Vita nello Spirito

Sabato, 05 Luglio 2014 09:55

La preghiera interiore e la sua portata antropologica (Éric De Rus)

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Nulla situa meglio la portata antropologica della preghiera quanto il ricollocare il discorso dei mistici cristiani sulla vita interiore fra i due poli che sono l’origine e la fine ultima dell’uomo.

«La preghiera è la più alta attività
di cui sia capace lo spirito umano»
Edith STEIN

L’amicizia dei mistici costituisce, per chi si interessa alla vita spirituale, una grazia inestimabile. Veri orefici dell’anima, essi ci hanno lasciato degli insegnamenti di una ricchezza inesauribile. Fra di loro santa Teresa d’Avila, alla quale Paolo VI ha conferito il titolo di Dottore della Chiesa in quanto Mater spiritualium – Madre degli spirituali - , come anche Giovanni della Croce, Dottore mistico, sono guide di provata sicurezza sulle vie dell’Amore.
Questi avventurieri dell’interiorità hanno esplorato le vie dell’anima partendo dall’esperienza della preghiera interiore, chiamata anche orazione.
Conviene pertanto ricordare che, se la preghiera interiore interessa la spiritualità, è prima di tutto perché riguarda l’uomo. Proprio questo, raccogliendo in particolare l’eredità preziosa dei dottori del Carmelo, ci suggerisce Edith Stein (santa Teresa Benedetta della Croce) quando dichiara: “La preghiera è la più alta attività di cui sia capace lo spirito umano” (AA, 118) (1).
Una simile affermazione ci invita a illustrare il rapporto essenziale fra spiritualità e antropologia, alla luce della preghiera interiore cristiana.

Il senso dell’uomo e il senso della preghiera

La luce della Parola di Dio

Nulla situa meglio la portata antropologica della preghiera quanto il ricollocare il discorso dei mistici cristiani sulla vita interiore fra i due poli che sono l’origine e la fine ultima dell’uomo.
Se l’atto di vivere può costituire un problema maggiore per il pensiero, è nella misura in cui suscita per l’uomo un interrogativo sul suo destino ultimo, su “per che cosa” vivere, cioè “in vista di che cosa” vivere. Questo interrogativo universale sul senso dell’esistenza, inteso come finalità ultima, i mistici lo hanno accolto con una intensità insuperabile e lo hanno illustrato in maniera luminosa. In questo la loro voce non potrebbe essere trascurata.
Quando si tratta di far chiarezza sulla finalità ultima dell’uomo, il cristiano può, con la sicurezza della fede, volgersi verso la Parola di Dio che fonda la stessa parola dei mistici cristiani.
Da questo incontro fra la Scrittura e l’interrogativo umano emerge una verità a proposito della quale non è possibile alcun equivoco, cioè che l’essere umano è un homo viator, un viaggiatore. Possiamo esprimere ciò con Edith Stein così: “non abbiamo quaggiù una dimora permanente. Più vivamente ne prenderemo coscienza, più ardentemente tenderemo verso la nostra dimora futura ed esulteremo al pensiero che abbiamo diritto di cittadinanza in cielo” (ExC, 277).
In seno a un mondo la cui scena passa (1 Cor 7,13), l’esistenza umana è decifrata dalla fede come un cammino di cui ogni passo è il punto di una unica traiettoria tesa verso un avvenire ultimo che supera l’ordine della temporalità. Così, secondo la parola di san Paolo, “cerchiamo la città futura” (Eb 13,14), perché la via presente prepara l’uomo a entrare un giorno in tutta la sua pienezza in “tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,19).

Vivere nella presenza di Dio

A questo riguardo la Parola di Dio offre “una immagine coerente del mondo” (PP, 1) perché dà luce all’interrogativo sul senso dell’esistenza nell’indissolubile considerazione del principio e della fine: un Dio d’amore ha creato l’uomo e lo chiama a vivere nella sua presenza nell’amore (Ef 1,3-14), a camminare verso una pienezza alla quale è invitato a prendere parte e che costituisce la perfezione della sua propria vita. Tale è la salvezza offerta a tutti gli uomini come una proposta d’amore.
Ciò significa che l’uomo è capace di scoprirsi chiamato dal suo Creatore a entrare in una comunione di vita, di conoscenza e di amore con lui: “è per Se stesso che Dio ha creato le anime umane. La sua volontà è di unirsele e di offrire loro fin da questa vita la pienezza infinita e la beatitudine della propria vita divina, che nessuno può raggiungere con le sole proprie forze. Questa è la meta verso la quale le conduce e verso la quale anche loro devono tendere con tutte le loro forze” (SC, 37).
E questa “vocazione all’unione con Dio “ (EFEE, 498) inseparabile dalla chiamata universale alla santità (vedere LG, 78-86), ognuno è chiamato a incarnarla in un modo assolutamente unico.
Un paragone ci permetterà di mettere in evidenza la necessità di considerare tutte le cose da questo punto di vista più alto che illumina insieme la questione dell’origine radicale e della destinazione ultima dell’uomo.
Come dalla cima l’alpinista può riuscire a valutare tutto il resto e ad apprezzare le tappe del cammino, così dal punto di vista dell’eternità si può valutare il creato nella sua verità. È il testamento dei santi alla sera della vita, condensata nella preziosa confidenza della beata Elisabetta della Trinità: “alla luce dell’eternità l’anima vede le cose dal vero punto di vista; oh! Come tutto quello che non è stato fatto per Dio e con Dio è vuoto! Vi prego. Oh, segnate tutto con il sigillo dell’amore! Non c’è che questo che rimane” (ETL, 333, 790).
Una tale comprensione del senso ultimo dell’esistenza umana non solo fonda, ma addirittura si identifica con il senso della preghiera che non è ordinata che “all’unione dell’uomo con Dio” (2). Per questo possiamo dire che l’orazione riassume la sfida spirituale  di tutta la vita umana. Di qui l’importanza di far luce prima di tutto sulla sua natura, poi sulla sua pratica, per far apparire infine che effettivamente l’orazione ha parte nell’unificazione della persona umana.

