Religioso Marista
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Il tema della formazione liturgica di pastori e laici appare indispensabile alla luce dell'icona additata da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte.
Lezioni di storia
di Marcelo Barros
Proviamo a sognare! Vi invito a immaginare un'umanità che è riuscita a porre fine a progresso della natura, a mettere da parte il dogma neo-liberalista, che sacrifica tutto al dio-mercato, e a eliminare per sempre l'industria delle armi. Immaginiamo ancora che, nel secolo XXII, i giovani leggeranno soltanto sui libri di storia i tristi capitoli scritti dalle sofferenze attraverso cui gli esseri umani sono passati, per poi uscire finalmente dalle barbarie della competizione e entrare nella civiltà della collaborazione e della pace.
Non ho mai creduto nella linearità della storia, né che esista un modello di cultura più avanzato degli altri. Sto solo servendomi di una "parabola" che ha il solo scopo (forse anche il vantaggio) di consentirci, almeno con l'immaginazione, di collocarci nel futuro per parlare del presente. Si tratta, dopo tutto, di una tecnica cui fecero ricorso i profeti di un tempo e Gesù Cristo, L'hanno definita "apocalittica", nel senso di "svelamento", "sottrazione del mistero".
Se avete la bontà di ascoltare il mio sogno, allora ve lo racconto in poche battute. Sogno un'Organizzazione dei Popoli Uniti (Opu), che avrà sostituito quella delle Nazioni Unite (Onu, oggi già "vecchia" e decrepita a soli 60 anni!) e che, tra le altre cose, avrà il compito di gestire musei specializzati per ricordare alle generazioni future come le società evolvono, fino alla possibilità che ogni popolo si organizzi sul proprio territorio come meglio crede, abbia la necessaria autonomia, senza, per questo, vivere isolato dal resto dell'umanità. La immagino come Assemblea generale di popoli, che avrà come primo scopo quello di valorizzare le diverse culture e sviluppare il riconoscimento della Terra come Madre comune di tutti gli esseri umani, senza barriere di circolazione, e senza alcuna discriminazione razziale, sociale ed economica.
Questo "balzo in avanti" mi aiuta a sorridere di me stesso e del mondo di oggi. Come si farà nel 2250, ad esempio, a spiegare la bontà, la logicità di alcune scelte fatte dall'umanità alla fine del XX secolo? Come si racconterà l'incontro dei G8, avvenuto nel lontano luglio 2005, in una sperduta località della Scozia, chiamata Gleneagles, in cui i capi delle nazioni più ricche del mondo si riunirono per garantire che il sistema economico dominante (e che beneficiava esclusivamente loro stessi) si perpetuasse il più a lungo possibile? Nei libri di storia di nostri pro-pro-nipoti, ci potrà essere un riquadro, intitolato: "Mostruosità di altri tempi", in cui si leggerà: «All'inizio del XXI secolo, il reddito annuo delle 70 famiglie più ricche dell'emisfero nord superava quello annuo complessivo di l.455.000.000 di persone che abitavano nell'emisfero sud».
Negli stessi testi figureranno altre "bruttezze estreme": «In quei tempi, in una sola mezza giornata, l'esercito nordamericano spendeva l'equivalente di quanto l'allora Onu aveva a sua disposizione in un intero anno per combattere in Africa l'Aids (sigla formata con le iniziali dell’espressione inglese Acquired Immune Deficency Syndrome, con cui si indicava, fino al 2025, una malattia che colpiva prevalentemente tossicodipendenti e omosessuali nel nord del mondo, e tutti indistintamente nel sud, caratterizzata da una riduzione delle difese cellulari dell'organismo e da manifestazioni cliniche spesso mortali) e malaria (una malattia parassitaria, oggi sconosciuta ma allora mortale, causata da plasmodi che, introdotti nell'organismo umana da zanzare [sic!] del tipo anofele, si riproducevano in seno ai globuli rossi provocando tipici accessi febbrili, con distruzione dei globuli rossi e conseguente anemia)».
E ancora: «Disumanità passate - In un incontro dei leader delle nazioni più ricche del mondo, avvenuto agli inizi del XXI secolo, si declinò l'invito a mettere a disposizione delle agenzie umanitarie di quel tempo la cifra irrisoria di 13 milioni di dollari (moneta usata allora negli Stati Uniti ma adottata da tutti come valuta di scambio, ndr) perchè si potesse eliminare la fame nel mondo. La crudeltà di quel rifiuto stava nel fatto che gli abitanti di una sola di quelle nazioni, gli Stati Uniti, consumavano ogni anno 17 milioni di dollari in cibo per cani e gatti. Anche gli Europei di quel tempo amavano molto i propri animali: erano, infatti, pronti a sovvenzionare ogni loro mucca con 913 dollari l'anno, destinando 8 dollari l'anno agli affamati abitanti del continente africano».I futuri scolari e studenti ci considereranno "autentici barbari". E costateranno - come si è sempre costatato durante secoli di storia - che non sono i ricchi e i potenti a liberare o sviluppare i poveri. Studieranno che la liberazione dalle varie schiavitù, il superamento del razzismo e la fine di ogni tipo di discriminazione sono sempre state conquiste fatte dalle vittime (anche se non è da sottovalutare il sostegno ricevuto da intellettuali onesti e persone di buona volontà).
Questo sogno, ovviamente, appartiene al futuro. Se dovrà realizzarsi, sarà necessario che la storia di oggi conosca radicali svolte. Svolte che saranno - manco a dirlo! - soprattutto sforzo di africani, latino-americani e asiatici, decisi a diventare protagonisti della propria vita e fautori di trasformazioni.
Ha detto un capo indio: «La tua azione di oggi sarà buona, se penserai al risultato concreto che potrà produrre. Sarà ancora migliore, se saprai anche prevedere le sue conseguenze per le generazioni future. Oggi dobbiamo agire, estendendo il nostro pensiero fino all'ottava generazione a venire».
(da Nigrizia, settembre, 2005)
Chi semina vento...
di Giuseppe Scattolin
Fare i profeti è sempre stato un mestiere rischioso. Oggi che il termine "profeta" è stato banalizzato e ridotto a "futurologo", è addirittura temerario. Eppure, la futurologia va molto di moda nel nostro mondo così secolarizzato e così pieno di banali superstizioni. (Quale interessante materia di studio per gli antropologi!).
Se però "profeta" sta ad indicare uno che cerca di leggere in profondità la realtà presente, per indicare quali potrebbero essere le conseguenze di alcune premesse, allora siamo in piena tradizione biblica. In tal caso, la mia risposta è la seguente: «Il futuro dipenderà dalle premesse che insieme creiamo».
Come ho già più volte detto da queste pagine, il mondo islamico odierno ha bisogno di una seria riflessione per uscire da un atteggiamento puramente apologetico (per lo più rivolto al passato) e per assumere più seriamente le sfide che la convivenza nel "villaggio globale" umano impone a tutti. Mi riferisco, in particolare, al tema dei diritti umani fondamentali, quali una vera libertà di coscienza, l'esigenza di un'autentica giustizia sociale, e l'apertura alle altre religioni e culture. A questo riguardo, non mi stancherò mai di ripetere che non tutti i musulmani sono estremisti. Esistono pensatori musulmani che affrontano tali tematiche con serietà ed impegno, ma sono per lo più isolati, se non addirittura perseguitati ed eliminati dalle società islamiche. Ed è la prima "premessa" negativa.
