Guarire con la solidarietà
di Luciano Manicardi
La parabola del buon Samaritano contiene l'insegnamento che la sofferenza dell'altro è appello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà. È importante cogliere la parabola vera e propria (Lc 10,30- - 35) in continuità con il breve dia- logo tra il dottore della legge e Gesù che la precede (vv. 25-29): si ve drà così che la parabola è la narrazione con cui Gesù insegna la vera solidarietà al dottore della legge che gli pone la domanda simbolo della non responsabilità e della non solidarietà: «Chi è il mio prossimo?». In particolare Gesù invita il dottore della legge a passare dal, sapere al fare: egli risponde bene, in modo ortodosso (orthos: v. 28), ma sembra non arrivare a fare il legame tra sapere e fare, tra conoscenza delle Scritture e sofferenza dell'uomo, tra corpo delle Scritture e corpo dell'uomo ferito, tra spirito e mano. Non arriva ad amare realmente e dunque a compiere la Scrittura. Capiamo così l'ammonimento ripetuto due volte: «Fa’ questo e vivrai!» (Lc 10,28); “Va' e fa’ anche tu fa' lo stesso» (Lc 10,37). Gesù insegna che la solidarietà è un reale farsi prossimo all'altro nella sua sofferenza: la solidarietà come arte della vicinanza, della presenza all'altro nel suo bisogno.
Ora, il sacerdote e il levita vedono l'uomo ferito, quasi morto, ma passano dall'altra parte della strada: perché? Perché questo rifiuto della solidarietà? Forse per non contrarre impurità con un quasi cadavere, ma certamente vi è qualcosa di più radicale e che an-che noi sperimentiamo: l'uomo malato, ferito o morente può farci paura. E allora noi capiamo che per entrare nella vera compassione che sfocia poi nella solidarietà non basta vedere l'uomo ferito, ma occorre vedere anche le proprie resistenze alla compassione, vedere la propria vulnerabilità, riconoscere che compassione e solidarietà suscitano in noi anche rifiuto e ripugnanza. Non è da escludere che la presenza dell'uomo ferito sia sentita come una vera e propria scocciatura che riempie di collera sacerdote e levita: perché costui è là a interrompere il mio cammino, i miei ritmi già prefissati e pacifici? Nasce in me la volontà di escluderlo dal mio orizzonte perché mi infastidisce: allora passo dall'altra parte della strada. lo credo che per leggere onestamente questa parabola dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono il Samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita, e che i tre personaggi sono tre momenti dell'unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà. Anche noi, per arrivare alla vera solidarietà siamo chiamati a riconoscere le opposizioni che in noi ci sono alla solidarietà e alla compassione. Anche noi, per incontrare il sofferente dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo, e averne compassIone.
E forse dovremmo cercare di guardare la scena della nostra parabola mettendo ci nei panni dell'uomo ferito.
Si entrerebbe in un'altra visione del mondo e si potrebbe entrare nella storia di quest'uomo che conosce quattro tappe:
- è un uomo normale, come me, come tutti, che sta facendo la sua strada (v. 30a)
- l'inatteso rende quest'uomo sventurato, quasi morto, a causa della violenza. Costui diviene uomo picchiato, ferito, rapinato, maltrattato, condotto a un passo dalla morte (v. 30b)
- davanti al sacerdote e al levita quest'uomo diviene l'uomo di cui non ci si prende cura, che patisce l'indifferenza omicida: sperimenta di essere un nulla, uno da evitare (vv. 31-32)
- davanti al Samaritano diviene l'uomo aiutato, soccorso, che conosce chi si prende gratuitamente cura di lui, diviene colui che sperimenta la compassione dell'altro (vv. 33-35)
Non basta vedere il sofferente: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po' in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: «Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia». Davvero dunque i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un'unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura, la mia paura che mi impedisce di cogliere la sua, di lui che è impotente e in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all'altro sofferente è la paura dell'isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all'altro e diventare presenza nella sua solitudine.
Scrive Emmanuel Lévinas: «Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l'appello all'altro, l'invocazione all'altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all'altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell'altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell'altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità».
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere la compassione è attitudine essenziale. È l'attitudine del Samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, «lo vide e ne ebbe compassione (esplanchnisth)»; (Lc 10,33) e fece divenire responsabilità e solidarietà la compassione. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell'uomo, nel suo intimo, ed evitare di ridursi ad attivismo per cui si fanno tante cose per gli altri, ma si fallisce l'incontro con la persona che il bisognoso è, e non si cambia nulla in se stessi. Il Samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta, e la solidarietà testimonia che ogni uomo è un fratello e che io ne ho una responsabilità. Il Samaritano manifesta la sua responsabilità facendo tanto per quell'uomo: due serie di sette verbi (nel testo greco) dicono la totalità dell'impegno del Samaritano: ha fatto tutto quello che poteva. E la doppia ricorrenza del verbo epimélomai (vv. 34.35) dice a cosa tende la compassione che rende l'uomo solidale con l'altro uomo: prendersi cura dell'altro uomo.
Ma, un'ultima suggestione: il dialogo tra Gesù e il dottore della legge verteva sull'amare il prossimo. La parabola mostra che il Samaritano è colui che si è fatto prossimo all'uomo ferito: lui è il prossimo. Colui che ama il prossimo allora è forse il ferito che, nella sua assoluta impotenza, concede all'altro l'occasione di divenire se stesso, di farsi umano a immagine di Dio, di divenire compassionevole come Dio è compassionevole. Non abbiamo qui la rivelazione velata dell'amore universale che dal crocifisso morente e impotente scende su ogni uomo? Non abbiamo qui l'esperienza che spesso facciamo quando diciamo che stando accanto a un malato o a un morente scopriamo che è più ciò che lui ha dato a noi che non il contrario? Non abbiamo qui forse il sacramento della potenza della debolezza? Non abbiamo qui forse lo svelamento del fatto che colui che ha vissuto la solidarietà in modo radicale è il Signore Gesù Cristo nel suo farsi uomo, fino alla condizione dello schiavo, fino alla morte di croce, fino a condividere l'impotenza e gli inferi dell'uomo?.