Vita nello Spirito

Martedì, 19 Febbraio 2008 23:28

Nei simboli la genesi delle civiltà (Herman Vahramian)

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Spazio sacro. Tempo mistico. L'arte e l'architettura come ponti fra origine e destino per dire l'«oltre».

Riapriamo il libro della Genesi. Torniamo ad attingere alla narrazione biblica. «Poi Dio, il Signore, piantò un giardino ad Oriente, nella regione di Eden e vi mise l'uomo che egli aveva plasmato. Fece spuntare dal suolo alberi di ogni specie: erano belli a vedersi e i loro frutti squisiti. Nel mezzo del giardino pianto due alberi: uno per dare la vita e l'altro per infondere la conoscenza di tutto...».

«Un fiume usciva d'Eden per irrigare il giardino. Di là si divide in quattro capi: il nome del primo è Fison, il nome del secondo è Gehon, il nome del terzo fiume è Hiddequel (Tigri), il quarto fiume è l'Eufrate...» (Genesi 2,2).

Scrive il filosofo cinese Chuang Tzu: «La mente del saggio, in stato di quiete, rispecchia il suo popolo e l'intero l'universo». Questa mente del saggio è il simbolo di un centro. Un centro come luogo eccellente, come bersaglio dell'immagine e dell'immaginazione del genere umano; ancora, come il trono della contemplazione, come un nodo che da il significato e il significante del creato nell'ambito del quale è compreso anche l’uomo. Tali centri generati dall'immaginario dell'essere umano sono centri nuovi, in quanto, nell'attimo del concepimento, della proiezione e dell'esecuzione materiale – cioè della loro stessa creazione -, vengono percepiti come «se si ripetesse la costruzione del mondo» (Mircea Eliade). Non si potrebbe avanzare l'ipotesi che l'uomo, con i propri simboli, cerchi in qualche modo di ripetere la creazione? Si sforzi cioè di dar vita ad una buona creatura, allo stesso modo in cui - secondo i testi sacri -, forgiato dal fango, gli fu data la vita? Chi si accosta a questa molteplicità prodotta dalla creatività dell'uomo, si accorge di avere nelle mani e nel cuore qualcosa che gli è stato tramandato in quanto symbòlon, cioè come frammento, e che, sia nel proprio dato materiale sia nella propria realtà ultramateriale, si colloca decisamente oltre la capacità immaginativa dell'uomo. In questo centro simbolico l'uomo si specchia come prodotto eccellente di tutta la creazione, considerandolo come lo specchio in miniatura di tutto quanto il cosmo, come un modello da dove scaturisce e si irradia la civiltà.

In questo senso è possibile definire il centro come un luogo dove si proiettano immagini mentali dalle quali nascono azioni strettamente connesse alla contemplazione. Ananda K. Coomaraswamy, studioso dei rapporti tra arte orientale e occidentale, sostiene: «Quando un'idea si conserva immutata attraverso lunghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo e la forza dominante che anima l'opera e così ogni singolo pattern (modello) diventa un microcosmo che esiste all'interno di un tempo mistico qualitativamente distinto dallo spazio, dalla superficie, dal colore, dal materiale (e soprattutto dalla dimensione) di tutto ciò che si trova al suo “esterno", considerato perciò profano». Si tratta per così dire di atti contemplativi che lungo l'arco della storia dell'umanità si caricheranno via via di valenze conflittuali nei confronti dell'azione vera e propria, sino alle tragiche dicotomie dell’era contemporanea.

Inoltre, è la mente del saggio a creare un archetipo che rappresenta - come già accennato - una cosmogonia in miniatura. Le numerose rappresentazioni diffuse sul pianeta in tutte le civiltà (le porte del Paradiso, l'albero della vita, la croce e l’albero della conoscenza, la croce di luce e cosi via), che spaziano dall’arte tessile alla miniatura, dalla decorazione all’architettura fino ai gioielli e così via, attestano in termini estremamente chiari che si è voluta consacrare una cosmogonia ripetendo all'infinito un motivo consistente in migliaia e migliaia di "centri", i quali ogni volta rappresentano una rivelazione primordiale in forma archetipica.

Gli assiri e i babilonesi, la Mesopotamia, il Golfo Persico, gli altipiani iranico, caucasico e anatolico, insieme con le montagne impenetrabili dell’Afghanistan e le vallate del fiume Gange, fino alle steppe dell'Asia centrale e alla Cina: tutti questi popoli e luoghi hanno recepito per conto proprio e a proprio modo Ex Oerinte lux… e la relativa memoria del giardino dell’Eden (o il paradiso), per secoli e secoli come luce di Rivelazione, come sorgente della vita e come focolaio d'origine, "proiettando" nelle proprie manifestazioni artistiche come un'eredità della Creazione.

Facciamo un altro passo avanti in questa avventura dell'uomo. «Lo spazio tradizionale - diceva l’architetto Armen Manoukian - non coincide mai con l'orizzonte lontano e senza limiti evocato, ad esempio, dal mare, dalla foresta e dal deserto». È per creare un proprio “paradiso" simbolico che scocca il dialogo tra l'uomo e la materia - la pietra, il legno, il mattone eccetera -, ciò che consente all'uomo di uscire dallo spazio profano per collocarsi in una dimensione sacra.

Queste rappresentazioni, espandendosi nella terza dimensione, si manifestano all'inizio del cammino umano come spazi aperti - dolmen, menhir, complessi megalitici... Più avanti nella storia materializzano invece uno spazio chiuso - un "giardino" paradisiaco, una piazza, un tempio, una sinagoga, una moschea, una chiesa -, il quale contiene a sua volta, nel suo interno e spesso e volentieri al suo esterno, come un ventre materno universale, altri archetipi, a loro volta contenitori di altrettante e diverse cosmogonie.

Herman Vahramian


(da I luoghi dell'infinito)



Per saperne di più:

Natale Spineto, I simboli nella storia dell’uomo, Jaka Book, Milano 2002.

Giordano Berti, I mondi ultraterreni, Mondadori, Milano 1998.

U. Allemandi, Il Cielo, Torino 1994.

 

Letto 3351 volte Ultima modifica il Mercoledì, 15 Maggio 2013 19:56
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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