Vita nello Spirito

Mercoledì, 01 Settembre 2010 10:06

Mistica ebraica

Vota questo articolo
(7 Voti)

La mistica quale dottrina esoterica dell'ebraismo, nei suoi rapporti con il divino, ha i suoi primi fondamenti nei testi stessi della Bibbia ebraica comunemente definita An­tico Testamento.

Mistica ebraica

 

La mistica quale dottrina esoterica dell'ebraismo, nei suoi rapporti con il divino, ha i suoi primi fondamenti nei testi stessi della Bibbia ebraica comunemente definita An­tico Testamento.

L’arazionalità della realtà essenziale di Dio nell'ebraismo è indubbiamente comune ad altre esperienze religiose. Tale processo di arazionalità del divino non nasce semplicemente da un'incapacità conoscitiva dell'uomo, quindi da un sentimento di impotenza di fronte all'inaccessibile numinoso, ma da un'obbiettiva incapacità di accertare e penetrare il mistero del Divino. Ciò nondimeno nell'uomo-ebreo, creato «ad immagine di Dio», quindi potenzialmente predisposto al contatto con la divinità, non esiste un dramma di inconoscibilità originaria che lo porta ad un'estrema rinuncia. Al contrario, dalla stessa rivelazione sinaitica proviene un invito imperioso ad orientare i propri pensieri e le proprie azioni verso Dio («Siate santi, perché Io, il Signore, Dio vostro, sono santo» Lv 19,2). La Torà, nella tradizione giudaica, è il primo medium attraverso il quale Dio si è manifestato all'uomo facendogli conoscere la sua volontà per cui, pur incapace di affermare l'essenza della Divinità, l'uomo tenta le strade più confacenti per attingere alla Realtà suprema. Se per un verso la spinta mistica sollecita l'ebreo verso la pienezza e l'unificazione con l'Essere supremo, tale ricerca sperimentale del divino avviene come una naturale evoluzione e conquista all’interno della sua stessa realtà religiosa che promuove i suoi sforzi verso una meta da raggiungere, cioè la stessa Kedushà (=sacralità) di cui la Divinità è espressione sostanziale.

Per tale motivo si può riconoscere alla mistica uno slancio «positivo» che non nasce dal nichilismo, dall'angoscia di un vuoto cosmico, ma piuttosto da un desiderio di comunicazione esistenziale con il Divino. Ovviamente tale processo drammatico, inteso a ricostituire la primigenia scissione dell'unità, deve essere percorso mediante un'azione integrativa dell'uomo nel cosmo mediante un atto sacro che, sia M. Buber che G. Sholem - grandi interpreti del misticismo ebraico - tendono a rappresentare nella forma di un matrimonio mistico. Ed ambedue questi pensatori sono concordi nel definire la mistica. in generale e la Kabalà in particolare come «la gnosi del giudaismo», osservando per altro che si tratta dell'unica forma di gnosi anti-dualistica.

La mistica naturalmente ha assunto aspetti diversi a seconda delle circostanze storiche in cui si è presentata. Certamente, il misticismo ebraico ha ricevuto influenze esterne, tuttavia lo spirito del suo esoterismo è originale ed attraversa tutta la storia ebraica. Tale esoterismo, peraltro, è rimasto legato al popolo ebraico e lo ha accompagnato in tempi felici come in quelli sventurati della sua lunga esistenza nazionale.

Processo storico. Per un'esigenza di schematizzazione cronologica segnaleremo il processo storico dell'esoterismo ebraico in tre fondamentali momenti: I. Il periodo più antico segnato dall'esoterismo biblico e dall'elaborazione della Tradizione orale condensata nella Mishnà e nel Talmud. II. Il periodo della formazione vera e propria del momento mistico definito Kabalà. III. Il periodo moderno con la formazione del Chassidismo.

Queste tre tappe del processo storico della mistica si alimentano di tutti i fattori religiosi propri dell'ebraismo e propongono una tecnica di rigenerazione dell'uomo indispensabile alla ricostituzione dell'unità originaria frantumata dalla prima prevaricazione compiuta dall'Adam ha-kadmon, cioè l'antico uomo.

1. Primo periodo. Per quanto concerne l'esoterismo mistico presente nella Bibbia basti ricordare la teofania profetica di Isaia al quale la Divinità appare sul trono divino, un trono di fuoco circondato da angeli che si librano intorno con le loro ali: la Divinità e gli angeli che scendono in terra a parlare con gli uomini (cf Gn 7,21-22; Es 3), senza peraltro sottolineare l'ipostasi divina sotto forma di Rúach 'Elohìm (= Spirito divino) (cf Gn 1) oppure di uomini che salgono vivi in cielo e di morti che risuscitano e animali che parlano come delle creature umane.

