’induismo può correre in parallelo col cristianesimo. Perciò conoscere questa religione (tra le più antiche ancora praticata da circa 900 milioni di persone) oltre gli stereotipi dei fachiri, del karma e della reincarnazione, è un utile esercizio spirituale.

Un giovane alla ricerca della verità interpellò il saggio Yajnavalkya: «Quanti sono gli dei, o maestro?». Il saggio rispose in ossequio alla formula liturgica: «Quanti sono enumerati nella formula invocatoria a tutti gli dei, figliolo: 3.306». «Va bene», obiettò il giovane, «ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Trentatrè». «Va bene, ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Sei». «Va bene», incalzava il discepolo, «ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Tre». «Va bene, ma quanti sono veramente gli dei, maestro», chiese ancora il discepolo. «Due». «Va bene, maestro, ma quanti sono veramente gli dei?». «Uno e mezzo». «Va bene, maestro», insisteva ancora il giovane, «ma quanti sono veramente gli dei?». «Uno solo, figliolo», rispose infine il saggio.

Questo dialogo, risalente all’VIII secolo a.C. permette a noi occidentali quantomeno di cominciare a comprendere quattro caratteristiche di fondo dell’induismo, religione dai contenuti tutt’altro che facili da afferrare e ancor più difficili da definire. Innanzitutto, una natura estremamente aperta e “pluralista”, capace quindi di accogliere in sé elementi, dottrine e credenze. In secondo luogo, il carattere - comune un po’ a tutte le religioni e filosofie dell’Estremo Oriente - “esperienziale”: l’induismo si propone come strada, come metodo, per condurre l’uomo alla liberazione e al Divino. «Io proclamo invano con le mani tese al cielo che la rettitudine porta al benessere e alla felicità. Perché non seguite la virtù?». Così si esprime Vyasa, il presunto autore del Mahabharata. In terzo luogo, il profondo senso di armonia che permea l’universo, al di là di ogni apparente contraddizione. La Verità è una sola, ma ha molti volti e viene percepita in maniera diversa da altrettanti individui diversi. In quarto luogo, il profondo anelito a quel Divino, che permea di sé l’intero universo.

Principi basilari

figura centrale dell’induismo contemporaneo e al tempo stesso della politica mondiale del secolo scorso, sosteneva che le Upanisad e tutti gli altri testi sacri indiani potrebbero riassumersi in base ai principi che seguono: Tutto ciò che si muove sulla terra è penetrato dal Signore, l’universo intero ne è espressione. 2)La felicità non consiste nell’accumulare, ma nel dare. 3)L’attaccamento ai beni terreni è male e causa di sofferenze. 4)La rinuncia in tal senso è il bene supremo. 5)Quando ci saremo finalmente “distaccati”, troveremo la gioia.

A tutto ciò vanno aggiunti due altri principi importanti, generalmente non facili da accettare per la nostra mentalità occidentale. Innanzitutto colui che cerca la Verità, quindi il senso della vita e la liberazione, è al tempo stesso soggetto e oggetto della ricerca: a ben vedere, il discorso si fa del tutto naturale nella prospettiva, propria a tutto l’Estremo Oriente, che sostanzialmente non distingue tra Dio e universo. In altre parole, manca il concetto di creazione, introdotto dalla Bibbia.

Inoltre, l’induismo insegna il distacco dall’esito, raccomanda l’azione indipendentemente dal raggiungimento del fine. «Soltanto l’azione può essere sotto il tuo controllo, ma questo non può essere esteso ai risultati. Non restare legato né ai frutti di un’azione né all’ozio», raccomanda la Bhagavadgita (800 a.C.) la quale, assieme ai Veda (1500 a.C.), costituisce una delle due grandi raccolte di testi sacri indiani.

Paradossalmente la disposizione spirituale al distacco permette alla mente, libera da tensioni, di concentrarsi a fondo sulle proprie facoltà, favorendo in definitiva il conseguimento della meta. Per dirla con Lord Nelson, in questa religione Dio si aspetta dagli umani che essi compiano il proprio dovere semplicemente perché è il loro dovere. I risvolti psicologici sono particolarmente importanti poiché la psicologia postfreudiana, sviluppatasi attraverso vie in buona misura alternative rispetto al percorso tracciato dal professore viennese, avendo riscoperto in pieno la natura insostituibile della spiritualità ai fini di uno sviluppo sano e autentico della personalità umana, ha attinto grandi risorse dal buddismo e dall’induismo, ma in particolare dal secondo.

Care Gustav Jung, Roberto Assagioli (fondatore della psicosintesi) e, in tempi più recenti, Abraham Maslow e Ken Wilber, fondatori della psicologia transpersonale, hanno trovato nella millenaria saggezza indiana preziosi strumenti di conoscenza dell’anima umana e della sua guarigione.

La psicologia non è peraltro l’unica, per quanto importante, branca della scienza a essersi accorta in tempi recenti del valore dell’induismo. Pensiamo infatti alla fisica, le scuole più avanzate della quale, di indirizzo quantistico, insegnano come alla base dell’universo vi sia non già la materia, contrariamente a quanto per secoli si credeva, bensì l’energia, il pensiero, ossia lo spirito (discorso ovviamente estremamente complesso, che certo non si può sintetizzare in poche battute, tuttavia sicuramente meritevole di un cenno in tale contesto).

Continuando in tale sforzo di semplificazione, possiamo affermare che, infatti, sempre stando alla fisica più aggiornata, la realtà è in definitiva composta da svariati livelli o dimensioni - la netta maggioranza dei quali invisibili ai nostri occhi - e di queste la materia è quella più provvisoria, più fluida, più labile. L’induismo insegna da millenni lo stesso principio.

