Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
La vita, la sofferenza, la morte
nella visione ortodossa
di Vladimir Zelinskij
Cominciamo con la premessa: l’ortodossia è tutt’altro che una confessione eudemonica. Non crede che la felicità terrena, il successo di qualsiasi tipo, la vita tranquilla e non turbata risulti dalla fede cristiana e dall’amore per Cristo. Anzi, la sofferenza, inseparabile da questa vita, viene considerata come partecipazione alla croce. “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”, dice san Paolo (Col. 1, 24). Non direi, certo, che tutti gli ortodossi - compresi i ministri del culto - vivano così, ma il bene spirituale della sofferenza subita e sopportata da noi, sia fisicamente che moralmente, è come se fosse inscritta nel nucleo della fede ortodossa.
Basta ricordare gli innumerevoli eremiti, i padri del deserto, le Tebaide dell’Egitto e della Russia del Nord, ma anche l’ascetismo quotidiano dei semplici credenti che rispettano più o meno fedelmente i lunghi e assai pesanti digiuni, come, ad esempio, l’attuale Quaresima (uno di quattro digiuni dell’anno liturgico, più tutti i mercoledì ed i venerdì). Nella Chiesa ortodossa non c’è una differenza fra la spiritualità dei monaci e quella dei laici; tutti sono chiamati al sacrificio che si esprime nella rinuncia a certi desideri del corpo, ma anche dell’anima. (Il digiuno riguarda non solo il cibo senza proteine, cibo di cui non è raccomandabile mangiarne a sazietà, ma tutta la parte corporale, vita coniugale compresa, al pari di qualsiasi divertimento, le visite, gli spettacoli, i programmi televisivi - tranne le notizie -, ecc. Tutto questo per partecipare – anche in modo simbolico - al cammino di Cristo che va verso la Sua crocifissione e Risurrezione). Il digiuno è lo scopo in sé; ma anche il modo di alleggerire il corpo affinché lo spirito possa spiegare le ali. È chiaro che la mentalità formata dallo spirito ascetico accoglie anche la sofferenza. Si ricorda spesso le parole della Lettera agli Ebrei :
Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore, e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da Lui; perché‚ il Signore corregge colui che Egli ama e sferza chiunque riconoscere come figlio (12, 5).
La correzione del Signore, cioè la sofferenza che cade su di noi, è un segno di benedizione, essa compie il lavoro della purificazione che ci prepara all’incontro col Dio crocefisso e, forse, ci salva dalle prove nell’aldilà. Questo pensiero o consiglio si può trovare in tantissimi scritti dei padri della Chiesa, nei padri spirituali recenti e contemporanei, i quali rimangono sempre attuali. Anche nella percezione ortodossa dell’inesauribile immagine di Cristo troviamo i due tratti più sottolineati e più importanti per la devozione popolare: Cristo Risorto nella Sua gloria celeste e Cristo che si umilia, si spoglia della sua gloria, il quale “disprezzato dagli uomini... si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”, come dice Isaia (53). La fede ortodossa chiama a imitare Cristo non tanto dall’esterno quanto a vivere in Cristo nel proprio intimo, nel proprio cuore, fosse anche nella propria sofferenza. Condividere i patimenti con Cristo è un modo di vivere la comunione spirituale, quasi un sacramento dell’anima.
La fiducia nella Provvidenza
Un altro componente importante per la fede ortodossa - quando essa è veramente creduta e seguita - è la fiducia totale nell’azione di Dio, nella Sua Provvidenza. Non ci sono le circostanze sfavorevoli che non vanno d’accordo con i nostri piani, ma c’è sempre la mano del Signore che ci guida, che ci corregge, che ci porta alla salvezza, spesso attraverso dure prove. Anche quando si tratta di sofferenze insopportabili, secondo la fede nella stessa Provvidenza, a nessuno Dio manda la croce che non sarebbe capace di prendere sulle proprie spalle. Se il dolore fisico o morale è così forte, allora anche tu sei ancora più forte per affrontarlo. La cosa più importante è di non perdere mai la fiducia. In qualsiasi caso non sono io, ma è il Signore della vita e della morte, della gioia e della sofferenza, che decide e il cristiano è chiamato ad ubbidire.
Da questi orientamenti assai generali proviene anche la visione ortodossa della “spiritualità bioetica”. Il problema, come anche il termine stesso, è nuovo per l’ortodossia e praticamente importato dall’estero, cioè dalle confessioni occidentali, dalle cosiddette Chiese sorelle. Sappiamo che tra queste Chiese sorelle negli ultimi anni sono venuti fuori tanti problemi nuovi e si sono aggravati i vecchi, ma se esiste un unico spazio dove non c’è discussione, non c’è opposizione, almeno con la Chiesa cattolica, è per l’atteggiamento nei confronti della vita e della morte. La differenza è nei dettagli. Se, per esempio, la difesa della vita fin dal concepimento nella Chiesa cattolica cerca di appoggiarsi sul ragionamento scientifico, che, come si crede, debba essere normativa per tutti, per la sensibilità ortodossa è più importante sottolineare la partecipazione immediata di Dio nella creazione della vita nuova. L’amore manifestato nella creazione dell’essere umano prevale sulla logica del programma dello sviluppo dell’embrione. Dal punto di vista razionale s’impone sempre la domanda: perché dobbiamo dare la preferenza ad un mucchio di cellule davanti ad una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare malattie finora incurabili? L’ortodossia potrebbe rispondere così: colui che in qualsiasi caso è più forte - poiché ha avuto la sua vita, anche se non piena (e, come diceva uno dei personaggi di Dostoevsky, “ha già mangiato la mela”) - è chiamato a non impedire a un essere umano infinitamente più debole (che non ha vissuto, ch’è ancora innocente), di entrare nella vita,. La venerazione della vita nascente fa parte della fede ortodossa la quale crede che ognuno di noi sceglie da solo il peccato di Adamo, ma Dio ci crea senza peccato.