Il libro di Daniele è, inoltre, tutto attraversato da un'aura di mistero in cui sembra concentrarsi l'esoterismo biblico. E questi, come altri autori, si rende conto che l'esoterismo teologico non può essere spiegato a tutti ma solo a dei privilegiati. Si può dire che il libro di Daniele costituisca il ponte di collegamento tra lo spirito esoterico biblico e quello dell'Apocalisse ebraica in cui l’esoterismo subisce un ulteriore approfondimento.

Nella Bibbia ed anche nell’Apocalisse (cf Ezrà IV) vi fu una forte riserva nel rivelare i segreti divini soltanto a pochi eletti. Gli autori del Talmud (cf T. Chaghigà 146, Mishnà di Chaghigà II, I. T. Chaghigà 13a) misero in guardia dal trasmettere i segreti della Torà a chi «non fosse dotato di cinque qualità, a chi non fosse principe di cinquanta persone, che fosse un uomo di riguardo, consigliere dotto ed intelligente, aperto alle segrete cose». L'esoterismo ebraico conquistò gradatamente larghe cerchie popolari sicché le prime testimonianze letterarie della mistica vennero in circolazione grazie a quella che può essere definita la letteratura delle Hechaloth (=i santuari) e della Merkavà, cioè il Carro divino. Lo studioso che ha maggiormente individuato storicamente gli inizi dell'antica mistica fu G. Sholem, il cui contributo è stato determinante nel dimostrare che molti passi della letteratura rabbinica si possono spiegare mediante un'analisi comparativa con certi concetti rappresentati dai testi dell'antica mistica. Pertanto, secondo Sholem, la letteratura delle Hechaloth, dal punto vista cronologico, è da classificare comparativamente con i classici della letteratura rabbinica, cioè il Talmud e la Mishnà.

Qual è il contenuto di questa antica letteratura mistica delle Hechaloth? Sono dei trattatelli, quasi due dozzine, che si interessano di cosmogonia e cosmologia, cioè della creazione del mondo, di angelologia e della visione del «Carro celeste» avuta e descritta da Ezechiele nel primo capitolo del suo libro. Tra i testi più antichi vi sono le Hechaloth (=Palazzi o grandi case), ma nello specifico libretto il termine indica i «Templi celesti» o Santuari. E’ questa una letteratura giudaica che non ha riscontro presso altre religioni ed ha origine dalle cerchie mistiche denominate loredé ha-Merkavà (=coloro che discendono nel Carro). Tale cerchia è esistita dal sec. II fino all'inizio del sec. VII. Essa si è interessata della dettagliata descrizione di un'esperienza mistica spirituale nei mondi superiori. Lo ioredé (= colui che discende nel Carro) ha lo stesso valore espressivo di colui che affronta il mare, cioè che salpa per ignoti lidi. Colui che discende nel Carro si stacca dalla sua attuale esistenza per iniziare un'esperienza che è come un lungo viaggio nelle stanze del Cielo o nei Santuari celesti. Egli intraprende un viaggio che, dopo un certo tempo, lo porterà ad una completa immersione mistica nella Divinità. Ampli squarci di tale letteratura appaiono come un viatico per colui che affronta una strada complessa e complicata. Che cosa deve portare con sé e quando deve intraprendere la strada il mistico, quali sono i pericoli che lo insidiano, come si deve comportare quando li incontrerà, quale parola d'ordine dovrà usare e quali panorami gli si riveleranno lungo la strada? Alla fine del suo viaggio giungerà all'ultimo Santuario, il settimo, e là si concluderà il viaggio. Abbiamo qui un'espressione linguistico-letteraria dell'esperienza mistica e chi non è un mistico non può comprenderla pienamente. Il lettore potrà affrontare i testi, capire più o meno la descrizione degli eventi, comprendere le associazioni delle parole, però non potrà rivelare l'esperienza spirituale che è dietro alle parole scritte. Solo chi ha saputo elevarsi al di sopra e al di là delle parole per conseguire l'essenza mistica che esse esigono rappresentare, solo costui comprenderà il pieno significato di tale viaggio verso l’alto.

