II - LA SPIRITUALITÀ SORGE DALLA CONTEMPLAZIONE DELLA TRINITÀ
La salvezza è presentata da sant'Ireneo di Lione come comunione con Dio (20).
Noi siamo stati creati ad immagine di Dio che si è rivelato Padre nel Figlio, mentre il Figlio si è rivelato nell'Incarnazione tramite lo Spirito. La Trinità insomma ci è rivelata nella storia come relazione. Vice versa, la relazione dal punto di vista cristiano è l'ambito della rivelazione della verità della vita divina: chi ama è da Dio. "La nostra comunione è con il Padre e col Figlio suo Gesù Cristo" (1Gv 1,3).
Dalla contemplazione della Trinità, scopriamo che la comunione è un dono divino, è una realtà divina che include l'umanità nel suo mistero.
Non si può ridurre dunque la relazione alla sua componente sociale o psicologica. L'essere umano è chiamato alla relazione, per vocazione all'origine e per redenzione escatologica.
San Basilio, vescovo e padre della Chiesa, colonna della teologia trinitaria e della tradizione monastica, non voleva farsi monaco. Anzi la parola stessa "monaco" gli sembra inappropriata e la usa raramente nei suoi scritti. Aveva visto vivere i famosi monaci nel deserto siriano ed era rimasto scandalizzato dal fatto che la grande ascesi di una persona può non portare frutti positivi per la comunità per vari motivi. Le stranezze eroiche inorgogliscono chi le compie e scoraggiano chi è debole. Nell'ascesi può mancare la carità. Le mortificazioni possono essere ammirevoli, ma lo scopo della vita cristiana non è l'abnegazione, non è la fuga della vita con gli altri perché questo significa la morte.
Ora, una osservazione interessante: ci si aspetterebbe di trovare in Basilio qualche trattato sull'uomo come essere sociale o un trattato sulla Trinità. Ma Basilio scrive un trattato Sullo Spirito Santo e un opera, "Le regole", sulla vita monastica. La testimonianza di san Basilio è chiara: alla fine del IV secolo questo santo vescovo comprende che bisogna trasmettere alle generazioni future che lo specifico della novità cristiana è il legame che intercorre tra la vita dello Spirito Santo, vita filiale ricevuta al battesimo e la vita insieme come fratelli manifestata nella carità. La vita monastica sì è possibile, ma solo nello Spirito Santo che ci è stato dato (cfr. Rm 5,5). Senza lo Spirito Santo, la vita comunitaria è una pensione o... un "manicomio". Non è possibile realizzare la propria vocazione ad una vita divina senza lo Spirito Santo.
Una osservazione giusta potrebbe portarci a dubitare del fatto che noi come essere umani possiamo imitare la vita della santissima Trinità. Le Divine Persone sono perfette. Noi persone umane, non lo siamo. Facile fare comunità quando se si è divini! Come facciamo ad imitare la Trinità se siamo imperfetti?
Infatti, la Trinità non è per noi semplicemente un modello: la fede ci dice qualcosa di molto più profondo. Noi siamo partecipi della stessa vita. Dio ci ha fatto "dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e le pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina" (2Pt 1,3-4).
Essere partecipe significa essere invitato, essere dentro alla stessa realtà. Noi non soltanto contempliamo per poi mettere in atto. Noi partecipiamo della stessa vita, cioè della stessa comunione, della stessa santità, dello stesso amore, perché tramite il dono della chiamata (vocazione) siamo inclusi in quella relazione che c'è tra i Tre. Non siamo davanti ad un modello, ma viviamo della stessa vita divina. O non viviamo, cioè siamo morti per mancanza di partecipazione.
Ci fermiamo ora a capire a quali beni della vita trinitaria partecipiamo.
Perché parliamo di mistero della Trinità? Perché ci sconvolge come inaccessibile la verità dell'uguale natura nella trinità delle Persone. Uguali e diversi. Uguali nell'essere Dio, diversi nell'essere Persone.