La natura dell’orazione

Di per sé e nella sua maggiore semplicità l’orazione deve essere soprattutto “concepita non tanto come un esercizio, ma come una presenza a Dio, insieme oggettiva e interiore, silenziosa e continua, spoglia e spirituale” (EC, 16) (3).
Se tentiamo di scorgere più esattamente la natura dell’orazione diremo che essa non ha senso se non in rapporto alla presenza di Dio. Ma bisogna anche aggiungere che la presenza di Dio di cui si parla nell’orazione si intende come una presenza interiore all’uomo.
Ma sono necessarie alcune precisazioni per afferrare la bellezza di questo mistero della presenza divina. Ne rileveremo tre.

La presenza di immensità

A un primo livello, la teologia cristiana insegna che Dio è presente a tutto ciò che esiste: la pietra, il fiore, l’animale..., cioè a tutto ciò che ha creato, poiché tutto sussiste in lui (Col 1,17) ed è nella sua “divinità [...] che noi abbiamo la vita, il movimento e l’essere” (At 17, 28). Parleremo qui della presenza di immensità, in virtù della quale la creazione può essere considerata come una parola di Dio. Così aprirsi alla bellezza della natura costituisce una maniera di entrare in presenza di Colui che è Fonte di ogni vita, il Creatore di tutti gli esseri, lui che “Posando su di essi il suo sguardo, Con un riflesso del suo volto Li lascia tutti rivestiti della sua bellezza” (CS, 529).
Quanto all’uomo, questa presenza di Dio esprime radicalmente una relazione di dipendenza ontologica. È questo che fonda la possibilità, per l’essere finito la cui volontà per essenza è orientata verso il Bene, di risalire dal suo essere creato a Dio come Essere creatore. L’uomo ottiene così, con la sua ragione, una certa conoscenza del suo Principio e della sua Fine.

L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio

Ma occorre andare oltre ed esaminare un secondo livello relativo all’uomo al quale Dio è presente in una maniera specifica. Infatti solo l’uomo è stato creato a sua immagine e a sua somiglianza (Gen 1,27, cf anche CECA, 33), lui la cui “struttura naturale dell’anima” (EFEE, 443) porta l’impronta della Trinità. Come espressione e pegno di un amore puramente gratuito, Dio ha voluto che fra lui e l’uomo, fra il Creatore e la sua creatura umana, vi sia una connivenza, una parentela, un legame intimo che è già l’opera della grazia (cf ChH, 350 e CJ, 128). La grazia è “ciò che unisce Dio e la creatura in un solo essere. Se la consideriamo quale è in Dio, essa è l’amore divino o l’essere divino in quanto bonum effusivum sui, in quanto bene che si spande e si comunica (ma che si conserva senza subire alcuna diminuzione). Se consideriamo la grazia quale si trova nella creatura, essa è ciò che la creatura riceve in sé nella partecipazione all’essere divino, cioè una somiglianza della natura divina donata alla creatura” (EFEE, 396-397).
Per conseguenza ogni uomo è strutturalmente fatto per Dio nella misura in cui “il mistero dell’uomo è in relazione immediata con il mistero trinitario” (RM, 1745). Quindi il cuore dell’uomo è paragonabile a un tabernacolo vivente, luogo segreto in cui ognuno è chiamato a incontrare Dio personalmente, come “un io, una persona” (EFEE, 345).
Ma conviene approfondire maggiormente la contemplazione della follia dell’amore divino che gli fa cercare le sue delizie fra i figli dell’uomo (Pr 8, 31).

L’inabitazione divina per la grazia

A un terzo livello, è proprio la grazia battesimale che ci introduce nel cuore  del mistero della presenza interiore di Dio nell’uomo.
Quando la creatura, a causa del peccato, aveva perduto “la sua dignità, la sua perfezione originale e l’elevazione che doveva alla grazia” (SC, 287-288; cf. ChH, 352-353), Dio ha mandato il suo Figlio unico per liberare l’uomo dalla morte del peccato ridonandogli la vita della grazia. A questo titolo Edith Stein sottolinea molto fortemente il valore del battesimo mediante il quale noi abbiamo accesso, in termini propri, all’“inabitazione nell’anima mediante la grazia” (SC, 186). Mediante il battesimo il cristiano è misticamente incorporato alla persona di Gesù Cristo dal quale gli è resa la grazia santificante, per cui l’anima diviene veramente quel tempio spirituale in cui le Persone divine vengono ad abitare. Adottato come figlio di Dio nel Figlio unico, il battezzato è allora veramente consacrato a Dio, come afferma assai chiaramente il concilio Vaticano II (cf, LG, 10), e reso ormai capace di aprirsi a Colui che lo abita, per vivere una relazione di intimità con ognuna delle Persone della Trinità. Il dono dell’inabitazione divina che è fatto all’uomo nel battesimo lo eleva dunque a una comunione di amore filiale con le Persone divine, e ciò è di ordine totalmente diverso da una semplice relazione di dipendenza ontologica con Dio. Si apre allora per il battezzato la vita soprannaturale della grazia che conduce fino alle vette dell’unione divina (cf. RM, 1735), tanto che possiamo dire con san Giovanni che “noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Gv 3,2).
Alla luce di queste osservazioni possiamo formulare almeno due motivi che giustificano l’insistenza sulla grazia battesimale per illustrare il problema che ci occupa: quello del rapporto fra la preghiera intesa come “relazione dell’anima con Dio” (AA, 118) e l’antropologia.

