Vita nello Spirito

Domenica, 02 Gennaio 2011 20:58

Il Vangelo rivelato ai piccoli (Mt 11, 15) (Sr Maria O.P.)

Vota questo articolo
(2 Voti)

Suor Maria, O. P., domenicana del monastero di Langeac, ci propone di capire meglio ciò che Gesù  ha voluto insegnarci, parlando del Vangelo rivelato in modo speciale ai piccoli. Egli stesso è nella sua Incarnazione e nella sua Passione, il “piccolo” per eccellenza” che giubila proprio, quando già si profila l’insuccesso della sua missione.

Il Vangelo rivelato ai piccoli (Mt 11, 15)

Sr Maria O.P.

É la perla più preziosa del Vangelo” diceva il padre Lagrange. La novità assoluta della rivelazione cristiana scaturisce da una parola discreta e solenne, indirizzata a tutti da sempre, sempre però avvolta da mistero e inesauribile da scoprire. Parola unica di Gesù su lui stesso, questo testo stupisce, tanto riesce a proiettare su di lui le figure dell’Antico Testamento. Dal compimento in spostamenti che innovano, non è forse la voce stessa di Gesù (ipsissima!) che risuona fino a noi?

La situazione originale del logion è perduta. Riprendendolo alla fonte Q, Luca e Matteo lo situano in due momenti diversi: dopo il primo successo missionario dei discepoli, in Luca; al contrario, in Matteo è situato nel contesto di dubbi, contraddizioni e primo insuccesso nel ministero in Galilea. Ambedue, però, rilevano la solennità del momento - l’ora o il kairos, questo tempo di grazia in cui il mondo di Dio viene ad invadere il campo umano. Due sentenze compongono la pericope nettamente delimitata dalla presa di parola di Gesù. Ognuna ha la sua coerenza e la propria autonomia, la prima, del genere apocalittico, mentre la seconda, propria di Matteo, è più nettamente del genere sapienziale.

Due Logia[1] dunque, ma tre proclamazioni: la prima indirizzata al Padre come un grido di lode, la seconda riflette l’azione di grazia su Gesù, poiché rivela “il Figlio”, la terza poi di nuovo un grido, ma di chiamata, la santa convocazione. Gesù è dunque solo attore di fronte a destinatari invisibili per la loro trascendenza (il Padre) o per il loro anonimato e il loro silenzio (voi tutti). Le sue parole rispondono all’opera del Padre in lui e richiedono una nostra risposta.

“L’Inno di giubilazione”

La sua preghiera, la preghiera al Padre, come sempre in Gesù, si situa qui fra quelle che si trovano nelle apocalissi: una rivelazione fa nascere nel veggente un’azione di grazia per la sapienza ricevuta

dall’alto e per il piano di Dio[2]che gli è rivelato.. Gesù dice “Exomologomini”, come Daniele (2,19) con un vocabolo usato nei salmi per significare qualcosa di più che la professione di fede: la celebrazione o l’azione di grazia (todah). Gesù celebra suo Padre proclamandolo “Signore del cielo e della terra” cioè coordinatore e origine di tutto, Creatore. “Suo” Padre è proprio il Dio dell’Alleanza, in tutta l’estensione del suo mistero.

Daniele rende grazie per la rivelazione di cui lui stesso è stato gratificato, invece, cambiamento significativo, Gesù non si mette al primo posto e rende grazie per altri, i piccoli, che eleva come primi destinatari della rivelazione di fronte ai saggi e ai potenti. Così, egli si inserisce anche nella traiettoria dei numerosi oracoli profetici che, come Isaia, denunciano:

“La sapienza dei suoi sapienti perirà e l’intelligenza degli intelligenti scomparirà” Is 29,14. [3] Ora la novità appare: il futuro profetico è divenuto, sulle labbra di Gesù, realtà compiuta, e l’oracolo del giudizio, ringraziamento per un beneficio di Dio.