Prima di tutto, la vita, la morte, la sofferenza non sono "problemi" per i quali dobbiamo trovare una buona soluzione ortodossa accanto alle soluzioni cattoliche, protestanti o laiche, ma appartengono piuttosto al mistero del rapporto umano col Creatore. Il termine "bioetica", però, ci costringe già a una certa scelta, ad un primato semi-nascosto della razionalità morale dell'uomo e della sua certezza di rispondere al mistero della vita. Per questo motivo il modo di vedere rivolto al mistero della creazione, che è proprio dell'ortodossia, si perde davanti alla necessità di risolvere questi "problemi" che in verità non sono niente altro che un'espressione tecnica e razionale della volontà di dominare ciò che Dio aveva creato.
Questa lunga introduzione al nostro tema serve a preparare il terreno per capire o per sentire prima la posizione spirituale al cui interno si pongono e si risolvono le sfide dell’etica della vita nella prospettiva ortodossa. L'attività della mente umana è profondamente segnata dalle cose che sono, secondo San Giovanni, "nel cuore di ogni uomo". Ogni conoscenza ottenuta nel lavoro intellettuale riflette in sé il Verbo che "era al principio con Dio", ma nello stesso tempo l'uomo cerca di fare della sua conoscenza uno strumento di dominazione su tutto ciò che è stato creato e messo a sua disposizione.
Questo confronto nascosto nello spirito umano e nella sua conoscenza si manifesta così fortemente in nessun altro luogo come in quelle scienze che assumono l'uomo stesso e tutto ciò che lo riguarda come oggetto. Prima di fare un atto iniziale della conoscenza scientifica l'uomo, nel suo spirito, fa la scelta per lo scopo della sua ricerca. Ogni volta bisogna fare la scelta fra due chiamate: l’amore di Dio che ci interpella - con il silenzio nello spirito - e la tentazione di essere come Dio, di imitare il Suo potere sulla creazione - che si fa vivo con il rumore del mondo. Cosa può scegliere il pensiero dello studioso: l’ascolto della Parola o la rivalità con la Parola? La fede, infatti, è una risposta alla Parola immessa nella vita di una persona - dunque anche nella vita degli altri - ma la Parola, in questo caso, significa azione di Dio nella vita umana.
Per esempio, per quanto riguarda lo statuto dell’embrione, il pensiero laico insiste nell’affermare che il concepito non è ancora un io e non può essere trattato come tale; diventerebbe un io alla fine della gravidanza. “Il bambino concepito oggi non è lo stesso che sarebbe concepito fra un mese, - dice un genetista, - quindi nessuno di noi può pensare l'aborto come soppressione del proprio io e di un io in genere... La difficoltà ad accettare l’aborto è commisurata con la nostra difficoltà ad accettare il carattere casuale della nostra esistenza, l'assoluta contingenza del nostro io”.
Il cuore del problema è qui. Se noi siamo "gettati" in un pasticcio di contingenze dal nostro concepimento fino alla nostra morte, che, giustamente, dovrebbe essere chiamato "assurdo" - assurdo totale e senza speranza, che ci può portare solo alla morte - o se noi entriamo nel mistero altrettanto assoluto che si trova al fondo della nostra esistenza. Questo mistero è aperto, rivelato; esso ci apre alla presenza di Dio, non come una certa idea della Trascendenza, ma come Provvidenza, come Persona che rimane con noi ogni istante della nostra vita. Soprattutto nel momento della creazione della vita nuova e nella sofferenza. Non credo che la bioetica sia capace di oltrepassare questa scelta iniziale. Nessuna norma morale può costringerci a scegliere la vita in qualsiasi circostanza se questa vita non è riempita dalla stessa Presenza che noi portiamo in noi stessi, dalla stessa Presenza in cui crediamo e che ci si dà come vita eterna...
Dio e il concepimento: il primo incontro
Il fondamento della venerazione della vita nell'ortodossia è strettamente biblico. L'uomo scopre Dio nell'atto della sua propria creazione: prima della propria nascita l'uomo incontra lo sguardo dell'amore. La fede, tra l'altro, significa memoria accesa del mio inizio, quando io non avevo ancora alcuna memoria umana. Così dice il famoso Salmo 139(138) :
Sei Tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le Tue opere, Tu mi conosci fin nel profondo... non Ti erano nascoste le mia ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i Tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro.
La creazione dell'uomo è un atto d'amore che continua, che ha inizio ma non ha fine. Nella scoperta di questo amore l'uomo trova se stesso, il proprio "io" prima dell'"io", il nucleo della sua personalità come figlio che Dio ha creato per sé. Ma per chi è "figlio di Dio", il significato più profondo e originario dello statuto di figlio è di essere creato, amato, chiamato alla vita. La figliolanza divina, dunque, è la caratteristica più importante dell'essere umano, e la persona già esiste nell'amore, nel pensiero, nella memoria di Dio ancor prima della nascita della sua coscienza. Ma anche dopo il suo tramonto, anche nella sofferenza davanti a Dio. In più: quando la nostra personalità non ha trovato ancora il suo proprio "io" (o l'ha già perso), cioè finché questo "io" dell’essere nascente, appena creato, non ha costruito il suo modo di essere per sé - chiuso, in parte separato da Dio a causa del suo peccato - la presenza dell'amore si manifesta nel modo più visibile e più misterioso.