Se però questi pensatori trovassero maggior sostegno, sia dentro che fuori i loro paesi di origine, allora si potrebbe cominciare a respirare un’aria più pluralista all’interno delle società islamiche. Da qui, la fondata speranza che a prevalere non sarà l’islam del tradizionale "imperialismo religioso islamico" (come personalmente preferisco chiamarlo) o dell’"islam politico" (come viene definito più correttamente), ma l’islam dei valori umani di libertà e giustizia, cioè quell’islam che dà una ragione d’essere ad un "umanesimi islamico".
Nelle società occidentali, invece, bisognerà vedere se a fare la parte del leone sarà la politica dell'"imperialismo liberista (o libertinista) finanziario" americano, tragicamente caratterizzato dall'arroganza e dalla più totale ignoranza della situazione culturale dei popoli islamici. Se sarà così, allora si sarà posta una premessa tragicamente negativa, che avrà, come conseguenza, una sempre più violenta reazione da parte dei popoli islamici, dominati da correnti estremiste e violente, che soffocheranno sul nascere ogni tentativo di rinnovamento interno. L'Iran dal post-Khomeini è lì a dimostrare ciò.
Se, invece, come ci si augura, prevarrà una politica illuminata dal rispetto dell'altro e dal sincero impegno per un apertura verso un pluralismo culturale e religioso, sostenendo persone e movimenti che si muovono in tal senso (anche se non potranno contraccambiare con i pertrodollari), allora non è da escludere la speranza che anche i popoli del mondo islamico potranno aprirsi agli altri "quartieri" del villaggio globale in spirito di fraterna collaborazione ed amicizia.
Non vorrei apparire pessimista. Ma ritengo che i recenti sviluppi della situazione mondiale abbiano avuto un segno più negativo che positivo, sia dentro che fuori i paesi islamici. Ma siamo sempre in tempo. Anzi, è necessario cambiare la nostra politica ed il nostro indirizzo culturale. Non si tratta più di domandarci se sia o meno possibile il dialogo, ma di convincerci che non esiste alternativa ad un dialogo serio ed impegnato. L’altra alternativa, infatti, sarà una terza guerra mondiale. Che, in parte, è già cominciata con la guerra scatenata dalle bande "terroriste", e che noi occidentali abbiamo alimentato con la nostra miope politica dei petrodollari.
Si tratta, quindi, d'impegnarci seriamente a creare premesse positive, certi che l'albero buono darà frutti buoni.
(da Nigrizia, gennaio 2004)
Sull'origine del male umano, culminante nella morte, la Bibbia offre una riflessione di tipo sapienzale. “In principio” non c'è il male, ma solo l'azione di Dio che fa esistere il mondo e lo chiama “buono” o “bello-splendido”.
Approfondimenti (2)
di Franco Gioannetti
Ma che cosa è la dimensione mistica della vita spirituale?
La vita spirituale è quella realizzata nello Spirito del Risorto, è rapporto di comunione trinitaria con il Dio vivente incontrato definitivamente ed in pienezza mediante Gesù nel suo Spirito.
È questa l’accezione generale del termine “mistica”, che esprime la realtà della santità possibile ad ogni vita cristiana.
Un’altra accezione tecnica designa la mistica come le fasi alte, elitarie della vita cristiana. Si chiama allora mistico uno stato particolare di unione con Dio al quale si è elevati dalla grazia di una misteriosa elezione o scelta. Per “mistica” si intende anche il campo dei fenomeni sperimentati dal mistico nel loro svolgersi nella sua anima.
Alcuni considerano la vita mistica come un dono divino completamente gratuito, altri come il coronamento formale di un processo evolutivo della vita cristiana asceticamente educata.
In ogni caso la vita cristiana è vita mistica perchè è partecipazione alla vita divina nella quotidianità e molte sono le persone che vivono il senso della presenza di Dio nella loro giornata, senza per questo allontanarsi dai propri doveri temporali.
Dunque fondamentalmente si tratta di un forte e sereno senso delle presenza di Dio e di un agire della vita quotidiana rivolti sempre all’Ospite invisibile.
Ciò che caratterizza la mistica cristiana è l’amore personale, un atteggiamento che abbraccia l’altro, lasciandolo nello stesso tempo nella sua libertà, un atteggiamento che nella sua esperienza interiore va al di là di sè per aprirsi all’altro.
Se la mistica è soprattutto amore, risulta comprensibile perchè il “cuore” come profondo dell’essere e come organo dell’esperienza mistica svolga un ruolo così rilevante nel cristianesimo. Un teologo moderno della Chiesa Orientale descrive la tradizione mistica dell’encasmo così come viene coltivata sul monte Athos, come “spirito del cuore”:
“L’attenzione si concentra sul cuore, come su una torre di guardia, dalla quale lo spirito controlla quei pensieri e sentimenti che cercano di introdursi nel cuore, il santuario della preghiera...
concentrato sul cuore, il pensiero raggiunge una unità totale, sostenuto com’è da una disposizione unitaria di grande intensità umana...”
Fonti di rinnovamento.
Monasteri in Egitto
di Luciano Ardesi
Già culla del monachesimo cristiano, negli ultimi 50 anni il deserto egiziano è stato testimone di un grande risveglio spirituale e materiale degli antichi monasteri copto-ortodossi che lo punteggiano. Restaurati, questi luoghi sono oggi resi vivi dalla presenza di numerosi monaci. Anche le agenzie di viaggio li inseriscono nei loro programmi.
La rinascita del monachesimo nella chiesa copto-ortodossa ha inizio dopo la Seconda guerra mondiale, grazie soprattutto all'impulso degli ultimi due patriarchi: Cirillo VI (1959-71) e Shenuda III, ambedue provenienti da intense esperienze monastiche.
La tradizione dei primi Padri del deserto si rifà sostanzialmente a due modelli; quello di Sant’Antonio (251-356), il più celebre anacoreta (eremita), e quello di San Pacomio, di poco posteriore, fondatore del modello cenobita (comunitario). Oggi i due modelli coesistono nella maggior parte delle esperienze in corso.
Centro di questo rinnovamento spirituale è il monastero di San Macario, dove vive Matta el-Meskin ("Matteo, il povero"), conosciuto anche all'estero grazie alla traduzione delle sue opere. La sua esperienza aiuta a comprendere quella della stragrande maggioranza degli odierni monaci egiziani.
Nel 1948, Iuseff ha28 anni. Ha una laurea in farmacologia e gestisce una farmacia, che gli garantisce una vita relativamente agiata. Come il ricco Antonio 16 secoli e mezzo prima, però, sente forte il richiamo di Cristo: «Va', vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mc 10:21). Sceglie allora di ritirarsi nel deir Amba Samuel (monastero di San Samuele), il più povero e più isolato di tutto l'Egitto presso el-Fayum, da poco restaurato da Mena el-Motawahid ("l'eremita"), il futuro patriarca Cirillo VI. Il nome che si dà, Matta el-Meskin, è tutto un programma. Qui trascorre tre anni come padre spirituale del monastero, poi viene trasferito al deir el-Suryan (monastero dei Siriani), a Wadi el-Natrun, una zona conosciuta nella tradizione dei Padri dei primi secoli come deserto di Scete.
