Vita nello Spirito

Venerdì, 08 Gennaio 2010 21:13

La spiritualità dei certosini (don Giorgio Picasso)

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Il fondatore dei Certosini è una delle personalità di spicco del secolo XI. Si chiama Bruno di Colonia, dove nacque; ma si recò ancor giovane a studiare nella celebre scuola della cattedrale di Reims, dove era stato battezzato Clodoveo, ed era rimasto il centro ideale del regno dei Franchi, convertiti al cattolicesimo. Bruno a Reims divenne chierico e poi prete, ma studiò così bene che divenne anche maestro di teologia, ed uno dei più apprezzati.

La spiritualità dei certosini

di don Giorgio Picasso

 

Erano passati alcuni decenni dalla fondazione della prima Certosa, la Grande-Chartreuse presso Grenoble, quando un ammiratore un po’ curioso della vita di quei monaci, che per noi rimane ignoto, scrisse loro una lettera. con tante domande sulla loro vita. La lettera non ci è giunta; conosciamo però la risposta, scritta dallo stesso priore della Certosa che intorno agli anni 1132-1139 era Antelmo, il quale divenne poi vescovo di Belley, dove oggi è venerato come santo. Tu vuoi saper chi è stato il nostro fondatore - si legge in questa risposta (è pubblicata in «Source chrétienne», 88, pp 236-37) - vuoi sapere esattamente dove ci troviamo, vuoi sapere come abbiamo strutturato la nostra abitazione, vuoi conoscere la qualità del nostro cibo, che cosa beviamo, come ci vestiamo, in quali giorni digiuniamo, ed altro ancora. Per accontentarti ti dovremmo mandare un libro piuttosto voluminoso che non siamo soliti distribuire a tutti. Perciò abbi pazienza, sta bene e prega per noi!

Anche noi come quell’ignoto amico dei Certosini, con questa conversazione ci dimostriamo un po’ curiosi della vita di questi monaci, che - sia detto subito - non appartengono a nessuno di quei vari rami di benedettini e cistercensi dei quali ci ha ora parlato con tanta competenza l’amico prof Samarati, in rapporto alla loro diffusione nel territorio e nella diocesi di Lodi. Abbiamo tuttavia notevoli vantaggi in confronto all’ignoto amico dei Certosini del lontano secolo XII. Conosciamo infatti le loro Consuetudini, e molti altri documenti che riguardano la loro vita, per quanto - anche questo è bene dirlo subito - i monaci certosini non abbiano mai amato parlare troppo di se stessi. Siamo in grado di rispondere a molte di quelle domande che, in sostanza, riguardano la spiritualità certosina. Ed è bene sottolineare che si tratta appunto di spiritualità certosina e non di spiritualità benedettina, perché i monaci della Certosa non hanno adottato la Regola di san Benedetto, e pertanto non sono diventati benedettini o cistercensi, come la maggior parte dei movimenti monastici di tutto il Medioevo. Hanno avuto un loro fondatore: già se lo chiedeva quel curioso indagatore: chi è il vostro fondatore?

Il fondatore dei Certosini è una delle personalità di spicco del secolo XI. Si chiama Bruno di Colonia, dove nacque; ma si recò ancor giovane a studiare nella celebre scuola della cattedrale di Reims, dove era stato battezzato Clodoveo, ed era rimasto il centro ideale del regno dei Franchi, convertiti al cattolicesimo. Bruno a Reims divenne chierico e poi prete, ma studiò così bene che divenne anche maestro di teologia, ed uno dei più apprezzati. Ebbe però la sfortuna di avere come superiore un vescovo simoniaco, Manasse. Allora i cattivi preti non erano soltanto a Lodi, dove li incontrò e li biasimò san Pier Damiani; si trovavano un po’ dappertutto, e per arricchire e condurre una vita mondana non esitavano a vendere persino i sacramenti. Era in corso la più grande riforma della Chiesa che la storia registra e nella quale si impegnarono accanto al papato le forze migliori della società cristiana di allora, tra i monaci: cluniacensi e i vallombrosani; ed anche laici, come i Patarini milanesi. Costoro giunsero perfino a proclamare uno «sciopero liturgico», rifiutando di ascoltare la messa e ricevere i sacramenti da sacerdoti indegni, simoniaci e nicolaiti, cioè incontinenti. Il maestro Bruno si trovò in contrasto con il Vescovo Manasse. Lo sopportò per alcuni anni, impegnato nell’insegnamento e pertanto in una collaborazione soltanto indiretta con il vescovo. Ma non resse a lungo, e decise di abbandonare non solo Reims ma la stesso studio per ritirarsi in un monastero, nella solitudine.