Dove si trova questo “io” autentico? Non crediamo che si tratti dell’“io” del cogito cartesiano, ma dell’“io” che proviene dal sum di Dio. Dio è il Creatore che s’intrattiene con le Sue creature. L’uomo esiste perché esiste Dio che ha messo la goccia della Sua presenza, della Sua luce a fondamento della nostra esistenza. “Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv. 1,9). Se crediamo davvero in queste parole, non possiamo prenderle come metafora. La luce che entra nella nostra esistenza produce il vero deposito della nostra personalità. Quell’”io” creato da Dio è qui. Con la creazione di ogni essere umano (ed in un altro senso: di tutto ciò che “respira”) l’“io” vero (che non conosce il suo destino, non conosce ancora niente, tranne l’amore di Dio che l’ha chiamato dal nulla e costruisce il suo futuro corpo), si sviluppa secondo il suo piano, secondo il “programma” messo in noi insieme con la luce, nel Suo atto creatore. Dopo la nascita, dopo l’infanzia, con la perdita della nostra innocenza quando entriamo nel mondo diviso fra l’“io” e gli altri oggetti, nel mondo in cui ogni “io” vuol diventare il padrone di tutto ciò che si presenta davanti ai propri occhi, l’“io” del Verbo, l’“io” iniziale della luce che ci illumina si ritira nell’ombra. Diciamo che esso si addormenta, ma che può essere risvegliato al momento della sofferenza, a volte estrema, nell’ora dell’agonia e della morte. In quel momento osiamo dire: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi" (1 Gv.4, 16) e se tale è la nostra fede, come possiamo non vedere in ogni atto di concepimento un sacramento della creazione del microcosmo che nasce dal nulla e dall'amore ed in ogni sofferenza la partecipazione alla croce? Dio e la morte: l'ultimo incontro Se la vita è sacra come opera prediletta da Dio fin dall'inizio, essa non perde alcuna parte del proprio valore neanche alla fine. Al contrario, il nostro "tempo finale" è il momento più significativo nel nostro cammino, il cui senso nascosto o rivelato è il nostro dialogo con Dio. La morte ci offre l'ultima possibilità di dire la nostra parola definitiva a Dio, ma anche Lui può cogliere il momento dell'estenuazione fisica per la sua ultima entrata nella nostra anima non ancora separata dal corpo. L'ortodossia ha un atteggiamento speciale verso la morte o piuttosto verso il modo in cui l'uomo va incontro alla propria fine. "I giorni sono fissati", ma la testimonianza più sicura ed autentica della fede è l'umiltà e la gratitudine con cui l'uomo accetta la propria morte, nel modo in cui non gli risulta difficile e pesante. Per l’anima ortodossa la morte troppo facile, troppo breve (o "dolce" come diciamo oggi), è sempre esposta al sospetto, perché questa "dolcezza" ruba all'uomo - ma anche a Dio - il mistero del loro ultimo incontro sulla terra. Il senso di questo mistero è l'annuncio dell'amore divino attraverso la penitenza umana. Questo annuncio, tranne per il suo contenuto sconosciuto, aperto solo all'anima morente, è portato dai due sacramenti che la Chiesa propone: l'estrema unzione e la comunione (ed in caso della necessità anche il battesimo). È con l'annuncio, che significa anche perdono, che l'uomo va all’incontro con Dio nella "vita del secolo futuro".
Ma la morte non è solo la fine della nostra vita. La morte fa anche parte della nostra esistenza quotidiana, anzitutto come avvenimento spirituale della p r e p a r a z i o n e e la memoria della morte non è separabile dalla vita della fede. Ogni liturgia ortodossa ripete almeno tre volte la supplica per una morte "senza vergogna" e "pacifica". "Senza vergogna" vuol dire che l'uomo non deve essere lasciato con il disonore della sua vita spiritualmente perduta. "Senza vergogna" e, se possibile, anche senza sofferenza in senso fisico, “però non, come voglio io, ma come vuoi Tu” (Mt. 26,39). Come ha detto Paul Claudel, esprimendo un pensiero veramente patristico: Il Cristo è venuto non per liberarci dalla sofferenza ma per riempirla di se stesso. Questo riempimento,per la fede, significa la Croce. L'uomo non deve scappare dalla sua croce che è un altro momento della comunione che porta alla salvezza. E come può egli rinunciare alla croce nel minuto più solenne, più "cristico" della sua vita? Quale posto possiamo trovare per l'eutanasia in questa visione della morte? Senza parlare della "morte dolce" del povero corpo umano che ha perso già tutto (la coscienza, la possibilità di muoversi, di parlare, di rispondere almeno con i propri occhi), l'ortodossia confessa la sua fede nell'anima che continua a vivere in modo molto fermo e semplice; come abbiamo detto, la Chiesa dà i sacramenti a questo corpo. Sappiamo poco della vita dell’anima morente, ma crediamo alla vita di questa anima. Il sacramento è un vincolo con le "cose... che non si vedono" (Ebr. 11,1). Perché queste cose nascono già qui, sulla nostra terra, nella nostra anima e fino all'ultimo momento non sappiamo dell’esito della propria vita. Sappiamo che il corpo è ancora animato, che lo spirito dell'uomo non ha ancora finito il suo cammino e, dunque, anch'esso ha il diritto, il dovere, la sete di unirsi con il suo Signore nel sacramento del Suo Corpo e del Suo Sangue. E il Signore può risvegliare quest'anima, portarla alla vita; fino all'ultimo instante il miracolo della guarigione è possibile.