L’orazione come incontro interiore

Innanzitutto è il riferimento al battesimo che rende pienamente intelligibile la definizione dell’orazione data da santa Teresa d’Avila e che vogliamo tener presente: cioè un “commercio di amicizia in cui ci si intrattiene sovente e intimamente con Colui di cui sappiamo che ci ama” (A, 56) al punto di venire ad abitare nell’anima nostra. Questa è la scoperta centrale della Madre che esclama: “in questo palazzo piccolissimo che è la mia anima abita un Re così grande [...]. Che meraviglia pensare che colui, la cui grandezza riempirebbe mille mondi e ancora di più, si rinchiude così in una cosa tanto piccola!” (CP, 462). Di qui l’importanza del raccoglimento, cioè della progressiva conversione dello sguardo verso l’interiore perché si fissi “al centro” dell’anima (CI, 879. Cf. CI , 460).
È proprio questa inabitazione divina nell’uomo, frutto della grazia battesimale, che costituisce essenzialmente l’orazione, come un incontro vivo con il Dio d’amore presente nell’intimo dell’anima, con la persona di Cristo, in particolare, che è sempre rimasto per santa Teresa il centro della sua orazione, come lei stessa ci confida: “Cercavo per quanto è possibile di vivere custodendo in me la presenza di Gesù Cristo, il nostro Bene e Signore, ed era questo il mio modo di orazione” (A, 28). In seguito santa Teresa non cesserà di affermare l’ineludibile mediazione dell’umanità di Cristo, conservata fino nei gradi più elevati della vita spirituale, la cui vetta coincide con la configurazione con il Verbo incarnato (cf. A, 147-156).
Questa confidenza di Teresa è preziosissima per ogni cristiano che contempla nel Cristo il modello supremo, il centro dal quale si illumina il mistero dell’esistenza, e Colui in cui risiede la perfezione della preghiera. Occorre infatti considerare che “ogni vera preghiera è un frutto dell’unione con Cristo e insieme un approfondimento di tale unione” (PE, 54). Questo equivale a dire che la preghiera del cristiano mira a sposare profondamente la preghiera del Cristo che sgorga nel fondo dell’anima del battezzato come “il mormorio di un vento leggero” (1 Re 19,12).

La fondazione antropologica della preghiera

In secondo luogo quello che giustifica l’importanza accordata alla grazia battesimale è il fatto che essa illumina precisamente il problema della fondazione antropologica della preghiera.
Infatti se cerchiamo di capire in quale modo la struttura della persona umana è resa oggettivamente atta a questo incontro interiore con Dio, che è il cuore dell’orazione, è proprio dal lato della grazia battesimale che ne troviamo la spiegazione. Perché evocare il battesimo è sottolineare la fusione della natura e della grazia; essa si esprime precisamente con il fatto che le virtù teologali infuse vengono innestate sulle facoltà naturali dell’anima. “Si chiamano ‘infuse’ perché queste virtù fanno parte della grazia, non sono aggiunte. Il battesimo che ci dà la grazia ci dà anche i poteri per agire, i poteri per operare: potere di conoscenza, è la fede che ci fa aderire a Dio; potere di cammino verso Dio è la speranza; potere di unione, è la carità. Questo organismo spirituale della grazia battesimale è fissato sulle facoltà dell’anima. La fede si innesta sull’intelligenza [...]. La speranza va a innestarsi sulle potenze sensibili. La carità infine, facoltà principale che impregna tutto, potenza di azione dell’anima che è la volontà , sulla facoltà principale [...]. È dunque tutto il nostro essere umano che viene completato dalla grazia e che diventa divino. Ecco la nostra ricchezza” (ASE, 84). Abbiamo qui una verità antropologica fondamentale, poiché dal momento che riconosciamo la fusione della natura e della grazia, che Dio ha voluto, o più esattamente il perfezionamento della natura da parte della grazia (cf. ST, 1a, q. 2, a. 2) non è più consentito, a rigore, di separare per una persona la realizzazione piena del suo essere e la sua vocazione all’unione divina che è lo scopo della preghiera.

Realizzazione dell’essere della persona e vocazione all’unione con Dio

Per riassumere sinteticamente questa connessione fra, da una parte, la realizzazione del senso della persona alla luce della fede cristiana e, dall’altra parte, la vocazione all’unione con Dio, diremo che con il suo battesimo l’uomo è incorporato a Cristo, adottato come figlio nell’unico Figlio (Ef 1,4-5), e perfezionato dal punto di vista della sua natura. Quindi, nonostante la sproporzione oggettiva e insuperabile fra il finito e l’infinito, l’anima tocca realmente Dio con l’esercizio delle virtù teologali, poiché “per esse l’anima è unita a Dio e gli è sottomessa” (ST, 1a, IIae, q.68 a.8). Così l’innesto delle virtù teologali sulle facoltà dell’anima implica che l’attività naturale di queste ultime è chiamata a dispiegarsi gradualmente fino alla loro apertura al loro oggetto proprio e ultimo: Dio (cf. CEC, 1812-1829 e ST II-II, 9-30 e qt 81 a. 2) E questa progressiva elevazione dell’uomo verso il Padre, nel Cristo  e mediante lo Spirito, corrisponde a un processo di trasformazione integrale della persona che non è altro che la sua deificazione o trasformazione in Dio nel rispetto della differenza oggettiva e insuperabile delle nature, poiché “nel matrimonio spirituale sono due persone che entrano in relazione pur conservando intatta la loro dualità” (SC, 287-288).infatti l’unione dell’anima con Dio che non è consumata che in cielo (VFA, 724), è una “trasformazione d’amore” (CS, 579) che lascia intatta l’insuperabile distinzione di natura fra i due (cf. MMC, 137-145). Tale dualismo ontologico fra il Creatore e la creatura è una caratteristica essenziale della mistica cristiana (cf. DR, 83-84).
In altri termini, con lo sviluppo teologale della sua umanità, il battezzato risponde alla sua vocazione di figlio di Dio adottato nel Figlio unico, per divenire, in Lui e con Lui, una offerta vivente portata dalla potenza dello Spirito santo nel seno del Padre, per partecipare così alla stessa vita di Dio. E poiché il Dio-Trinità è presente nell’anima del battezzato, questa elevazione verso Dio sposa il movimento di una interiorizzazione che conduce al”centro intimo” (CS, 539) dell’anima dove si consuma il matrimonio spirituale.