Lo spirito e la terra

L’occasione è buona per sfatare un altro pregiudizio relativo all’induismo, e ancora una volta diffuso in Occidente, il quale vuole questa religione nemica della dimensione terrena, al punto da negarne l’esistenza. Nulla di più falso, benché anche questo, al pari di tutti i pregiudizi, contenga un frammento di verità. Profondamente convinto della natura essenzialmente spirituale dell’universo, nonché dell’esistenza di tante dimensioni, l’induismo relativizza sì la sfera corporea e materiale, per concentrarsi sull’essenziale, ossia sull’Assoluto e sul Divino.

Al di là di ogni fraintendimento e degenerazione, peraltro sempre possibili per qualunque religione, l’induismo non ha mai negato l’esistenza della dimensione terrena. “Squarciare il velo di Maya”, ossia sfatare l’illusione che vuole fare di ciò che vediamo con gli occhi e tocchiamo con le mani l’unica realtà, significa saper superare ogni apparenza per scoprire che gli eventi terreni, così come si manifestano, non sono che uno spaccato assai ridotto di un panorama infinitamente più vasto, nel quale anche ciò che più ci pare assurdo e caotico ritrova un proprio significato preciso.

L’evoluzione spirituale, che per l’indù costituisce il significato dell’esistenza, comporta innanzitutto il riconoscimento e l’accettazione della dimensione terrena, per poi scoprire che esiste una realtà molto più vasta e ricca di significato. Riconoscere la dimensione terrena significa anche prenderla sul serio per interagire con essa. Naturalmente esiste una pluralità di vocazioni - possiamo dire, esprimendoci in termini cattolici - e in questa gamma la scelta ascetica occupa un posto d’onore e di primo piano, ma non è certo l’unica possibilità.

Un esito importante della scuola spirituale indù consiste nella possibilità di “dominare” la materia e il corpo. Parecchi yogin (maestri di yoga) indiani hanno non a caso in svariate occasioni dimostrato una straordinaria resistenza a fatiche fisiche di ogni genere, al punto da risultare del tutto insensibili al dolore, riuscendo a privarsi di cibo e di sonno per giorni e giorni, spesso lavorando incessantemente, senza mai subire il minimo danno alla salute.

Il karma e la reincarnazione

Conoscere l’induismo è tutt’altro che un optional per farsi un’idea del panorama religioso contemporaneo mondiale di oggi e di ieri. E ciò non soltanto perché questa grande religione può forse considerarsi la più antica tra quelle tuttora vive e operanti nel mondo. Infatti - fattore forse addirittura più importante del precedente - elementi fondamentali della spiritualità induista, a seguito di complessi processi storici e culturali che hanno causato una profonda evoluzione della coscienza religiosa di un po’ tutto l’Occidente (pensiamo soprattutto alla colonizzazione dell’India da parte dell’Inghilterra, protrattasi sino al 1947), hanno finito per diventare patrimonio comune di milioni di europei e americani, spesso rimasti peraltro ancorati alla fede cristiana.

Pensiamo a quel principio metafisico, cardine dell’induismo, che è il karma, ovvero “azione”, secondo il quale ogni azione è portatrice di un preciso significato morale, i cui effetti possono protrarsi per una serie indefinita di nascite. Conseguenza e premessa indispensabile di tale dottrina del karma è la credenza nella reincarnazione (o, per meglio dire, serie di reincarnazioni), l’una e l’altra curiosamente assimilate in Occidente in maniera spesso acritica e superficiale, senza nemmeno essere consapevoli delle origini indiane e dando per lo più per scontato un fattore che in realtà non è: ossia la conciliabilità tra fede cristiana e credenza nella reincarnazione.

Contrariamente a quanto normalmente si ritiene in Occidente, la reincarnazione è considerata sì dalla tradizione induista il percorso normalmente seguito dalla maggioranza degli esseri umani, ma non necessariamente da tutti e meno che mai viene considerato indispensabile il passaggio dell’anima attraverso una numerosa serie di esistenze.

Seguito ancora maggiore, rispetto alle dottrine del karma e della reincarnazione, miete da vari decenni un altro punto-chiave della tradizione induista: lo yoga, termine che, con una certa approssimazione, si può tradurre con “partecipazione” (al Divino, si intende). Si tratta, come è noto, di un complesso sistema di tecniche di meditazione, preghiere e ginnastiche, finalizzato a condurre l’uomo all’incontro con Dio, il che coincide, nella visione induista, con la piena realizzazione della personalità umana.

Vasta gamma di scuole ascetiche

L’approfondimento della personalità umana costituisce d’altra parte la base dell’intera tradizione induista, secondo la quale l’analisi dell’essere umano procede secondo due direttive principali. L’una, verticale, lavora sulla dicotomia corpo/anima e materia/mente, laddove la netta superiorità dell’anima sul corpo e della mente sulla materia viene raggiunta e dimostrata attraverso una disciplina ascetica, per lo più rigorosa.

Da tale grande larghezza di vedute deriva una vasta gamma di scuole, alcune orientate verso una spiritualità assai esigente e caratterizzata da un rigido ascetismo (ad esempio l’”induismo assolutistico” del Ramana Maharshi; http://maharshi .bizland.com/bhagavan), altre orientate verso l’agire per il bene comune (“induismo altruistico”, che ha visto nella figura e nell’opera del Mahatma Gandhi appunto la testimonianza più eclatante). Queste ultime, le quali hanno assistito nell’ultimo secolo a un notevole sviluppo, sono state fortemente influenzate dalla penetrazione cristiana in India, lentamente avviata da svariati missionari secoli addietro, accelerata dalla conquista inglese e tuttora in ascesa.

La tradizione induista ha costantemente fatto ricorso alla metafora del viaggio, secondo la legge del samsara, processo cosmico di continua morte e rinascita, cui sono soggetti tutti gli esseri viventi dell’universo, per spiegare la propria concezione dell’esistenza. Tappa finale è l’incontro definitivo o, se si preferisce, il ritorno a questo, con l’Atman, il Divino.