Non si tratta di un'impostazione puramente teologica ma dell'esperienza reale, attestata da moltissimi testimonianze di santi e di gente comune. Persino uno scrittore così lontano dall'ortodossia come Lev Tolstoi, nella sue descrizioni veramente geniali della morte (la morte del principe Andrei in "Guerra e Pace", il racconto "La morte d'Ivan Il'ic" ed altri testi ancora) ha saputo vedere, indovinare nei minuti terminali della vita un'ultima illuminazione (che noi chiameremmo "la grazia") e che si mostra infinitamente più importante di tutta la vita precedente. L'eternità entra in questa fessura che la morte che si avvicina apre in quella corazza attraverso cui passa la nostra esistenza quotidiana mentre il nostro "io" autentico ed eterno (che non è quello cartesiano!) appare nudo davanti al suo Dio - finora, forse, ancora sconosciuto. Mi ricordo una testimonianza straordinaria di Padre Serghij Bulgakov (1871-1944, grande teologo, filosofo, pubblicista). Egli è riuscito a descrivere la propria agonia, dalla quale era sopravissuto. Nel suo saggio “La sofiologia della morte” P. Bulgakov parla con incredibile realismo spirituale della presenza di Cristo nella sua sofferenza. “Io stavo per morire e Cristo stava per morire in me. Con lo stesso grido al Padre: “Perché mi hai abbandonato?” Era un autentico momento della comunione con Cristo nella Sua morte sulla croce. Ma questa sofferenza con Cristo è anche il messaggio della salvezza”.
“Sulla mia fine decido “io!”
Togliersi la propria vita, con il suicidio - anche il suicidio come semplice fuga dalle sofferenze - è stato considerato dall'ortodossia come il fallimento umano più grave, il peccato senza possibilità di penitenza. Fino ai nostri giorni la Chiesa non poteva neanche fare il funerale religioso per colui che deliberatamente si era tolto la vita. La pratica ecclesiale dei nostri giorni è in realtà meno severa, ma la norma che riflette i principi ed è fissata negli antichi canoni rimane la più ferma ed inflessibile.Ma, forse, lo stesso malato, il condannato a morte, ha il diritto di decidere la propria fine? La comunità umana, però, non deve mai essere sua complice. Per la fede ortodossa Dio agisce anche nella morte della persona umana, e noi non abbiamo nessun diritto per cacciarlo via, poiché "la potenza di Dio infatti si manifesta pienamente nella debolezza" ("Cor. 12, 9).
C'è un altro aspetto spirituale non meno importante. La malattia e la morte, nella visione cristiana, sono visti come castigo a causa del peccato. L'uomo deve combattere la malattia, ma egli non è capace e non sarà mai capace di abolire la morte con i suoi sforzi. La sua unica possibilità cristiana è la morte con Cristo e in Cristo e, a volte, come Cristo, nell'agonia e con terribili sofferenze. "Soffro molto, ma con amore", disse il morente Papa Giovanni XXIII. Una tale morte "con amore" ed in Cristo è vista dall'ortodossia come una morte santa. Il concepimento e la morte sono due figure dell'incontro con Dio che dona la vita terrena e quella nell'eternità. E se l'uomo non può evitare la prima, per lui non deve mancare neanche la seconda. Anche con tutte le sofferenze imposte alla fine. In più: lui è chiamato a questo ultimo incontro con la Croce di Cristo. La vita umana ha due confini: il sacramento della creazione ed il mistero della Croce. Lo spazio entro questi confini appartiene alla sua libertà, rispettata anche da Dio, ma in questi confini sacri comincia già la libertà di Dio e l'uomo deve rispettarla a sua volta.
L’ideologia della morte che sta diffondendo nella società odierna si può esprimere con uno slogan: “Sulla mia fine decido “io!”. No, l’uomo può decidere solo sul suo suicidio, la fine della vita appartiene a Colui che l’ha creata. “Decido io”; con il mio “io” piccolo ed orgoglioso è la traduzione nuova della vecchia promessa “sarete come Dio”. Unica “dolcezza” che ci è consentita nella morte è il rispetto della libertà di Dio e la totale fiducia nella Sua sapienza.
Non si tratta di condannare la scienza che cerca di proteggere l’uomo dalle sofferenze; anzi, nonostante tutte le tentazioni, a volte anche diaboliche, la conoscenza umana porta in sé una luce, costituisce un riflesso della saggezza iniziale del mondo, di quella saggezza posta in tutta la creazione fin dalla sua origine. Si tratta di quella concezione della saggezza che il pensiero ortodosso ha sempre valorizzato e caratterizzato il trascendente ed inaccessibile ed il mondo creato. Nella saggezza Dio si dona alla Sua creazione, la riempie con le Sue energie, la investe della Sua presenza. Nella saggezza Dio continua sempre il Suo atto creatore, continua la Sua fecondazione con i suoi "pensieri", continua la Sua opera di formazione delle creature con il Suo amore. "Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con l'intelligenza" (Pr. 3,19). E lo spirito umano vede, percepisce questa saggezza della creazione, che non è altro che la manifestazione dell'amore stesso di Dio nella bellezza della Sua opera. Quando la conoscenza umana si rivolge alla saggezza, l'ascolta, la riceve e l'apre in sé, tale conoscenza diventa santa. Ma quando la conoscenza contesta la saggezza di Dio, la caccia via o la deride, essa diventa una serva del diavolo.