Azione dello Spirito santo e partecipazione al mistero della Salvezza

In questa prospettiva le tappe della preghiera interiore individuate dai mistici come santa Teresa d’Avila, e richiamate per esempio da santa Teresa-Benedetta della Croce (cf. AA, 118-121), esprimono fondamentalmente l’azione purificante, illuminante e trasformante dello Spirito santo, che configura il cristiano a Cristo e lo rende partecipe della sua unione filiale con il Padre, sigillata dallo Spirito santo (cf. EC, 120).
In oltre tale configurazione interiore al Cristo è partecipazione al mistero di salvezza, mistero della restaurazione nel Cristo dell’alleanza spezzata dal peccato fra l’uomo, la creazione e Dio. Infatti in quanto membro del Corpo di Cristo che è la Chiesa (CEC, 263) – la Chiesa in cui il Signore continua la sua vita nella liturgia che la stessa preghiera del Cristo, perché la “preghiera della Chiesa è la preghiera del Cristo sempre vivo” (PE, 54); la Chiesa in cui egli agisce mediante i sacramenti che comunicano la sua grazia e in cui dona se stesso nell’Eucaristia -, ogni battezzato è chiamato a prendere parte all’opera della redenzione. L’anima che si immerge nella preghiera silenziosa del Cristo il cui respiro è lo stesso Spirito santo – preghiera che è tutta protesa verso il Padre – riveste la bellezza senza macchia della Chiesa, sposa immacolata dell’Agnello, e partecipa misticamente alla Pasqua del Figlio di Dio per la redenzione del mondo, elevando con Lui e nel suo Sacrificio silenzioso tutte le cose al Padre..

La pratica dell’orazione

Meditazione e orazione         

La considerazione della grazia battesimale e, più particolarmente, questa articolazione fra le facoltà naturali dell’anima e le virtù teologali, occupa il posto nodale di quello che potremmo chiamare l’antropologia cristiana della preghiera interiore.
E proprio questo punto può consentirci di situare la meditazione in rapporto all’orazione propriamente detta, non per metterle in opposizione, ma nella prospettiva di una pedagogia pratica della preghiera interiore.
Meditare è una attività delle facoltà naturali dell’anima che si applica a un testo o a una immagine, per esempio, e “mediante la quale lo spirito si assimila interiormente il contenuto della fede” (SC, 128). Il “contenuto della fede fornisce la materia della nostra meditazione. Essa è una attività delle facoltà dell’anima su questa materia che le ha offerto la fede. Ci si rappresentano queste verità in maniera figurata; l’intelligenza vi riflette e la volontà si decide in conseguenza” (SC, 205).
Tenendo conto del temperamento di ogni anima, sarà impegnata piuttosto questa o quella facoltà: l’una è più immaginativa, l’altra più affettiva, l’altra ancora più intellettuale. Così dominerà o la considerazione intellettuale delle proprietà divine, o il dialogo affettivo, o la rappresentazione immaginativa. Pertanto la meditazione non sbocca in una elaborazione mentale, concettuale, di Dio, perché essa di per sé non è affatto il suo scopo. Ciò che viene ricercato nell’orazione, mediante la meditazione, è il contatto con Dio, poiché l’orazione “è una elevazione del nostro spirito in Dio per unirsi a Lui” (FEQ, 1291). Per questo l’uso che facciamo delle nostre facoltà nell’orazione, mediante la meditazione, deve essere un uso teologale (cf, ARO, 14 s.). In altri termini, la considerazione dei misteri divini da parte dell’intelligenza, che lavora su formule dogmatiche attraverso le quali ci si rende accessibile qualche cosa della incomprensibile verità divina (cf. PL, 182-187), è chiamata a prolungarsi in una adesione di fede. L’esercizio immaginativo serve a ravvivare la speranza di gustare la presenza dell’ospite divino. Il dialogo affettuoso porta a infiammare la volontà di amore. E se la meditazione può essere, in un certo senso, considerata come un modo di orazione, ciò avviene solo nella misura in cui essa forma in noi un atteggiamento teologale. Di conseguenza la meditazione termina nell’esercizio delle virtù teologali, che Dio ha dato all’uomo nel battesimo, perché egli possa raggiungerlo, toccare l’infinito, penetrare nella verità incomprensibile, entrare in una comunione di vita con Lui e giungere così al suo fine ultimo. Ora noi sappiamo che alla fine, e al di sopra di tutto, è con l’amore che si entra meglio in relazione con Colui che è Amore (1 Gv 4,8). Perciò la parola di santa Teresa secondo la quale nell’orazione “non si tratta di pensare molto ma di amare molto” (F, 630). Ma non si dovrebbe credere che Teresa predichi qui una qualche disoccupazione spirituale, sapendo che fermare il pensiero troppo presto, cioè prima che Dio non intervenga, può rappresentare “più un danno che un vantaggio”. Perciò non si tratta di “rimanere là come sciocchi” (CL,919) sforzandosi di annientare l’attività delle facoltà. Semplicemente, cercando “senza violenza [...] di impedire all’intelletto di discorrere, ma non di sospenderlo, e così del pensiero” (CL, 920), l’anima non vuole nient’altro che aderire in tutta semplicità a Dio nel fondo di se stessa.
Diremo dunque che meditare è costruire questo ascolto interiore, questo orecchio spirituale di un cuore desto che tende a comunicare con la persona del Dio fatto uomo, Gesù Cristo.Ciò significa non soltanto gustare la sua presenza, ma anche mettersi alla sua sequela e partecipare effettivamente alla sua vita.

