Vita nello Spirito

Sabato, 26 Marzo 2011 09:58

Maristi e missione. Introduzione (Franco Gioannetti)

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Il presente studio non vuole essere altro che un modesto contributo all’approfondimento dell’indole missionaria della nostra Società. Indole missionaria vista però non come un fare, un agire in primo luogo, ma come azione che scaturisce dal Battesimo, si specifica nel carisma coliniano e si radica in una spiritualità che permetta in primo luogo ad ognuno di noi, come maristi, di trovare la propria realtà di discepolo del Signore.

Il presente studio non vuole essere altro che un modesto contributo all’approfondimento dell’indole missionaria della nostra Società. Indole missionaria vista però non come un fare, un agire in primo luogo, ma come azione che scaturisce dal Battesimo, si specifica nel carisma coliniano e si radica in una spiritualità che permetta in primo luogo ad ognuno di noi, come maristi, di trovare la propria realtà di discepolo del Signore. In effetti una caratteristica di P. Colin, come dice Coste, è di avere voluto la Società caratterizzata da una doppia referenza mistica ed apostolica: appartenenza a Maria e missione di lavorare sotto il suo nome e a suo esempio alla salvezza delle anime con ogni mezzo[1].

Non è un lavoro che ci caratterizza, ma un modo di essere. Mi sia permessa dunque una piccola digressione. E probabile che dovremo prestare maggior attenzione affinché coloro che vengono da noi lo facciano non solo per il sacerdozio, o per la missione, o per le missioni estere, ma per salvare in questa vita la loro dignità ed integrità di esseri umani, per poter arrivare a conoscere se stessi, a fare in se stessi l’unità, a darsi a Dio con pienezza e maturità[2]. La vita religiosa infatti, leggiamo nel prefazio della messa dei santi religiosi, restaura prima di tutto l’uomo come essere capace di conoscere il vero, di fare esperienza della verità in noi stessi e nei nostri normali rapporti umani, solo dopo aver sperimentato la verità in noi stessi e negli altri, siamo pronti per l’esperienza (mistica) della Verità in sé, cioè in Dio. D’altra parte occorre chiedersi: c’è ancora spazio, nel mondo, per un cristiano che non faccia vera esperienza di Dio?

Non metteremo pertanto l’enfasi sulla missione, ma su ciò che sta alla base del vivere la missione come maristi. Partendo dal dono di noi «a Dio sommamente amato», che attestiamo pubblicamente alla Chiesa e nella Chiesa e che «appare come un segno» caratteristico del Regno dei Cieli[3], terremo in considerazione la vita religiosa come adempimento libero dell’Evangelo, che ha in se stessa il proprio fondamento.

In un’epoca di transizioni socio-storiche violente e rapide Colin ha ricevuto e sviluppato in sé il carisma donategli allo scopo di manifestare la multiforme sapienza di Dio (Ef 3,10).

Il fondamento ed il carisma della vita religiosa hanno una reciproca interconnessione. La loro concreta realtà, consistente nel nostro caso nella fondazione della Società di Maria, il loro mutuo equilibrio danno luogo ad una spiritualità tipica e specifica.

In questo timido tentativo di «ri-studio» proveremo a rivedere le radici delle intuizioni soprannaturali e delle prospettive storiche di Colin. Occorre infatti, in modo pressante, riscoprire il carisma iniziale ed i modi con cui Colin lo ha tradotto in termini concreti in risposta alle esigenze dei tempi ed occorre rifondare la nostra spiritualità su basi bibliche, patristiche, teologiche, magisteriali. D’altra parte ogni istituto ha la propria identità nel proprio carisma e nella propria spiritualità.

Sono questi i motivi fondamentali che costituiscono la vita religiosa per quello che essa è nel concreto storico. La missione ne segue, in quanto vuole prepararci nella Chiesa «all’opera di servizio per l’edificazione del Corpo di Cristo» (PC 1).

Queste sono le linee di tendenza che sottostanno al presente lavoro, il quale si prefigge tra l’altro di essere completamento di una mia precedente pubblicazione: Jean Claude Colin, Una spiritualità per il nostro tempo.

Le condizioni socio-politiche della Francia del secolo XIX

Passata la rivoluzione e l’ardente ventata napoleonica, la Francia tomo ad essere un regno, sotto i Borboni rappresentati da Luigi XVIII. Questi dimostrò che si rendeva conto dell’impossibilità di una pura e semplice restaurazione, tanto che la Carta Costituzionale, da lui promulgata il 4 luglio 1814, manifesta la volontà di una restaurazione condotta secondo criteri moderati.