Per principio, un indù si può identificare con chiunque si consideri tale, in considerazione del carattere estremamente aperto di questa religione - autorevoli studiosi affermano che esistono tanti induismi quanti sono gli induisti - e, di conseguenza, dell’accennata difficoltà di descriverne le caratteristiche di fondo, fatti salvi i principi generali accennati, peraltro suscettibili delle interpretazioni più disparate. In sostanza, l’induismo è costituito dall’insieme delle pratiche e credenze nelle quali si riconoscono coloro che si considerano induisti.

Trattandosi di un mondo tanto lontano - in virtù delle sue radici culturali, etniche e geografiche profonde al punto da rendere praticamente impossibile, in linea di principio, separare ciò che è indiano da ciò che è indù - quanto vicino, per le ragioni viste, si impone comunque una precisazione importante. Lo stereotipo dell’indù il quale, contorcendosi, si contempla l’ombelico con una gamba attorno al collo è assolutamente anacronistico. Gli indù, infatti, come tutti i devoti di ogni altra religione, lavorano, partecipano alle funzioni religiose - al loro pluralismo devono non solo un ricchissimo repertorio in tal senso, favorito da millenni di storia, ma anche la totale disponibilità a partecipare con passione a riti cristiani, buddisti o musulmani -, pregano alla ricerca di una vita piena e soddisfacente in questa dimensione come nell’aldilà.

L’incontro con i cristiani

L’induismo non ha padri fondatori. In tal senso assomiglia più all’ebraismo che al cristianesimo o all’islam, in quanto considera suoi fondatori una serie di profeti, a nessuno dei quali, a differenza dell’ebraismo, attribuisce un ruolo di superiorità. Le storie di saggi, o santi o guru (guide spirituali) sono assai importanti nell’induismo. Tuttavia non sempre l’induismo attribuisce agli eventi storici lo stesso valore teologico, a differenza delle religioni del Libro. Gli indù fanno infatti derivare il significato teologico dalla conversione della storia in mito.

Le verità spirituali possono rivelarsi in un punto preciso nella storia cosmica, ma di per sé sono al di là dell’ordine cosmico e della storia. Tuttavia è possibile dividere la storia dell’induismo in cinque grandi periodi. Il primo, il cui inizio viene stabilito con straordinaria precisione, venendo fatto risalire all’8 febbraio 3102, il cosiddetto “periodo prevedico”, ossia all’epoca della nascita della plurimillenaria civiltà indiana, è caratterizzato dalla nascita e dallo sviluppo di riti, culti negritos e protoaustraloidi, per lo più centrati sulle anime dei defunti.

Il “periodo vedico” (1500-300 a.C.) è caratterizzato appunto dalla nascita dei Veda, da una vivacissima mitologia nonché da una profonda evoluzione, che possiamo collocare attorno all’800 a.C. In tale epoca, segnata non a caso dalla nascita delle Upanisad, si approfondisce la riflessione sul senso della vita e delle realtà ultime, dando corpo a una filosofia religiosa tuttora centrale nella vita di ogni indù. La natura esoterica di tali dottrine, nell’elaborazione delle quali gioca un ruolo importante il ritiro dei saggi nelle foreste, viene incoraggiata dal consolidamento della figura del guru.

Il “periodo classico” (dal 300 a.C. circa al 1000 d.C.) vede la necessità, da parte dell’induismo, di darsi un’identità più chiara, sollecitato dall’avanzare del buddismo, nonché dallo sviluppo delle scuole ascetiche. Segue il “periodo medievale” (1000-1800), caratterizzato dalla grande avanzata dell’islam, dalla fioritura della tradizione letteraria e dal culto delle “vacche sacre”.

Il “periodo moderno”, che va dal 1800 al 1947, ossia alla conquista dell’indipendenza indiana, è caratterizzato da una straordinaria rinascita spirituale induista, favorita e alimentata a un tempo dalla diffusione mondiale della religione dovuta al dominio inglese, nonché dall’opera di straordinarie figure spirituali ormai largamente conosciute in Occidente: Rabindranath Tagore (1861-1941), Aurobindo Ghose (1872-1950) e il Mahatma Gandhi (1869-1948).

Il Vaticano II ha riconosciuto pienamente il profondo valore spirituale dell’induismo, diverse pratiche del quale sono state da decenni integrate con successo nei programmi di vari sacerdoti e formatori cattolici di larghe vedute. D’altra parte, esistono milioni di indiani, i quali continuano a considerarsi indù pur avendo aderito al cristianesimo.

Il rapporto Chiesa-Maria, colto prima in modo globale, va ora contemplato più attentamente nei vari momenti della avventura di fede che Maria ha vissuto. Lo sguardo deve anzi spingersi ancora più in là...

Martedì, 19 Febbraio 2008 00:20

Tertulliano (Lorenzo Dattrino)

TERTULLIANO

di Lorenzo Dattrino

 

Se si eccettua l’Octavius di Minucio Felice, la cui data è incerta, la letteratura cristiana fa la sua prima comparsa nel 197 con le opere di Tertulliano. (1)

La religiosità popolare
ed il Magistero contemporaneo
dicono di Lui

di Bruno Secondin

Affrontiamo un ulteriore approfondimento sull’attenzione a Gesù Cristo nel magistero conciliare e in quello pontificio. Un accenno viene fatto anzitutto alla ricchezza espressiva, carica di «pathos», ma anche di influssi culturali ed etnologici, che si incontra nella tradizione cristiana popolare. Poi passeremo ad analizzare le caratteristiche «cristocentriche» del Vaticano Il e infine di quello pontificio.

I. RELIGIOSITÀ POPOLARE

Il vissuto popolare cristiano ha notevolmente sviluppato il tema «Cristo», dando alle sue manifestazioni un’accentuazione degli elementi «umani», «emozionanti», capaci di riflettere situazioni umane quotidiane. Ma nello stesso tempo lo si può considerare quale spia di aneliti ben più profondi, sacramento di quella «sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere... Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo1».

Anche questo è un settore in cui si sta notando un risorgere di interesse e di studi, anche se qualche anno fa c’era un interesse maggiormente vivace.

