Vita nello Spirito

Domenica, 10 Giugno 2007 19:59

La gola (Luciano Manicardi)

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di Luciano Manicardi

 

Il vizio cosiddetto della “gola” dovrebbe piuttosto essere chiamato “voracità” o, secondo il termine greco gastrimarghìa con cui lo definisce Evagrio, “follia del ventre”. Un altro termine utilizzato dai Padri è laimarghìa, “follia della gola” e indica piuttosto la “golosità”. Secondo Doroteo di Gaza la differenza tra i due atteggiamenti consiste nel fatto che l’uno riguarda la quantità di cibo, l’altro la sua qualità: «A volte si è tentati sulla qualità del cibo: uno, ad esempio, non vuole necessariamente mangiare molto, ma desidera cibi delicati. Costui, quando mangia un cibo che gli piace, è talmente dominato dal piacere che prova, che lo tiene a lungo in bocca, masticandolo a lungo e senza avere il coraggio di ingoiarlo per il piacere che ne prova. E questo si chiama golosità, che in greco si dice laimarghìa. Un altro è tentato sulla quantità del cibo, non cerca cibi buoni, non gli importa che siano delicati, desidera soltanto mangiare; di qualsiasi cibo si tratti, non desidera altro che riempirsi il ventre. E questa si chiama voracità, che in greco si dice gastrimarghìa» (Scritti e insegnamenti spirituali 15,161).

I Padri (soprattutto monastici) osservano con estrema precisione analitica il con portamento alimentare: «La gola ci tenta in cinque modi: a volte anticipa il tempo del bisogno; altre volte non anticipa il tempo, ma chiede cibi più ricercati; alcune volte pretende che i cibi siano preparati con maggior cura; altre volte si adatta alla qualità e al tempo dei cibi, ma eccede nella quantità. Alcune volte poi non desidera affatto cibi raffinati, ma pecca ancor più gravemente per eccessiva voracità» (Gregorio Magno, Moralia in Job XXX,6O).

Perché tanta attenzione all’atto del nutrirsi che costituisce una necessità vitale dell’uomo? E quando l’atto di mangiare diventa “peccaminoso”? La riflessione patristica è certamente influenzata dalla considerazione che il primo peccato, il peccato di Adamo e Eva nell’Eden, è avvenuto attraverso l’atto di mangiare. Quell’atto fu solo il primo di una lunga serie di “peccati di gola” presenti nella Bibbia. Esaù cedette la primogenitura per un piatto di lenticchie; Noè sperimentò gli effetti inebrianti del vino e mostrò le sue nudità ai suoi figli; Lot, ubriaco, ebbe rapporti incestuosi con le sue figlie; il popolo d’Israele nel cammino nel deserto cadde nell’idolatria quando non sopportò più il cibo della manna, troppo leggero; fu durante un banchetto lussuoso che Erode fu indotto a mettere a morte Giovanni Battista. Nelle liste di Evagrio e di Cassiano la voracità appare perciò al primo posto dei vizi, seguita immediatamente dalla lussuria. Il carattere di vizio della “gola” ovviamente «non risiede nel cibo, ma nell’avidità» (Gregorio Magno), perché è il fine, l’intenzione che crea il peccato. Normalmente, i Padri della Chiesa vedono nel peccato di gola lo stravolgimento del mezzo in fine: il cibo viene ricercato di per sé, per il piacere che procura, non come sostentamento del vivere. E tale peccato viene percepito come il primo dei nemici da affrontare da parte di chi esercita il combattimento spirituale, proprio perché affonda le sue radici nella corporeità dell’uomo e nel suo bisogno di nutrirsi per vivere. Gesù stesso, dicono i Padri, nel deserto fu tentato quando «ebbe fame» (Mt 4,2) e prima di tutto fu tentato sulla soddisfazione del proprio appetito. Scrive Gregorio: «Non si può intraprendere la battaglia dello spirito, se prima non si è vinto il nemico che è dentro di noi, cioè l’appetito della gola; poiché se prima non si abbatte il nemico vicino, è vano attaccare quello lontano» (Moralia in ,Job XXX 57-58).

La voracità appare la porta dei vizi. Non dominare l’appetito significa aprire la strada ad altri vizi: il multiloquio, la scurrilità, l’allegria sciocca, la sfrenatezza sessuale e l’impurità, l’ottundimento dei sensi, il torpore che rende incapaci di discernimento, la perdita della vigilanza. E viene sentita anche come dannosa per la salute: per Alano di Lilla «le infermità del corpo e i disturbi della mente vengono dall’eccesso di cibo e dal bere a fiumi» (Summa de arte praedicatoria, col. 120).

