Vita nello Spirito

Martedì, 31 Maggio 2011 22:43

L’opera dello Spirito (Soeur Isabelle, o.p.)

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Che cosa è la vita spirituale? I cristiani rispondono: la vita nello Spirito. Ma che cosa significa questo in un tempo in cui altri parlano sinceramente di “spiritualità senza Dio”? Che cosa ci dice lo Spirito di se stesso nel Vangelo?

Gv 16,5.11:

 

Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato.

L’opera dello Spirito

di Soeur Isabelle, o.p.

Che cosa è la vita spirituale? I cristiani rispondono: la vita nello Spirito. Ma che cosa significa questo in un tempo in cui altri parlano sinceramente di “spiritualità senza Dio”? Che cosa ci dice lo Spirito di se stesso nel Vangelo?

Questa pericope del Vangelo secondo san Giovanni ci presenta lo Spirito in un momento decisivo: le ultime parole di Gesù ai suoi discepoli prima della sua Passione e della sua Risurrezione (capitoli 13-17). In precedenza Gesù aveva parlato poco dello Spirito e sempre in privato,a una o a poche persone. A Nicodemo: nascere dallo Spirito (Gv 3,5-8); alla Samaritana: adorare in Spirito (Gv 4,25-26); ai rari discepoli che rimangono con lui dopo il discorso sul Pane di vita: comprendere nello Spirito le parole di Gesù (Gv 6). In questa ultima cena si ritrova l’intimità di Gesù e dei suoi. Lo Spirito si annuncia nella discrezione, perché è attore di una trasformazione interiore. Secondo la profezia di Gioele (3,1) si aspettava che lo Spirito fosse effuso “su ogni uomo”: lo sarà, ma per quella via unica che è, per ciascuno, la sua relazione personale con Gesù Figlio di Dio.

Dio: quale presenza?

 

Ma la venuta dello Spirito sembra avere un prezzo alto: la partenza di Gesù. “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore” (v. 7). L’uno caccerebbe l’altro?... La morte avrebbe allora un potere: non su Gesù, ma sulla sua presenza agli uomini, che si farebbe più lontana. Una volta risuscitato, sederebbe presso il Padre e lascerebbe che lo Spirito si occupi di noi. Ma lo Spirito consolatore avrebbe un gran da fare, paradossalmente, per consolare della perdita di Gesù, e la tristezza dei discepoli sarebbe ancora oggi la nostra. Ora questo paradosso ci ammaestra facendoci entrare nella relazione del Padre e del Figlio.

Nel Vangelo nessuna delle tre Persone si presenta da sé: sono sempre presentate da un’altra. E questo già dice molto. Così il Figlio non si proclama Dio davanti agli uomini, ma il Padre testimonia per lui (Gv 8,17-18), attira a lui (Gv 6,65), lo esaudisce (Gv 11, 41-42). I miracoli non vogliono convincere con la loro straordinarietà ma vogliono dire l’identità del Figlio: essere l’inviato del Padre, colui che non possiede nulla da sé, ma tutto da lui, minuto per minuto, senza alcuna separazione. Il Figlio non è un semplice delegato: egli porta e dona la Presenza attuale del padre. Proprio in questo Dio è diverso da noi: noi non abbiamo l’esperienza di un legame così profondo con una persona che possa assicurare per noi la sua presenza reale al di là del tempo e dello spazio. Quando amiamo una persona, essa ci “abita”; ma ne sentiamo ancora di più l’assenza.Il nostro amore non riesce a provocare la sua piena presenza qui e ora.

Nulla di simile in Dio. Per questo la chiave della partenza di Gesù si trova nel verbo “mandare”: “quando me ne sarò andato, ve lo manderò” (v. 7). Fino ad allora era il Padre che mandava e Gesù era l’Inviato. Qui Gesù diviene colui che manda a sua volta  e lo Spirito è l’Inviato. Non sostituisce Gesù ma porta la sua presenza, come Gesù porta la presenza del Padre. Egli rimane l’unico che sia inviato dal Figlio, perché nel vangelo di Giovanni non si trova la scena dell’invio dei discepoli in missione durante il ministero di Gesù. Bisogna aspettare il capitolo 20, dopo la risurrezione, per sentire Gesù dire: “Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi” (20,21). Soltanto il Risorto può inviare, perché l’invio non consiste nel fare qualche cosa, ma nel ricevere lo Spirito: “alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo».” Lo Spirito comunica loro la sua propria condizione di Inviato; li rende capaci di portare a loro volta la Presenza del Padre e del Figlio. L’unica consegna è allora di rimettere i peccati: di eliminare ciò che rende insensibili alla Presenza di Dio.

Un dispiegamento che sposta

 

Con la venuta dello Spirito non c’è dunque né cambiamento di regime nella vita di alleanza con Dio, né cambio di alleato. C’è dispiegamento: le tre Persone divine si rivelano presenti insieme. Ciò richiede uno spostamento da parte dei discepoli. Un primo spostamento era stato provocato, nel vangelo, dalle parole e dagli atti di Gesù: il Dio che egli rivela fa cadere le rappresentazioni che se ne aveva e alle quali si teneva, per sicurezza o per interesse. Le aspre discussioni di Gesù con i suoi interlocutori mostrano che questo spostamento non è facile a operarsi. .