Il combattimento spirituale

In queste condizioni, la trasformazione progressiva del cristiano, con lo sviluppo dell’”organismo della vita soprannaturale [che] ha la sua radice nel santo Battesimo” (CEC,1266), e che lo incammina verso l’unione con Dio, significa necessariamente la rinuncia al peccato. Il peccato “non è altro per un essere che non realizzare il bene che conviene alla sua natura” (ST, q. 109, a. 2 e JCA 727-754). A questo riguardo l’ascesi inerente a ogni vita cristiana deve essere intesa soprattutto come una collaborazione all’opera trasfiguratrice di Dio. In questo combattimento spirituale l’esercizio delle virtù – cardinali e morali – è il requisito che dispone il cuore ad accordarsi alla presenza divina di cui è lo scrigno per vivere sempre più abitualmente alla presenza dello Spirito santo. Così chi vuole vivere in compagnia del Dio di amore deve affinare il suo essere per divenire sensibile “a quel che gli piace e a quel che gli dispiace” (MN, 50), come sottolinea Edith Stein. Questo presuppone “un certo digiuno del cuore, dello sguardo, dello spirito” (PJP, 44) che preserva l’anima dalla dispersione e le facilita l’incontro con Dio.
Tendere a una vita di orazione è dunque cercare di vivere il più abitualmente possibile alla presenza di Dio. I maestri della vita interiore ai quali ci riferiamo e che sono fatti della stessa pasta di noi, non ignorano in alcun modo che la vita umana è ineluttabilmente provata dagli imprevisti e insidiata dall’instabilità. Pertanto, quali che siano le variazioni di ritmo alle quali è sottoposto l’uomo, i mistici sottolineano con realismo che la condizione essenziale per vivere alla presenza di Dio è di trovare una pulsazione stabile di fondo. Per questo, quale che sia il corso più o meno accidentato delle nostre giornate, il desiderio inestinguibile della presenza di Dio è quella sete che deve tenere sempre sveglio il cuore.

La ricerca di una esistenza unificata

Ma sorge immediatamente la domanda: come conservare questo continuo ininterrotto, questa fiamma d’amore e favorire l’intimità con Dio? E ciò equivale alla domanda: come può l’uomo vivere in stato di orazione piuttosto che sopravvivere o lasciarsi sommergere dalle molteplici sollecitazioni, a volte anche contraddittorie, che gli sono rivolte? Se in certi momenti ognuno può conoscere una minore stabilità, quando si accumulano gli imprevisti, come perseverare in una vita di orazione?
Se, come abbiamo fatto osservare, la finalità dell’orazione si accorda con il senso dell’esistenza umana quale è presentata alla fede dalla rivelazione, e se, per conseguenza, l’orazione  rappresenta una sfida cruciale per la vita umana, allora non possiamo lasciare in sospeso queste domande, né possiamo eludere il consiglio di san Paolo: “Perseverate nella preghiera” (Col 4,2), e questo implica che, nella misura del possibile, l’esercizio dell’orazione rimanga un punto di riferimento stabile.
Senza dubbio, proprio nei periodi di maggiore instabilità l’uomo prova la necessità imperiosa di trovare questa musica di fondo che conserva all’esistenza la sua coesione interiore. A questo riguardo quel che la tradizione cristiana chiama la pratica della presenza di Dio si presenta come una maniera eccellente di far passare l’orazione nel cuore dell’esistenza, servendosi di tutte le cose come di altrettante occasioni per approfondire l’unione con Dio.

L’esercizio della presenza di Dio

Che cosa è l’esercizio della presenza di Dio?

L’esercizio della presenza di Dio ha lo scopo di evitare la dimenticanza [di Dio] mediante dei ritorni a Dio. Essi consistono praticamente nel ristabilire nell’anima le disposizioni che essa aveva nell’uscire dall’orazione, o nel mantenerle o nell’intensificarle, secondo lo stato in cui ci si trova. Sono dunque degli atti che ci consentono di conservare la nostre facoltà sempre più orientate verso Dio, sempre più consegnate a Lui. Sono come la conseguenza logica e il prolungamento naturale dell’orazione, che diventa, grazie a essi, non più un atto passeggero senza influenza, ma una stato di preghiera. E ne sono anche la migliore preparazione. Un’anima santa, il P. Chaminade, fondatore dei Marianisti, ha potuto dire: “Si pone in principio che colui che non si costruisce una felice abitudine dell’esercizio della presenza di Dio, non farà mai orazione... Occorre dunque esercitarsi spesso, al di fuori dell’orazione, alla presenza di Dio, per acquistarne l’abitudine”. (GB, 63)

La pratica della presenza di Dio è come quel filo che da un’ora all’altra mantiene l’anima nel contatto abituale con il Signore, cosa essenziale per una vita di orazione. Colui che accoglie nella fede la realtà della divina presenza impara a vivere in compagnia di Qualcuno che illumina la carne del quotidiano e gli fa dire: “Io so che ho al mio fianco qualcuno di cui posso fidarmi senza riserva alcuna, e questo mi dà calma e forza” (CSI, 43)
D’altronde, esercitarsi alla presenza di Dio è un modo eccellente di lavorare all’unificazione della propria vita, all’unione della contemplazione e dell’azione. Infatti, come fa notare il fratello carmelitano Laurent de la Resurrection (1614 – 1691) che eccelleva in questa pratica: “è un grande errore credere che il tempo dell’orazione debba essere differente dall’altro: noi siamo strettamente obbligati a essere uniti a Dio tanto con l’azione, nel tempo dell’azione, quanto con l’orazione nel suo tempo” (LR). La pratica della presenza di Dio, che frère Laurent identificava con tutta la vita spirituale, non ha in lui nulla di monolitico né di nebuloso. Gli scritti di questo santo religioso permettono infatti di individuare una vera pedagogia della presenza di Dio, che è una pedagogia dell’orazione, e di cui possiamo notare gli aspetti principali.