Nel 1959, in compagnia di alcuni compagni, Matta va a Wadi el-Rayan, dove vivono in grotte simili a quelle in cui erano vissuti i primi Padri del deserto. Vi rimane fino al 1969, quando Cirillo VI lo invita a raggiungere il monastero di San Macario (deir Abu Maqar), in procinto di essere chiuso. Qui, raggiunto da altri monaci, Matta diventa l'anima del rinnovamento spirituale e materiale del monastero, pur rifiutando di diventarne il superiore. In pochi anni, il cenobio moltiplica per sei la proprietà e giunge a ospitare un centinaio di monaci. Egli però continua a vivere in una grotta non lontana, visitando la comunità solo quando i monaci chiedono di lui come padre spirituale.
Ospitalità
Il deserto di Wadi el-Natrun è oggi raggiungibile con l'autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Delle decine di monasteri costruiti nel corso dei secoli ne rimangono solo quattro: deir Amba Bishoy, deir el-Suryan, deir el-Baramos e deir Abu Maqar. Quest'ultimo è il più noto e il più aperto ai cristiani di altre confessioni.
È abba Ireneo ad accompagnarmi nel corso della visita. Mi ha accolto con pane, olive e tè, a testimonianza della proverbiale ospitalità del luogo. Indossa l'abito tradizionale di lana nera, sormontato da un cappuccio ornato di croci ricamate. Mi dice che anche lui era stato un farmacista prima di farsi monaco. Aggiunge: «Quasi tutti in questo monastero siamo laureati nelle più diverse discipline, anche tecnologiche. Questo spiega perché siamo dotati di un computer e curiamo un nostro sito web. Molto visitato, del resto».
Il monastero oggi vanta 700 operai e vive dei prodotti della terra, che gli stessi monaci coltivano, dell'allevamento e delle pubblicazioni in proprio.
Molti, anche se non sollecitati, i doni e le offerte.
Anche se entrati nella modernità, i monaci non guardano la tivù né ascoltano la radio. La loro attività principale, oltre al lavoro manuale, è la preghiera. Due i momenti vissuti in comune: la recita delle lodi, dalle 4.00 alle 6.00 del mattino, e il pasto di mezzogiorno. La cena, sempre molto frugale, è consumata da ciascun monaco nella propria cella.
Poco lontano dal convento, vivono anche alcuni monaci anacoreti o eremiti, ai quali i monaci della comunità portano acqua e viveri una volta la settimana. «Hanno bisogno di molto poco» spiega abba Ireneo: «Pregano molto e non parlano con nessuno».
Come tutti i monasteri della regione, anche quello di San Macario ha subito nella sua lunga storia numerosi assalti e saccheggi. Conserva ancora le reliquie di 49 martiri, uccisi nel V secolo. Al centro del complesso c'è ancora lo qsar, la fortezza autosufficiente e isolata dal resto del complesso dove i monaci si rifugiavano in casi di aggressioni da parte dei nomadi.
Grande apertura
Oggi, l'aggressione esterna è di tutt'altra natura ed è rappresentata da migliaia di pellegrini e curiosi che vengono a visitare il luogo. I monaci mostrano di saper amministrare con equilibrio il loro desiderio di isolamento e il sano interesse che molti mostrano nei confronti del loro stile di vita.
Nei monasteri del deserto di Scete non esiste - né è mai esistita - una “Regola”. Ogni cosa viene governata dalla direzione spirituale del monaco più anziano, cui i discepoli devono obbedienza. A San Macario libertà spirituale e semplicità senza artifizi sembrano regnare più che altrove. Ed è proprio questa atmosfera a facilitare la grande apertura e l'intenso scambio spirituale tra il monastero e il resto della grande famiglia cristiana.
Dal punto di vista storico, fu la parte orientale del deserto, non distante dalla costa del Mar Rosso, a essere il primo centro d'irradiamento dei Padri del deserto. Qui si trova il monastero di San Paolo. Eretto forse nel VI secolo da Giustiniano e, secondo la tradizione, attorno alla cella-grotta di Paolo di Tebe, il primo anacoreta in assoluto, fu fatto bersaglio di ripetuti attacchi e quindi abbandonato per lungo tempo. Oggi, nonostante i restauri - alcuni anche recenti-, l'insieme degli edifici conserva un aspetto più tradizionale e arcaico degli altri. Esiste ancora, ad esempio, una porta con l'antico sistema usato per far entrare i monaci o gli approvvigionamenti, sollevandoli con corde attraverso un sistema di carrucole.
Il monastero di Sant'Antonio è situato ai piedi della montagna dove il grande eremita ebbe la sua ultima dimora. Costruito dai discepoli nel IV secolo ospita in una delle sue chiese la tomba del santo, tuttora meta di un continuo e affollate pellegrinaggio. Di recente, il patriarca Shenuda III l'ha voluto restaurare per farne un centro di impulso spirituale. Le sue alte mura racchiudono ben 10 ettari di terreno, facendone il più vasto dei monasteri copti. Dietro il complesso si snoda la lunga scalinata – un’ora di fatica! - che porta alla caverna di sant'Antonio, oggi trasformata in cappella.
Forse il monastero copto più noto agli occidentali e quello di Santa Caterina, nella penisola del Sinai. Per arrivarci, si deve attraversare il Canale di Suez e scendere lungo il Mar Rosso, le cui coste settentrionali si stanno ricoprendo di nuovi centri turistici che contrastano con la struggente bellezza del deserto. Incassato in una vallata ai piedi del Monte Sinai (Gebel Musa), meta anch'esso del turismo di massa, il monastero ha l'aspetto di una fortezza. Anche
qui, lungo i secoli, i monaci hanno dovuto difendersi da molti attacchi.
Oggi, invece, questo luogo spirituale è letteralmente "aggredito" dai turisti, di gran lunga più numerosi dei pellegrini veri e propri. È stato costruito un ostello per i visitatori, che assomiglia più a un vero e proprio hotel. Dall'altra parte della vallata, di rimpetto al monastero, una impressionante colata di cemento è venuta a rafforzare la capacità ricettiva della zona.
Fedeltà
Questo essere presi d'assalto proprio da quel mondo da cui si è cercato di allontanarsi non è una novità nella vita dei conventi egiziani. Basta leggere le storie degli antichi Padri del deserto per rendersi conto di quanta gente corresse da loro in cerca di consigli o con richieste di preghiera. Oggi come allora, comunque, i monaci sono maestri nell'arte di adattarsi e di rinnovarsi, pur riuscendo a rimanere del tutto fedeli alla tradizione, grazie soprattutto alla direzione spirituale di figure eccezionali.
La tradizione della chiesa copto-ortodossa vuole che i patriarchi e i vescovi siano scelti tra i monaci. Non sorprende quindi, che il monachesimo abbia mantenuto una centralità che invece, ha perso nella chiesa cattolica o comunque occidentale.
