Vita nello Spirito

Giovedì, 08 Gennaio 2015 21:59

L'amore di Dio e del prossimo (Virginie Larousse)

Vota questo articolo
(3 Voti)

La vera felicità nel cristianesimo ha avuto inizio dalla «buona notizia» della Risurrezione del Cristo, che rimane presente ai credenti nella fede quaggiù e annuncia la gioia dell'incontro definitivo con Dio nell'al di là.

Gesù lo annuncia subito: è venuto a portare la « buona notizia » agli uomini (Luca 4,18). La parola greca evangelion, « vangelo », non significa d'altronde altro che « buona notizia ».Non meraviglia allora che il primissimo discorso pubblico di Gesù abbia avuto come argomento la felicità. È il famoso Discorso della montagna (Matteo 5-7), uno dei testi più commentati del Nuovo testamento - uno dei più mal compresi anche. Esso comincia col descrivere le nove «Beatitudini» (1) che costituiscono altrettante chiavi per aprire la porta della felicità. Tale felicità Gesù la promette a coloro «che hanno un'anima di poveri», ai «miti», agli «afflitti», agli «affamati e assetati», ai «misericordiosi», ai «cuori puri», agli «artefici di pace», ai «perseguitati», e infine a quanti sono insultati e diffamati a causa della loro fede in Gesù. Tutti costoro egli li dichiara «beati»: una stranissima definizione della felicità; una definizione, a dir poco... scoraggiante! Ben certo, tutti quelli che vi sono presentati come uomini o donne «felici» non si consideravano tali... Ma il fatto è che Gesù propone una definizione radicalmente nuova della felicità. In un tempo in cui la felicità è concepita come la capacità di appagare tutti i bisogni e i desideri, Gesù invita a distogliersi dalla soddisfazione egoistica delle proprie voglie per aprirsi all'altro, e particolarmente a quell'altro che è Dio. Egli propone una inversione di valori senza precedenti: «Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi » (Matteo 20,16).

Trarre la forza dalle vicissitudini

Soltanto che, però, si pone una domanda cruciale: gli ultimi saranno forse i primi... Ma quando? In sette delle nove Beatitudine, il motivo della felicità si trova coniugato al futuro: i miti «possederanno la terra », gli afflitti «saranno consolati». E Gesù conclude con una promessa di ricompensa «nei cieli». Il cristianesimo sarebbe dunque soltanto speranza di felicità in quell'ipotetico Regno di Dio di cui Gesù annuncia l'avvento? Non prevede la possibilità di una felicità qui e ora? Nietzsche vedeva nel messaggio cristiano una «morale da schiavi» che esorta gli uomini alla rassegnazione, rimandando a più tardi una felicità alla quale essi avrebbero diritto fin d'ora.

Tuttavia il discorso delle Beatitudini è più complesso di quel che non sembra. Infatti se è vero che effettivamente annuncia una felicità futura, esso non esclude però che questa felicità possa essere sperimentata, in parte, quaggiù. Di fatto, alcune delle qualità di cui Gesù fa l'apologia permettono,facilitando le relazioni con il prossimo, di gustare una serenità immediata. Invece è più difficile comprendere come la povertà, l'afflizione, l'ingiustizia o il fatto di essere perseguitato possa contribuire alla felicità. Ma integrando in tal modo le vicissitudini dell'esistenza, Gesù invita a farne una forza. La sua morte è l'illustrazione perfetta di questo discorso. In apparenza l'avvenimento è catastrofico: non solo il Nazareno è stato ucciso, ma ha subito il castigo più infamante che esista, quello che era riservato agli schiavi - la crocifissione. Gli apostoli sono del tutto sconcertati; sembra loro di aver sbagliato strada: troppo difficile per loro era credere che Dio avrebbe accettato di lasciare che il Figlio morisse in quel modo. «Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele», confessano i discepoli di Emmaus, delusi.

La fiducia in un Dio giusto

Eppure proprio da quel cataclisma sorgerà, contro ogni aspettativa, la buona notizia: quella di vedere il Cristo risorto. «Abbandonato in fretta il sepolcro, con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l'annunzio ai suoi discepoli» (Matteo 28,8), i quali «gioirono al vedere il Signore» (Giovanni 20,20). Alla disperazione più profonda succede la gioia immensa rappresentata dall'incontro con il Maestro. Gesù utilizza la metafora della donna che partorisce per descrivere il misterioso rovesciamento di situazione: nato il bambino, essa dimentica i dolori del parto, piena come è della felicità di aver dato la vita (Gv 16,21).