Si recò allora a Molesme, un’abbazia cluniacense fondata da poco, nel 1075, da Roberto, che ne era divenuto abate, e da altri monaci, desiderosi come lui di una vita monastica maggiormente aderente alla Regola benedettina. Era quello un monastero importante, che avrebbe lasciato un segno profondo nelle vicende della storia monastica di ogni tempo. Infatti da Molesme, di li a qualche anno, sarebbero partiti lo stesso Roberto con altri monaci, tra i quali Alberico e Stefano Harding, in cerca di una solitudine per realizzare il loro ideale monastico. Come è noto, essi fondarono, Cîteaux, da dove derivò l’ordine dei Cistercensi, monaci che vollero osservare con fedeltà la Regola di san Benedetto. Sono appunto quei Cistercensi che con san Bernardo vennero in seguito a fondare il monastero di Chiaravalle Milanese e a riformare il monastero del Cerreto, per citare luoghi familiari a tutti voi.

A Molesme però Bruno non si trovò a suo agio; la Regola benedettina, mediante l’ospitalità, rimaneva, a suo giudizio, ancor troppo aperta al mondo. Bruno voleva qualche cosa di più austero, un taglio netto con la società. E lo trovò, insieme ad altri pochi, chierici e laici, che la pensavano come lui. Un piccolo gruppo, tra i quali un italiano, Landuino; quattro erano sacerdoti, due laici. Si recarono a Grenoble, dove era diventato vescovo della città Ugo, un antico discepolo di Bruno a Reims. Possiamo immaginare l’accoglienza, ed anche il colloquio tra questi aspiranti alla solitudine e il vescovo della città. Che cosa volete, che cosa cercate? Noi cerchiamo la solitudine per incontrare Dio solo, e non avere contatti con il mondo; cerchiamo un luogo veramente isolato da tutto e da tutti. Se questo volete, rispose il vescovo, ve lo posso offrire. E li condusse in una valle chiusa tra le Alpi del Delfinato, chiamata Cartusia (non se ne conosce bene la ragione), ma posta su di un altipiano, oltre i mille metri, quindi una valle sottoposta a tutti i rigori del freddo come facilmente si può immaginare. Bruno e i suoi furono entusiasti: vi si fermarono e organizzarono in quella valle, dove nessuno praticamente poteva entrare per la stessa aspra configurazione del suolo, la prima Certosa.

La fama di questi nuovi eremiti si diffuse in tutta la Cristianità. Ne giunse notizia anche al papa Urbano II, un francese che era stato monaco e priore a Cluny. Ma prima di entrare in monastero aveva egli pure studiato a Reims, e conosceva bene il grande maestro Bruno. Si affrettò a scrivergli per invitarlo a Roma: la Sede Apostolica aveva bisogno di lui. Erano appena trascorsi sei anni, e Bruno dovette ubbidire e abbandonare una creatura tanto amata, la Certosa che nel frattempo aveva accolto altri monaci. Ad essi Bruno raccomandò la nuova fondazione e partì per Roma.

A Roma Bruno rimase alcuni anni. Fu vicino al papa anche nel celebre viaggio che condusse Urbano nell’Italia settentrionale e poi in Francia, dove proclamò la prima crociata. La nostalgia di Bruno per la Certosa era grande. Il pontefice gli offri di diventare arcivescovo in una sede importante, ma non era questa la sua aspirazione. Tra il papa e il monaco si raggiunse una specie di compromesso: Bruno poteva tornare alla solitudine senza però recarsi in Francia. Il nuovo rifugio si doveva trovare in un luogo più vicino alla Sede Apostolica, anzi in una regione strettamente collegata con il papato. Il regno dei Normanni, nell’Italia meridionale, pareva quanto mai opportuno. I conquistatori venuti dal Nord, l’avevano conquistata quella terra agli arabi, ai bizantini e ai discendenti degli antichi Longobardi di Benevento, ma poi l’avevano donata alla Sede Apostolica, e di san Pietro erano divenuti in certo modo vassalli. La fedeltà alla Chiesa di Roma faceva parte della loro stessa istituzione. Bruno trovò nella Calabria il luogo adatto per ripetere la fondazione di una nuova certosa, quella che oggi porta il suo nome a Serra san Bruno: qui passò l’ultimo periodo della sua vita e vi mori nel 1101.