Non va dimenticata la dimensione femminile dell'odierno risveglio spirituale operato dal monachesimo. Oggi sono diversi i monasteri femminili riabilitati e ripopolati da monache. È però vero che, come le Madri del deserto (il primo monastero femminile fu diretto da Maria, sorella di Pacomio) furono oscurate dai Padri ieri, le comunità monastiche femminili sono surclassate da quelle maschili oggi.
Tra le varie ragioni del rinnovamento del monachesimo egiziano alcuni citano la reazione alle molte discriminazioni cui i copti sono oggi sottoposti nel paese, soprattutto con l'avanzare del fondamentalismo islamico. C'è chi si spinge oltre e parlerebbe addirittura di una sorta di “nazionalismo copto”
Dagli anni Ottanta, le vocazioni monastiche sono notevolmente aumentate e il loro rifiorire contrasta vistosamente con il languire di molti monasteri in Europa. Non sorprende, pertanto, che alcuni monaci occidentali vengano proprio qui ad attingere alla sorgente della vita monastica, dando così vita a una nuova interessante esperienza di spiritualità e di conoscenza. Consapevoli di questo nuovo ruolo e delle loro attuali potenzialità, i monaci copti hanno intrapreso l'attività missionaria, anche per assumersi la cura pastorale della diaspora copta nel mondo. Un monastero è stato fondato anche nel deserto della California, e porta naturalmente il nome di Sant'Antonio.
(da Nigrizia, dicembre 2004)
La tentazione diabolica
di Frédéric Lenoir
Poco importa se il diavolo esiste o no: ma non si può negare che esso ritorna. In Francia e nel mondo. Non in maniera spettacolare e fragorosa, ma in maniera diffusa e multiforme. Possiamo individuare una quantità di indizi di questo sorprendente come back. La profanazione di cimiteri, più sovente a carattere satanico che razzista, si sono moltiplicate ovunque nel mondo durante l’ultimo decennio. In Francia sarebbero più di tremila le tombe di ebrei, di cristiani e di musulmani che sono state profanate negli ultimi cinque anni, cioè il doppio che nel corso del decennio precedente. Se soltanto il 18% dei Francesi crede nell’esistenza del diavolo, sono i meno di 24 anni a essere i più numerosi (il 27%) nel condividere tale credenza. E il 34% pensano che un individuo può essere posseduto dal demonio. La credenza nell’inferno è addirittura raddoppiata durante gli ultimi due decenni. La nostra inchiesta mostra che fasce non trascurabili della cultura degli adolescenti – gothismo, musica metallica – sono impregnate di riferimenti a Satana, figura ribelle per eccellenza che si è opposta al Padre.
Dobbiamo leggere in questo universo morboso e talora violento la semplice manifestazione di un normale bisogno di rivolta e di provocazione? Oppure accontentarci di spiegarlo con la proliferazione di films, di fumetti e di videogiochi che mettono in scena il diavolo e i suoi accoliti? Negli anni 60 e 70 gli adolescenti – e io ne facevo parte – cercavano piuttosto di esprimere la loro differenza e la loro rivolta con il rifiuto della società dei consumi. I guru indiani e la musica suadente dei Pink Floyd ci affascinavano di più che Belzebùl e gli heavy metal superviolenti. Non dobbiamo forse leggere in questo fascino per il male il riflesso delle violenze e delle paure del nostro tempo, che è segnato da uno slittamento dei punti di riferimento e dei legami sociali e da una profonda angoscia di fronte all’avvenire? Come ci ricorda Jean Delumeau, la storia mostra che proprio nei periodi di grandi paure il diavolo ritorna in scena. Non è questa anche la ragione del ritorno di Satana in politica? Reintrodotto dall’ayatollah Khomeyni quando fustigava il grande Satana americano, il riferimento al diavolo e la diabolizzazione dell’avversario è stata ripresa da Ronald Reagan, da Bin Laden e da Georges Bush. Quest’ultimo, del resto, non fa che ispirarsi alla considerevole crescita in popolarità di cui gode Satana fra gli Evangelici americani, che moltiplicano le pratiche di esorcismo e denunciano un mondo sottomesso alle potenze del Male. Dal tempo di Paolo VI che evocava i “fumi di Satana” per parlare della crescente secolarizzazione dei paesi occidentali, la Chiesa cattolica, che aveva pur preso da molto tempo le distanze dal diavolo, non resta indietro e, segno dei tempi, il Vaticano ha creato un seminario di esorcismo in seno alla prestigiosa università pontificia Regina Apostolorum.
Tutti questi indizi meritavano un vero dossier di inchiesta non solo sul ritorno del diavolo, ma anche sulla sua identità e sul suo ruolo. Chi è il diavolo? Come è apparso nelle religioni? Che cosa dicono di lui la Bibbia e il Corano? Perché i monoteismi hanno bisogno di questa figura che incarna il male assoluto più che le religioni sciamaniche, politeiste o asiatiche? E anche: in che cosa la psicanalisi può illuminarci su questo personaggio, sulla sua funzione psichica e permetterci una stimolante rilettura simbolica del diavolo biblico? Perché se, secondo la sua etimologia, il “simbolo” – symbolon – è “ciò che riunisce”, il diavolo – diabolon – è “ciò che divide”. Una cosa mi sembra sicura: soltanto identificando le nostre paure e le nostre “divisioni” sia individuali che collettive, portandole alla luce con un lavoro esigente di coscientizzazione e di simbolizzazione, integrando le nostra parte di ombra, si potrà venire a capo del diavolo e di questo bisogno ancestrale, vecchio quanto l'umanità, di proiettare sull'altro, sul diverso, sullo straniero, le nostre personali pulsioni non padroneggiate e le nostre angosce di divisione.
Note
1) Secondo un sondaggio Sofres Pélerin magasin del dicembre 2000.
2) Les valeurs des Européens, Futuribles, Juillet-Août 2002.
(in Le monde des religions, n°10, p.5. Traduzione a cura di Maria Grazia Hamerl)
Gesù il bambino
di Enzo Franchini
Si potrebbe anche cominciare dall'icona che O. Wilde traccia di Gesù - bellissima ed equivoca - per capire quale tentazione possa essere per noi la sublimazione dei simboli: «Il posto di Cristo è tra i poeti. Tutto il suo modo di concepire l'uomo balzò dalla sua immaginazione, e soltanto per mezzo dell'immaginazione può essere concepito. (...) Prima del suo tempo vi erano stati uomini e dèi. Lui solo vide che a un livello superiore di realtà non c'è che Dio e Uomo, e sentendoli entrambi incarnati in sè col misticismo dell'amore, chiama se stesso Figlio dell'Uno e figlio dell'altro. (...) Egli ridesta in noi quell'inclinazione al meraviglioso che è sempre attratta dalla poesia. Vi è tuttavia per me qualche cosa di quasi incredibile nell’idea che un giovane contadino di Galilea abbia immaginato di poter reggere sulle spalle il fardello dell'umanità intera (...) i peccati di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI (...); e non solo l'abbia immaginato, ma ne abbia fatto una realtà, cosi che oggi chiunque venga in contatto con la sua personalità anche se non si inchina ai suoi altari nè piega il ginocchio davanti ai suoi sacerdoti, trova tuttavia che in qualche modo la macchia dei propri peccati è cancellata e gli è rivelata in cambio la bellezza del proprio dolore».