Questo atto incontrò l’opposizione degli ultraroyalistes, i quali volevano un ritorno puro e semplice Ancien Régime. Essi, portavoce soprattutto della nobiltà rurale e del clero, scatenarono arresti, epurazioni, uccisioni e si organizzarono, sotto la veste di associazione religiosa, in società coperta dal segreto, la «Congregazione». Famosa, per il potere politico e perché malvista dalla popolazione, quella di Parigi. Più moderata perché di taglio più pastorale quella di Lione. Tuttavia la Francia di Luigi XVIII si assestò su una base di costituzionalismo moderato; i contrasti sarebbero emersi negli anni futuri.

A partire però dal 1821 gli ultras tentarono la vera e propria restaurazione del regime pre-rivoluzionario, prima con il gabinetto Villèle, poi con l’avvento al trono, nel 1824, di Carlo X. Nel 1825 si procedette ad indennizzare i nobili dei beni perduti durante la rivoluzione; nel 1826 fu ripristinato il diritto di primogenitura; nel 1830 quattro ordinanze, che abolivano la libertà di stampa, scioglievano la Camera, modificavano la legge elettorale a favore dei proprietari aristocratici e indicevano nuove elezioni, fecero scoppiare a Parigi, dal 27 al 29 luglio, una rivoluzione: les trois glorieuses.

La borghesia moderata monarchico-liberale ne raccolse i frutti. Cadde Carlo X, salì al trono Luigi Filippo d’Orleans non più come «Re di Francia e di Navarra», ma come «Re dei francesi per volontà della nazione». La nuova Carta Costituzionale apportò indubbi miglioramenti, ma il diritto elettorale rimase in stretta relazione con il censo.

Ben presto il regime si diede una fisionomia più conservatrice per raccogliere intorno a sé anche la media borghesia rurale. Avversali erano i legittimisti che consideravano Luigi Filippo un usurpatore e rimanevano fedeli ai Borboni. Il clero era in grande maggioranza legittimista per avversione al laicismo ed all’anticlericalismo dei governanti. D’altra parte la condanna che nel 1832 Gregorio XVI fece con la Mirari vos dei propositi di rinnovamento del cattolicesimo in senso liberale sorti in Francia e divenuti indirizzi di pensiero di portata europea, contribuì ad un irrigidimento delle posizioni governative.

Luigi Filippo abdicò nel 1848 e fu proclamata la repubblica. Presidente ne divenne Luigi Napoleone Bonaparte che rassicurò presto il partito dell’ordine, di cui i conservatori cattolici formavano la base, rivelando chiaramente il suo orientamento di destra. Il partito dell’ordine trionfò nelle elezioni del 1849 e, fallita la resistenza repubblicana, la Restaurazione conservatrice procedette senza ostacoli. Con il colpo di stato del 1851 ed il plebiscito del novembre 1852 Napoleone divenne imperatore dei francesi. Il clero nella grande maggioranza divenne un sostenitore convinto dell’Impero. All’opposizione erano i repubblicani (intellettuali, studenti, operai) ed i legittimisti borbonici ed orleanisti.

Presto però i rapporti tra Chiesa ed impero entrarono in crisi per l’appoggio dato dalla Francia al Piemonte e per la partecipazione, nel 1859, della Francia alla guerra contro l’Austria. Napoleone fu accusato di essere divenuto complice della Rivoluzione.

A questo punto, per l’aspetto storico, possiamo arrestarci perché alla nostra esposizione interessa in modo particolare l’atteggiamento del clero durante la restaurazione e l’atteggiamento di Colin, nello stesso periodo, nel corso della predicazione delle missioni e poi in generale.

Le realizzazioni missionarie della Società ai tempi di Colin

Le missioni popolari, in Francia, avevano una lunga tradizione, famose nel XVII secolo con S. Francesco Régis e S. Vincenzo de’ Paoli e nel secolo XVIII con la Compagnia di Maria fondata da Luigi Grignion de Montfort. Soppresse dai Giacobini durante la Rivoluzione, erano state riprese all’inizio dell’Impero; proibite di nuovo da Napoleone nel 1809, erano state rilanciate durante la Restaurazione. Erano improntate su una organizzazione semplice, fatta di prediche, di messe, di lunghe ore dedicate alle confessioni, di visite alle famiglie, regolarizzazione dei matrimoni, visite ai lontani.