Per offrire una definizione possiamo dire

«La maniera con cui la fede, che si visibilizza in “religione”, può inserirsi nelle diverse culture e strati etnici, viene profondamente vissuta dal popolo e si manifesta in dottrina, rito, istituzione norme morali a carattere popolare, radicati nell’esperienza concreta».

Facciamo solo qualche accenno al volto di Cristo presente in questo vissuto popolare. Purtroppo sul tema non esistono monografie di rilievo sullo «specifico» cristologico delle pluriformi tradizioni in genere si tratta tutto «per modum unius». Eppure i misteri della vita di Cristo sono certamente il settore più notevole delle espressioni religiose popolari.

1. ITALIA MERIDIONALE

Queste sono le caratteristiche della figura di Cristo nella religiosità popolare del sud dell’Italia2.

Gesù è visto più che altro folkloristicamente. Frequenti sono i racconti popolari che iniziano: «Quando Gesù andava per il mondo...» Gesù appare un maestro di sapienza, che ha insegnamenti legati al problema della vita misera e insicura della gente, incerta nel cibo e nell’abitazione. A volte è presentato come sacralizzatore dei valori fondamentali della vita contadina: esempio, maledice chi disprezza il pane (così raro!). C’è anche il filone di carattere contestatario: Gesù è presentato in funzione critica, ironica, liberatrice di fronte ai soprusi dei potenti. 3

C’è anche una certa tradizione popolare che lo chiama perfino «primo socialista»: in opposizione al gruppo «clericale» (come ce lo presentano i Vangeli) e quasi una perenne denuncia ai modelli sociali dominanti. 4

Non dobbiamo però dimenticare che le forme di pietà più diffuse, in varie parti del sud Italia, presentano in effetti «Cristo morto» (del venerdì santo) come la figura tipo. Scrive, su questa immagine, Ruggieri:

«Al centro di questa religiosità (siciliana) sta la figura del Cristo sofferente o meglio ancora del Cristo morto. Ed è attorno al Cristo deposto dalla croce e accompagnato al sepolcro da sua madre addolorata che la religiosità siciliana ha creato le sue simbolizzazioni più consistenti.

In tali simbolizzazioni viene a manifestarsi il contenuto centrale di questa religiosità: la dignità cristiana della morte dell’uomo e della sofferenza di ogni donna... A nostro avviso occorre qui parlare, anche se con cautela, di una forma autentica della fede cristiana. Si tratta di una concentrazione della fede stessa, in alcuni aspetti soltanto della memoria storica del cristianesimo, dove diventa quasi ossessivo il tema della morte».

È come dire che sofferenza e morte si devono portare in silenzio. E continua:

«Il nucleo di questa fede popolare può quindi essere descritto come una specie di identificazione tra la sofferenza e la morte storica del Cristo e l’esperienza attuale della sofferenza e della morte dell’uomo»5

Ma in altre parti si incontra anche la rappresentazione del Cristo «risorto» (del giorno di pasqua): il quale nella piazza principale del paese incontra la Madre, fra l’emozione vivissima del popolo. Né mancano devozioni popolari anche a Gesù bambino, al Crocifisso piagato, all’eucaristia, ecc. 6

2. AMERICA LATINA

Qualcosa di simile a quanto detto per il sud dell’Italia anche se molto più ricco;e variegato, si ha in America Latina, per la quale però è indispensabile tener conto dell’influsso determinante dell’immagine spagnola (medievale, pretridentina) 7

L’incontro della cristologia «spagnola» con la sensibilità dell’indio, nel quadro della sconfitta e della oppressione, diede origine ad alcune grandi tipologie di cristologia. Secondo S. Trinidad esse sono:8

Cristologia di rassegnazione: centrata sull’immagine di Cristo vinto, sconfitto e sofferente. Essa rappresenta l’indio vinto, agonizzante: la croce, il dolore sono le condizioni della sua esistenza; deve rassegnarsi lui e le sue donne (la Vergine dei dolori);

Cristologia di dominazione: costruita sull’immagine del Cristo trionfante, «monarca celestiale», una specie di re spagnolo celeste, con la corona simile a lui. L’indio vi vede una «personificazione del re conquistatore»; e i re, «ferdinandi» terreni, saranno visti come incarnazione di quello celeste. L’«impotenza costituita» e il «potere costituito» si fondono in una singolare cristologia dell’oppressione;

Cristologia dell’emarginazione: essa ha come centro la figura di Gesù bambino, variante dell’oppressione. Richiama i bambini emarginati, che il «padrino» prende sotto la sua protezione, ma senza cambiare la loro situazione, né, da parte sua, il ruolo oppressivo.

Ma ci sono anche altre immagini molto diffuse: il sacro Cuore, l’eucaristia, il «Cristo golpista» (implicitamente presente nei tentativi di difesa dei «valori cristiani» come legittimazione del golpe); il «Cristo pacifista»: quello evocato da alcuni profeti come Pedro Claver, Antonio Montesinos, Bartolomé de las Casas...

Queste immagini - per quanto inquinate dai processi culturali e violenti del periodo dell’evangelizzazione - tuttavia rappresentano una base solida su cui fondare il mai finito processo di evangelizzazione. Più problematica la serie di figure «intimistiche», frutto della spiritualità privata e soggettiva, della fase più recente.

Una certa novità è costituita dall’immagine del Gesù Cristo liberatore, che sviluppa una cristologia del servo sofferente. 9 Esso viene a volte a contrapporsi - dice Hugo Assmann - alle diverse figure del Cristo della borghesia e della colonizzazione oppressiva.

Il conflitto tra le diverse e opposte «figure di Cristo» si ritrova anche nella cristologia di Puebla: vi si incontra sia l’immagine tradizionale (prevalente), sia una cristologia più biblica e storica. Il passaggio fondamentale sono i numeri 170-219: «La verità su Cristo salvatore che noi annunciamo».