I consigli di frère Laurent de la Resurrection

Per mantenere la presenza di Dio frère Laurent de la Resurrectio accordava grande valore alle preghiere giaculatorie: Si tratta semplicemente di “brevi ma ardenti slanci del cuore” (RDL, 206) che vengono gettati verso Dio lungo tutta la giornata.
Frère Laurent insiste anche sull’abitudine di compiere le proprie azioni per Dio, “offrendogliele prima di farle e ringraziandolo dopo averle fatte” (LR), senza esitare a “domandare l’aiuto” a Colui che la fede sa “intimamente presente” (LR) per “conoscere la sua volontà nelle cose dubbie e per far bene quelle che vediamo chiaramente esserci richieste” (LR). Tale pratica tende a fare dell’esistenza una “conversazione continua” (LR) con Dio.
Ma questa consacrazione a Dio delle azioni suppone a sua volta la purezza di intenzione. Si chiama purezza di intenzione “la purezza dei motivi che ci fanno agire e che si riducono in generale a non agire altro che per amor di Dio o secondo l’ordine di Dio” (JPC, 262). Questo era per frère Laurent il “solo mezzo per andare a Dio” (LR), cioè “fare tutto per amore di lui” (LR). Infatti per lui l’importante era “fare tutto per l’amore di Dio, servirlo con tutte le opere del proprio stato per dimostrarglielo e conservare la sua presenza in noi con questo commercio del cuore con lui” (LR).
Questa disposizione interiore, che consiste nel compiere in modo soprannaturale le azioni della vita quotidiana, richiede una applicazioni interiore al momento presente. Perché se Dio è l’Eterno, egli è tutto intero e immutabilmente presente e, per noi che siamo nel tempo, solo di momento in momento possiamo renderci presenti all’eterna presenza di Colui che non è mai “distante” (4) come dice san Giovanni della Croce. Possiamo allora dire che la vita che ci riporta sempre al presente è Dio che ci viene incontro. In tale prospettiva il padre de Caussade arriverà fino a parlare del “sacramento del tempo presente” (APD, 124) per indicare a qual punto bisogna considerare ogni istante come lo spazio di un incontro, lo schermo di una presenza, il contatto con la Volontà divina su di noi e l’occasione per rispondervi. E proprio in questa conformità della nostra volontà con la volontà divina i santi fanno consistere la vetta dell’unione d’amore alla quale è ordinata tutta la vita di orazione.
A questo proposito non sarebbe certamente inutile ricordare, con Edith Stein, che questa totale disponibilità alla richiesta del momento presente, intesa come apertura alla presenza di Dio, accoglienza della sua visita, è il frutto di un distacco interiore completo che rende l’anima capace di ricevere ugualmente ciò che si presenta e di applicarvisi. Un tale “distacco si radica e insieme trova il suo coronamento nell’amore di Dio; non trova il suo senso che allo scopo di divenire completamente libero per il Signore” (LDE, 69-70). Grazie a tale libertà interiore l’anima trova Dio in tutte le cose e sposa con cuore generoso la sua grazia propria seguendo liberamente e fedelmente fino alla fine la sua linea interiore.

La gratuità dell’amore divino

Riceversi da Dio

Se finora abbiamo soprattutto insistito sulle disposizioni che l’uomo doveva acquistare e sviluppare per entrare in una relazione viva con Dio, conviene ora insistere soprattutto sul fatto che è Dio che è il padrone dell’orazione. Infatti se l’orazione ha di mira l’unione con Dio, che è la sfida essenziale dell’esistenza umana considerata alla luce della fede cristiana, questa unione è sempre un dono gratuito. Di qui la necessità dell’umiltà come atteggiamento fondamentale e verità di fondo dell’uomo finito davanti a Dio (cf. CI, 1008). In altri termini, l’unione divina non si ottiene a forza di braccia, anche se occorre una grande determinazione per perseverare fedelmente nella preghiera nonostante le distrazioni e l’invitabile aridità sperimentata dalla sensibilità.
Nell’orazione l’anima si consegna nella fede pura all’azione di Dio, e l’azione della creatura consiste soprattutto nel dono totale e rinnovato che essa fa di sé a Dio, sapendo che, come sottolineava santa Teresa di Gesù (d’Avila) nel Cammino di perfezione, Dio non si dà interamente che a colui che si dà completamente a Lui. E più un’anima si consegna a Dio, più ne sposerà l’azione fino a secondare progressivamente l’attività sovrabbondante di Dio in lei.
Gli spirituali ci ripetono infatti con forza che l’attività più alta dell’uomo e il segno più puro dell’amore risiedono in questo abbandono che la creatura fa di se stessa nelle mani di Dio, ed Egli non cessa di lavorare nell’anima (cf, Gv 5,17) a una profondità inaccessibile ai sensi e anche alle facoltà intellettuali, perché la sua opera si realizza il più spesso a sua insaputa. Ciò implica il fatto che non dobbiamo giudicare la nostra orazione: “Se guardiamo il nostro io invece di guardare Dio, se ci ristringiamo il cuore a scrutare i nostri stati d’animo e a valutare i nostri piccoli progressi, se lasciamo la nostra orazione per sapere se la nostra orazione è buona [...], e ben conforme alle prescrizioni degli autori, perdiamo tutto il frutto della nostra vita spirituale, entriamo nell’inquietudine invece di entrare nella pace e rischiamo illusioni innumerevoli” (DVI, 40).
Per riassumere possiamo dire che l’anima in cui si è formata ed esercitata un’abitudine teologale entra realmente in contatto vivo con Dio, il quale si comunica a lei mediante i doni dello Spirito santo che “vengono a perfezionare le virtù nel loro esercizio” (ASE, 123; cf. JVVD, 305-309) (5) In altri termini, lo sviluppo della grazia battesimale, e dunque l’approfondimento di una vita teologale sempre più pura e liberata dal sensibile, conduce l’uomo a vivere sotto la mozione dello Spirito santo, la cui “acquisizione” costituisce, ci dice san Serafino di Sarov, il “vero scopo della vita cristiana” (IG, 156).