Il testo continua con un sobrio paragone con grandi miti poetici (compresi Eschilo, Dante, Shakespeare e le mitologie celtiche), per dire che non è nemmeno possibile il paragone con altri miti, quando il Cristo Gesù condensa in se stesso un tale cumulo di simboli, a ogni tappa della sua vita, da doversi dire che «la sua vita stessa è il più stupendo dei poemi. Quanto a "pietà" e "terrore" (ciò che Aristotile chiede nella sua Poetica, in nota) non esiste nulla che vi si avvicini nell'intero ciclo della tragedia greca».
E poi: «Non vi è nulla che per pura semplicità di pathos, fusa e accoppiata con una sublimità di effetto tragico, possa uguagliare l'ultimo atto della passione di Cristo o anche solo avvicinarvisi. La parca cena con gli amici, uno dei quali lo ha già venduto per denaro; l'agonia nell'oliveto silenzioso illuminato dalla luna; il falso amico che gli si accosta per tradirlo con un bacio; l'amico (...) che lo rinnega mentre il canto del gallo annuncia l'alba vicina; la sua completa solitudine, la sua sottomissione, il suo consenso totale (...) Pure. l'intera vita di Cristo - così totalmente Dolore e Bellezza possono fondersi nel significato e nelle manifestazioni - è in realtà un idillio», che il poeta descrive per una quindicina di pagine, tra le più ispirate di quell'ammirabile sfogo che è il suo De profundis (1).
Il sublime non salva
Pagine come queste hanno almeno il merito di riscattare la riflessione cristiana da quelle bambinerie decadenti - o da quel dolorismo rivoltante - in cui si bagnano certe devozioni. È necessario l’istinto del grande e del bello per non immeschinire la rivelazione dentro il nostro languore.
Eppure Gesù non si è incarnato per dare spettacolo. Era lontanissimo dal volersi dimostrare più bello e più bravo degli altri Non si sfugge al rischio di romanticheggiare sull’eroe, se non si decide di guardare Gesù per come si trova, umanamente solidale con gli ultimi, coscientemente deciso a stringersi nei loro stessi limiti, salvo il peccato
Non c'è niente di più serio - di più autentico - del suo farsi uomo, oltre tutto in periferia, dove le condizioni igieniche, alimentari, familiari, civiche, lavorative erano tali che ci disgusterebbero di sicuro, se toccasse a noi di approvarle.
La convivenza di Gesù con gli uomini è il capovolgimento dello stentoreo. Se lo si togliesse dalla sua piccolezza, lo si altererebbe. È per farsi piccolo che l'infinitamente Eccelso si è fatto uno di noi. Per poter avere un cuore come noi. Per esserci solidale dal di dentro della nostra mediocre misura.
Se ciò nonostante la vita di Gesù esplode per ineguagliabile, inaspettata bellezza, non è mai a scapito della sincerità con cui Gesù - senza una pietra dove poggiare il capo, bisognoso di inventare giorno dopo giorno gli espedienti per campare, e così perseverare nella sua missione - si "indigenizza" nella normalità dei poveri. La Dimora deve cercare alloggio tra di noi. Il Cibo si nutre di noi. Lui, la Salvezza, ha bisogno d'aiuto e di compassione. Lui solo è la nostra speranza, perchè ha avuto bisogno di sperare lui per primo.
Il Modello delle beatitudini fiorisce di un'insospettata bellezza, ma solo perché resta fedele alla sua scelta di non sopraffare la piccolezza, che è la sua livrea.
Ed ecco il Bambino come segno: sia nel senso infantile del termine sia nel significato traslato di servo, di ragazzo d'opera, che ben presto il Figlio dell'uomo rivendicherà come stato sociale.
La storia cristiana d'occidente ha una sua rottura. che le permetterà una ripresa non ancora esaurita: e il segno del Bambino diventa il punto della svolta.
Non occorre stare altro che ai riti di fatto: il primo medioevo si stacca dalla sua aspra interpretazione "imperiale" del cristianesimo, quando riscopre con devozione l'umanità umilissima di Gesù: e - in modo tutto particolare - proprio la devozione a Gesù Bambino. Francesco e il suo presepio. Antonio. che si raffigura con il Libro in mano, oppure con il Bambino in braccio, oppure con tutt'e due, così che il Bambino sembra essere contenuto dal Libro; e poi l'iconografia, luoghi di culto, la prassi devozionale, si dilungano sul Bambino, fino al rischio di far dimenticare che il cristianesimo è anche crisi e Giudizio.
Nunc dimittis
Non siamo mai capaci di leggere integralmente il simbolo. Del resto è nella natura stessa del simbolo ispirare continuamente oltre se stesso. Quando però il simbolo si estenua in immagine, si spegne nel consueto e determina quella "normalizzazione" che è il limite di tutte le devozioni. Il punto irrinunciabile per comprendere l'infanzia di Gesù senza sbavature decadenti o romanticheggianti, sta nell'affermazione che l’incarnazione è un evento trinitario. Non si può separare la Trinità "immanente" e la Trinità "economica", in modo da fare dell’"economia" dell'evento cristiano un luogo interiore una specie di accomodamento per cui saremmo autorizzati a lasciare il Dio del cielo per interessarci solo del clima religioso nostrano, dice la Commissione teologica internazionale. La quale continua «l’economia della salvezza manifesta che il Figlio eterno assume nella sua propria vita l'evento "kerotico" della nascita, della vita umana e della morte in croce. Tale evento, in cui Dio si comunica in modo assoluto e definitivo, riguarda in qualche maniera l'essere proprio dì Dio Padre, in quanto è il Dio che compie questi misteri e li vive come suoi in unione con il Figlio e con lo Spirito santo. Non solo infatti nel mistero di Gesù Cristo, Dio Padre si rivela e si comunica a noi liberamente e gratuitamente mediante il Figlio e nello Spirito Santo, ma il Padre con il Figlio e lo Spirito santo conduce la vita trinitaria in una maniera profondissima - almeno secondo il nostro modo di pensare - in qualche modo nuova in quanto il rapporto del Padre al Figlio incarnato nella consumazione del dono dello Spirito è la stessa relazione costitutiva della Trinità».
Gesù, manifestazione della vita trinitaria: e questo per definizione, così che chi vede lui vede il Padre (Gv 12.45;14.9). Per capire Dio, occorre adorare con assoluta fedeltà l'immagine che, coi il suo vivere umano, Gesù traduce con autenticità.
La tendenza è quella di guardare alle "azioni di ruolo" di Gesù, là dove Gesù si propone ufficialmente come il Figlio in atto di compiere gli interventi alla redenzione che soltanto lui è in grado di compiere. Ma i grandi gesti per cui Gesù è sacerdote e re sono suoi, soltanto suoi. Si tratta di sapere se il suo "privato personale (per adoperare un’espressione consueta) non sia altrettanto importante. E, di fatto, lo è. La redenzione proprio in questo consiste: la nostra vita e la nostra morte vengono assunte nell’umanità di Gesù e in tal modo metabolizzate. Non sarebbe salvato ciò che Gesù non avesse inteso far proprio, per mezzo di una solidarietà che mette in comunione la nostra vita con la sua vita. Anche nei gesti più quotidiani. Compresa la sua debolezza, inclusa la "piccola" esistenza di Gesù bambino. Se Gesù si fosse incarnato solo per operare quei momenti sommi che, poi, avremmo celebrato nelle feste liturgiche, non sarebbe ancora il nostro salvatore. Gesù è redentore in quanto prende esattamente la vita degli uomini per come è fatta, per trasfigurarla in sè stesso. Ciò che noi saremmo tentati di chiamare "privato personale" di Gesù è, i, realtà, la consistenza stessa della sua insuperabile solidarietà.