L'uguaglianza nella diversità è un mistero. Quale dinamismo la rende possibile? Ogni Persona divina dà all'altro tutto ciò che è: il Padre dà tutto al Figlio, ma non rimane vuoto, perché immediatamente riempito dal tutto divino che è il Figlio, e il Figlio che da tutto, è riempito (per così dire) dal dono del Padre che si dà tutto al Figlio, e così lo Spirito si versa in uno e nell'altro ed è la gioia piena dell'amore del Padre e del Figlio.
Se con "pietà" ci avviciniamo a questo mistero e lo esprimiamo con timore, potremmo dire: nella Trinità il più grande mistero dell'uguaglianza è che ogni Persona divina si dà totalmente, 100% potremmo dire di quello che è. L'uguaglianza è fondata su quanto diamo, non su quanto riceviamo. La grandezza è dell'ordine del dono. Più uno dà, più è. Se uno dà tutto, allora è divino. Soltanto Dio può dare tutto e rimanere Dio perché è amore di relazione, di comunione fra Tre Persone, ognuna che si dà tutta, ognuna che accoglie la pienezza dall'altra. L'uguaglianza è fondata sulla stessa misura del dare, completamente. La diversità è fondata sul dare a modo personale: Il Figlio dà completamente secondo la modalità di chi è Figlio, non secondo la modalità del Padre. Così i teologi hanno usato parole diverse di relazione per parlare del dono fra le Persone divine: il Padre dà generando, il Figlio dà essendo generato, lo Spirito si dà procedendo. Cose difficili della teologia ma così belle da contemplare!
Applicato alla nostra partecipazione alla vita divina, possiamo affermare che anche per l'uomo immagine di Dio, il dono caratterizza la grandezza della persona, la libertà con la quale aderisce al dono di Dio caratterizza la santità. Maria accoglie la pienezza della grazia. Risponde con la pienezza del suo sì dandosi a disposizione della Parola.
C'è dunque un legame tra la vita della Trinità e la persona umana: vive nella misura in cui si dona, è grande della misura del suo dono, la sua statura è la misura di Cristo.
Questa verità della persona umana è il fondamento della vita di comunità. Perciò per Basilio, la grandezza dell'uomo, in ultima istanza, il suo essere immagine di Dio si vede nella vita di comunità (nella vita cenobitica e non nella vita eremitica). Perché nella comunità è sollecitato a dare, lì è chiamato a misurare la sua personalità in base a ciò che dona e non in base a ciò che riceve.
Questo rappresenta una vera rivoluzione per la mentalità del mondo in cui si afferma che tanto hai, tanto vali. L'affermazione di fede sarebbe all'opposto: tanto dai, tanto sei.
La comunità è l'ambito in cui si realizza questa vocazione ad essere nella misura del dono. Perché in principio è il dono e la sua chiamata a rispondere al dono con il dono di sé. Dio è amore. Il dono, la fede, la carità.
La vita religiosa non può dirsi con altre categorie!
Proviamo ad indicare alcune implicazioni.
Prima constatazione: la comunità esiste a motivo di Cristo, è ambito della fede in lui e frutto di un dono accolto. Se la comunità si organizza in modo mondano, cioè in modo tale che nessuno debba mai donare se stesso, allora la comunità nega il suo fondamento, nega la fede e fa regredire a prima di Cristo. Ad immagine della Trinità, la comunità deve rimanere l'ambito in cui come religioso sono sollecitato a dare perché è nella misura del dono che sono e cresco come persona.