La preghiera contemplativa

Se consideriamo il progresso della preghiera come il pieno sviluppo della grazia battesimale, possiamo osservare che l’orazione, nell’approfondirsi sotto l’azione della grazia, diviene più contemplativa che meditativa, più passiva che attiva. Essa si trasforma pian piano in una “orazione soprannaturale [...], una forma di orazione in cui tutta l’iniziativa appartiene a Dio” (ARO, 74).Così si spiega perché santa Teresa d’Avila “ha concepito il suo capolavoro, il Castello interiore, secondo uno schema bipartito: la prime tre Dimore descrivono il comportamento della persona che è alla ricerca di Dio mediante i propri sforzi, con il concorso ordinario della grazia. [...] Le quattro ultime Dimore attestano ciò che Dio vuol fare dell’uomo quando lo afferra e gli fa in qualche modo gustare chi è lui, Dio” (ARO, 69-70; cf. JVVD, 64).
Anche san Giovanni della Croce ha parlato con precisione di questo passaggio importante della vita spirituale, con le purificazioni e le prove che l’accompagnano: si tratta del “passaggio dalla meditazione alla contemplazione. La meditazione, nella terminologia di san Giovanni della Croce, è un’orazione attiva in cui si riflette sui misteri della fede, si parla col Signore, insomma si utilizzano i sensi. La contemplazione è un’orazione più silenziosa in cui ci si espone allo sguardo d’amore del Signore e ci si lascia penetrare da lui.Le parole lasciano il posto al silenzio e anche all’ascolto” (WS, 4-5; cf. MMC, 152-158 e 163-165; NO, 403-407 e 456-461; VFA, 768-795; DLA, 75; EC, 103-115).
Per conseguenza dire che l’orazione, cioè la preghiera interiore, è ordinata all’unione con Dio è riconoscere che la sua realizzazione comporta delle fasi e che è destinata a semplificarsi, a spogliarsi per divenire un semplice sguardo d’amore, man mano che la grazia adatta e conforma l’anima a Dio, che è la stessa semplicità.

Verso l’unificazione della persona

Dio chiama tutti gli uomini

Potremmo chiederci se tali vette sono riservate solo a pochi privilegiati. Pur riconoscendo che Dio è padrone del grado di intimità con Lui al quale chiama ogni anima, vogliamo tuttavia osservare, con san Giovanni della Croce, che Dio chiama tutte le anime all’unione divina, senza che questo si accompagni necessariamente con grazie mistiche straordinarie. Il fatto che “così poche anime [...] arrivino a un così alto grado di perfezione di unione con Dio” (VFA, 752) potrebbe piuttosto essere imputato alla mancanza di generosità con cui si abbandonano all’azione purificante dell’Amore. In altri termini “non è che Dio voglia che sia piccolo il numero di questi spiriti elevati – piuttosto egli vorrebbe che tutti fossero perfetti – ma ne trova pochi [...] che siano capaci di un’opera così alta e rilevata” (VFA, 752). E benché molti “domandino a Dio continuamente che li tragga e li faccia avanzare in questo stato di perfezione” (VFA, 753), tuttavia appena sopraggiungono le pene legate alle purificazioni – intendiamo le “due specie di tenebre o purificazioni” (NO, 401), cioè “una notte o purificazione sensitiva mediante la quale l’anima si purifica secondo i sensi, adattandoli allo spirito; e l’altra è una notte o purificazione spirituale, mediante la quale l’anima si purifica e si denuda secondo lo spirito, adattandolo e disponendolo all’unione d’amore con Dio” (NO, 401) – la maggior parte rifiutano di “sottoporsi alla minima desolazione e mortificazione” (VFA, 753).  Per questo Dio “non trovandoli coraggiosi e fedeli in questo poco in cui faceva loro grazia di cominciare a sbozzarli e lavorarli, [...] non continua a purificarli e a elevarli dalla polvere della terra con il lavoro della mortificazione che richiederebbe una maggiore costanza e una maggiore forza di quella che dimostrano” (VFA, 752-753).
Più che un motivo di scoraggiamento, vi è qui per ogni anima un invito a domandare instancabilmente, con molta umiltà e come una grazia, ciò che Dio vuole accordarle, e a credere, nel combattimento spirituale che segna ogni vita di orazione, che Dio rimane indefettibilmente fedele e soccorrevole. E qui conviene senza dubbio ricordare, con san Giovanni della Croce, l’importanza di una autentica apertura del cuore al direttore spirituale (cf. JCM, n° 9 e 11-17).
L’essenziale è di credere fermamente che ciò “che Dio ha preparato per tutti quelli che lo amano” (1 Cor 9) supera sempre quel che è possibile concepire o immaginare. Così l’abbandono alla divina Provvidenza che fa tutto concorrere al bene di coloro che Lo amano (Rm 8, 28) (6) costituisce a ogni tappa del cammino spirituale la maggior fonte di incoraggiamento.

