Missione è... giocarci la vita
Sr. Pompea Cornacchia
Fr. Alberto Degan
Alcune riflessioni tratte dalla rivista Nigrizia (marzo 2003).
Camminare senza confini per donare la propria vita, affinché gli altri la tengano in abbondanza... «Niente per cui uccidere e niente per cui morire» è il modello di vita che ci propone una famosa canzone di John Lennon. Sul "niente per cui uccidere" siamo tutti d'accordo, ma in quanto al morire Martin Luther King diceva che chi non ha un ideale per cui morire non ha neanche una ragione per cui vivere. E chi non ha una ragione per cui vivere è morto. Questa "morte in vita" è il modello che ci propone il nostro sistema; e allora, quando qualcuno si oppone alla morte e annuncia la Vita, il sistema non può tollerarlo.
E così si arriva a una situazione paradossale: Gesù ha resuscitato il suo amico, ma i sacerdoti «decidono di uccidere Lazzaro, perché molti giudei se ne andavano a causa sua e credevano in Gesù» (Gv 12,9-12). È incredibile: un morto ritorna alla vita, e ci aspetteremmo che tutti siano felici. E invece no: la Resurrezione, la Buona Notizia per eccellenza, per qualcuno è cattiva notizia, perché destabilizza questo sistema di morte.
Annunciare il Vangelo, dunque, implica necessariamente suscitare conflitti, e accettare come inevitabili incomprensioni e persecuzioni. E in effetti, la cosa che più colpisce nella vita di San Paolo e di Daniele Comboni è la quantità di sofferenze, calunnie e persecuzioni che dovettero affrontare. «Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte» (2 Co 11,23). Paolo passò più di quattro anni della sua vita in prigione. Inoltre, nella sua attività missionaria ha conosciuto «pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nelle città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli» (2 Co 11,26). Per quanto riguarda il conflitto con i suoi stessi fratelli, sappiamo che Paolo ha sofferto molto per l'opposizione dei giudaizzanti, che pretendevano che i pagani convertiti a Cristo seguissero tutte le norme della Legge di Mosè. Se avesse voluto evitarsi croci e preoccupazioni, Paolo avrebbe ceduto alle pressioni di questi gitici, ma l'Apostolo non è disposto a modificare il vangelo semplicemente per evitare dei problemi, e così accetta la croce della calunnia e dell'incomprensione.
Il Comboni mantenne la stessa 'ostinazione' di fronte a coloro che gli dicevano che non era ancora giunta l'ora dell'Africa, e che era assurdo spendere tante energie per un'impresa "disperata". A tutte queste obiezioni rispondeva: «Quando il missionario della Nigrizia ha caldo il cuore di puro amore di Dio, e collo sguardo della fede contempla la sublimità dell'opera per cui s'affatica, tutte le privazioni, gli stenti continui, i più duri travagli diventano al suo cuore un paradiso in terra, e la morte stessa ed il più crudo martirio è il più caro e desiato guiderdone ai suoi sacrifici» (S 2705). Comboni, usa il linguaggio dell'innamorato, di chi si sente conquistato da Dio: al di fuori di questa relazione d'amore la croce non avrebbe alcun senso, e si ridurrebbe a puro masochismo. Allo stesso modo, quando san Paolo dice «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20), ci sta dicendo che Gesù è l'unico senso, l'unica ragione della sua vita, e che per Lui è disposto a
soffrire «insulti, difficoltà e persecuzioni» (2 Co 12,20).
Inoltre, tanto san Paolo come Comboni seppero leggere nei segni dei tempi la volontà di Dio: ambedue i missionari erano consapevoli di essere lo strumento scelto dal Signore per realizzare un Suo grande sogno e per introdurre un grande cambiamento nella storia: la conversione dei pagani e la rigenerazione degli africani. Ambedue sapevano bene che il compimento di questa grande missione avrebbe procurato loro enormi sofferenze e persecuzioni, ma erano disposti a tutto, a giocarsi la vita, ad affrontare la croce più dura, pur di realizzare la missione che Dio gli aveva affidato.