La vera felicità, naturalmente, affonda le sue radici in Gesù. Con il suo sacrificio egli ha salvato l'umanità. Con la sua risurrezione egli ha « vinto il mondo » (Gv 16.33). « Dio lo ha risuscitato! » esclama Paolo (Rom 10,9). Di per se stessa, la Risurrezione costituisce il motivo di allegrezza per i credenti, quello che spiega che «la gioia è lo stato naturale del cristiano», secondo il poeta Paul Claudel. Essere cristiano è mettere tutta la fiducia in un Dio che viene descritto come infinitamente amorevole e giusto; aver fede nella parola di Gesù, anche nei periodi di caos: «La vostra tristezza si cambierà in gioia» (Gv 16,20). Accettare di conformarsi a un simile messaggio è ben lungi dall'essere cosa evidente, Gesù stesso ne è ben cosciente. Ma coloro che vi riescono potranno conoscere la gioia perfetta, quella che non può essere sperimentata che nella presenza del Cristo. Quella che è annunciata dal libro dell'Apocalisse, che, nonostante la violenza di cui è impregnato, costituisce un testo fondante della speranza cristiana: esso annuncia la discesa sulla Terra della «Gerusalemme celeste», vero Eden che Cristo illuminerà con la sua presenza. « Non vi sarà più notte [....], perché il Signore Dio li illuminerà » (Gv 22,5).

Estasi e dolore fisico

Poiché la felicità trova la sua essenza in Dio, lo scopo ultimo dei credenti è di unirsi a lui. Nel secolo XIII il domenicano Tommaso d'Aquino, nella sua Somma teologica, oppone la «beatitudine imperfetta» o «voluttuosa» - quella che risulta dalla soddisfazione di un desiderio - alla «beatitudine perfetta», che non può nascere che dalla «visione beatifica», quella di Dio, il cui splendore supremo immerge l'essere intero in una felicità ineffabile ed eterna. Anche se la visione beatifica è, in principio, riservata ai beati nell'al di là, alcuni mistici hanno potuto vivere quaggiù un anticipo del Paradiso. Santa Teresa d'Avila, nel secolo XVI, ha avuto il privilegio di una simile esperienza: «La divinità - scrive - è come un diamante chiarissimo e molto più grande del mondo intero» (2).

Ogni volta queste visioni la immergono nell'estasi, nonostante il dolore fisico che le accompagna: «È uno scambio d'amore così soave che avviene fra l'anima e Dio, che io supplico la sua bontà di rivelarlo a quelli che penserebbero che io menta». San Giovanni della Croce, nella stessa epoca, conosce anch'egli la beatitudine perfetta che procura l'unione dell'anima con Dio, unione che egli paragona alle nozze fra una fidanzata e il suo diletto.

Non si dovrebbe tuttavia pensare che la felicità, nel cristianesimo, sia accessibile soltanto a una élite di campioni della fede. «C'è più gioia nel dare che nel ricevere » ha detto Gesù (Atti 20,35). Ognuno, nel suo quotidiano, se agisce con bontà e benevolenza verso l'altro, può conoscere la gioia del dono fatto senza attendersi nulla in cambio. «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Giovanni 15,11-12).

L'apertura all'altro

Gesù porta al parossismo il precetto dell'Antico testamento, «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tobia 4,15). Perché se la definizione biblica di "prossimo" è abbastanza restrittiva - non designa che coloro che appartengono allo stesso popolo - Gesù lo applica a ogni essere umano, persino agli stranieri, agli impuri, ai nemici. Egli chiama a un cambiamento collettivo di mentalità: giacché si raccoglie ciò che si semina, l'amore non può che generare l'amore. E non è necessario essere cristiani per percepire, concretamente, i benefici di questo comportamento. L'apertura agli altri e l'attenzione rivolta al prossimo non sono esclusivamente l'appannaggio dei cristiani. E Gandhi diceva: «È quel discorso [della montagna] che mi ha fatto amare Gesù». Le parole di Gesù, lungi dall'essere riservate ai soli credenti, risuonano come un messaggio di sapienza che è per così dire universale.

Virginie Larousse

 

Bibbia, Il Discorso della montagna (Matteo 5, 1-12)

«Vedendo le folle, Gesù salì sul monte, [...] e insegnava loro dicendo: 3 «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.

  

Vita di santa Teresa di Gesù, scritta da lei stessa (28, 8b-9)

O mio Dio, come far comprendere la maestà con cui vi manifestate, e fino a che punto vi mostrate Signore della terra e del cielo, di tutte le terre e di tutti i cieli che potreste creare? Per un Signore come Voi sarebbero un nulla anche mille e mille mondi, tanta è la maestà in cui l'anima vi vede adorno!
Sì, volete far comprendere quanto sia grande la vostra Maestà, quanto potente l' Umanità vostra sacratissima congiunta alla divinità... In questa visione, quando il Signore vuol mostrare tanta sua grandezza e maestà, non vi è alcuno che passa sostenerne la forza, eccetto che sia aiutato da Dio stesso con qualche soccorso soprannaturale che la faccia entrare nel rapimento e nell'estasi...
Quella bellezza e maestà rimangono impresse così profondamente da non poterle affatto dimenticare...

 
A. M.

Note

1) Il Vangelo di Luca (6,20-23) contiene anch'esso un discorso sulle Beatitudini, più breve di quello di Matteo.

2) In Il libro della vita (1588)

(tratto da Le monde des religions, mai-juin, 2010 n. 41, pp. 34-36)

 


Letto 2052 volte Ultima modifica il Giovedì, 08 Gennaio 2015 22:58
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search