La tesi essenziale che si può ricavare da tali libretti, non tutti di facile comprensione, è la seguente: soltanto le persone che riescono a conseguire la massima purezza fisica e spirituale possono contemplare i segreti di Dio. Un altro tema implicito nella letteratura delle Hechaloth e della Merkavà (=il Carro divino) è derivato da una fondamentale ispirazione. Il linguaggio di questi testi è un ebraico commisto ad aramaico, arricchito di espressioni greche ed alquanto enigmatico.

Un altro breve trattato mistico è il cosiddetto Alfabeto di R. Akivà, in cui è esposto un importante misticismo alfabetico e numerico che tenta di scoprire i misteri celati in ogni parola e in ogni lettera della Scrittura.

Con la pubblicazione e la diffusione dello Zòhar (= il libro dello Splendore), il classico della kabalà medievale, questa, come movimento mistico sistematico dell'ebraismo diviene l'insegnamento di quella realtà celeste che è la Merkavà e che il pensiero filosofico identificò con la metafisica e l'ontologia divina.

2. Secondo periodo. In che cosa consisteva dal punto di vista mistico la Kabalà e in particolare quella corrente esoterica che diede alla Kabalà stessa il suo contributo più notevole: lo Zohar? Si tratta di un commento ebraico al Pentateuco il cui autore era R. Moshé de Leon; questi aveva accolto dei materiali mistici assai antichi che, talvolta, si presentano come una congerie dottrinale niente affatto sistematica e spesso addirittura in contraddizione con i temi che presenta.

Per riassumere sinteticamente i contenuti mistici della Kabalà, va ricordato che questo pensiero teosofico prende le mosse dall'inconoscibilità della natura divina per tentare di penetrare nella sfera teofanica intesa soprattutto come emanazione ideale di mondi che rappresentano gli elementi costitutivi del cosmo. La Kabalà, pertanto, secondo il significato della parola, «tradizione», non rappresenta semplicemente un patrimonio culturale che si sovrappone alla testimonianza della Torà rivelata sul Sinai, essa è quasi una continuazione del messaggio biblico che ha proposto all'uomo un modulo divino per vivere eticamente sulla terra. È essa stessa un messaggio che tende a unificare, con la collaborazione dell'uomo, la corrispondenza esistente tra i due mondi: quello celeste e quello terreno.

Secondo la Kabalà, Dio è nell'En-sof (=il senza fine, l'infinito assoluto), quale condizione di «non-essere» rispetto alla realtà cosmica. Il mondo era potenzialmente in Dio, ma essendo il mondo finito, quindi imperfetto, esso non può derivare direttamente da lui, l'En-sof ma per emanazione, cioè mediante le Sefirot che rappresentano il medium di cui Dio si serve per irradiare il proprio potere creativo. La Divinità si è servita di queste Sefirot (= canali di luce) che si trasformano negli elementi costitutivi del cosmo. Secondo la Kabalà, le Sefirot si dividono in tre gruppi: il primo gruppo rappresenta una triade che costituisce l'universo come manifestazione del pensiero divino. Il secondo gruppo viene rappresentato da una triade di Sefirot che esercitano un potere etico immanente nel mondo. Il terzo gruppo è rappresentato dalla triade dell'universo materiale, in cui si realizzano gli aspetti fisici e dinamici dell'universo. L'ultima Sefirà, la decima, che indica la presenza di Dio nel mondo, conferisce e completa l'armonia di tutte le altre sefirot che formano un tutto unico partecipando ognuna delle qualità dell'altra. Il principio generale che regola l'azione di una sefirà nell'altra e in questo mondo è così espresso nello Zohar: «Un'attività stimola dal basso una corrispondente attività in Alto: vieni a vedere: una nebbia si leva dalla terra e allora si forma una nube ed una si unisce all'altra per formare un tutto» (Zohar a Gn 2,6).

Quando si manifestò nel mondo l'unione tra Dio (En-Sof) e la Shechinà (=la presenza immanente della Divinità nel mondo umano), l'unione era completa ed armonica. Ma, a causa del peccato, l'uomo rappresentato da Adamo, si allontanò da Dio sua fonte primordiale. La frattura morale verificatasi portò alla comparsa del male nell'universo, per cui all'ordine armonico della creazione subentrò il disordine. Perciò, la Shechinà, turbata dal disordine morale, vaga in esilio, impossibilitata a recare benessere e benedizione al mondo. Scopo finale dell'umanità è quello di restaurare l'unità originaria frantumata dalla prevaricazione. E solo l'uomo può farsi collaboratore di Dio per riallacciare il fluire dell'Amore divino nell'universo umano. Il processo di reintegrazione dell'unità, definito Yichùd (=unificazione), è un processo continuo cui ogni individuo può dare il suo contributo mediante la comunione con Dio e il perfezionamento etico.