La rivoluzione aveva lasciato delle ferite profonde; la tentazione piuttosto forte, nel clero, era quella di ritornare all’alleanza tra trono ed altare e ad una sottomissione della gente al clero, alla Chiesa. Abbiamo visto in precedenza quale fosse in generale l’atteggiamento del clero in questo arco di tempo. Erano frequenti, soprattutto nelle missioni cittadine fino al 1822, le eventualità di incontrare predicatori apocalittici che minacciavano castighi terribili. La Rivoluzione andava denunciata. Il Difensore della Chiesa era il Re; Dio doveva tornare, in mezzo al popolo, in modo trionfale. Di qui la necessità di pentirsi, di convertirsi. Di qui ancora i roghi di libri considerati pericolosi, l’erezione della Croce al posto dell’albero della Libertà ed altre cerimonie del genere. Il tutto accompagnato sempre dal tuonare di prediche roboanti, retoriche, piene di una mentalità di conquista; cerimonie fastose per impressionare, o cariche di emotività per eccitare al pentimento; palese ed eccessivo l’appoggio delle autorità civili e militari. Ed ancora: ingerenze in questioni di carattere familiare o in questioni derivate dall’acquisto illegittimo di beni ecclesiastici.

Spesso appariva in modo troppo evidente che la causa di Dio finiva per coincidere con quella del regime borbonico, anche se l’intenzione base era quella di evangelizzare. Atteggiamenti esagerati, soprattutto nelle città; diffusi, ma non molto, nelle campagne, dove tutto si svolgeva in modo più discreto.

Certamente dopo la caduta di Napoleone I, i primi dieci anni di rievangelizzazione missionaria furono caratterizzati da eccessi. A partire però dal 1824, un po’ dappertutto, ma in particolare nelle campagne, furono svolte missioni più semplici, meno politicizzate.

Ristabilite antiche diocesi, rivisti i confini di altre, create delle nuove circoscrizioni ecclesiastiche; in questo riordinamento generale fu smembrato dal territorio di Lione quello della diocesi di Belley, nella quale il territorio montagnoso del Bugey aveva risentito gravemente della rivoluzione, per il fatto di essere periferico[4], per avere avuto del clero spesso non adatto ai propri doveri[5].

Il nuovo vescovo, mons. Devie, promosse presto un intenso lavoro di rievangelizzazione; al gruppetto dei primi maristi affidò proprio il Bugey. Qui si poteva predicare soltanto d’inverno, perché nelle altre stagioni la popolazione era impegnata con l’agricoltura e la pastorizia.

In accordo con il vescovo, Colin e i suoi si misero al lavoro, prima facendo accettare le missioni ai parroci con tatto e delicatezza[6], poi evitando forme di eccessivo rigorismo morale nei confronti della popolazione ed anche ogni forma di rimprovero troppo forte o di minaccia morale che potessero offendere o impaurire. Totalmente assente ogni traccia del metodo delle missioni «stile restaurazione»[7].

Furono missioni faticose, per il molto lavoro, per il freddo, per la frequente mancanza delle più elementari comodità[8], piene di gioia a causa dell’entusiasmo dei padri ed anche dei risultati. E così Jean Claude Colin, Etienne Déclas, Antoine Jallon, Jean Marie Humbert si misero al lavoro in queste missioni che in modo decisivo contribuirono a formare la spiritualità e la prassi marista.

Dal 1825 al 1829 predicarono a La Balme, sulle montagne dell’Ain, nella vallata del Val, sul massiccio del Mollard de Don, sempre sul massiccio del Mollard (versante del Rodano), nel bacino di Belley, in Valromey. Scorrono i nomi della saga marista: Izenave, Corlier, Poncieux, Châtillon de Comeille, Aranc, Contrevox, Lompnaz, Briord e così via. Luoghi che ogni marista dovrebbe percorrere in pellegrinaggio filiale ed attento.

Puntavano all’essenziale: l’istruzione religiosa e la conversione, rispettosi dei parroci di cui si accattivavano presto la benevolenza, rispettosi della popolazione, iniziavano con i piccoli disarmando presto ogni prevenzione nel mondo degli adulti[9], sempre evitando ogni solennità inutile.

Puntavano molto nella predicazione sulla misericordia di Dio in primo luogo, poi sui comandamenti, sui contenuti della fede. Niente politica, molto contenuto catechistico, nessuna affermazione roboante o esagerazione in genere. Varie cerimonie costellavano il periodo che andava da due settimane ad un mese: messa dei defunti, processione al cimitero, consacrazione dei piccoli a Maria, l’Ammenda onorevole, la rinnovazione delle promesse battesimali e così via. Ampio spazio era dato alle confessioni; certo la prassi del tempo era dominata dal rigorismo, ma sembra che i maristi abbiano fatto il possibile per evitarlo[10], almeno da un certo tempo in avanti.