Il titolo «Gesù Cristo liberatore» non vi si trova; ma si incontra nella parte finale del «messaggio» («Dio è presente, vivo, in Gesù Cristo liberatore, nel cuore dell’America Latina»), quando si parla dell’educazione cristiana (cf. n. 1031) e infine quando si parla di come presentare Cristo ai giovani (cf. n. 1183: «questo è il Cristo che deve essere presentato ai giovani come liberatore integrale»).

Sulla religiosità popolare Puebla apporta una modifica alla prospettiva con cui se n’era parlato a Medellin. In Medellin si parlava di «pastorale popolare», cioè di una pastorale che doveva raggiungere anche le classi popolari e le tradizioni religiose del popolo. Puebla invece, oltre a dare una descrizione più complessa e attenta della religiosità popolare, la descrive come «saggezza» del popolo, come elemento «costitutivo dell’essere e dell’identità» dell’America Latina, come potenziale di evangelizzazione, come punto di partenza della stessa evangelizzazione. 10

Circa le «immagini» di Cristo più diffuse, Puebla mette al primo posto «il culto al Cristo sofferente e al Cristo morto» (n. 912). Una delle preoccupazioni più volte espresse da Puebla è quella di evangelizzare la religiosità popolare, in modo che la figura di Cristo non sia «deformata» in nessun modo:

«È nostro dovere annunciare chiaramente, senza lasciare spazio a dubbi o equivoci, il mistero dell’Incarnazione: sia la divinità di Cristo così come la professa la chiesa, sia la realtà e la forza della sua dimensione umana e storica» (n. 175).

E aggiunge:

«Solidali con le sofferenze e le aspirazioni del nostro popolo, sentiamo l’urgenza di dargli ciò che è specificamente nostro: il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Sentiamo che è questa la “forza di Dio” (Rm 1,16), capace di trasformare la nostra realtà personale e sociale e di incamminarla verso la libertà e la fratellanza, verso la piena manifestazione del regno di Dio» (n. 181).


Note

1) Evangelii nuntiandi 48:EV5/1644.
Che cosa sia la religiosità popolare e in quale modo interessi ia
spiritualità lo abbiamo già altrove illustrato, per es. nella Voce
specifica; Religiosità popolare, in Dizionario di spiritualità dei laici, OR, Milano 1981, Il, pp. 211-223. Per un’analisi attenta ai contesto culturale; Religiosità popolare, in «Concilium», 22(1986), 4.

2) Buone indicazioni, anche di carattere pastorale in G. AGOSTINO, La pietà popolare come valore pastorale, Paoline, Alba 1987. Più teologico e un po’ «polemico», Religiosità popolare e teologia popolare, in «Communio» (it.), 95(1987).

3) M. MELIGRANA, Quando Gesù andava per il mondo, in «ldoc-internazionale», 7(1976), 5, pp. 30-40.

4) Cf. A. NESTI, «Gesù socialista», una tradizione popolare italiana
(1880- 1920), Claudiana, Torino 1974; R. CIPRIANI, il Cristo rosso. Riti e simboli, religione e politica nella cultura popolare, Janoa, Roma 1985; P. BOWMAN, Le Christ des barricades (1789-1848) Cerf, Paris 1987.

5) G. RUGGIERI, La fede popolare fra strategia ecclesiastica e bisogno religioso, in «Concilium» 22(185), p. 612.

6) Cf. V. Bo, Feste riti, magia e azione pastorale, EDB, Bologna 1983.

7) Per un primo aiproccio: CELAM, Iglesia y religiosidad popular en A. L.. Bogotà 1977; S. GALILEA-R. VIDALES,Cristologia y pastoral popular, Paulinas, Bogotà 1976; Jesùs: ni vencido ni monarca celestial (imàges de Jesucristo en América latina),
Tierra Nueva, Buenos Aires 1977 (riporta i testi di «Cristianismo y
Sociedad», 13(1975), pp; 43-44, con aggiunta di altri contributi); Quem
è Jesùs Cristo no Brasil?, Ed. Aste. São. Paolo t975: Espiritualidad de la Liberaciòn, in «Christus» (Mexico), dec. 1979/jen.1980 EI Cristo de mi tierra, in «Christus» (Mexico), mar/abr. 1985; J.C. SCANNONE (ed.), Sabiduria popular,simbolo y filosofia, Buenos Aires 1987.

8) I volti del Cristo latino americano, in «ldoc-interflazionale» 7(1976), 3-4, pp. 38-47.

9) Un bel testo C. MESTERS, Missione del popolo che soffre. Cittadella, Assisi 1982.

10) Cf. Puebla, pp. 444-469.



ALCUNE LINEE

Ci limitiamo qui a tracciare alcune linee principali del discorso cristologico del Vaticano II, senza pretendere di esaurire l’argomento.

1. Anzitutto un ritorno al Vangelo, al Gesù storico, concreto, in una prospettiva più ascendente che discendente. Dopo più di un millennio di cristologie «dall’alto», che parlavano cioè di Dio che si fa uomo, l’eterno che si fa tempo, l’infinito che si fa finito. Solo alcune eccezioni vi erano state, come il francescanesimo, in cui si notava una particolare attenzione all’umanità, in cui si svela progressivamente la dimensione divina. Il Vaticano Il così dà risalto in modo particolare al mistero della kénosis, del servo di JHWH. Un Cristo che accetta l’umanità di servizio, per questo si trova frequente la citazione di Mt 10,45: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire...» (e simili).

2. Si evidenzia anche il superamento di Calcedonia, considerata come base di partenza non eliminabile. Il concetto di Cristo calcedonense (una persona e due nature) non lo si trova mai. Ciò che invece si tende a fare è valorizzare, andare al di là di questo schema, coprire gli spazi verso il mistero di Cristo: Gesù di Nazaret è un personaggio che «disegna» e «manifesta» (non in assoluto però) il senso della storia, e questo è il suo mistero.