In questo senso ogni scienza ha una vocazione inerente all’essere un insegnamento per l'uso della saggezza o per il dialogo umano con "l'amor che move il sole e l'altre stelle". La scienza può diventare una visione "dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose", come dice S. Isacco, il Siriano. Certo, più spesso essa preferisce violarli e utilizzarli come fa il quartier generale di un esercito che utilizza i segreti militari del nemico. Ma tutti questi segreti, che vengono anche strappati e decifrati, non sono nient'altro che piccolissimi pezzi dell’inesauribile mistero dell'amore - che è un'altro nome della saggezza. E se noi possiamo parlare di saggezza della bioetica, essa comincia dove inizia il cristianesimo: la Parola si è fatta carne. Con l'atto dell'Incarnazione non soltanto il grembo della Santa Madre di Dio - che era stata santificata - ma anche tutta la carne del mondo riceve la sua benedizione, la sua Parola nascosta in ogni creatura. La Parola è dappertutto, nei semi delle piante come nell'embrione umano. Questa Parola non tace, Ella cerca di parlare con noi, ci chiama, vuole entrare in dialogo con noi. "Il mistero dell'Incarnazione della Parola - dice S. Massimo, il Confessore - contiene in sé tutti i significati delle creature..."
L'Incarnazione però è il passo decisivo nella storia della salvezza, storia che non si ferma qui. Questa storia prosegue con la vita, sulla terra, della Parola incarnata, della sua trasfigurazione, della sua morte sulla Croce, della Sua Risurrezione...: "Chi conosce il mistero della Croce e della Tomba” - continua S. Massimo - conosce anche la "ragione delle cose" che nell'ambito della bioetica si apre nell'Incarnazione, cioè nell'adozione di tutto il genero umano nella persona di Cristo. E tutto ciò di cui abbiamo parlato prima: l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica, nella storia di Cristo acquista un senso nuovo...
Possiamo esprimere la risposta ortodossa ai problemi vita, della morte e della sofferenza con l'esortazione di S. Paolo: "in ogni cosa rendete grazia" o nella traduzione letterale: "Fate eucarestia in tutte le cose" (1Tes. 5,18). Questa impostazione eucaristica di fronte alla sfida della conoscenza che sta crescendo senza sosta si fa nell'unione della lode, dell'ammirazione, del mistero. "Fare eucarestia": nella vita di un essere umano significa non soltanto il rispetto della vita, ma la sua venerazione e la sua santificazione, come un miracolo intelligente, fatto da Dio, come l'espressione della Sua saggezza. Accettare la saggezza (che è un altro volto dell'amore) in qualsiasi persona umana (anche nell'andicappato, nel vecchio morente, senza parlare dell'embrione creato dalla saggezza stessa nel grembo della madre) come noi la accettiamo e la riceviamo nei doni consacrati è la sola risposta cristiana alle sfide della sofferenza e della morte, ma anche per la festa della vita.
Non è possibile definire l’uomo senza ricorrere alla comprensione della preghiera. Ma egualmente non possiamo comprendere la vera natura e lo scopo della preghiera senza comprendere la vocazione totale dell’uomo. Chi è l’uomo che prega?
Vivere per servire: ecco un ideale davvero bello per un cristiano! Ogni autentico servizio, infatti, ha la sua radice nel mistero di Cristo che per salvarci "pur essendo di natura divina..., spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2, 6-7)
Rabbi Bär di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro, il Veggente (soprannome dato a Rabbi Giacobbe Isacco) di Lublino: "Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio!".
Le Chiese dell'oriente cristiano
La Chiesa ortodossa
di Mervyn Duffy
A livello di governo ecclesiale, l’Ortodossia è una comunione di chiese che, tutte, riconoscono il patriarca di Costantinopoli come primus inter pares, o “primo fra uguali”. Sebbene egli non abbia l’autorità di intervenire negli affari delle chiese locali al di fuori del suo patriarcato, è considerato primo in dignità e centro simbolico di tutte le chiese ortodosse. Così il Patriarcato di Costantinopoli (conosciuto anche come Patriarcato Ecumenico) gode di una certa priorità fra le varie chiese ortodosse. Questo status è considerato come un servizio per promuovere la conciliarità e la mutua responsabilità. Questo ruolo include il convocare le chiese e il coordinare la loro attività, e talvolta intervenire in situazioni per tentare di trovare soluzioni a specifici problemi.
Lo scisma tra quelle che ora sono conosciute come chiese ortodosse e chiese cattoliche è il risultato di un secolare processo di allontanamento. Eventi come le scomuniche nel 1054 fra il Patriarca di Costantinopoli e il legato papale furono soltanto momenti salienti di questo processo. Inoltre, ogni chiesa ortodossa ha una propria storia di contrasti con Roma. Non c’è mai stata, per esempio, una separazione formale tra Roma e il patriarcato di Antiochia, anche se Antiochia condivise la comune percezione bizantina dello scisma. Oggi è largamente condivisa l’opinione che non ci siano stati fattori teologici in gioco in questo graduale allontanamento fra oriente e occidente. Tra questi ci fu l’interruzione di una regolare comunicazione in seguito a sviluppi politici e all’incapacità di entrambe le chiese di comprendere rispettivamente il Greco e il Latino. Inoltre erano in gioco questioni dottrinali, che riguardavano soprattutto la natura della chiesa. Le più importanti di esse riguardavano l’eterna processione dello Spirito Santo (questo in merito all’aggiunta del filioque al credo della chiesa occidentale) ed il significato del ruolo del vescovo di Roma come primo vescovo nella chiesa.