L'elezione di Israele è un compito collettivo assegnato al popolo ebraico per spianare la strada dell'umanità nella riconquista universale dell'unificazione etica. La Shechinà è in esilio come lo stesso popolo di Israele. Essa non ha abbandonato il popolo ebraico e lo cura infondendogli speranza e certezza nella futura redenzione segnata dall'avvento messianico. Quando ciò avverrà, la Shechinà riavrà la sua intensità primitiva e si riunirà all'En-sof. Allora l'universo sarà completo in alto e in basso, sicché il mondo sarà unito da uno stesso legame, e «in quel giorno il Signore sarà uno e uno sarà il suo Nome» (cf Zc 14,9), riconfermando lo stimolo etico dell'ebraismo. L'ideale kabalistico spinge l'individuo a valorizzare l'uomo in sé onde conseguire la pienezza della sua personalità pur rimanendo unito a Dio e ai propri simili. La carica positiva della Kedushà (= la sacralità) viene annullata e sollecitata dai vari atti religiosi che promuovono nel soggetto un rapporto di autentica unione mistica. La Kabalà conobbe momenti di approfondimento ed evoluzione del pensiero mistico grazie alla forte personalità di alcuni maestri kabalisti. Tra questi merita di essere ricordato Isacco Luria detto Ari (Il leone), il quale rielaborò le dottrine dello Zohar arrivando a risultati ed intuizioni sorprendenti. L'essenza centrale del suo pensiero è la teoria dello Zinitsúm (=contrazione) che propone una spiegazione dell'autolimitazione di Dio infinito per creare il mondo fenomenico.

La dottrina kabalistica si diffuse nei centri della Palestina quali Tiberiade, Hebron, Gerusalemme, trasferendosi anche nelle grandi comunità della diaspora europea, in Italia, Germania, Olanda fin verso l'Europa orientale.

3. II terzo momento della mistica. trova il suo esito più ampio e felice nel moderno Chassidismo.

Il Chassidismo si presenta con una originale caratteristica, sia per l'azione che esso esercita esclusivamente sulla società ebraica, sia per essere legato al simbolismo attinto alla tradizione mistica dell'ebraismo. Pertanto, il Chassidismo si può definire un contributo interiore nato dalla coscienza sociale ebraica. Gli eventi che produssero la formazione e l'ascesa di questo movimento furono il Sabbatianesimo e la Kabalà inglobati dal neo-chassidismo, ciò nondimeno, nonostante tali fondamentali ispirazioni, il Chassidismo presenta importanti innovazioni. Esso si ispira alla Kabalà e questa è, a sua volta, ispirata dagli ideali profetici dell'ebraismo presentando un forte orientamento messianico. Del resto, come si è visto, la Kabalà avverte tutta la creazione pervasa da un intimo conflitto che la spinge alla ricerca della redenzione dal male. Il Chassidismo, quale espressione mistica dell'ebraismo, si configura come un contributo originale per la comprensione del problema etico.

La realtà dell'uomo e i suoi problemi sono innanzitutto problemi di ordine morale dalla cui soluzione dipende quella che, con sfumature e connotazioni dottrinarie diverse presso le religioni e i sistemi filosofici, viene definita «la redenzione dell'uomo». Alla soluzione del conflitto in cui sono dialetticamente presenti i concetti di bene e di male, il Chassidismo ha offerto una sua proposta etica di tutto rispetto e degna di attenzione.