Seconda constatazione: i carismi sono valori che passano dalla relazione. È inutile confidare sulla regola applicata. Non è nata così la regola, non è nato così il carisma. La regola è un ricorso, quasi un indice di perdita del carisma, una possibile custodia in casi di decadenza. La legge è un appello in casi di deviazioni. Dio normalmente non obbliga, dialoga. Così per il carisma, esso è vivo nella misura in cui è trasmesso nelle relazioni fra le persone che lo vivono e nella vita lo trasmettono. Molti che si avvicinano alla vita religiosa sono affascinati dai carismi così belli letti alla luce della storia dei fondatori e fondatrici. Poi, visti vivere nelle case delle Congregazioni, appare chiaramente che qualcosa si è spento, non c'è la vitalità dei primi tempi. Invece di cercare nel senso della relazione, si cerca nel senso dello studio delle virgole per ritrovare l'autenticità del carisma, o l'accanimento sui paragrafi per riscrivere le Costituzioni. Rimarranno lettere morte. Per arricchire l'archivio. Le vocazioni non arrivano perché le Costituzioni sono rimesse a nuovo, ma se ci sono persone vive che ispirano fiducia per il carisma e ispirano fascino per il dono di sé.
Ci dimentichiamo che nella storia del popolo eletto, la legge è venuta dopo il peccato. Se il carisma è vero, come abbiamo appena detto della Trinità, il carisma vive della relazione.
Terza constatazione: c'è un legame tra lo scopo della vita umana (la partecipazione alla vita Trinitaria), e il mezzo per partecipare a tale scopo (le relazioni). La tentazione nella vita religiosa è di ricercare lo scopo con mezzi impropri allo scopo. Non è una tentazione da sottovalutare. Dostoevskij, nella famosa "Leggenda del Grande Inquisitore" pone la domanda della libertà: Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi. Ma la libertà ci porta a peccare. Non sarebbe meglio togliere la libertà, non peccare più, e così arrivare meglio a Cristo? Il rapporto tra scopo e mezzo è difficile da vivere, ma Dio per primo ha manifestato di tenere a questa coerenza. "Scenda dalla croce e ci salvi". La salvezza sarebbe lo scopo, il mezzo sbagliato sarebbe scendere dalla croce. Perché l'amore (la salvezza) ci è comunicata con il mezzo dell'amore (la croce), la libertà (aderire alla manifestazione dell'amore) con la libertà (offrire la propria vita).
Quarta constatazione: le relazioni crocifiggono. Solo ora possiamo parlare del significato e dell'alta sapienza della croce: la croce è lo splendore della comunione e della vocazione! Nella Cappella Redemptoris Mater sulla parete della parusia si vedono personaggi risorgere uscendo da una terra di luce. Tutti i risorti sono tutti segnati con le stigmate. Tutti. Come mai? Non sono tutti martiri. Eppure, il senso è profondo. Chiunque accoglie Cristo e aderisce al Vangelo, prima o poi deve rinunciare al suo "ego" e crocifiggere "la carne dell'autosalvezza". Se si sceglie di amare, a un certo momento bisognerà entrare nella logica del dono totale di sé per fare vincere l'Amore. Dare tutto a motivo dell'amore è perdere la vita per amore, spesso questo è chiesto nella vita quotidiana per niente "eroica". Alla risurrezione si manifestano le ferite dell'amore, come per i martiri, la gloria del cristiano sarà solo di aver partecipato all'amore e di aver sofferto per amore. Quelli che risorgono indicano il mistero della "sofferenza trasfigurata (come) via di salvezza" (Cfr. N. Berdiaev, Dialectique existentielle di divin et de l'humain, Paris, 1947, p. 100.)
"La testimonianza dei martiri attesta come la vita non sia la sopravvivenza biologica, ma la relazione con Cristo; per tale ragione quando il dilemma si pone, si sacrifica la sopravvivenza a favore della relazione" (Ch. Yannaras, Ortodossia e occidente nella Grecia moderna, Atene 1992, p. 173.)
Il sacrificio di sé non è a causa della cattiveria dell'altro. È a causa della logica dell'amore. Anche se l'altro fosse la persona migliore del mondo, ad un certo momento il trono dell'Io diventa troppo stretto per due!
Organizzare la vita della comunità senza che nessuno mai abbia da fare un sacrificio significa praticamente organizzare una comunità di egoisti e di piccoli Erode, pronti a ordinare la strage degli innocenti.
Lo Spirito Santo ci può convincere che chi perde la vita a causa dell'amore, la troverà, chi rinuncia ad aver ragione a motivo dell'amore, troverò la strada della verità nella carità.