Bruno non ha scritto una regola; ha lasciato tuttavia uno stile di vita che i suoi discepoli conservarono gelosamente. Soltanto il 5° priore generale della Certosa, Guigo, raccolse in un testo le cosiddette Consuetudini dei Certosini, che sono conservate ancora oggi. I Certosini si dividono in due classi, i monaci propriamente detti che erano anche sacerdoti, e i conversi o donati che erano laici: ma avevano anche, come vedremo, funzioni del tutto diverse. L’ultimo capitolo di queste Consuetudini meriterebbe di essere letto per intero se non fosse alquanto prolisso. Vi si legge l’elogio della solitudine e si ricorda come i grandi momenti, quelli decisivi, nella vita dei patriarchi dell’Antico Testamento, fino a Giovanni Battista e allo stesso Gesù, siano avvenuti nella solitudine, che trova la sua più sublime espressione nell’incontro del Figlio con il Padre sul legno della Croce: Padre, nelle tue mani affido il mio spirito! (Lc 23,46).

La ricerca della solitudine è pertanto il cuore della spiritualità certosina; non una solitudine fine a se stessa, infeconda; il certosino vuole la solitudine per incontrare Dio, in funzione della contemplazione del Signore. Questa spiritualità, richiede una chiara concezione teologica e ascetica della vita cristiana. Come per la spiritualità benedettina si è elaborato un motto di carattere riassuntivo, «Ora et labora», per quanto impreciso perché tralascia un’altra attività fondamentale del monaco, la «lectio divina», così la vita certosina è stata spesso compendiata in una felice esclamazione: «O vera solitudo, o sola beatitudo!» In altre parole, la solitudine è l’unica vera felicità, che deve essere ricercata dal monaco per incontrarvi il Signore. Il certosino per quanto è possibile si porta fuori del mondo, non avverte neppure quello che avviene attorno a lui. «Stat Crux», si legge spesso come emblema sulle certose, rimane fissa la Croce, «dum volvitur orbis», mentre attorno il mondo continua a cambiare, a mutare, sottoposto a tante caduche vicende. E’ lo sforzo più alto che sia stato compiuto per fermare, se fosse possibile, la storia dell’umanità attorno a quell’unico fatto, il più essenziale, il più determinante: «Stat crux!». E’ un tentativo non riuscito nella storia dell’umanità dominata dai cambiamenti, ma nelle regioni di Dio - se ben riflettiamo - è quello l’unico momento che segna l’unica vera storia.

Da questi sublimi principi, che esigerebbero una adeguata meditazione teologica per essere bene compresi, passiamo ora a considerare la configurazione materiale della certosa, per cogliere l’applicazione pratica di quell’austero ed insieme pacifico orientamento. Lo schema classico è quello di collocare in un piano superiore una serie di celle o piccole casette, generalmente non più e non meno di dodici, disposte attorno ad un chiostro dal quale si accede facilmente alla chiesa e al refettorio; in basso, se le caratteristiche fisiche del luogo lo consentono, o, in ogni caso, a parte, si trova un edificio chiamato «Casa dei conversi», dove vivono quei fratelli laici che sono però veri religiosi, i quali attendono al lavoro in funzione della vita solitaria dei Certosini monaci. Nella Casa dei conversi è situata la portineria, questa specie di varco verso il mondo, ma un varco quasi invalicabile, perché proprio li incomincia la Clausura, che né uomini né donne possono varcare. All’interno vi sono due chiese: una più piccola nella Casa dei conversi, ed una più grande nel piano superiore per i monaci: sono chiese unicamente per loro, di per sé non ammettono la partecipazione di altri fedeli.