È prescritto nella Torà: «Non aggiungete e non diminuite nulla rispetto a ciò che io vi comando». Il Chassidismo osservò scrupolosamente tale precetto. Infatti, esso non modificò nulla della letteralità dei precetti religiosi ebraici, tuttavia aggiunse un quid, apparentemente non percettibile, ad ogni regola e ad ogni prescrizione (mitzvà). Fu quel quid che infuse nell'osservanza religiosa ebraica una nuova vita etica, una dolcezza che conferì un significato particolare alle prescrizioni della Torà e alle sue norme religiose. Il Chassidismo diede un sapore, una motivazione nuova ad ogni atto che l'ebreo era chiamato a compiere. Fu questa moltiplicazione dei significati delle prescrizioni religiose (mitzvot) che innovò la modalità di esecuzione degli atti, della precettistica, facendola uscire dalla sua routine quotidiana per conferirle un profumo nuovo, un'atmosfera esecutiva che veniva alimentata dalla presenza vivificante dell'animo umano. Al principio del dovere fu sostituito il principio del volere, cioè del trasporto spontaneo e generoso di colui che una certa mitzvà non solo l'adempiva, ma la ricreava con il fervore e il trasporto di un'anima viva e coinvolta. Indubbiamente, anche i Maestri della Torà avevano condizionato l'adempimento del dovere religioso con il principio della kavanà (=l'intenzione). Il Chassidismo, richiamandosi alla necessità vitale dell'intenzione, diede a questo atteggiamento di volontà il senso della missione. Il fondatore del movimento chassidico il Ba'al Shem Tov (uno pseudonimo il cui significato è il «Padrone del buon nome» di Dio) diceva: «Ognuno viene al mondo per adempiere ad una missione e per apportare un miglioramento». Con questo senso della missione l’individuo va nel mondo da un posto all'altro sia nella propria città che in un'altra città. E si dice che Ba'al Shem Tov così commentasse il verso dei salmi (37,23): «I passi dell'uomo procedono dal Signore ed egli desidera andare nella Sua strada». «Ciò si riferisce a quelle persone che vanno in terre lontane con la loro mercanzia o cose simili; esse si allontanano nel loro vagare senza pensare più al Santo Benedetto. Essi ritengono che il loro spostarsi verso luoghi lontani serva per far danaro. Ma non è così. Talvolta una persona ha del pane che lo aspetta in terre lontane, per cui egli deve mangiare quel pane soltanto in quel luogo e a quella certa ora o bere acqua da quella certa fonte e il Signore, sia egli benedetto, lo spinge ad andare e a partire per quel posto per cui egli ritiene che quel viaggio ha luogo per sua libera volontà ed egli non sa che invece è stato decretato dal Santo Benedetto». Il senso che si ricava da questo insegnamento chassidico è il seguente: come insegna la tradizione ebraica, il Creatore è Provvidenza che guida tutti gli uomini. Il Besht (Ba'al Shem Tov) ne fa un principio dinamico vivo che si inserisce nel cuore di ogni persona per convincerla che ogni suo passo nella vita è guidato da Dio, per cui tutti gli esseri creati agiscono in funzione del loro Creatore e, anche se un individuo si mette in viaggio per guadagnarsi il pane, egli, così facendo, inavvertitamente si muove per migliorare una situazione. Ogni cosa é connessa con un'altra. Tutte le cose hanno un'anima. La vitalità stessa scorre nel cuore della creazione come un fiume impetuoso dal momento che tutto ciò che è stato creato è come il cuore dell'universo, la creazione costituisce il centro e non vi è essere vivente che non faccia parte del cuore della creazione divina. Il cuore, infatti, è con il sangue la fonte della vita. Accanto al principio della «Intenzione» (kavanà), quindi, i Chassidim pongono il principio essenziale della «vitalità» degli atti o dell'interiorità per cui il Besht osservava: «Il principio fondamentale della Torà è quello di occuparsi dello studio e della preghiera per aderire all'interiorità spirituale, e la spiritualità della luce dell'Infinito è implicita nella lettera della Toe della preghiera». Questo per dire che la Torà, con i suoi precetti, rappresenta delle cose spirituali che elevano e purificano l'anima. Il Besht facendo dell'intenzione, della vitalità e dell'interiorità spirituale un principio essenziale, produce una rivoluzione etica nel mondo spirituale dell'ebreo provocando in lui un mutamento nel suo comportamento. Infatti, se il principio essenziale dello studio e della preghiera rappresenta un modo per servire Dio, allora si deve considerare che il valore di un tempo fisso stabilito per la preghiera può costituire un problema di mancata osservanza del principio stesso se essa preghiera non viene elevata nel momento stabilito, di qui il contrasto tra i Chassidim e i Mitnaghedim cioè i loro oppositori rappresentanti del rabbinismo dell'epoca. Sorge peraltro un problema nel caso che l'orante, nell'ora stabilita, non avverta l'interiore trasporto alla preghiera. Come si risolve il contrasto che sorge tra «l'intenzione» di pregare e la prevaricazione del tempo stabilito dai Maestri per l'assolvimento del proprio dovere religioso? D'altra parte, i Maestri stessi dell'ebraismo hanno affermato: Raharnanà Libà ba'é (=il Signore richiede il cuore); forse il principio della preghiera è fondato sul movimento delle labbra e non sui moti del cuore? Comunque, i Chassidim, sia pure in conflitto tra loro, preferivano la preghiera detta con intenzione interiore alla preghiera recitata entro il tempo giusto. Infatti, essi rispondevano che l'intenzione di pregare costituisce ugualmente una preghiera in cui la volontà si unisce all'esecuzione, cioè la meditazione sulla preghiera costituisce la preghiera stessa. Del resto, il Besht sosteneva che l'uomo si trova dove sta pensando. Chi pensa alla preghiera, quindi, è come se pregasse. Questo modo di sentire non veniva considerato dai Chassidim come un'offesa o una diminuzione del valore della norma relativa alla preghiera a tempo fisso. Del resto anche i Maestri avevano insegnato che «il Santo Benedetto considera la buona intenzione come l'atto stesso». Non così, però, pensavano i Mitnaghedim, mentre i Chassidim ritenevano che la cosa essenziale fosse la stabilità fissa nel cuore e non «il tempo stabilito» per la recita della preghiera. Come la preghiera si applica al culto del cuore così, per quanto riguarda Io studio della Torà, avevano insegnato i Maestri. «L'uomo studi sempre nel luogo in cui desidera studiare». I Chassidim attingono alle fonti del classicismo ebraico dai salmi 1,2: «Il suo desiderio è la legge del Signore e nel suo insegnamento medita giorno e notte», cioè: è dovere meditare la Torà, ma è necessario suscitare l'interesse, il desiderio dello studio. Pertanto, nel Chassidismo l'attrazione allo studio costituisce un principio essenziale. «O amico dell'anima mia, Padre misericordioso, attira il tuo servo alla tua volontà». Il Besht insegnava a servire il Signore con il culto del cuore, insegnava ad amare il Creatore di un amore illimitato e a comprendere le intenzioni della Torà in modo autentico. «L'uomo deve avere piena fiducia nel Creatore che può quello che egli vuole; egli distrugge i mondi in un attimo e li crea in un momento e in lui sono radicati tutti i beni e le norme (cattive) che sono nel mondo, perché in ogni cosa si esercitano la Sua influenza e la Sua vitalità e soltanto a lui io tendo e in lui ho fiducia». «Una persona che legge la Torà con grande amore ed entusiasmo scorge la luce che è in essa; il Signore Dio benedetto non è pedante e puntiglioso con lui, anche se questi non capisce le motivazioni e non dice le cose come si deve. La cosa può essere paragonata al comportamento di un piccino che è amato assai dal padre e al quale il piccolo chiede qualcosa; anche se questi balbetta, il padre trae godimento nel sentirlo». «L'uomo che prega, con la sua preghiera e il suo studio, esercita un'influenza su tutti i mondi, perfino gli angeli si nutrono della sua preghiera perché l'uomo è una scala posta a terra la cui cima giunge al cielo ed ogni suo movimento provoca impressione in alto» (cf M. Buber, Racconti, 243). A Dio non si giunge con i digiuni e le privazioni, bensì mediante la gioia e l'entusiasmo: «Lo servirò con gioia perché non lo faccio per bisogno, ma per soddisfazione di fronte a lui ».