Conclusione
Sappiamo che vi è stato nella nostra teologia latina come un "esilio della Trinità" (espressione di Bruno Forte). E che il primo trattato accademico sulla Trinità è del 1979, scritto da Yves Congar (con il titolo Credo nello Spirito Santo).
Questi "argomenti" decisivi non hanno molto inciso sulla l'identità della vita religiosa nei secoli scorsi.
Vuol dire che la vita religiosa, la spiritualità della comunione non hanno attinto nel passato come prima fonte alla teologia dello Spirito Santo o alla teologia della Trinità.
Non c'è da meravigliarsi se la psicologia ha più forza della spiritualità e se la sociologia ha più idee della pastorale.
Senza una spiritualità della Trinità, senza una familiarità con la Persona divina che è lo Spirito Santo, la vita religiosa non è "ecclesiale", è una solitudine a più voci, voci strillanti di gelosi, di golosi, di frustrati, di ipocriti. E la comunità è un'organizzazione di beneficenza, dove c'è lotta di potere tra persone, rivalità e contrabbanda di sentimenti, di valori e di favori. La Chiesa è un "essere-insieme" e non essere uno accanto all'altro, neanche con la qualifica di consacrato. Siamo insieme "come umanità intera riconciliata per mezzo della Croce di Cristo (21) e che lo testimonia con una vita coerente.
Koinonia è una parola che indica che la vita di comunità ha a che fare con ciò che la teologia riflette intorno alla comunione trinitaria. Fraternità/comunità è la versione storica, umana, incarnata della comunione che è una realtà divina. Se grazie alla comunione con Dio siamo figli, per l'incarnazione di questa comunione siamo chiamati a vivere da fratelli. Non c'è fraternità vivibile se non c'è comunione con Dio, e vice versa, non c'è comunione vera con Dio se non nella manifestazione della fraternità.
"La comunione fra il Padre e il Figlio è fondamento della comunione tra Cristo e gli apostoli, e la comunione fra i fratelli è la comunione visibile come Chiesa: laddove questa comunione manca, perché si stacca dalla dottrina tramandata dagli Apostoli, oppure il comportamento morale è contrario alla carità e ai costumi evangelici, vuol dire che non c'è più nemmeno la comunione con Dio"(22).
Ma senza lo Spirito Santo dove troveremo la forza di contrastare le forze di egoismo e di morte che ci legano al mondo? Senza la Trinità dove orienteremo la grande nostalgia di unità, di diversità, di creatività? Pavel Florensky ha osato dire "o la Santissima Trinità o la follia".
Molti teologi cattolici, fra cui il domenicano Yves Congar hanno sottolineato l'incidenza di una considerazione attiva dello Spirito sul modo di vivere la chiesa, la sua vita e quella dei suoi membri". (Yves Congar, Attualità della pneumatologia, in Il Regno/documenti 9/82, p. 297). L'approfondimento della pneumatologia ha permesso di riscoprire l'ecclesiologia di comunione. "La Chiesa è sì il corpo di Cristo e la sua sposa, ma essa non è solo la Chiesa del Verbo incarnato. La sua sacramentalità dipende dalla Pentecoste ... Non nel senso che siano state rese pubbliche la sua esistenza e la sua missione. A Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la sua animazione. È lo Spirito che infonde la vita nelle strutture di salvezza create dal Cristo... Soltanto tramite l'opera dello Spirito la Chiesa è sacramento di salvezza... Ecco perché l'ecclesiologia esige una pneumatologia. Ecco inoltre perché ogni operazione compiuta nella e per mezzo della Chiesa, esige, in un modo o in un altro, una epiclesi: una invocazione dello Spirito Santo". (Y. Congar, Un popolo messianico, Brescia, 1976, p. 39).
At 2,44 e 4,32 fa notare come avere un cuore solo ed un'anima sola significhi non è un'idea astratta di comunione la comunione con Dio si verifica in un modus vivendi (la carità) e una forma mentis (eucaristia) propriamente cristiani che potrà essere credibile e riconoscibile.