Singolare rivelazione che tuttavia resta nascosta nell’indeterminato!   In realtà il vero motivo della gioia consiste nel cambiamento dei destinatari: la rivelazione fatta ai piccoli. L’espressione ‘i più piccoli’, neptoi, quelli che non sanno neanche parlare, rara nel Vangelo, ricorda la predilezione di Gesù per i bambini, precisamente quando si tratta di entrare nel Regno[4]. Tuttavia nella traduzione dei Settanta, questo termine può indicare sia i “lattanti” (‘ollim[5]) sia i “semplici di spirito” (peti) con una nota di ingenuità sciocca [6] o al contrario d’apertura (stessa radice patah), di disponibilità all’istruzione.[7]Osea chiama Israele stesso nepios riferendosi alla grazia dei primi tempi, l’elezione nel deserto.[8] I piccoli non sono proprio questo gruppo nuovo di discepoli di Gesù, secondo il contesto immediato di Matteo e di Luca[9] che senza avere quel sapere autorizzato che farebbe resistenza al dono di Dio, hanno saputo riconoscere  nel visibile l’invisibile, in Gesù di Nazareth, la presenza di Dio? Tuttavia la metafora può anche indicare i poveri, gli infelici a cui Gesù si identificherà per sempre nella parabola del Giudizio universale.

Sorprende anche il grido di giubilo di Gesù nel momento in cui si affaccia all’orizzonte l’insuccesso della sua missione. Giovanni Battista dubita, le città del lago si ostinano, nè Giovanni, nè Gesù sono ricevuti... e Gesù loderebbe il Padre del suo insuccesso! Invece è proprio questo paradosso che l’obbliga allora a intensificare la (sua) preghiera.

Il versetto 26, infatti, per la sua ammirevole forma semitica, suona come un responsorio, “una sentenza dal sapore liturgico... là dove un credente risponde ad un altro credente”[10] É un indizio di una tradizione molto antica? Possiamo solo notare che questo movimento a due tempi della preghiera si incontrerà ancora al Getsemani : “Padre, se ti è possibile...”, poi “tuttavia non quello che voglio io...”. Qui abbiamo “Padre ti lodo” poi “Sì, Padre...” Nei due casi c’è come una specie di dibattito, come un conflitto interiore: per rendere grazie malgrado il fallimento che cela la rivelazione ai piccoli, Gesù dovrà risalire dall’opera sconcertante del Padre, al suo “gradimento”, dall’agire visibile di Dio al santuario nascosto della sua volontà e dare là il suo consenso. Il “sì” sarà tuttavia intero la formula ne è testimone. I rabbini solevano dire su di un modo ottativo “ che tale sia il tuo volere”. Il ruolo del versetto è dunque di importanza capitale: risituare Gesù nell’asse  verticale e invisibile del volere del Padre e come a Getzemani avvia verso la Passione, rilanciare così la sua missione con un vertiginoso slancio in Dio, il testo ci solleva dagli abissi dello sheol promesso all’indurimento del cuore di Cafarnao al più alto dei cieli!

L’auto-rivelazione del Figlio

E ancora una preghiera il soliloquio che segue? Due passaggi dal “tu” all’”io” poi dall’”io” al “lui” richiedono di mettersi in ascolto di quello spazio che separa preghiera e auto-rivelazione. Tuttavia in ogni preghiera affiora un momento in cui, sotto il suo sguardo, l’orante si conosce in Dio. Riferendosi al Padre, Gesù scoprirà dunque il suo proprio mistero  come in un metalinguaggio.

La solennità delle affermazioni aumenta in un crescendo continuo. Gesù comincia con l’attribuirsi ciò che Daniele conferiva al misterioso Figlio dell’uomo intravisto nell’eschaton del tempo[11].: “ Tutto mi è stato dato da mio Padre”. Rivendica così un potere totale e dunque uno statuto assolutamente unico. Eppure in quel momento, conosce solo il rigetto; l’affermazione è dunque in realtà una profezia che si realizzerà altrove (presso il Padre) o più tardi (dopo la Pasqua, Cf Mt 28, 18). Inoltre questa autorità trova origine in una dipendenza radicale: consentendo al disegno divino, Gesù si è fatto piccolo fra i piccoli[12], in un completa sottomissione al Padre. Così si può presentare come il destinatario per eccellenza della Rivelazione ed anche...il suo contenuto, poiché per il Padre “donare tutto” è donare il Figlio, come donare al Figlio.

Gesù proclama allora la novità radicale che egli apporta nella sua persona. É questo senza dubbio il vertice della cristologia del Vangelo, trasmesso in un enunciato che svela e insieme nasconde. Il passaggio a “il”, l’impiego assoluto del nome di Figlio conferiscono una autorità massimale alla proclamazione scandita in un rigoroso parallelismo: “nessuno conosce... se non ...” Ora, colui che solo conosce l’altro è lui stesso situato in uno specchio come assolutamente non conosciuto, in una duplice negazione che conduce al suo parossismo l’aspetto di teologia negativa del  logion.