Dunque, essi ci interpellano: c'è qualcosa per cui siamo disposti a giocare la nostra vita? Significativa, a questo proposito, fu la reazione suscitata dall'iniziativa dei 500 pacifisti che nel 1992 - in piena guerra - riuscirono a rompere l'assedio di Sarajevo e ad entrare in quella martoriata città. Molte persone - e fra questi molti buoni cristiani - cercarono di dissuadere questi pacifisti da una impresa che sembrava assurda: è stupido rischiare la propria vita andando in mezzo ai combattimenti. L'anno precedente alcuni piloti dell'esercito italiano avevano rischiato la propria vita partecipando alla prima Guerra del Golfo. Perché, i cristiani accettano come normale che i soldati si giochino la vita per partecipare ad una guerra, però considerano del tutto irrazionale e stupido che alcuni rischino la vita per la pace? Rischiare la propria vita per andare ad uccidere sembra logico e razionale. Ma rischiare qualcosa per il Vangelo della pace e dell'amore appare assurdo.
Eppure, come scrisse Josè Giraldo Cardona, un avvocato colombiano assassinato dai paramilitari nel '96, non è possibile amare senza essere disposti a giocarsi e a "perdere" la propria vita. Impegnato a denunciare la crudeltà di un conflitto che ha causato 300.000 morti negli ultimi dieci anni, scriveva: «Noi lottiamo con amore, amore per la vita. Quest'amore ci rende sensibili al grido del bambino che assiste all'assassinio dei suoi genitori, o al pianto di tante mamme che domandano a Dio perché sono rimaste orfane dei loro figli. Però dobbiamo trasformare questa sensibilità in atti di giustizia, in lotta per la vita. Se non siamo disposti a lottare per questo, rinunciando anche alla nostra tranquillità e sicurezza personale il nostro amore sarà solo un fatuo sentimentalismo. L'amore e la lotta per la vita vanno strettamente uniti. Nessuno può difendere la vita senza amare, e nessuno può dire di amare realmente se non lotta per difendere la vita, disposto anche - se necessario - a perdere la sua».
Jon Sobrino afferma che per i poveri il martirio di un Dio Crocifisso è - parzialmente - "Buona Notizia" nella misura in cui è un Dio che vuole condividere la loro sorte e assume in sé tutto il dolore della storia. I poveri intuiscono che un Dio che soffre e muore per il "Regno di giustizia e di pace" (Rm 74,77) è un Dio che li ama: esistenzialmente, associano la croce di Gesù a un amore senza limiti, e questo dà loro forza, alimentando la loro esistenza. Allo stesso modo, il martirio di Josè Giraldo Cardona, che - nonostante le varie minacce ricevute - continuò a lottare per i diritti umani, e il martirio di tanti altri agenti di pastorale in Colombia costituisce per noi una buona notizia nella misura in cui ci dice che in questo mondo fondato sulla legge del profitto e dell'accumulazione egoista è ancora possibile amare e dare la propria vita per il Vangelo della giustizia e della fraternità. E questa testimonianza è uno stimolo per noi a continuare a vivere e - se necessario - a morire per la causa del Regno.
Accettare la croce, allora, pazzia e scandalo per i saggi e salvezza per i piccoli (1 Co 7,78), significa seguire la logica di Dio che mostra la sua preferenza per ciò che sembra piccolo e insignificante, per ciò che il mondo rifiuta. Noi vorremmo evangelizzare con grandi mezzi e ottenere grandi risultati immediati, ma presto il missionario scopre che «il cammino che Dio mi ha tracciato è la Croce» (Comboni). «Scendi dalla croce!» gridavano i passanti al Crocifisso (Mt 27,50), e indubbiamente questa è una grande tentazione anche per i missionari. La nostra accoglienza della logica della croce passa necessariamente attraverso un processo di purificazione: si arriva ad abbandonarsi all'amore di Dio solo attraverso fasi di ribellione, perché umanamente i facili applausi e i consensi di comodo ci attraggono. Però è impossibile saltare dal giovedì santo alla domenica mattina senza vivere la passione e la morte del venerdì e il silenzio e attesa del sabato. Solo una missione impastata con l'amore del venerdì e del sabato santo genera per la risurrezione e produce frutti che rimangono.