Il Chassidismo eredita la concezione kabalista luriana secondo la quale grazie allo Tzimtzúm, cioè alla contrazione di Dio dal mondo (= un'autolimitazione dell'En-sof) Dio fece posto al mondo fenomenico. Nel buio del caos, Dio proiettò la Sua luce, l'Essere si frantumò nel divenire, cioè i «Vasi» che esprimevano le multiformi manifestazioni della creazione, non riuscendo a sopportare la potenza di luce dell'En-Sof si ruppero per cui la luce si irradiò non in modo uniforme nell'universo. Pertanto, nel creato vi sono zone di luce e zone di oscurità. Le zone buie sono una specie di male negativo. Essendo stata infranta la divina armonia, la Shechinà (la presenza immanente di Dio) è andata in esilio. La luce divina attraversa qua e là il buio per cui nel mondo vi sono zone di male e zone di bene (oscurità e luce) mescolate insieme. Pertanto, non c'è male che non contenga del bene, come non esiste bene che sia totalmente esente dal male. Il male morale, che dipende dall'uomo, può essere vinto dalla forza di volontà umana. L'uomo ha il compito di operare il Tiqùn (= la redenzione). Il male è universale, occorre quindi che gli uomini facciano uno sforzo comune per vincere e creare dei mondi nuovi. Ogni individuo deve unirsi alla collettività per conseguire insieme ad essa la redenzione della vita universale, cioè per affrettare la redenzione messianica. L'idea del rinnovamento universale porta ad un motivo dominante nel Chassidismo, l'immanenza di Dio (la Shechinà in esilio nel mondo attende che ogni uomo la ritrovi). Questa immanenza divina va perseguita per conseguire l'unione con il Divino. Tale unione con il Divino va conquistata attraverso la gioia e l'entusiasmo, di qui il ballo e il canto. Colui che può aiutare a trovare 'unione con Dio mediante la gioia e l'entusiasmo è lo Zadiq, cioè il Rebbe che costituisce la personificazione stessa della Torà, colui che fa da tramite con la rivelazione divina presente nel mondo. Lo Zadiq è la figura carismatica che accompagna gli ebrei alla scoperta dei mondi superiori, perché egli conosce la strada giusta da percorrere e può provocare il risveglio.