L’invio dello Spirito richiede uno spostamento non inferiore: è di nuovo la perdita di una immagine – quella di una certa relazione con Gesù – per entrare nella realtà che essa designava, quella che è migliore: “è bene per voi che io me ne vada”. Se non si vede più davanti a sé Gesù è che in qualche modo si è entrati in lui; entrati nella vita del Figlio Diletto, la vita dei figli di Dio. Dall’interno non si vede come dall’esterno. È tutta la differenza che c’è tra guardare una casa dal di fuori  e trovarsi ad abitare in questa casa. Una casa è fatta per essere abitata e Dio per essere partecipato, come dicono bene i Padri della Chiesa. “Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga Dio” (S. Atanasio). Bisogna dunque rinunciare a restare spettatori per diventare noi stessi dimora di Dio. Lasciare che il nostro essere si modifichi sotto la sua azione. Non è una novità, ma un dono che ci è fatto fin dall’origine e che è indicato fin dall’inizio del vangelo; “A quanti l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Lo Spirito insomma non fa che rivelare e attivare questa capacità donata a ciascuno, se lo vuole. Ma bisogna operare lo spostamento verso l’interno di sé: Maestro Eckhart: dice in un sermone che noi siamo come un uomo che abbia in cantina un vino eccellente e non vada mai a spillarlo per berlo...

Il lavoro dello Spirito

 

Se lo Spirito non sostituisce Gesù, la sua venuta produce un effetto specifico: confondere il mondo(v. 8) mostrando come è giusta la causa di Gesù: in lui è proprio il vero Dio che è venuto a noi. E lo Spirito lo dimostra senza accusa e senza violenza; il mondo è semplicemente posto davanti a ciò che è, la sovranità del Crocifisso: “i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito” (Is 52,15). Certo, l’evidenza della tomba vuota sarà interpretata in modi diversi dagli uni e dagli altri; ma il segno rimane, posto là tranquillamente, in attesa che lo si voglia riconoscere. Pensiamo alla testarda dichiarazione del vecchio cieco nato davanti ai suoi contradditori: “Se [Gesù che l’ha guarito] sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo” (Gv 9,25).

Il mondo degli uomini

 

Il “mondo” per san Giovanni rappresenta non il mondo degli uomini, poiché Dio si dona tutto intero a suo favore; ma ciò che in questo mondo rifiuta la venuta di Dio per basarsi soltanto su di sé – cosa che equivale a girare su se stessi: io sono per me la mia origine e la mia fine. Lo Spirito confonde il mondo dall’interno, ognuno dei nostri mondi interiori a uno a uno. Come fa? Mostrandoci tre cose nella loro vera luce: il peccato, la giustizia, il giudizio.

Il peccato

 

Il peccato “perché non credono in me”. Non si tratta soltanto di affermare l’identità divina di Gesù, ma di mettere in lui la propria fiducia. “Tu credi che  c'è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano!” (Gc 2,19). La vera natura del peccato è di dubitare dell’amore di Dio (Gen 3,1-7); e tutta l’opera di Dio è di mostrare agli uomini che il suo amore è sincero. “Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Il peccato porta a evitare lo sguardo di Dio; a diffidarne, nel senso etimologico della parola. Dopo di questo più nulla è comprensibile nella religione, nella più bella religione che possa esistere, poiché essa è fatta per esprimere la relazione dell’uomo con Dio. Il peccato non è dunque la trasgressione di una legge, questo sarebbe più facile perché si potrebbe fare questo o quello per essere di nuovo a posto. E eventualmente accusare il vicino per rassicurarsi. Dio non parla di peccato che per assolverlo e non per accusare qualcuno. La salvezza arriva quando si può di nuovo incrociare il suo sguardo d’amore: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37).

La giustizia

 

La giustizia  “perché vado dal Padre”. La giustizia viene dalla fede-fiducia e per questo viene qui al secondo posto: Gesù Cristo è il Giusto perché ha mantenuto intatto il suo legame con il Padre senza mai metterlo in dubbio, nonostante la morte. È confermato dalla Risurrezione e l’Ascensione: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Questo movimento traduce un atteggiamento permanente: il Figlio va continuamente verso il Padre, è continuamente rivolto verso di lui (Gv 1,2). La nostra giustizia sarebbe di entrare a nostra volta in questo movimento di filiazione, in questi sentimenti del Figlio, in questa ascensione filiale ogni giorno. Non avremmo bisogno allora di affaticarci  a giustificare noi stessi. Appoggiandoci sul Padre smetteremmo di crederei di essere la nostra propria origine – così fragile, poi! – non avremmo più paura e non sentiremmo più il bisogno di metterci in concorrenza con gli altri. Saremmo  messi nel giusto mediante l’amore alle persone e alle situazioni.

Il giudizio

 

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare non siamo noi a essere giudicati da Dio. Il solo che sarà giudicato è il Principe di questo mondo, il Diavolo; e il suo giudizio consiste nell’essere gettato fuori (Gv 12,31) dalla vittoria del Risorto sulla morte. Fuori dalla casa di Dio: fuori da ciascuno di noi. Lo Spirito fa apparire la fine di ogni fatalità: non siamo più sottoposti a forze anonime e incontrollabili che ci abiterebbero  o ci sovrasterebbero. Noi passiamo talora dalla parte del male e della negazione della vita; ma possiamo ritornarne, purché non ci condanniamo da soli. Ora l’esperienza mostra che accettare la libertà di questo non-giudizio su di sé non è facile. Occorre quel Difensore che è lo Spirito: egli apre di nuovo i nostri occhi sulla nostra condizione di figlio di Dio che rimane per sempre nella sua casa (Gv 8,35).

Il compito dello Spirito, infine, è semplice: mettere in luce, ai nostri stessi occhi, la dignità di figli di Dio che è la nostra e che ci è aperta definitivamente dal Figlio venuto nella carne, morto e risorto per noi.

 

(da La Vie spirituelle, n. 771, luglio 2007, p. 295)

Letto 5654 volte Ultima modifica il Giovedì, 12 Aprile 2012 19:31
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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