Due notevoli tentativi di ristabilire la comunione tra i cattolici e gli ortodossi avvennero durante il secondo concilio di Lione nel 1274 e nel concilio di Firenze-Ferrara nel 1438-1439. Sebbene unioni formali fossero state proclamate in entrambi i casi, alla fine esse furono rifiutate dalla popolazione ortodossa. I molti secoli di mutuo isolamento hanno avuto fine soltanto in questo periodo a noi contemporaneo. Un dialogo internazionale ufficiale tra le due chiese ha avuto inizio soltanto dal 1980.
Da dove viene il mondo? Noi, da dove veniamo? Dove andiamo? Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?
È necessario un reale superamento dell'estremismo islamico, che non può essere fatto di semplici parole, ma prendendo in seria considerazione tutte le sue componenti, cominciando da una rilettura critica della storia islamica in vista di una prospettiva nuova.
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
Trentaquattresima parte
Lo spirito o spiritualità marista, come scaturisce dal carisma, si incarna in quattro atteggiamenti: l’interiorità, la povertà, la precarietà e la comunione. Ne delineiamo i contenuti.
1. L’interiorità
La dimensione più profonda in cui vive lo spirito marista è la “vita vera interna”; essa – nella mente di P. Colin – “ Istituti caracter quasi proprius esse debet”. ( Constit., art. VIII, n. 37, p.14) .
Benché la Società di Maria sia un istituto dedicato primariamente all’azione e alla vita apostolica e non ordinato unicamente alla preghiera (“Parole di un fondatore” , op. cit., Doc. 132 , nn. 12-13), tuttavia il P. Fondatore ha pensato che fosse necessario che il Marista attingesse costantemente dall’esempio di Maria lo “spiritus intimae cum Deo unionis” (Constit., art. X, n.49, p. 18). Donde l’importanza per il Marista della complementarietà: “contemplazione-azione”.
Gli Entretiens ci rilevano il metodo che il P. Colin voleva applicato fin dai primi mesi della formazione in vista di stabilire questo fondamento dello spirito marista. Secondo il Fondatore, nei primi due o tre mesi si dovrebbe mirare solo ad unire i novizi a Dio, a portarli allo spirito di preghiera:
“Una volta che ci fosse l’unione con Dio, il resto andrebbe da solo . quando il buon Dio è nel cuore egli agisce in tutto; senza quello, tutto ciò che voi fate è del tutto inutile; avrete ben a piantare, ad affaticarvi, manca il principio vivificante. Ma quando un novizio ha gustato Dio una volta, tornerà a Lui continuamente; è come una risorsa che egli ha nella sua anima ed alla quale è necessariamente ricondotto come al centro; amerà intrattenersi con Lui”. (Parole di un fondatore, op. cit., doc. 63, n.2)
Questo testo è molto significativo sia per conoscere il metodo pedagogico del Fondatore, sia per la grande esperienza spirituale che denota in lui: l’unione a Dio e l’esperienza viva della sua presenza diventano come la chiave della vita spirituale.
I dieci comandamenti di Gesù
di Daniel Marguerat *
Si contrappone generalmente Gesù alla Legge. L’apostolo Paolo, che afferma «Cristo è la fine della Legge», non per nulla rientra in questa immagine. Gesù non è venuto a porre fine al regno di Mosè, e, con lui, al regno della Legge, di cui i Dieci comandamenti sono come la sintesi? Per comprendere la rilettura delle Dieci Parole da parte di Gesù, bisogna cominciare con il demolire questa immagine. Gesù non ha mai rinnegato la Torâ né sconfessato il Decalogo. Come ogni ebreo, egli lo considerava come il depositario della santa volontà di Dio. Il Vangelo di Matteo ne dà testimonianza: Gesù rimproverò anche ai suoi contemporanei di misconoscere la forza di queste parole (Mt 5, 21-48).
Di dove viene allora l'ambiguità? Cominciamo dal punto da cui è iniziata la polemica con i Farisei: la questione del sabato. La conoscenza più fine e sfumata che abbiamo del giudaismo nel I secolo ci permette oggi di dire che Gesù ha raramente violato la prescrizione del sabato. Quando guarisce un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6) o una donna inferma (Lc 13,10-17) o un idropico (14, 1-6), scegliere per questo un giorno di sabato è da parte di Gesù un gesto di deliberata provocazione. Ma salvare una vita faceva parte delle eccezioni alla regola del riposo sabbatico. E quando Gesù esprime questa idea profondamente ebraica che il sabato è fatto per il bene dell'uomo (Mc 2,27; Mekhilta Esodo 31,13), non può che incontrare l’approvazione dei suoi interlocutori. Tra le evidenti trasgressioni del riposo sabbatico, in compenso, figura il gesto dei discepoli che raccolgono qua e là delle spighe nel campo di grano (Mc 2,23-28).