Quale importanza ha per noi il ricordo di queste missioni? Esse testimoniano la validità di un apostolato semplice e nascosto ed il bene che scaturisce da esso. E una memoria a cui occorre tornare per rafforzare o ritrovare uno stile di missionarietà vissuta con spirito di povertà, di adattamento, al servizio della Chiesa.

Per avere un quadro più ampio delle realizzazioni missionarie della società, per la quale vale sempre l’enunciato del P. Coste: «La Società non è nata per un lavoro specifico ma in relazione ad una doppia referenza: mistica e apostolica»[11], bisogna ora evidenziare in quali altre direzioni si mossero queste realizzazioni:

a) l’epopea delle missioni Oceaniane sulle quali torneremo più avanti;

b) le residenze che oggi possono apparire qualcosa di statico, erano allora case per missionari, per predicatori o, come Puylata, promotrici di iniziative di avanguardia: gli incontri nelle famiglie[12]. Queste case nacquero per motivi diversi e furono, normalmente, a disposizione per diverse forme di servizio: predicazioni per la Quaresima o per l’Avvento, aiuto durante la celebrazione dei giubilei, predicazione di ritiri al clero e alle comunità religiose, collaborazione con le altre congregazioni per la predicazione di missioni nelle grandi città, impegno per la catechesi, assistenza ai carcerati a Lione e Tolone, ai mendicanti a Lione, assistenza nelle opere sociali dei muratori a Lione, degli apprendisti a Valenciennes[13], assistenza ecclesiastica a confraternite, a pie associazioni;

c) altre importanti forme di servizio pastorale furono i centri di pellegrinaggio, dove la casa dei religiosi era anche residenza dei missionari e dove si predicavano cicli di esercizi spirituali;

d) ma non vorrei chiudere questa parte avendo dimenticato gli sforzi di penetrazione missionaria degli anni 18381839 nella Charente, sudovest della Francia, dove una crisi generale aveva creato una situazione religiosa molto difficile; e poi a Cognac, in modo specifico. Fu un lento coraggioso apostolato itinerante di P. Pierre Convers, di villaggio in villaggio, di piazza in piazza, di polemica in polemica, lungo le strade; né vorrei dimenticare la missione di Spitalfieids a Londra nel 1850, un quartiere di poverissimi immigrati[14].

Cosa emerge da quanto sopra per la nostra vita?

a) La scelta di un lavoro generoso ma semplice che non permette di farsi un nome.

b) Un’attenzione viva ai tempi.

c) Uno stile: agire come e con Maria, in silenzio, servendo.

In sintesi: in una difficile epoca di passaggio, un lavoro molto comune svolto per convinzione di fede e con rispetto della nuova sensibilità del tempo.

Franco Gioannetti

Note

[1] Jean Coste, Corso di storia della Società di Maria, Roma, 1984, p. 202.
[2] Vedi in proposito Fr. Gabriele Andreucci, F.M.S.; manoscritto: «Trovare l’unità della propria vita, riguardante la spiritualità dei fratelli maristi». Archivio Prov. Italiana F.M.S.
[3] Costituzione dogmatica sulla Chiesa: Lumen Gentium, n. 44; Decreto sul Rinnovamento della Vita Religiosa: Perfectae caritatis, n. 1 [documenti citati d’ora in poi LG e PC].
[4] J. Coste, Corso, pp. 6972; Jean Coste & Gaston Lessard, Origines Maristes, Rome, voi. 2, doc. 665, e. 3, p. 499. [i quattro volumi di quest’opera vengono citati d’ora in poi con le sigle OM1, OM2, OM3, OM4, con aggiunto del numero del documento e del capoverso].
[5] OM4, doc. 581, additions: m, p. 385; doc. 605, e. 6, p. 417.
[6] OM2, 665: 4-5.
[7] OM2, 581: 1-20; 661: 2.
[8] OM2, 581:22; 662:1-2; 639.
[9] OM2, 581:6-9..
[10] OM2,516:5;675.
[11] J. Coste, Corso, p. 202; vedi OM2, 718: 5; 750: 5.
[12] Jean Jeantin, Le très révérend Pére Colin, Imprimerie Emmanuel Vitte, Lyon, 1895, t. 2, pp. 6973 (opera citata d’ora in poi Jeantin, T.R.P. Colin).
[13] Jean Coste (ed.). Parole di un fondatore. Rome, [s.d.], 18: 3 [opera qui citata con la sigla ES, con aggiunto il numero del documento e del paragrafo].
[14] J. Coste, Corso, p. 213-214.

Letto 2712 volte Ultima modifica il Venerdì, 01 Luglio 2011 19:25
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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