Non basta. perché in questo suo farsi come noi ci rivela il Dio eterno che ci si fa vicino e si "trasferisce" nella nostra esperienza dimostrandosi capace di umanità. L'assoluto intraducibile si "narra" a noi tramite il suo Unigenito (Gv 1,18) la cui vita, somigliantissima alla nostra vita, ci riporta alla somiglianza nostra con Dio.
Non si finirà mai di aderire ai "misteri" della vita di Gesù - compresa la sua vita "nascosta", privata-personale – per poter avere comunione con Dio: Dio in noi e noi in Dio.
In particolare l’infanzia di Gesù è essa stessa salvezza. Giustamente il profeta Simeone può salutarla come l’adempimento dato il quale egli sa che la sua speranza è adempiuta: può cantare il nunc dimittis.
In quella piccolezza si rivela l’azione stessa di Dio, per come era stata promessa: Gesù è il Germoglio (che è il nome tipico del Messia che sarebbe intervenuto a salvezza apparendo come una cosa da niente: Is 4,3; GR 23,5; 33,15-16; Zc 3,8; ecc.): la nuova nazione dei redenti sarebbe insorta da lì. È niente più che la punta del cedro che, trapiantato dal Libano, sarebbe diventata la vigna del Signore (Ez 17,3). È la piccola pietra la cui caduta avrebbe infranto il grande feticcio /Dan 2,31). Non è questione di esaltare il piccolo come bello. È questione di riconoscere il Dio altissimo che si rivela come umile, tale da assomigliarsi pienamente alla "narrazione che ne fa Gesù anche nel tempo della sua infanzia.
Gesù non avrebbe proposto un bambino come modello del Regno, se lui non fosse stato tale, rimanendolo per sempre: nè lo avrebbe proposto se proprio in questo modello non si fosse rivelato il Padre, che non soltanto compatisce i piccoli, ma li ama, facendoli simili a sè.
È in questa luce che il simbolismo troppo epico – e così terrenamente contaminato – di un Oscar Wilde, riceve un significato del tutto più intenso e rivelatore.
In questa luce, il devozionalismo volta a volta crepuscolare, dolorista oppure romantico di chi crede di farsi intimo di Gesù, anche se in realtà non fa che proiettare su Gesù il suo stesso sentimentalismo, viene riscattato dalla luce teologale.
Resta il dovere di rimanere aderenti alla vita di Gesù (anche privata personale) per entrare nel senso cristiano pieno.
La santa mediocrità
Non è ancora abbastanza: perché Gesù si è fatto piccolo come noi per andare ai piccoli. È l'incredibile solidarietà. per cui Colui che era, che è e che viene si è fatto come noi, che dice il senso pieno del suo essere come noi.
È tenerissimo - ed è teologale - il culto a Gesù bambino, ma non è sufficiente perché Gesù stesso non l'ha reputato tale: ha avuto bisogno dei piccoli per farsi come loro; e noi non potremmo più staccare la sua immagine da quella dei suoi "modelli"'.
Non è per una semplice conseguenza caritatevole che il Natale consiglia all'intera cristianità di diventare più buona (cosa, per altro, che avviene intensamente: e non bisognerebbe disprezzare tanto questo buonismo d'occasione...). Non è nemmeno per associazione di idee - visto che Gesù si è fatto piccolo, è il caso di farci venire in mente i piccoli di oggi -: un'associazione del genere sarebbe ancora a stampo etico, e non teologale.
È elementare convincersi che Gesù ci dà appuntamento lì, tra i piccoli e i poveri, perché lui si trova ormai lì dentro. È la fede nel mistero - e non il nostro "operobuonismo – che comporta la nostra cittadinanza tra i poveri. per continuare la verità dell'incarnazione di Gesù fattosi piccolo. Malgrado le esasperazioni sociologiche anche recenti, resta in gran parte vero che "l'esegesi dei poveracci" - quella lettura della redenzione a partire dai famosi sotterranei della storia - non può essere sostituita dall'esegesi dei dotti.
Noverim te, noverim me, pregava s. Agostino, che nella comprensione di chi sia Dio e di chi sono io vedeva il congiungimento degli estremi e, dunque, la possibilità di comprendere tutto. È così forzoso leggere: noverim te, noverim pauperes? Non si tratta di un’alternativa: si tratta di capire l’incarnazione nel suo luogo adeguato, che è l’umanità degli ultimi tra i quali dovrò io stesso annoverarmi.
Non basta essere poveri per essere salvi, e la salvezza non la si declama dichiarando il diritto dei poveri ad avere giustizia: che è un semplicismo in contrasto con Gesù stesso, che è povero alla maniera delle beatitudini e che presenta il fanciullo quale modello perchè il fanciullo sa credere mentre i dotti non hanno alcuna intenzione di disarmare la loro giustizia, per impararne un'altra.
Però non si possono non stimare i mediocri, gli insufficienti. gli storpiati spirituali, non perché siano fatti così ma perchè Gesù si è fatto a loro livello, li serve, lava loro i piedi trova interessantissimo il loro "privato-personale", tant'è vero che è ben deciso a riscattarlo, come cosa preziosa, da recare in dono a Dio. O Dio salva quel loro modestissimo privato - che costituisce la materia della loro personalità - oppure non sarebbe vero ch'egli salva per davvero l'uomo. Egli colloca il mistero dentro la loro povertà, non per esaltarla (che sarebbe ipotesi offensiva!) ma per trasfigurarla, dopo averla assunta come cosa sua.
È così che il Germoglio si innesta sul vecchio ceppo corroso: così la piccola punta del Cedro si dilata fino a vivificare la vigna del Signore.
Anche questo è Natale, anche la straordinaria profezia sui poveri, che non per quello cessano di essere mediocri e probabilmente cattivi. Un Natale non tanto per le nostre opere buone, ma per l'opera buona di Dio, fatto uomo come noi.
Note
1) Wilde O., De profundis, Longanesi, 1984, pp.79-81.
2) Commissione Teologica Internazionale, Cristologia e antropologia, in Regno-doc, 5/1983/145.
Di fronte alla croce, di fronte al silenzio, quante volte ci poniamo questa domanda: “Dov’è Dio?”. Di fronte all’ingiustizia, alla malattia, alla sofferenza, al dolore, alla morte, alle situazioni per noi assurde...
La signora Sapienza
di Donatella Scaiola
Nel libro dei Proverbi i cc. 8-9, che hanno come tema la sapienza personificata, si trovano alla fine dell'ampia introduzione al libro intero (cc. 1-9). Prima di introdurci, quindi, all'analisi dei testi, ci sembra utile inserirli nel contesto prossimo nel quale essi attualmente si trovano.