3. Il vero punto focale dell’insegnamento del concilio è la presenza di Cristo nella storia. Il tema del Regno amplifica l’orizzonte in cui si colloca lo stesso Cristo. La chiesa è relativizzata dal Regno, ma anche Cristo, che sembra essere visto come elemento funzionale a tale disegno piu ampio, anche se il suo ruolo vi e centrale, Molte volte si dice che il Cristo ricapitola le cose, le trasmette alla fine dei tempi al Padre. Cristo quindi non riduce l’attenzione su di sé, ma rimanda anche se stesso ad un disegno che appare più ampio. Il riferimento ai testi paolini qui è fondamentale (Efesini, Colossesi).

4. Cambia allora la posizione di Cristo rispetto alla totalità della storia. Cristo non è mai colui che annulla la storia, che si contrappone in modo assoluto ad essa, ma piuttosto colui che la recupera in pienezza in tutti i suoi valori. Questo dà adito a pensare che anche la chiesa deve camminare sulla stessa strada, senza animo assolutista e manicheo (come se fuori di lei tutto fosse cattivo o comunque sospetto: la «fuga mundi» si trasformerebbe così in ideologia ecclesiale) Il tema fondamentale e allora il ruolo di ricapitolatore di Cristo rispetto alla storia. Il testo degli Efesini gioca un ruolo privilegiato in questa prospettiva. Cristo e la chiesa portano il senso della somma, il compito di dare «dignità» ad ogni frammento, non quello di annullare quello che c’è (Ef 1,10 viene citato in: LG 3,48; AG 3; GS 38,45,58).

5. Nel Vaticano II non è mai separata la cristologia dalla soteriologia: Cristo misteriosa personalità e Cristo redentore e salvatore sono la stessa cosa, formano un tutt’uno. Natura e missione Sono profondamente integrati. Il concilio colloca l’annuncio di Gesù Cristo salvatore nell’ampio annuncio e orizzonte della storia della salvezza, di cui Cristo è «insieme il mediatore e la pienezza» (DV 15).

La conseguenza fondamentale per la chiesa è che: come Cristo, anch’essa deve relativizzare la sua «dignità» e essere anzitutto protesa in avanti, verso la missione. Come il Cristo è il servo di Dio, è il suo servitore, così deve essere la chiesa, a vantaggio dell’intera umanità.

6. La triplice dignità di Cristo, profeta, sacerdote e re, si riflette anche nella vita del cristiano: richiamando il primato del profetismo, e spostando l’aspetto della «regalità» all’ultimo posto. Si rovesciano le situazioni e le mentalità anche recenti: bisogna essere deboli e servitori, e allora si «conquista» a Dio la storia. Appare evidente il rifiuto totale della mentalità che pensa che occorra essere «potenti» per far meglio il bene. Si può notare che la riforma della chiesa («ecclesia semper reformanda»: cf. LG 7.8,40,65;UR 4,7,8) conduce ad una riflessione cristologica molto innovativa, da cui derivano poi le idee per la «riforma» Ma c’è anche dell’altro che vorrei proporre.

UNA PISTA PARTICOLARE

È quella che troviamo in Gaudium et spes, in particolare nei primi tre capitoli. Facendo un’analisi dei tre umanesimi emergenti, il concilio cerca di interpretarli alla luce di Cristo e di ripensare il mistero di Cristo sotto la provocazione di questi umanesimi/ messianismi. Ne risulta che il mistero di Cristo può mostrare una freschezza insospettata. Ecco alcuni spunti:

- Umanesimo individualista (c. I): è il più tradizionale nell’ambito cristiano, perché affronta temi esistenziali vicini alla mentalità umanistica: morte, dolore, coscienza, libertà, ecc. La risposta è: Cristo è rivelatore anche dell’uomo, è rivelatore dell’uomo nuovo, è lui stesso uomo nuovo e perfetto, che riscatta l’antica immagine deturpata nell’Eden. E di questo capitolo la famosa frase: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... [Cristo] svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (n 22)

- Umanesimo collettivista (c. II): che evidenzia la solidarietà e la giustizia. Il testo mette in evidenza che Cristo ha «assunto» tutti gli uomini e tutto l’uomo non perché ha assunto una natura umana in astratto ma perchè si e messo in contatto con tutti, è divenuto solidale con tutti, specie i poveri e gli ultimi. C’è un’assicurazione insistente su questa presenza fra gli ultimi (e non fra i «primi», che sappiamo bene chi erano nel Vangelo: scribi, farisei, sacerdoti...). Importante è il n. 32 di carattere eminentemente cristologico.

- Umanesimo tecnico (c III) quello che esalta le possibilità di progresso e di manipolazione della materia da parte dell’«homo faber» Di fronte ai molti problemi emergenti occorre riscoprire Cristo quale ricapitolatore di tutte le cose, punto di convergenza in una restaurazione che interessa anche le realtà materiali: corpo, materia, tecnica. Importante il n. 39 che interpreta «cristicamente» le questioni messe in risalto.

Si potrebbe ancora continuare esemplificando anche in altri settori: si veda per es. l’applicazione al problema culturale (nn. 57-62), dove si mette in risalto il legame stretto tra fede e cultura e specificamente tra incarnazione del Verbo e cultura storicamente delimitata.

Tutto questo modo di procedere ha fatto scuola in questi anni. Fino ai nostri giorni, come dimostra anche il documento della Congregazione per la dottrina della fede, Libertà cristiana e liberazione (1986): esso, dopo aver fatto una lettura della condizione della libertà nel nostro tempo (c. I) e della tensione fra libertà e peccato (c. II), traccia alcune linee di interpretazione alla luce della rivelazione biblica (c. III), per poi dedurre atteggiamenti pratici. Un tale modo di procedere (che si potrebbe chiamare circolo ermeneutico) è ormai consolidato, e mostra che bisogna cercare il «volto» di Cristo sempre di nuovo, al di là degli schemi collaudati e ripetuti, per un nuovo slancio missionario e per una nuova esperienza di «andare incontro» a colui che è «oltre», «ci precede» sulle strade della «Galilea delle genti».