Ci separano pochi chilometri dalla celebre Certosa di Pavia, che aveva in questo territorio di Graffignana ampie proprietà. Ci potremmo subito chiedere come spiegare monumenti di tale grandezza se erano destinati soltanto ad un gruppo di monaci? In questo caso la Certosa fu voluta dai Visconti, signori e duchi di Milano, come monumento sepolcrale della famiglia, e se ne comprende la grandiosità e la ricchezza artistica; ma andando oltre il grandioso atrio e la celebre chiesa, lasciata da parte l’imponente foresteria destinata ad ospitare la famiglia ducale, si incontra anche in questo caso la classica ed austera impostazione certosina con le semplici celle attorno al chiostro, custode della solitudine dei monaci.

La vita del certosino si svolge abitualmente nella cella a due piani: un piccolo laboratorio e deposito di quanto necessita per la vita al piano inferiore che si apre su pochi metri di terra coltivabile ad orto; sopra la cella vera e propria dove il monaco riposa e studia, e accanto un piccolissimo oratorio per la preghiera nella più assoluta solitudine. Qui, attraverso una piccola finestra che si apre sul chiostro, il  monaco riceve una o due volte al giorno, secondo le norme per il digiuno, i pasti che consuma nella stessa cella.

In questa cella il certosino prega, e la sua preghiera comincia presto, prima della mezzanotte, ma si conclude con l’ufficio notturno recitato con i fratelli nella chiesa; nella chiesa il monaco ritorna per la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia e per il canto del vespro. I pasti, preparati nella casa dei conversi vengono consumati in cella. L’astinenza dalle carni è totale per tutto l’anno, ma per il digiuno l’anno si divide in due parti quasi uguali: dal 14 settembre fino a Pasqua corre il periodo del grande digiuno, quando il monaco consuma un solo pasto al giorno, completo e piuttosto abbondante, verso le 11 del mattino; negli altri mesi, un secondo pasto, più contenuto, è distribuito verso le 5 del pomeriggio. In ogni caso, alla domenica il pranzo si consuma in comune nel refettorio, osservando il silenzio. Il certosino studia e lavora in cella, ma una volta alla settimana, nel primo pomeriggio esce con i suoi fratelli per una breve passeggiata.

Pertanto il certosino prega, studia, lavora nella sua cella, ma con qualche eccezione: quotidiana, anzi più volte al giorno per la preghiera in comune nella chiesa, settimanale per il pranzo e per il passeggio. E’ questo il segreto della riuscita dell’Ordine certosino: concedere un minimo di vita comune, ma per poter custodire meglio la solitudine. Si spiegano per tale motivo il chiostro, la chiesa, il refettorio; gli stessi conversi impegnati nei lavori manuali, ma essi pure per molte ore al giorno vincolati al silenzio nella loro casa, sono in funzione della vita quasi eremitica dei monaci. Se questi erano in numero piuttosto limitato perché ogni monaco aveva bisogno di una casa vera e propria, a due piani, i conversi erano più numerosi perché il lavoro, che comprendeva anche l’amministrazione di vasti patrimoni agricoli, non assorbisse completamente la vita del religioso.

Delineata brevemente la vita del certosino ci si dovrebbe chiedere quale è la loro funzione nella Chiesa. Dal punto di vista economico e culturale il loro isolamento non si riesce a capire, ma se osserviamo la loro vita dal punto di vista di una Chiesa, comunione dei santi, corpo mistico di Cristo, allora possiamo condividere quanto ancora Paolo VI ebbe a scrivere in una sua lettera ai Certosini, riconoscendo la grande funzione che svolgono nella Chiesa. Fuggono il mondo, ma per amarlo in Dio, per portare in certo modo tutta l’umanità a contatto con Dio. E’ il vertice della loro vita contemplativa.