Eppure il Dio sconosciuto non è in - conoscibile: la soglia dell’ignoranza invincibile da chiunque, traccia lo spazio delle relazioni naturali del Padre e del Figlio che si trovano, loro, sotto il segno della pienezza: conoscenza intima, mutua, comunione delle volontà (v.26), e implicitamente, per il titolo di Padre e di Figlio, comunità d’essere. Si può immaginare altro proposito, più alto, attinente alla cristologia, di questo? Tuttavia è nettamente anteriore al vangelo di Giovanni che evoca per il suo contenuto e per la formula di reciprocità con allargamento[13].

Inoltre il suo linguaggio non ha niente di giovannico: Giovanni dirà “vedere” e “conoscere”(gignoskein) là dove Matteo usa apokaluptein e epignoskein, che si trova in San Paolo, nel senso di conoscere in pienezza.[14] A volte nei sinottici ha il senso di riconoscere.[15] Una teologia giovannea senza la sua terminologia non può non stupire: non può prendere origine da un prestito e possiede un sapore senza uguale come se qualcosa delle parole di Gesù giungesse fino a noi.

Ecco allora che lo spazio di conoscenza reciproca, circoscritto dal parallelismo, si dilata e s’apre ad altri. Il Figlio diviene lui-stesso attore di rivelazione come il Padre.

Egli rivelerà “di sua spontanea volontà”, come il Padre perché “tale è la sua volontà”.

In altre parole se Gesù annuncia la sua missione come una missione di mediazione, presenta la sua rivelazione come autentica quanto quella del Padre. Mosè mediatore trasmetteva ciò che aveva ricevuto dall’esterno come un dono di Dio; il Figlio mediatore, lui, è fonte di rivelazione. Per di più quando rivela la conoscenza del Padre, non rivela altro che ciò che è, Figlio: “La manifestazione del Figlio è conoscenza del Padre[16]” dirà ammirevolmente S. Ireneo. La novità è inaudita: è questa tutta la buona notizia del Vangelo.

La chiamata del Maestro e l’adunata messianica

Allora Gesù nella pienezza della sua dignità filiale, può rivolgersi agli uomini per convocarli.

Il suo appello è un nuovo grido di allegrezza che riecheggia i grandi inviti della Sagezza, secondo il genere sapienzale e la dinamica

di realizzazione cara a Matteo. L’impressione di irruzione escatologica resta pregnante. Si noterà la struttura  perfettamente concentrica: all’invito iniziale(v. 28a), corrisponde il richiamo finale (v. 30), poi la promessa del riposo viene ad inquadrare (28b et 29c) il cuore del logion che verte sulla proposta di Gesù (29a) e la sua legittimità (29b). É lo schema comune degli elogi della Saggezza, in quel tempo, personalizzata e messianica[17], tuttavia c’è nel tono una sfumatura di tenerezza che ci aspetteremmo di trovare più in Luca che in Matteo e che siamo portati a far risalire a Gesù stesso. Essa si fa vedere nella scelta dei destinatari, gli oppressi. Il giogo e il carico sono allusioni chiare e discretamente polemiche alla legge e ai suoi maestri.[18] L’invito di Gesù non sembra quindi universale come di solito lo leggiamo, ma piuttosto per il popolo giudeo che Gesù chiamerà con compassione “le pecore perdute della casa d’Israele”[19]e che Matteo indica come “le folle”[20]. Inoltre prima, nel mondo dei rabbini, queste immagini ricordavano, come anche nei profeti, l’oppressione dei nemici [21]ed anche il peccato[22]

Perciò la promessa del riposo è intesa come la promessa escatologica per eccellenza. La parola di anapausis è ben precisata  dai temi dell’entrata nelle terra promessa[23] e dello shabbat [24](oggetto della pericope seguente) et permette dunque a Gesù d’assumere la grande figura del pastore messianico.

Tuttavia la proposta di Gesù sorprende perchè egli propone non di togliere il giogo.ma di cambiarlo. Il fatto è che nella Bibbia così poco “moderna” l’assenza di giogo non fa rima con libertà, ma con peccato:” E da tempo che ho spezzato il tuo giogo, ho frantumato i tuoi legami quando dicesti “non voglio servire”.[25]

Al contrario la relazione di alleanza si esprimerà in Osea con l’immagine del giogo.[26]

Proponendo di prendere il suo giogo, Gesù invita dunque a fare una nuova alleanza. L’invito sapienziale d’imparare da lui va nello stesso senso, infatti che c’è di più forte della relazione fra maestro e discepolo sul piano spirituale? Lasciarsi soggiogare da Gesù: l’apice del testo non dunque il contenuto dell’istruzione, ma il valore dell’appello, né legalista, né etico, è radicalmente religioso.