GIOVANNI PAOLO Il

Vogliamo dire qualche cosa sul magistero cristocentrico del papa Giovanni Paolo II. Sarebbe interessante esaminare anche il magistero degli episcopati nazionali o quello dei sinodi episcopali Ma preferiamo non dilungarci all’infinito.

Non c’è dubbio che Giovanni Paolo II ha rivolto una particolare attenzione alla centralità di Cristo. Questo comporta anche una particolare maniera di “illustrare” l’ecclesiologia: alla luce di una cristologia ben specifica e che la condiziona.

1. REDEMPTOR HOMINIS (4 marzo 1979)

Qualche mese dopo l’inizio del pontificato, appare l’enciclica programmatica: è abbastanza conosciuta, non mancano i commenti. Il pensiero cristologico viene esposto con intensa partecipazione personale: in pratica si tratta di una professione di fede in Cristo redentore dell’uomo, vivente e operante nella sua chiesa, suo centro e sua ragione di essere.

Lo schema cristologico lo possiamo individuare in questi punti:

- Gesù Cristo è un uomo (da Nazaret), storico, eguale a tutti gli uomini, ma con una singolarità specifica che è la spiegazione ultima del suo modo di vivere la storicità;

- La centralità di Cristo è sulla linea della scuola “francescana”: l’incarnazione redentiva non è solo atto riparatore. E’ anche un atto d’amore eterno di Dio, indipendentemente dal peccato. Esempi se ne incontrano nell’enciclica, per mezzo di citazioni paoline (es. nn. 1,7,8,9);

- Questa centralità è anche accesso unico alla verità. Da solo l’uomo è incapace di giungere alla verità. Cristo la dona nella medesima rivelazione del Padre e rende l’uomo capace di riceverla;

- Cristo è centro della storia, ultimo e definitivo nella vita dell’uomo e dell’universo. Egli è norma e criterio assoluto dell’esperienza cristiana nel mondo; egli è in «funzione» di tutto ciò che l’uomo cerca e attende.

Tra le fonti bibliche prevalgono: Vangelo di Giovanni (specie discorso sacerdotale) e le lettere paoline (Rm. e 1 e 2Cor).

2. UNA CARATTERISTICA

Tra i temi cristologici che variamente vengono sviluppati sottolineiamo: la «singolarità» storica e unica di Cristo, Cristo redentore del peccato, Cristo rivelatore dell’amore del Padre verso di noi. Tenendo presenti queste verità si dovrebbero ridimensionare le correnti cristiane che non danno molto peso all’unicità e «singolarità» storica di Cristo e anche le correnti che enfatizzano la realizzazione su scala mondiale della «liberazione» e non calcolano che il male sta dentro il cuore dell’uomo, nel suo egoismo .e nel suo orgoglio (su questo punto uno sviluppo maturo sarà la: Dives in misericordia). Da qui deriva che il discorso della chiesa sull’uomo sarà elemento centrale dell’annuncio ecclesiale di Gesù Cristo. E dovrà essere un discorso a favore dei diritti fondamentali dell’uomo, contro tutte le oppressioni, anche quelle che presumono di essere invece liberazione storica degli oppressi.

L’impegno missionario della chiesa, di fronte ai «germi del Verbo» e ai valori spirituali presenti in altre tradizioni religiose. La chiesa deve riconoscerli, ma lo saprà fare solo se vive autenticamente aperta a Cristo e ai suoi impulsi (RH 18).

L’attenzione più ampia viene data all’evento croce/risurrezione e al suo significato per la riconciliazione di Dio con l’uomo; più scarsa è l’attenzione alla vita terrena e storica di Gesù e alla portata redentrice di questa realtà storica concreta.

Una difficoltà è la non semplice conciliabilità tra le due vie:

«Gesù Cristo è la via principale della chiesa» (RH 13); e «Quest’uomo è la prima strada che la chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’incarnazione e della redenzione» (RH 14)».

Possiamo superare la dualità dialettica dicendo: La struttura fondante del documento è semplice, unica ragione vitale della chiesa è Cristo; ma Cristo è il nuovo Adamo, chiave del mistero di ogni uomo; e dunque è l’uomo la prima e fondamentale via della chiesa.

3. IL CRISTOCENTRISMO

Il suo pensiero «cristocentrico» lo possiamo seguire nei vari sviluppi attraverso le altre due encicliche teologiche fondamentali: Dives in misericordia (30 novembre 1980) e Dominum et vivificantem (18 maggio 1986).

Nella prima Dives in misericordia, ci presenta Gesù Cristo come la «rivelazione della misericordia» del Padre (n. 1), come incarnazione della misericordia» (n. 2) e come impegnato a «render presente il Padre come amore e misericordia» (n. 3). Più avanti altri due paragrafi sono dedicati al «mistero pasquale»: nel quale la «misericordia si rivela nella croce e nella risurrezione» (n. 7) e più forte del peccato (n. 8). Alla figura del Figlio del Padre misericordioso è associata, come è logico, anche la «madre della misericordia» (n. 9). L’impressione generale che si ricava da questa enciclica è che il tema antropologico religioso (uomo peccatore) sia prevalente e condizioni anche quello teologico-cristologico. Per qualcuno la visione «antropologica» di questa enciclica è piuttosto pessimista.

Nella seconda enciclica (Dominum et vivificantem) riappare con molta forza l’attesa «millenaristica» della fine del millennio, alla luce della quale viene proposta una nuova attenzione allo Spirito santo che sia:

«Una nuova scoperta di Dio nella sua trascendente realtà di Spirito santo, come Io presenta Gesù alla samaritana; il bisogno di adorarlo in spirito e verità; la speranza di trovare in lui il segreto dell’amore e la forza di una «nuova creazione: sì, proprio colui che dà la vita» (n. 2).