A dir vero, una certa fuga dal mondo viene praticata da tutti i religiosi che si ritirano a vivere in un monastero, in un convento, in una casa religiosa. La differenza tra i Certosini e tutti gli altri sta nel fatto che loro vogliono la solitudine anche all’interno dell’edificio conventuale, Un episodio può aiutarci a capire. Il papa Urbano V, uno dei papi del periodo avignonese, era nipote di un certosino; conosceva bene la loro disciplina e, con l’intenzione di favorirli, nella imminenza di un capitolo generale scrisse loro una lettera, nella quale si diceva disposto a concedere quattro favori all’Ordine. Al priore della Grande-Chartreuse intendeva concedere l’uso della mitra e del pastorale come per gli altri abati benedettini; perché la loro preghiera riuscisse meglio avrebbe permesso a loro di recarsi in chiesa per la recita dell’ufficio e non soltanto per alcune parti come facevano; la terza concessione riguardava i pasti che avrebbero continuato a consumare in silenzio ma sempre nel comune refettorio (sembrava che il papa volesse dire: li avete costruiti così grandi e maestosi i vostri refettori per usarli soltanto raramente?); da ultimo il papa si diceva disposto a concedere l’uso della carne per gli ammalati. La risposta fu cortese, ma non era il caso di accettare quei favori per precise ragioni che i Certosini esposero al papa. Ci fermiano soltanto su uno dei favori che il papa voleva concedere perché era ed è di grande spessore teologico, quello della preghiera in comune. Lo stesso Signore aveva detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, ci sono io in mezzo a loro» (Mt. 18,20). Ma i monaci, anche in questo caso, preferirono rimanere fedeli alla loro disciplina, perché tutta la preghiera in comune li avrebbe portati almeno sette o otto volte al giorno in chiesa, in pratica un via vai continuo, un entra e esci, che mal si sarebbe conciliato con la loro solitudine. E così le proposte del papa Urbano V non ebbero accoglienza.

I certosini - ormai mi pare sia chiaro - rappresentano nella Chiesa un Ordine singolare, che si distingue nettamente da tutti gli altri, anche nella pratica della solitudine. Indubbiamente l’Ordine ha avuto un successo che, tra l’altro, ha dato origine ad alcuni detti o assiomi storiografici sui quali vorrei soffermarmii ancora un momento. Il primo è questo: «Cartusia nunquam reformata quia nunquam deformata», cioè la Certosa non è stata mai riformata perché non è mai decaduta dalla sua tradizione ascetica. In effetti, presso altri ordini religiosi abbiamo avuto varie riforme che a volte hanno dato origine a denominazioni anche curiose come, ad esempio, religiosi calzati o scalzi, della primitiva osservanza o della comune osservanza. Per i Certosini nulla di tutto questo; la Certosa è rimasta fedele a se stessa, alla sua vocazione: veramente «Stat Crux»! Che significa però quel «nunquam deformata» dell’adagio appena citato? Che tutti i certosini sono stati dei santi, che non hanno avuto debolezze? Che non hanno mai introdotto cambiamenti? Nulla di tutto questo, perché neanche i Certosini possono vivere oggi in tutti i particolari come vissero, alla fine del secolo XL, i primi compagni di san Bruno. E’ vero però che i Certosini sono rimasti fedeli alla loro vocazione; hanno conosciuto una notevole espansione, hanno avuto stretti rapporti con movimenti culturale di grande rilievo (basti pensare al fratello di Francesco Petrarca, Gerardo, monaco certosino, per il quale il celebre poeta scrisse almeno due opuscoli sulla vita solitaria), ma sono rimasti sempre identici a se stessi perfino nelle strutture materiali dei loro edifici. Hanno inoltre amato l’umiltà e l’hanno praticata fino a mantenere l’anonimato nelle opere che scrissero lungo i secoli: eppure ebbero grandi studiosi, grandi scienziati, grandi biblioteche. Ancora oggi si possono incontrare libri pubblicati specialmente in Francia, scritti «par un chartreuse», opera scritta da un certosino; ed è tutto.

Si è discusso e si discute ancora sull’autore del celebre aureo libretto intitolato «L’Imitazione di Cristo». Pur riconoscendolo un prodotto della «Devotio moderna», oggi alcuni studiosi pensano che l’autore sia un certosino: la spiritualità dell’Imitazione è senz’altro in piena armonia con quella della Certosa, ma anche l’anonimato conservato dall’autore è un indizio in favore di questa ipotesi.

Potrebbe sorgere un’altra domanda: come si diventa certosino?