Occorre ancora che Jésus giustifichi questa proposta, il che richiede di manifestare la sua competenza. C’è allora l’ultima sorpresa di questo testo, il ritorno, dopo la proclamazione solenne della dignità del Figlio, alla discrezione d’un maestro “mite e umile di cuore”. Questa espressione rinvia al gruppo profetico dei “poveri di Yahvé”[27] ai “piccoli” del versetto 25 di cui Gesù si fa esplicitamente solidale, e sottolinea che egli vive veramente quello che insegna altrove, le Beatitudini. Inoltre mite e umile sono anche gli attributi messianici: la mitezza è il tratto dominante di Mosè[28], d’un re Messia escatologico[29] e di Dio lui-stesso nella sua relazione con i suoi fedeli[30]

Per l’umiltà, prima di essere una virtù morale, ricorda gli abbassamenti  del misterioso servitore di Isaia (citato più in là). Al contrario, è un modo allusivo di riassumere l’origine mancata - violenza di Caino e orgoglio di Adamo - e de definire così la condizione filiale. Alla fine si sarà colpiti dal giovannismo della figura; il discepolo che chiama Gesù , sarà simile al discepolo prediletto, la sera della Cena, un orecchio il più vicino possibile al cuore del Maestro.

L’inclusione del logion si conclude con l’opposizione  seduttrice del  gradimento, alla pena e della leggerezza, alla pesantezza del fardello. Che contrasto con le esigenze radicali del sermone sulla montagna! Tuttavia ciò che importa resta sempre il legame personale con Gesù.  Del resto il giogo è veramente soave? Il termine chrèstos che lo qualifica è impiegato dai Settanta di preferenza a agathos per dire il Dio buono, in particolare nell’acclamazione ”Rendete grazie al Signore perché è buono”[31] C’è qui ancor più che la soavità, il segno stesso del dono di Dio.

Si potrebbe anche maliziosamente giocare sulla paranomase chréstos/ Christos per scoprirvi il nome di Cristo secondo un procedimento per nulla estraneo all’arte redazionale di Matteo[32].

“Il mio giogo è Cristo! Che bella risposta di fede per una comunità giudeo-cristiana!

 

(in La vie spirituelle, settembre 2007, p. 485/495)

Traduzione dal francese di sr Immacolata Occorsio smsm

 


Note

[1] Plurale di logos: parola, sentenza, pensiero

[2] Cf: Dn 2,19-23; I Hen. 39, 9-12: 69, 26

[3] vedi anche Osea 14, 19

[4] Mt 18. 2-5, 10; 21, 15-16.

[5] Salmo 18, 8 ripreso da Mt 21, 16.

[6] Pr 1, 12

[7] S 18, 8b: Sg 10,21; s 118, 130

[8] Os 11, 1

[9] In modo particolare Mt 10, 42 e 11, 11.

[10] E. Bouvon.L’Evangile de Luc, t. 2 p.71 commento a Luca 10, 20-21

[11] Dn 7, 14

[12] cf Mt 25, 40-45

[13] Jn 1, 18; Jn 10, 15; 17; 21. 25

[14] I Co13,12: Rm 1, 28 ;Ph 1, 9; Col 1,9 e 3, 10; Ep 1,17

[15] Mt 17, 12;Lc 24, 16

[16] AH 4, 5,3

[17] Si 6,19-28; 14, 19-21; 51, 21-28; Is 55, 1-3; Pr 9, 1-5

[18] Mt 23, 4; At 15, 10 e già prima Si 51, 23

[19] Mt 15, 24

[20] Mt 7, 28; 9, 36

[21] Lm 5.5; Is 9, 3;  10, 17; 14, 25

[22] Sal 38, 5

[23] Gs 1, 13; 12, 4; 23,1; Sal 95. 11

[24] Eb 4, 3-11.

[25] Gr2, 20, Sal 2, 3

[26] Os 10, 11; 11, 4

[27] Dn 3, 87; So 2, 3 ; Is 11, 4; Si 3, 19, 20; sal 24, 9; 33, 2; 36, 11; 146, 6;149, 4.

[28] Nm 12, 3

[29] Zac 9, 9

[30] Sal 27, 4; 90, 17: Sa 16, 21

[31] “exomologeisthe tò kurio oti chréstos!” Dn 3, 89; Sal 105, 1; 135, 1 ss

[32] Mt 13, 52 sarebbe una firma di Matteo.

Letto 4854 volte Ultima modifica il Mercoledì, 23 Maggio 2012 23:16
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search