Le scappatoie
I Farisei sapevano bene che la regola del riposo necessitava di eccezioni, che la vita aveva le sue emergenze, e il loro spirito pragmatico li induceva ad adottare delle astuzie. Un esempio: la regola sabbatica non autorizzava, secondo Ger 17,19-27, l'introduzione di pesi attraverso le porte. Ai Farisei non piaceva, perché impediva agli amici di mangiare insieme in giorno di sabato; essi stabilirono il principio dell'eruvin (fusione): un portale chiudeva la porta comune di più case vicine, cosicché ciascuna fosse considerata come parte di uno spazio unico; i pasti comuni diventavano allora leciti! La Torà ci tramanda che i Sadducei disapprovavano formalmente questo metodo, che, secondo loro, legalizzava la trasgressione premeditata e ripetuta del sabato (Eruvin 6, 2).
L'esempio dell'eruvin mostra che, al tempo di Gesù, era aperto un dibattito sul quarto comandamento. Non tutti i gruppi sostenevano lo stesso rigore. Gesù, a sua volta, propone la sua chiave d'interpretazione. Allora, perché ha suscitato scandalo? Si capisce così che la sua pratica più liberale non ha colpito che i più rigidi, o quelli più pii di lui. Ma, soprattutto, a differenza dei Farisei, l'uomo di Nazaret non regolamenta nulla. Egli afferma un dato di fatto: il sabato deve servire alla vita, prima di tutto. Ecco perché sceglie espressamente il sabato per guarire, non per eliminare la regola del riposo, ma per mostrare qual è la finalità di questo tempo che l'uomo deve «considerare come sacro».
La rivendicazione dell'uomo
Gesù ha reinterpretato il sesto comandamento [il quinto nella tradizione cattolica], quello dell'omicidio. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22).
L'approfondimento è impressionante: l'interdizione dettata all'individuo di farsi giustizia da solo (tale è il senso del sesto comandamento) non riguarda più soltanto la vita dell'altro, ma il suo onore. Nessuno ignora ormai che gli insulti, anche banali, portano in sé la morte. La mancanza di rispetto diventa omicidio. Dipende da ciascuno di noi, e dal suo linguaggio, che l'altro sia, o cessi di essere, un uomo.
Anche in questo caso, l'interpretazione proposta da Gesù non è inedita nel suo tempo. Si possono leggere, dalla parte dei rabbini, espressioni che testimoniano quella stessa interiorizzazione del comandamento: «Colui che odia il suo prossimo, ecco, appartiene agli omicidi» (Derek Eretz 10).
Gesù sviluppa dunque una potenzialità che non era estranea al giudaismo. Però bisogna vedere che egli procede con un radicalismo ed una profondità inediti. Gesù in realtà non codifica i casi nei quali si applica o non si applica la proibizione di attentare alla vita degli altri. Dio affida alla responsabilità di ciascuno l'umanità e la vita degli altri, senza limiti né condizioni. Qualunque idea di regolamentazione è del resto portata al ridicolo dalla proposta ironica delle sanzioni (meritare l'inferno per aver dato del pazzo a qualcuno!).
Il teologo ebreo Joseph Klausner, nella sua Vita di Gesù del 1933, rimprovererà all'uomo di Nazaret la sua intransigenza: egli l'oppone alla saggezza realistica del grande Hillel, un rabbi contemporaneo di Gesù. Klausner aveva colto bene ciò che costituisce l'originalità del suo Decalogo: Gesù vede l'uomo interamente esposto alla chiamata di Dio, interamente rivendicato dalla Legge. Tutto in lui è chiamato a rispondere. È questo il motivo per cui Gesù si scosta dal realismo di Hillel e dal realismo dei Farisei, che, attraverso una rete di precetti, procuravano al credente spazi di eccezione. L'amore per l'altro è completo, secondo Gesù, oppure non c'è per niente.
Gesù non si comporta diversamente nella questione del corban. L'evangelista Marco ci riporta questa diatriba del Maestro a proposito di questa pratica pia... e perversa (Mc 7,9-13). Essa consisteva nel fare donazione al Tempio, in altri termini a dichiarare corban, dei beni che avrebbero permesso ai figli di sovvenzionare i bisogni dei loro anziani genitori.
L'argomentazione di Gesù è interessante: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre». È quindi la quinta parola del Decalogo, nella sua pura forza, che il Nazareno invoca come istanza critica e che oppone alla pia tradizione del corban. Noi ritroviamo due assiomi già intravisti nell'interpretazione di Gesù. In primo luogo, la parola del precetto è accolta senza condizioni, senza limiti, senza riparo possibile, nemmeno nascosto sotto forma di pietà. In secondo luogo, il principio che conferisce al comando la sua radicalità e demolisce ogni compromesso è l'amore del prossimo. Il bisogno dell'altro è, agli occhi di Gesù, un'urgenza assoluta. La Legge mira a condurre all'amore dell'altro, oppure non è la Legge.
Una Legge ricostituita
I Dieci comandamenti sono dunque accolti da Gesù come la raccolta della volontà santa di Dio. Egli non li contraddirà mai, ma pone le condizioni di una corretta comprensione. La sua rilettura attesta una particolare attenzione a quella che viene chiamata la seconda tavola del Decalogo (i precetti sociali) come la regola del sabato. Ma giustamente: Dio non può essere onorato nel sabato se il prossimo è lasciato nelle sue ristrettezze. Onorare Dio consiste nel prendere cura dell'altro, e questa cura può (ed anche deve) giungere al punto di rompere il riposo sabbatico. Si vede emergere il legame indissociabile che, nella lettura del decalogo, Gesù tesse tra rispetto di Dio e rispetto del prossimo. L'uno non conta senza l'altro, cosa che sarà formalizzata nel riassunto della Torà come il doppio comandamento d’amore (Mt 22,37-40). Il Decalogo diventa così la leva che permette a Gesù di sollevare tutta la Legge: ciò che non è finalizzato al bene dell'altro può cadere. Non serve che ad aumentare l'immagine che il credente si fa di se stesso. Ecco perché Gesù, senza abolirla, manifesta una regale (e sbalorditiva) indifferenza verso la Legge rituale, che codificava la salvaguardia della purezza del singolo. La vera purezza personale, avrebbe potuto dire, è l'onore reso all'altro: la formula potrebbe in ogni caso servire di conclusione al capitolo 7 del vangelo di Marco, in cui egli dibatte con i Farisei sul concetto di ciò che è puro.