Gli elementi a disposizione della zadia per guidare l’ebreo sono: l'Umiltà, la Preghiera e il Racconto. La Torà «è rivestita di racconti e di storie perché non la si può trasmettere così come è». Lo Zadíq, come fa la Torà, riveste il suo insegnamento di argomenti di fantasia, presenta delle storie che possono trarre in inganno coloro che vogliono impedire il Tiqún (= il risveglio), ma in effetti lo Zadíq, con il racconto, riesce a trasmettere i contenuti mistici che collegano l'ascoltatore ed ogni cosa a Dio e che lo porta alla teshuvà (=alla conversione morale), che costituisce la strada maestra per arrivare al Tiqún. «Lo stile narrativo degli aneddoti chassidici è estremamente semplice e i miracoli in esso descritti sono ingenui voli di una fantasia ironica gentile e dimessa». Va tenuto presente che, come nel racconto chassidico, nell'aneddoto si trasmette l'eredità del patrimonio talmudico, il midrash, il racconto popolare che educava le masse facendo loro avvertire, mediante i voli della fantasia, le profonde verità etiche della Torà. Grazie a questo modo popolare di trasmettere l'insegnamento, il Chassidisimo riusciva a toccare profondamente l'animo dell'ascoltatore e a trasmettergli la fiducia nell'azione dell'uomo, dandogli sicurezza nello sviluppo delle proprie capacità. In un mondo oscurato dal caos sociale, lo Zadíq chassidico diviene così «l'anima del popolo». Come è stato giustamente scritto, lo Zadíq «non è affatto un persuasore dittatoriale, ma un vero e proprio Socrate dell'ebraismo», questo perché il Chassidismo predica che Dio si realizza attraverso l'uomo ed Egli esiste quanto più esiste l'uomo (A. J. Heshel, Dio alla ricerca dell'uomo). La figura dello Zadíq nel Chassidismo assolve a diverse funzioni: egli è in continuo conflitto con il cattivo istinto e questa sua lotta interiore costituisce addirittura un servizio, un atto di amore, di gioia, un momento di studio e di preghiera. Questa lotta interiore è l'adempimento di una mitzvà (= precetto). Diceva Nachman di Breslavia: « Il mondo dice che non si dovrebbe cercare la grandezza, ma io dico che voi dovete cercare soltanto la grandezza... quando cercate un Rebbe» (la parola è la deformazione di Rabbi-Maestro che erano i rabbini-capo di un gruppo chassidico). «Tutto ciò che vedete nel mondo, tutto quello che esiste, serve di prova per dare all'uomo la libertà di scelta».

Abbiamo già accennato alla gioia come sistema spirituale del Chassidismo; infatti, questo movimento mistico nutrì e nutre un .atteggiamento profondamente negativo verso la tristezza considerata come un espediente del «cattivo istinto » per danneggiare l'uomo. Perché mai la tristezza è considerata in maniera così negativa dal Chassidismo? Perché si sosteneva che la tristezza sottrae all'uomo la sua forza vitale, le sue energie spirituali, impedendogli l'entusiasmo dinamico proprio della religiosità. «L'uomo depresso si rinchiude in se stesso e non viene sollecitato e scosso a procedere sul sentiero che porta al culto divino. L'uomo depresso, rinchiuso in se stesso, perde la sua forza vitale e non si accende di entusiasmo spirituale» (Nachman di Breslavia). L'uomo deve sempre agire per il suo Creatore, quindi deve fare in modo di arrecare soddisfazione e piacere al Santo Benedetto. L'uomo deve agire vivendo la sua religiosità in modo attivo e diretta al fine di far piacere a Dio, poiché questo è il fine divino riguardo all'uomo, cioè che viva vivacemente la vitalità divina. La gioia, quindi, costituisce l'ingresso, l'approccio più consono per avvicinarsi a Dio, l'approccio all'En-Sof (= all'Infinito), che è nell'Ente. Ovviamente la gioia non è quella degli sciocchi e dei sensuali, ma l'entusiasmo dinamico che desta il fondamento divino che è nell'uomo. Questa concezione della gioia, come processo volto al culto divino, rappresenta il focus del pensiero chassidico. Va ricordato che il concetto di gioia, così inteso, ha dei precedenti nell'insegnamento rabbinico (T.B. Shahat 30b). Si racconta che Rabbà prima di iniziare lo studio narrava delle cose scherzose e Rashì dice che il cuore dei Maestri si apriva allo studio della Toa causa della gioia che era in loro. I Maestri ritenevano che soltanto la gioia consentisse di avvertire quell'elevazione e quell'attaccamento necessari per lo studio. Fintanto che il cuore dell'uomo è insensibile e il suo spirito è pesante, non può risplendere (accendersi) in lui la luce divina.