Un’introduzione alla raccolta dei proverbi
Innanzitutto bisogna notare che l'introduzione al libro (Pr 1-9) si apre (1,20-33) e si chiude con un discorso formulato dalla sapienza personificata (8; 9,1-6.13-18). Questi discorsi mirano a suscitare il desiderio della sapienza e di un determinato stile di vita, piuttosto che incitare a specifici comportamenti. L'insegnamento non verte, infatti, su atti sapienti precisi, ma sulla scelta di uno stile di vita sapiente, dal quale discenderanno scelte coerenti. In questa ricerca della sapienza vi è anche un aspetto trascendente, dal mo- mento che la sapienza, in Pr 8, è presentata nella sua relazione con Dio. Quindi, cercare la sapienza significa cercare Dio. La sapienza è uscita da Dio ed è presente nel mondo come ordine primordiale che l 'uomo può scoprire (Pr 8). Essa soltanto può condurre a Dio. Per riuscire nella vita, bisogna conoscere e padroneggiare la realtà, ma nessuno può conseguire questo obiettivo (essere sapiente) se non vive in comunione con Dio. Infatti, «fondamento della sapienza è il timore di Dio, la scienza del Santo è intelligenza» (Pr 9,10; cf 1,7).
In questi capitoli introduttivi, inoltre, il discorso viene portato avanti spesso in forma dialettica. Le dialettiche più importanti sono quelle tra la donna sapienza e la donna straniera, immagine della follia, una polarità che si trova al centro del c. 9. Collegato a questo discorso è poi il confronto tra le due vie: la via dei giusti e la via dei malvagi. L'opzione tra queste due vie è oggetto di discernimento; di qui l'importanza attribuita ai genitori in rapporto alla sapienza (Pr 1,8; 6,20)1.
In questa attiva ricerca della sapienza, che il giovane intraprende seguendo anche l'insegnamento dei genitori, si frappongono degli ostacoli, rappresentati fondamentalmente dagli uomini stolti (1,8-19; 4,10-19) e dalla donna ingannatrice. Entrambi cercano di convincere chi li ascolta a scegliere la loro strada. Essi offrono «vita», nel senso di benessere, piacere. Parlano in qualche modo come la sapienza, per cui occorre discernimento per scoprire l'inganno che si cela dietro i loro discorsi seduttori. È un modo per dire che la sapienza non è ne banale ne semplice da acquisire.
Infine, questi capitoli introduttivi si rivolgono a un uditore ideale, chiamato «figlio», metafora di tutti coloro che cercano la sapienza. Il lettore di Pr 1-9 è un figlio che viene istruito dai genitori, soprattutto dal padre, sulla vita che dovrebbe condurre. Di qui il carattere «scolare» di questi testi:
Pr 1-9 sembra una raccolta di discorsi di invito all' apprendimento, netta quale il maestro non risparmia sforzi per suscitare nei suoi allievi il desiderio e far comprendere ad essi l'importanza fondamentale del suo insegnamento.
Analisi dei testi
Il titolo del paragrafo non deve trarre in inganno o indurre attese che non verranno del tutto soddisfatte. Infatti, soprattutto il c. 8 del libro dei Proverbi è un testo assai studiato da diversi punti di vista. Dal punto di vista filologico esso pone molti problemi, che almeno in parte non sono risolvibili; si tratta, inoltre, di un testo assai utilizzato nelle controversie teologiche fin dai tempi patristici; all'interno dei libri sapienziali, poi, appartiene a un gruppo ristretto di testi (Gb 28; Sir 24; Bar 3; Sap 7) che si distinguono dall'insieme della riflessione sapienziale per il modo in cui la sapienza personificata parla di se stessa. Quindi, non sarà proposta qui un'analisi dettagliata di questi capitoli, ma piuttosto una riflessione di carattere più teologico.
L' origine della sapienza e il suo rapporto col mondo ( Pr 8)
In Pr 8 parla la sapienza, ma non viene detto chi essa sia, anche se sembra subito che si identifichi con l'intelligenza, cioè con la comprensione del reale. La sapienza fin dai versetti introduttivi (1-3) viene presentata come maestra, come qualcuno che ha un messaggio da comunicare. Formula un discorso di cui essa prende l'iniziativa, rivolgendosi in modo diretto ai suoi uditori, come la parola profetica che scende da Dio, non stimolata dagli uomini. La sapienza parla poi in un preciso spazio urbano, «all'incrocio delle strade» (v. 2), «presso le porte della città» (v. 3), il luogo del mercato, in cui si rende giustizia, là dove la gente s'incontra e gli uomini vivono in società. La sapienza ha di mira non i capi, ma le folle.
Ciò che la sapienza proclama a tutti è la «verità» e la «giustizia» (vv. 7-8), qualità proprie di YHWH in D t 32,4-5, e sintesi dei valori morali e religiosi di Israele.
Ma chi è la sapienza? Essa si svela gradualmente. Nei vv. 12-21 descrive se stessa come consigliera giudiziosa, fonte di benedizione. Invece nei vv. 22-31, la parte più discussa del capitolo, si svela l'identità della sapienza con un richiamo alle origini del mondo. Qui la sapienza parla del ruolo che ha avuto nella creazione. Manca la formula «creare dal nulla», ma parlare di un tempo in cui gli abissi e le acque «non erano», o «non erano ancora», significa parlare di un tempo in cui non esisteva niente. Fin da allora, però, la sapienza esisteva. Essa precede ogni cosa e anteriormente a lei non c'era assolutamente niente.
L'inno chiarisce anche qual era il ruolo della sapienza in quel contesto: essa era là, assisteva all'azione di Dio. La sapienza non è creatrice, infatti essa fu generata (8,24a.25b), ma è il progetto a partire dal quale Dio ha creato il mondo. Svolge dunque un ruolo attivo nel lavoro di organizzazione e di strutturazione armonica del mondo, anche se viene affermato con chiarezza che è Dio a istituire l'ordine dell'universo. La sapienza non crea il mondo ne coincide semplicemente col mondo; essa sta davanti a Dio (v. 30c), ma la sua delizia è con gli uomini (v. 31b); proviene da YHWH (v. 22), ma è presente nel mondo (27a). La sapienza non è Dio, ma non è neanche il mondo: essa ha una sua propria funzione da svolgere nel rapporto tra il mondo e Dio. Rispetto a Dio, la sapienza dona al mondo armonia e stabilità; rispetto agli uomini, essa è il legame che li collega a Dio attraverso la mediazione esercitata dal mondo. poiché la sapienza occupa questa posizione, non sorprende che sia presente senza posa, quotidianamente.
Degno di interesse è lo schema per mezzo del quale viene descritta la creazione. Essa viene presentata come un grande gioco, il gioco dell' artista che crea, metafora adeguata a esprimere il modo in cui Dio crea. Non per egoismo, non per bisogno, ma perchè vuole realizzare un capolavoro, per comunicare se stesso, come l'artista e come il bambino. La creazione viene, dunque, presentata utilizzando la simbolica estetica, ludica, una rappresentazione assai diversa da quelle presenti nell'antico vicino Oriente dove si avevano soprattutto due concezioni della creazione: la creazione come lotta, battaglia, e la creazione come opera del vasaio che plasma (cf Gn 2; Sal 139). In Pr 8 si parla ancora del lavoro, ma facendo riferimento all' artista che non fa fatica perchè la sua fatica è gioia e divertimento.