Anche in questo caso dobbiamo sottolineare qualche aspetto proprio ai nostri Certosini. Come è noto, fin dall’antichità un monaco con il nome di maestro dei novizi aveva l’incarico di preparare, almeno per un anno, gli aspiranti alla vita monastica, che erano detti novizi. Questa disciplina, molto rimarcata già nella Regola di san Benedetto, è divenuta norma comune di ogni tipo di vita religiosa. Per i Certosini all’ inizio non fu così: gli aspiranti in genere erano persone adulte, molte volte erano già chierici e sacerdoti o membri di altri ordini religiosi; essi dipendevano in modo particolare dal priore che poteva assegnarli per qualche tempo alla sorveglianza di un monaco anziano, ma chi educava il nuovo certosino era soprattutto la disciplina della cella, nella quale veniva ben presto inserito. Dopo il Concilio di Trento anche i Certosini dovettero adottare un padre maestro e fissare un periodo di noviziato; ma continuarono a ricevere vocazioni adulte, spesso appartenenti ad altri ordini, che rendevano alquanto atipico il loro noviziato. In passato molti ordini religiosi non consentivano il passaggio, detto anche «transitus», ad un altro Ordine; ma tutti furono sempre concordi nel permettere ai propri membri di passare tra i Certosini.

È il riconoscimento della singolarità di quella vocazione e della sua sublimità. Chi bussa alla porta della Certosa generalmente è persona matura, che sa che cosa vuole e riesce a perseverare, rimanendo sempre più attratto dalle gioie della contemplazione di Dio nella solitudine. A volte può capitare che qualcuno abbandoni la strada intrapresa; può esservi indotto dalle difficoltà che non sempre si possono superare, nonostante la buona volontà. L’orario dei Certosini, il loro sistema di nutrimento possono causare disturbi reali in una persona adulta che ha avuto fino ad allora diverse abitudini.

Da ultimo una domanda che non si può eludere: quanti sono i Certosini e le Certose? Anche se meno sviluppato, vi è, infatti, anche un ramo femminile dell’Ordine. E’ una domanda che ci viene posta molto spesso da chi ha rapporti con noi: «Ma voi, quanti siete?». Domanda legittima, che può creare qualche imbarazzo.

Ricordo un mio anziano confratello il quale trovandosi di frequente insieme ad altri sacerdoti e religiosi per ragioni di ministero si sentiva sempre perseguitato da questa domanda. Finalmente trovò la risposta opportuna che non offendeva la verità e salvava l’onore.

Rispondeva così: non arriviamo a mille! Ci perdoneranno i Certosini se anche noi ci poniamo la stessa domanda. In questi ultimi anni si è avuta una notevole contrazione delle certose specialmente in Italia. Sono state abbandonate Certose che io stesso ho fatto in tempo a visitare quando ancora vi erano i monaci. Ricordo quella di Vedana, vicino a Belluno, che intorno agli anni ‘60 era fiorente.

Ora è abbandonata e di recente, in occasione della inaugurazione di alcuni restauri, vi si è tenuto un convegno storico con la partecipazione di alcuni studiosi; tra l’altro, un mio ottimo collaboratore all’Università Cattolica ha tenuto una bella relazione sulle certose del Veneto. Tutti però hanno constatato con rammarico che ormai di quella antica vitalità rimaneva soltanto il ricordo, ed era importante ricuperarlo.

In Italia oggi le certose ancora aperte sono soltanto due: a Serra San Bruno, nella Calabria, dove è morto il fondatore, e a Farneta, in provincia di Lucca. Una certosa per le monache si trova nei pressi di Pinerolo. Ma le ultime statistiche generali, valide per tutto l’Ordine, che ho a mia disposizione risalgono al 1990: in quell’anno le Certose erano 18 con 400 monaci, compresi i conversi; la media tradizionale era ancora rispettata, con circa 20 religiosi per ogni insediamento: 7 o 8 i Certosini nelle celle, 12 o 13 fratelli conversi. Le Certose per le monache erano soltanto 5, con 142 certosine.

Riportando queste statistiche non posso concludere senza ricordare un altro adagio della storia della vita religiosa: «Cartusiani non numerandi sunt, sed ponderandi». I Certosini non si devono contare come abbiamo fatto ora noi, vanno invece pesati. E il loro peso è sempre notevole. Non importa che siano 100 o 200, quello che conta è il ruolo che svolgono. La loro scelta della solitudine per mantenere a Dio sempre e dovunque il primo posto, il loro tentativo di fermare se fosse possibile la storia nell’assoluto di Dio, senza dubbio continua a pesare moltissimo nella vita della Chiesa e della società. Ringraziamo Dio d’averceli dati; preghiamolo che ce li conservi.

 

(pubblicato nella rivista “L'Ulivo” 1, 1997, pp. 13-20)

 

Letto 11071 volte Ultima modifica il Venerdì, 08 Gennaio 2010 21:23
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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