Questa gioia è la gioia di mitzvà. Tra i diversi espedienti a disposizione del Chassidismo per arrivare al cuore dei propri seguaci ed entusiasmarli, c'erano la musica, il canto e la melodia. Grazie alla musica, i Rebbeim riuscivano a scuotere le fibre intime dei loro ascoltatori. Grazie alla melodia, essi tendevano non ad assopire o a distrarre gli interessi dei loro discepoli, ma a purificare i loro cuori. Dobbiamo ricordare che anche questo sistema di coinvolgimento è presente in molti testi classici dell'ebraismo, primo fra tutti la Bibbia, il Canto di Mosè e di Debora, il canto del Re Salmista (Sal 103,35) sono stati ripresi dal Talmud. Si racconta che appesa al capezzale del re David c'era un'arpa e quando a mezzanotte il vento soffiava, facendo vibrare le corde dello strumento, il re cantore si destava e componeva le sue celebri melodie in onore dell'Eterno. I canti e le melodie composti dai Maestri del Chassidismo divennero celebri fra gli ebrei dell'Europa orientale. Il R. Nachman di Breslavia diceva ai suoi ascoltatori: «Guardate voi come pregate? È possibile servire Dio solo con le parole? Venite, vi insegnerò un modo nuovo di pregare non attraverso le parole, ma mediante il canto. Noi cantiamo ed Egli, il Santo Benedetto in alto, capirà il nostro canto. Il principale mezzo di comunione con l'Uno, sia egli Benedetto, può attuarsi da questo basso mondo mediante la melodia e la musica...». R. Pinechas di Koretz soleva dire: «Padrone del mondo, se fossi un musicista non ti consentirei di vivere in alto, ma ti costringerei a venire in basso qui con noi». Il canto e la melodia entrarono a far parte integrante dell'insegnamento chassidico tanto che in ogni corte dei Rebbe vi erano musicisti e cori pronti a registrare ogni nuovo tono e a diffonderlo tra i loro aderenti per rendere più recettiva e vitale la loro fede e il loro entusiasmo per la vita. Nell'insegnamento lubavitch - un moderno movimento chassidico - si sostiene che la voce stimola la kavanà: «La lingua, diceva R. Sheneur Zalman, può essere paragonata alla penna del cuore, il canto alla penna dell'anima». R. Hillel di Paretz diceva: «Chi non ha un senso musicale non può avvertire il valore del Chassidismo». Il Chassidismo ha avuto ed ha ancora un grande successo nel mondo ebraico di ieri e di oggi. Va, comunque, detto che il Chassidismo non ha modificato sostanzialmente le forme tradizionali mediante le quali si è espresso l'ebraismo, cioè non ha modificato né la Torà né il modo di vivere e praticare l'ebraismo mediante le mitzvot (=norme della vita ebraica). Il Chassidismo fu ed è un movimento mistico che tentò di trasferire un modo di sentire il rapporto con la divinità non come un fenomeno elitario, cioè proprio di alcuni individui, ma come un processo umano coinvolgente, collettivo. Ai singoli ebrei dispersi nei villaggi ucraini recò il conforto e la gioia di far parte di una comunità umana aperta cui veniva insegnato che tutto è divino, che Dio è vicino a coloro che lo cercano e, pertanto, ogni ebreo che voleva poteva essere un Chassid.

Letto 6312 volte Ultima modifica il Giovedì, 18 Novembre 2010 17:03
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Altro in questa categoria: « Mistica anglicana Mistica indiana »

Search