Di certo, per noi oggi si tratta di rileggere questo “vizio” a partire dal fatto che l’atto umanissimo del mangiare non ha una valenza puramente fisiologica, ma inerente al registro del desiderio. Per l’uomo il mangiare è atto primordiale e riconoscimento iniziale del mondo. Il suo legame con la vita è essenziale da quando il bambino è feto nel ventre materno fino alla morte. L’atto di mangiare è rinvio all’attività culturale dell’uomo: implica il lavoro, la preparazione del cibo (dunque il piano della natura e della cultura), la socialità (nel raccogliere e preparare il cibo come nel consumarlo), la convivialità. Infatti, l’uomo mangia insieme con altri uomini e il mangiare è connesso ad una tavola, luogo primordiale di creazione di amicizia, fraternità, alleanza e società. A tavola non si condivide solo il cibo, ma si scambiano anche parole e discorsi nutrendo così le relazioni, ovvero ciò che dà senso alla vita sostentata dal cibo. Il mangiare implica dunque anche la creazione culturale più straordinaria: il linguaggio. Legato com’è all’oralità e al desiderio, l’atto di mangiare investe la sfera affettiva ed emozionale dell’uomo. E’ dunque un simbolo antropologico di pregnanza unica che coglie l’uomo nelle sue profondità più intime e nascoste e lo situa nel legame con la terra, con il cosmo, con la polis, con la società, con il mondo. «Non esiste per l’uomo un assenso più totale a tutto ciò che la circonda dell’atto di mangiare. E’ il modo umano di dire il proprio sì, perché è nello stesso tempo il sì del corpo e dell’anima... Ogni boccone di pane è in qualche modo un boccone di mondo che accettiamo di mangiare» (Gustave Martelet). L’atto di mangiare rinvia l’uomo al suo essere corpo sia come bisogno che come legame con l’universo: mangiando, infatti, noi assimiliamo il mondo in noi e lo trasformiamo. Il mangiare inoltre ricorda all’uomo la sua caducità, il suo essere mortale: si mangia per vivere, ma il mangiare non riesce a farci sfuggire alla morte.

Si comprende allora che il cristiano non mangi senza avere prima ringraziato il Dio datore del cibo: pregando prima di mangiare si libera l’atto di assimilazione del cibo dal rischio del consumo immettendo Dio come Terzo tra noi e il cibo, tra noi e il mondo e facendo anche dell’atto di mangiare un gesto contemplativo, sotto il segno del dono e della gratitudine. Non a caso il cristiano trova nell’eucaristia, in cui, mangiando il pane e bevendo il vino eucaristici egli comunica alla vita del Signore, il magistero del rapporto con il cibo e con la vita tutta.

Anche il digiuno e le forme di astensione e moderazione nel nutrirsi che la tradizione cristiana ha sempre indicato come rimedi al peccato di gola, intendono non tanto mortificare il corpo e impedirgli il piacere legato all’assunzione del cibo, quanto addomesticare gli appetiti, ordinare il desiderio, confessare Dio con il corpo, ricordando che l’uomo non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,4). Il digiuno va compreso come disciplina dell’oralità, e con la bocca noi parliamo, mangiamo, baciamo: le sfere della comunicazione, dell’affettività, della relazionalità, della sessualità sono implicate nell’oralità e simbolicamente presenti nel momento dell’assunzione del cibo. Scrive Léo Moulin: «Non solo mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare, ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, proprio perché mangiamo coi nostri ricordi, anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, così conditi di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita». Al tempo stesso la tradizione cristiana ha sempre mostrato grande prudenza e sapienza circa il digiuno legandolo all’ascolto della parola di Dio, a una più intensa preghiera, alla carità e alla solidarietà verso chi è nel bisogno. Memore dell’ammonimento profetico di Isaia circa il vero digiuno che consiste non tanto in una mortificazione, ma in atti di carità e di giustizia (Is 58,3-12). Mentre sollecita e consiglia la prassi del digiuno, la tradizione sempre anche la relativizza. «Il digiuno è inutile e anche pericoloso per chi non ne conosce i caratteri e le condizioni» (Giovanni Crisostomo); «vano è il digiuno senza carità ed è meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con maldicenze la carne dei propri fratelli» (Abba Iperechio). Il digiuno è un mezzo, non un fine. Nella vita cristiana solo la carità è fine da perseguire. Esorta l’apostolo Paolo: «Sia che mangiate sia che beviate, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31).

 

Letto 2537 volte Ultima modifica il Sabato, 23 Ottobre 2010 23:01
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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