RB 44: Come devono soddisfare gli scomunicati
“Colui che per gravi colpe sarà stato scomunicato dall’oratorio e dalla mensa...” È dunque possibile commettere colpe gravi contro la comunità; infatti qui si tratta di colpe contro la comunità e i suoi membri, e perciò san Benedetto prevede che il colpevole sia escluso dalla preghiera e dalla mensa comune.
La comunità è dunque così importante? Qualcuno dei fratelli ha parlato una volta del “tesoro della nostra vita comune”. Si parla molto di comunità e di vita comunitaria. Non c’è oggi in pratica un fratello scomunicato, se non colui che si scomunica da sé. Abbiamo conservato abbastanza il senso della nostra responsabilità personale nei confronti della comunità? Ho abbastanza coscienza della ripercussione del mio atteggiamento sull’insieme? Ho abbastanza coscienza che posso ferire la comunità, arrecarle danno?
In questo capitolo il fratello scomunicato è invitato a un cammino di umiltà che passa attraverso l’umiliazione di prostrarsi con la faccia a terra ai piedi di tutti: soltanto la vera umiltà può riallacciare i vincoli.
Nel libro dei Numeri, al cap. 16-17, la Bibbia racconta la rivolta di Core contro Mosè, la rivolta dell’orgoglioso che prende per sé e si drizza contro il “più mansueto di ogni uomo che è sulla terra” (Num 12,3) come la Scrittura qualifica Mosè. In ogni generazione ritornano l’anima di Mosè e quella di Core. E se una sola volta l’anima di Core si sottomette di buon grado a Mosè, Core sarà salvato. Soltanto quando cede all’umiltà, l’orgoglio è liberato; e soltanto quando esso è liberato può essere liberato il mondo (e la comunità).
Rabbi Bunam così commenta all’assemblea riunita: “Che cosa domando a ciascuno di voi? Tre sole cose; di non sbirciare fuori di sé, di non sbirciare dentro agli altri, e di non pensare a se stessi”, Il che significa: primo, che ciascuno deve custodire e santificare la propria anima nel modo e nel luogo a lui propri, senza invidiare il modo e il luogo degli altri; secondo, che ciascuno deve rispettare il mistero dell’anima del suo simile e astenersi dal penetrarvi con un‘indiscrezione impudente e dall‘utilizzarlo per i propri fini; terzo, che ciascuno deve, nella vita con se stesso e nella vita con il mondo, guardarsi dal prendere se stesso per fine” (da Martin Buber “Il cammino dell‘uomo”).
Certamente in tutto ciò c’è da prendere qualche cosa; e questo, rendendo più vera ed evangelica la nostra vita comune, renderebbe allo stesso tempo più felice ciascuno di noi nel suo interno.
RB 45: La riparazione per gli errori commessi in coro
Errare humanum est.. “È umano sbagliare” all’Ufficio divino o altrove, per negligenza, per distrazione. Riconoscerlo e manifestare con un gesto di umiltà che lo si è riconosciuto è proprio di un comportamento da adulto, in confronto con quello del bambino, per il quale la Regola prevede un castigo corporale.
Può infatti essere un segno di maturità il riconoscere in pace e con semplicità che ci si è sbagliati, senza cercare di nasconderlo ma facendone un’occasione di umiltà.
In ognuno di noi coabitano certamente la parte matura di noi stessi e la parte ancora infantile, che meriterebbe talora una buona bastonata.
Cerchiamo di sviluppare in noi la parte adulta che sa riconoscere i suoi errori e le sue negligenze e “correggersi con un gesto di umiltà. L’etimologia del verbo latino tradotto con “correggere” è “cum - regere” (= mettere dritto - con): “Io mi rimetto dritto con...., io rettifico il mio modo di fare con…”. Se la mia distrazione o la mia negligenza mi ha fatto deviare, il piccolo gesto che lo riconosce e se ne scusa è come una confessione che faccio ai miei fratelli per dir loro: mi rimetto con voi sulla buona strada; sono di nuovo con voi in quel che stiamo vivendo. Per esempio nella lode di Dio. E poi tutte queste piccole occasioni di umiltà sono altrettante occasioni di confessare sia la affidabilità di Dio che, solo lui, non si sbaglia mai e la mia personale fallibilità di uomo e dunque la mia verità davanti a Dio. Tutto può così acquistare senso e rafforzare la nostra unione con Dio e con i fratelli.
RB 46: La riparazione per le altre mancanze
Ecco un fratello che riconosce spontaneamente davanti all’abate e alla comunità di aver deteriorato un oggetto, un utensile, un qualche bene del monastero, qualche cosa che è a servizio di tutti; oppure che chiede perdono di uno scatto di impazienza fatto in pubblico o di aver rifiutato un servizio che poteva rendere.
Ecco un fratello che manifesta al padre spirituale i peccati segreti della sua anima, della sua vita. Due campi molto diversi ma che hanno un punto d’origine comune: la capacità di “dirsi”, di esporre la propria vita da ciò che è più esterno fino a ciò che concerne la vita intima, il foro interno.
Aprire la propria vita, aprire il cuore fa parte dell’esperienza monastica, appartiene alla tradizione dei monaci. Se qualcuno vi si rifiutasse assolutamente o non ne fosse in alcun modo capace potrebbe essere monaco?
Questo infatti ha attinenza con lo stesso voto di conversione, con la trasformazione del cuore di tutto l’essere. Attraverso l’umiltà, il silenzio, l’obbedienza, la preghiera, la disponibilità al servizio, tutta la Regola tende a rendere possibile quel che la Bibbia chiama il cuore spezzato, frantumato, e che la Regola chiama la compunzione del cuore. Un cuore spezzato, contrito, ferito è un cuore aperto e che dunque ha accettato di aprirsi. Infatti non vi si può costringere nessuno: un cuore umano non si apre come si apre un’ostrica...
Ma sarebbe una sorta di perversione della vita monastica se essa chiudesse il cuore e finisse con l’indurirlo. Penso a questo detto del Monte Athos: “Nulla di più temibile nella vita monastica che la durezza e l’aridità del cuore. Perciò i monaci domandano a Dio il DONO delle lacrime perché intenerisca il loro cuore: Sarebbe cosa terribile essere entrato in monastero con un cuore di carne e lasciarlo, nel giorno della morte, con un cuore di pietra; indurito dall’orgoglio, le abitudini, l’indifferenza. I profeti e i santi domandavano continuamente a Dio di cambiare il loro cuore di pietra in cuore di carne”.
Approfittiamo dunque di tutte le occasioni che la vita monastica ci offre di aprire il nostro cuore, preoccupiamoci anche di creare fra noi quel clima di rispetto, di dimenticanza di sé e di fiducia che lo rende possibile.
Un Monaco Benedettino
Chi vuoi imparare a servire, deve prima imparare a tenere se stesso in poco conto. «Nessuno abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere» (Rm 12,3). «Conoscere bene se stessi e imparare a tenersi in poco conto è il massimo compito e quello più utile. Non mettere in luce se stessi, ma avere sempre una buona opinione degli altri, questo è vera sapienza e perfezione (Thomas a Kempis).
Sarà pronto a ritenere la volontà del prossimo più importante e urgente della propria. Che importa se il proprio piano sarà contrastato? Non è meglio servire il prossimo che spuntarla con la propria volontà? Ma non solo la volontà, anche l’onore del prossimo è più importante del mio….. Chi cerca il proprio onore non può cercare Dio. «Non credere di essere progredito un passo nela tua opera di santificazione se non senti profondamente di essere peggiore di tutti gli altri” (Thomas a Kernpis).
D. Bonhoeffer