Il puro amore come perfezione dell’essere finito

Santa Teresa d’Avila sostiene con forza che l’unione alla quale ogni anima è chiamata è quella in cui si esprime l’amore più grande, e che questo risiede essenzialmente nella conformità della nostra volontà a quella di Dio (cf. F, 630) frutto di una vita teologale sempre più pura. Infatti “la sottomissione della volontà a quella di Dio è considerata dalla santa Madre Teresa (come da altri maestri spirituali) come l’essenziale dell’unione: la sottomissione della nostra volontà è ciò che Dio esige da tutti noi e ciò che noi possiamo offrirgli. Essa è la misura della nostra santità” (LCA. 147) (7). Questa unione dei voleri, che è il frutto più puro dell’amore e la vetta dell’unione divina e, proprio per questo, l’accesso per l’uomo a un vivere eminentemente conforme al suo proprio fine, rivela il significato autentico dell’abbandono a Dio come disposizione dell’anima. L’abbandono dunque deve essere inteso come il frutto di una trasformazione progressiva dell’anima che, attraverso una serie di purificazioni, diviene più passiva nelle mani di Dio. Ma questa passività indica il dono perfetto di un’anima consegnata all’azione divina, docilità che è collaborazione, e non ha nulla a che vedere dunque con qualsiasi forma di quietismo. “Questo abbandono senza riserve – scrive Edith Stein – è la fonte di quella pace e di quella felicità interiore che traspare esteriormente nella serenità costante e nella gioia tranquilla” (LDE, 70), segno del “l’unione [...] intima con” Dio (LDE, 70).

La vera fecondità

Aggiungiamo infine che l’unione con Dio che si realizza attraverso la vita di orazione unifica tutte le dimensione dell’essere personale. Da essa scaturisce la vera fecondità dell’azione. In altri termini, coloro “che sono impegnati nella vita attiva non debbono rinunciare alla contemplazione con la scusa che non conducono una vita contemplativa. Anzi al contrario, [...] hanno un bisogno urgente dell’orazione[...]; e devono domandare alla misericordia divina la grazia di una vita interiore tanto intensa che la loro stessa azione [...] derivi dalla sovrabbondanza della contemplazione” (DVI, 33-34). Infatti, poiché “l’amore non è mai ozioso” (CI, 947), l’orazione non distoglie minimamente da un impegno concreto a favore del Regno. Si produce proprio tutto il contrario, poiché “lo scopo dell’orazione”, scrive santa Teresa, è di “dare sempre origine a delle opere, delle opere” (CI, 1034).
Quindi l’attività personale che deriva dall’unione con Dio è tutto tranne che un attivismo febbrile, una agitazione rumorosa: è una azione concentrata e pacifica che procede dalla contemplazione. Secondo la parola della Madre, nell’anima unificata dall’amore, Maria e Marta vivono ben unite (cf. CP, 471-472 e CI, 1032-1038).
Essere “uniti al Dio-Trinità di cui siamo il tempio”, affinché “il suo Spirito governi tutti i nostri fatti e gesti” (HEC, 221; cf. VCE, 247) e realizzi in noi quell’accordo della contemplazione e dell’azione: ecco la portata antropologica della preghiera interiore.

Conclusione

Il realismo dei mistici che abbiamo voluto ascoltare ci conferma che la scienza della preghiera – che non è poi altro che la scienza dell’amore – illumina il problema dell’uomo e della sua esistenza. L’orazione, mettendo in gioco direttamente la questione del senso, riveste per questo una portata antropologica fondamentale e si presenta come una autentica scuola di vita, in cui vivere questa arte che si impara vivendo nella presenza del Dio Vivo. Un Dio al quale ognuno può dire: “dolce luce [...] che mi sei vicina più che io non sia a me stesso, che mi sei più intima del mio stesso cuore, e tuttavia inafferrabile, inconcepibile, al di là di ogni nome, Spirito santo, eterno Amore!” (PC, 121).

Éric De Rus

Note

1) Si veda la lista delle opere citate in fine dell’articolo.

2) Lo “scopo della vita spirituale è l’unione dell’uomo con Dio, che si fa mediante la carità; e tutto ciò che riguarda la vita spirituale tende a questa unione come a suo fine” ST, 2. 2.q. 44, a. 1.

3) In santa Teresa “l’orazione teresiana riveste il senso globale di orazione-vita” cioè “l’orazione nel suo senso pieno di vita, di perfezione, di santità, di unione con Dio”  Jca, 131 e 134.

4) “Signore mio Dio, tu non sei distante, tu, da colui che non si rende distante da te. Come si può dire che tu ti assenti? JCM, 981.

5) Cf. FW, 20, nota 2 eCEC, 1830-1831, - Per una sintesi della dottrina cattolica sui doni dello Spirito santo: LL,169-244.

6) “Tutto procede dall’amore, tutto è ordinato alla salvezza dell’uomo, Dio non fa nulla se non a questo scopo” CSD, 138 (cf APD, 363-364).

7) “conformare la propria volontà a quella di Dio [...] ecco la maggior perfezione che si possa raggiungere nella vita spirituale” CI, 889; cf. CI, 940.

 

Bibliografia citata

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(da La Vie spirituelle, n° 775, marzo 2008, p. 135)

 

Letto 9665 volte Ultima modifica il Sabato, 05 Luglio 2014 10:34
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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