Poi tutta la prima parte è dedicata allo sviluppo di una pneumatologia in chiave trinitaria ed ecclesiale, come il titolo stesso avverte: «Lo Spirito del Padre e del Figlio, dato alla chiesa» (nn. 3-26). Le altre due parti sono dedicate più che altro alla riflessione delle forme e delle figure di peccato che dominano la nostra storia e all’opera di «purificazione» dello Spirito (parte II). Mentre la terza è tutta la chiarificazione del senso del «Giubileo del duemila» e delle indicazioni per prepararsi bene: recupero dell’uomo interiore, vita sacramentale intensa (specie eucaristica), esperienza di preghiera.

CONCLUSIONE

Il post-concilio ha sviluppato non solo nuove e interessanti prospettive cristologiche, ma anche ne ha fatto con maggior chiarezza il centro della vita cristiana. Questo può lasciare indifferente la metodologia e il concetto di «santità»? Non credo, ma anzi dovrebbe costringere a rivedere metodi e concetti: passando da un quadro di riferimento chiaramente «ecclesiologico» ad uno più «cristologico», da una cristologia devozionale ad una cristologia più biblica e insieme meglio acculturata.

In altre parole, l’esempio della santità non è «Dio santo», ma piuttosto Gesù, il «Santo di Dio». E la santità è chiaramente esperienza della «sequela» di Cristo, e non il raggiungere una «perfezione» astorica e astratta, modellata sul Dio «perfetto» e «impassibile», lontano dall’umano.

Deriva da qui anche una conseguenza: ad una cristologia «pluralistica» deve corrispondere una santità ricca di pluralismo.

Ha scritto uno studioso della spiritualità

«È accettato un pluralismo personale: diverse persone si sentono internamente spinte a esperienze e lavori diversi dentro l’unica comunità umana. Si accetta un po’ meno il pluralismo cronologico: in tempi distinti si devono cambiare gli accenti secondo necessità e possibilità richieste e concessi in tempi diversi. Si dimentica però il pluralismo geografico: non tutti i luoghi presentano la medesima problematica e, pertanto, non tutti possono utilizzare gli stessi schemi di vita. Una santità che dimenticasse queste differenze, o questo pluralismo, correrebbe pericolo di staticità, gregarismo e uniformismo».

Il settore, o la prospettiva che sembra si dovrebbe maggiormente sviluppare, si può individuare nella «dimensione politica e pubblica» della sequela di Cristo, santa e perfetta. Ne deriverebbe una deprivatizzazione del vivere cristiano e una maggiore sensibilità per una sequela che sia provocazione storica: cioè sostanziata di audacia e giustizia

Dice Puebla: «L’evangelizzazione dei poveri è stata per Gesù uno dei segni messianici, ed anche per noi sarà segno di autenticità evangelica» (Puebla, 1130); e ancora «La nostra condotta sociale è parte .integrante della nostra sequela di Cristo» (n. 476).

E anche un testo vaticano destinato ai religiosi dice: «I Vangeli tendono testimonianza a Cristo della fedeltà con cui ha adempiuto la missione per la quale lo Spirito l’aveva consacrato. Missione di evangelizzazione e redenzione umana che lo condusse a vivere col suo popolo, condividendone le vicende, che egli tuttavia illuminava e orientava, predicando e testimoniando il Vangelo di conversione al “regno di Dio” (Mc 1,15). La sua sconvolgente proposta delle “beatitudini” introduceva un radicale rinnovamento di prospettiva nella valutazione delle realtà temporali e nei rapporti umani e sociali, che egli voleva centrati su una giustizia-santità animata dalla nuova legge dell’amore.

Le sue scelte di vita segnano e qualificano particolarmente i religiosi, che fanno propria la stessa “forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò quando venne nel mondo” (LO 44)».

Nella più recente enciclica, Sollicitudo rei socialis (1988), il grande tema della solidarietà, che tutta l’attraversa, trova la sua giustificazione non solo nell’interdipendenza crescente fra popoli, nazioni, risorse, conflitti e paure; ma soprattutto nella fede in Cristo redentore, riconciliatore degli uomini con Dio e centro nevralgico del cosmo (n. 31). Nella forza della sua vita donata, afferma l’enciclica, possiamo lottare contro divisioni ed egoismi, fragilità e ingiustizie. E’ questa una grazia ma anche un impegno (n. 40), una collaborazione aperta a tutti coloro che cercano il bene in nome dello «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini». La solidarietà è una virtù cristiana (n. 40), genera come frutto genuino la pace (n. 39), si orienta verso tutte le dimensioni sociali, ma anzitutto si classifica come amore preferenziale per i poveri (n. 42), per i quali si fa primariamente amore e servizio (n. 46). E questa la più genuina imitazione di Cristo e la fedeltà autentica al suo programma (nn. 46,47). L’eucaristia, vertice della fede cristiana, ne è pegno e fermento: «Il Signore mediante l’eucaristia, sacramento e sacrificio, ci unisce con sé e ci unisce tra di noi... e uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere, dell’amore di Dio, preparando la venuta del suo Regno e anticipandolo nelle ombre del tempo presente» (n. 48).

Come si vede anche l’insegnamento «ufficiale» si pone la questione e suggerisce di fare attenzione, tirando le conseguenze logiche. Su questa stessa linea possiamo ritrovare una grande quantità di «nuovi testi» di catechismo, in cui la cristologia è presentata in categorie teologiche e antropologiche non puramente statiche e ripetitive.

Non si tratta di una novità estranea alla storia, perché la storia conosce queste aperture dinamiche e sociali, anche se sotto varie accentuazioni e progettualità. Perciò a questo punto si impone una «rilettura della storia» per cogliere i filoni «cristocentrici» : più ricchi e interpretare la varietà degli approcci al mistero di Cristo.

Lo faremo nei capitoli seguenti, dedicandoci a riconoscere la «molteplicità dei volti» di Cristo nella storia. Attraverso quest’ampia ricognizione, sarà facile riscontrare la notevole influenza delle culture, delle emozioni e delle utopie nel pluralismo di queste immagini e nelle risposte/proposte esistenziali di fronte al mistero di Cristo Gesù.

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