Così, la comunione eucaristica è uno dei gesti in cui il cristiano manifesta l'originalità della sua fede: la certezza di una relazione vitale e concreta con il Signore.
Il teologo e vescovo ortodosso Zizioulas scrive: «Non ci può essere piena comunione senza comunione nella vita sacramentale della chiesa, e soprattutto nell'Eucaristia. Piena comunione significa in primo luogo comunione eucaristica, poiché l'Eucaristia è la ricapitolazione di tutta l'economia della salvezza, dove si uniscono passato, presente e futuro e dove si realizza la comunione con la Santa Trinità e con le restanti chiese, nonché con la creazione. Il Battesimo, la Cresima, o Confermazione, e gli altri sacramenti sono tutti impartiti in vista dell'Eucaristia. La comunione in questi sacramenti può essere descritta come parziale o anticipatoria, in quanto il suo compimento richiede l'Eucaristia. Non a caso, in molte lingue, incluso il greco moderno, koinonia o comunione è un sinonimo di partecipazione all'Eucaristia» (23).
In conclusione di questa parte possiamo enunciare «tre principi fondamentali della vita e dell'esperienza cristiana come comunione:
Il principio cristologico: dal momento che la Vita si è resa visibile, ogni conoscenza di Dio e comunione con lui passa attraverso Gesù.
Il principio ecclesiale: non vi è comunione con Gesù Cristo se non attraverso gli apostoli, il loro annuncio e la loro testimonianza, ossia attraverso la Chiesa.
Il principio comunitario. Ogni rapporto autentico con Dio implica la capacità di vivere la koinonia con i fratelli, in una comunità concreta» (24).
La comunione è "davanti a Dio un dovere" afferma Tillard (25) perché corrisponde alla profondità del dono ricevuto e della promessa accolta: la koinonia «è il contenuto stesso della grazia della Salvezza. Per questo motivo non possiamo fare altro che accoglierla nell'adorazione davanti a Dio. Ma per questo stesso motivo ogni situazione che infrange o che rimette in questione la koinonia rappresenta infinitamente di più che un affare istituzionale o giuridico, riguardando così soltanto "l'epidermide". Al contrario si aggredisce la grandezza stessa della grazia di Dio. Si tratta di una colpa contro il dono di Dio» (26). Quando manca la comunione, manca Dio, come quando c'è amore, c'è Dio.
Michelina Tenace
(da una conferenza all'USMI di Milano)
20) Adversus haereses V, 2, 1. SC 153, p. 31.
21) J.M.R. TlLLARD, Carne della Chiesa, Carne di Cristo, Bose 2006, p. 205: La Chiesa di Dio è questa comunità di credenti che non si trovano uno accanto all'altro, ma che, più ancora delle dodici tribù di Israele, formano ciò che gli Atti degli Apostoli descriveranno come un essere-insieme.
22) G. GHIRLANDA, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione. Compendio di diritto ecclesiale, Roma 1990, p. 31.
23) Il Regno documenti 17/1993, p. 531-535.
24) E. BIANCHI, L'amore vince l'odio, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, p. 33-34.
25) Il termine comunione che noi usiamo non traduce esattamente koinonia. E anche per la parola koinonia nella sua applicazione ecclesiologica andrebbero fatte delle distinzioni. Questo non è il tema che trattiamo in questa riflessione. I testi del concilio Vaticano II riportano la parola "comunione" più di cento volte. P. Tillard era convinto che lo che lo studio della comunione "ci porterà a scoprire come unità e pluralismo siano la rifrazione della vita divina nello spessore della realtà umana salvata e, come direbbero i Padri, riportata alla sua identità di immagine e somiglianza del Dio vivente". J.M.R. TILLARD, Ecclésiologie de communion et exigence oecuménique, in «Irenikon» 1986 (2) p. 201-230.
26) J.M.R. TILLARD, Carne della Chiesa, carne di Cristo, Bose 2006, p. 208.
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