Questa interpretazione dà un giudizio sull'universo e sul mondo squisitamente ottimistico, perchè la creazione viene presentata come una trama di meraviglie. La rappresentazione non ha solo una funzione contemplativa, ma ha anche una valenza progettuale. Si traduce cioè nell'invito a non rovinare il giardino, a non spezzare l' armonia del mondo. Non è solo il peccato che rovina la meraviglia del mondo, ma anche la mancanza di valori umani, la superficialità, la stupidità.
Da questa autopresentazione scaturisce, quasi naturalmente, l'invito alla presa di coscienza e alla decisione. Nei versetti conclusivi (32-36), infatti, la sapienza si rivolge a tutti: «figli» (v. 32) e «uomo» (v. 34), affinché facciano propria l'educazione proposta dal maestro. L'unica condizione posta all'uomo (v. 34: 'âdâm) per trovare la vita ed essere felice è di ascoltare, accogliere e amare la sapienza (vv. 32-35).
In conclusione, la sapienza viene da YHWH, Dio di Israele, ma anche Dio creatore dell'universo, che interpella ogni uomo per mezzo del mondo. Pr 8 afferma che l' armonia e l' ordine del mondo possono essere compresi e accolti da ogni uomo che, attraverso tale via, incontra il Signore. In questa figura, che è insieme cosmica ed etica, la cui via inizia da YHWH (v. 22) e finisce ad 'âdâm (v. 31), c'è l'offerta che Dio fa a ogni uomo e non solo all'israelita.
L' enigma del banchetto ( P, 9 )
In questo capitolo continua la presentazione della sapienza, però il discorso qui non è più formulato in prima persona. Non parla cioè la sapienza, ma si parla di lei in terza persona. Inoltre, cambia il genere letterario, nel senso che l'inno di autoelogio del c. 8 cede il posto a un discorso diverso. In comune col capitolo precedente, però, ci sono diversi elementi: c'è innanzitutto l'immagine della sapienza costruttrice. Là presiedeva alla costruzione del mondo, qui essa costruisce la sua casa, intaglia le sue sette colonne. C'è poi un invito che parte dai luoghi pubblici della città e si rivolge a un' ampia cerchia di persone; concretamente, a chiunque abbia bisogno di lei. Diverso è, invece, il contenuto dell'invito, come vedremo. Nonostante le differenze!, dunque, i cc. 8-9 possono essere letti in modo complementare.
Perchè la sapienza rivolge questo invito? Sembra qui trattarsi del convito che si offriva normalmente in occasione dell' inaugurazione di una casa nuova. Si possono citare testi sia biblici che extrabiblici, tratti dal ciclo di Baal, a sostegno di questa interpretazione. La costruzione del palazzo, poi, indica l'inaugurazione del regno (2Sam 5,11-12). Si può ricordare, nella stessa direzione, anche un testo proveniente dalla tradizione ebraica che commenta Pr 9,1-6 con il seguente mashal: «Un re costruì un palazzo e, per inaugurarlo, ordinò un convito; egli invitò poi i suoi ospiti».
I testi citati fanno pensare che la sapienza descritta in Pr 9 sia una figura regale. Ci avrebbe allora una progressione rispetto al testo di Pr 8, precedentemente considerato, in cui la sapienza veniva presentata come consigliera di re, ma non come figura regale in se.
Comunque, ci pare che il testo di Pr 9 non metta tanto l' accento sulla costruzione del palazzo quanto sull'invito che la sapienza rivolge a coloro che avrebbero maggiormente da guadagnare dal contatto con lei. In questo consiste anche la principale differenza tra Pr 9 e i testi extrabiblici in cui si parla della costruzione di un palazzo. Per esempio, nel mito relativo a Baal si dice che egli aveva invitato i suoi pari al banchetto, mentre qui la sapienza invita «chi manca di cuore», cioè di discernimento, secondo l'antropologia biblica. A coloro che hanno bisogno di acquistare capacità di giudizio la sapienza offre il suo banchetto, che sembra, a prima vista almeno, essere piuttosto generico: carne (v. 2), pane (v. 5), vino (vv. 2.5).
Senza fermarsi alla prima impressione, occorre considerare la posizione che questo testo occupa all'interno del libro. Dicevamo precedentemente che i cc. 1-9 costituiscono un'introduzione ai Proverbi. Questo capitolo conclude l' introduzione, per cui si può pensare che il banchetto che la sapienza offre sia costituito dall'insieme della raccolta che segue immediatamente. In questo senso si potrebbe intendere anche il riferimento alle sette colonne della casa, che non sarebbero altro se non le sette parti, o collezioni, di cui si compone il libro dei Proverbi. Il vero nutrimento di chi manca di sapienza è l'insieme della raccolta dei Proverbi, che può dare vita e discernimento al semplice.
La sapienza, che in Pr 8,22 veniva da Dio, adesso si rende pienamente disponibile, accessibile a chiunque sia disposta ad accoglierla. È quanto esplicitamente si legge in un proverbio della prima raccolta:
«Le labbra del giusto nutrono molte persone» (Pr 10,21).
A questo fa eco un altro consiglio analogo:
«Mangia miele, figlio mio, perchè è buono, un favo di miele è dolce al tuo palato.
Così sarà, sappilo, la sapienza per la tua anima» (Pr 24,13-14).
Bisogna comunque decidere di accogliere l'invito della sapienza, smascherando le parole false, ma apparentemente simili che la follia rivolge agli stessi interlocutori (Pr 9,13-18). Anche la stoltezza è dotata di una certa autorità, perchè siede su uno sgabello e abita in un luogo elevato, ma, mentre attività e diligenza caratterizzano il modo di essere e di presentarsi dèlla sapienza, la stoltezza se ne sta seduta pigra e oziosa, senza occuparsi di nulla. Sia la sapienza che la follia invitano il giovane inesperto con parole seducenti e con attraenti promesse a recarsi nella loro casa. Le due figure cercano di affascinare l'inesperto mediante la loro voce: la parola è qui, infatti, lo strumento della seduzione.
Questa osservazione ci inviterebbe ad allargare il discorso, riflettendo sulla forza seduttrice che ha la parola umana, su come essa funziona e considerando a quali effetti conduce. Ma in questa sede non possiamo percorrere tale pista di approfondimento.
Conclusione
Non solo nei cc. 8-9, ma nell'insieme della sezione introduttiva (Pr 1-9), la sapienza parla come una donna che intende generare figli alla vita, e il testo la oppone chiaramente alla follia, rappresentata sempre al femminile, ma utilizzando una serie di metafore negative, diverse ma equivalenti dal punto di vista semantico (la prostituta, l'adultera, la straniera). Si tratta sempre di figure seduttrici, ma pericolose. La parola seduttrice è quella che mira a distruggere la comunità e, di conseguenza, a pervertire il linguaggio. La sapienza è, invece, una parola che non solo educa il giovane inesperto, ma edifica anche la comunità. La contrapposizione di due figure femminili antitetiche che offrono apparentemente le stesse cose, allude alla confusione dei valori che si attua attraverso la perversione e lo stravolgimento del linguaggio.
(da Parole di vita, 1, 2003)