Lettere di fuoco
Il solo passo dei vangeli in cui sono citate parecchie parole del Decalogo, anche se non in ordine, è l'incontro con il giovane ricco (Mc 10,17-22). All'uomo che domanda che cosa bisogna fare per guadagnare la vita eterna, Gesù cita le ultime cinque parole. Come costui afferma che le ha osservate fu dalla giovinezza, Gesù lo ama e gli dice di vendere tutti i suoi beni e darli ai poveri: «e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Si vede indicare qui quello che è sempre stato il fulcro delle Dieci parole: un testo che organizza la libertà e che invita a vivere nell'alleanza. Gesù indica a quest'uomo lo spazio della libertà da conquistare: i suoi beni. Gli è indicato anche il luogo per vivere l'alleanza: seguire il nuovo Mosè che ha voluto restituire alle Dieci parole il loro fuoco.
* Professore di Nuovo Testamento, Facoltà di Teologia, Università di Losanna.
(da Il mondo della Bibbia, n. 51)
I cristiani dopo l'incendio del tempio
di Jean-Pierre Lémonon
L’incendio del Tempio conduce il giudaismo ad una nuova avventura. Deve ormai vivere senza Tempio. La comunità cristiana si trova allora di fronte a un ebraismo che ridefinisce la sua essenza e le sue caratteristiche. Per comprendere le ripercussioni degli avvenimenti del 70 e del 135 su questa comunità, è necessario ripercorrere la storia di una corrente cristiana che, a causa del suo profondo attaccamento alle pratiche ebraiche, scomparve a poco a poco. Questa sensibilità conobbe forme diverse poiché i Padri della Chiesa ricordano a questo proposito due gruppi: i nazirei e gli ebioniti.
Per essere in grado di precisare l' eco avvenimenti del 70 e del 135 comunità cristiana, che si tratti di nazirei-ebioniti o di altre denominazioni cristiane, dobbiamo ricordare in primo luogo le testimonianze di alcuni Padri a proposito di queste due comunità di fede. Poi, al fine di identificare le radici di questi gruppi, dovremo risalire ai primordi del cristianesimo.
Ricostituire la storia del pensiero dei nazirei e degli ebioniti è difficile, poiché non disponiamo di documentazione diretta su questa componente del cristianesimo primitivo. La nostra conoscenza proviene dai Padri della Chiesa che, combattendola vigorosamente, hanno conservato qualche frammento della loro produzione letteraria, come ad esempio il Vangelo secondo gli Ebrei. I Padri sono loro ostili, poiché questi credenti rappresentavano una forma di cristianesimo diversa da quella a cui essi aderivano.
Agli inizi del V secolo, Girolamo è uno degli ultimi testimoni dell' esistenza dei nazirei. Pur riconoscendo la rettitudine della loro confessione di fede, l' eremita di Betlemme rimprovera loro di voler «essere sia ebrei, sia cristiani, [quindi] non sono ne uno, ne l'altro». L'attaccamento alle pratiche ebraiche provoca la virulenta ostilità di alcuni Padri nei confronti degli ebioniti e dei nazirei. Verso il 375, l'infaticabile cacciatore di eresie Epifanio di Salamina scrive su di loro: «La loro origine [degli ebioniti] risale ai tempi che seguirono la presa di Gerusalemme. In effetti, come tutti quelli che avevano creduto in Cristo si erano insediati in quel tempo in Perea, per la maggior parte in una città chiamata Pella, [...] una volta che furono emigrati là e che vi soggiornarono, Ebione colse l'occasione [per insegnare la sua dottrina]. Cominciò con l'abitare Kokabe [...] nella Basanitide [...l. Fu là che cominciò il suo vizioso insegnamento; di lì, a quanto sembra, vennero pure i nazirei, di cui ho parlato sopra». Eusebio di Cesarea, nella Storia ecclesiastica, uno straordinario scrigno della memoria cristiana, conobbe diversi tipi di ebioniti; ma quali fossero le loro convinzioni religiose, le loro pratiche erano da biasimare, perchè sia gli uni che gli altri mettono «tutto il loro zelo a compiere con cura le prescrizioni carnali della Legge» (HE III, 27,3). Eusebio ironizza sul loro nome: «Essi hanno ricevuto il nome di ebioniti, il che mette in rilievo la povertà della loro intelligenza: perchè quello è il termine con cui gli Ebrei indicano i poveri» (HE III, 27,6). La storia della Chiesa antica ricorda il loro attaccamento al Vangelo secondo gli Ebrei e il loro rifiuto delle lettere di Paolo, il nemico per eccellenza di questi gruppi.
Secondo Epifanio ed Eusebio nessuno di questi gruppi si merita il nome di cristiano, perchè, nel migliore dei casi, pur riconoscendo la nascita del Cristo da una vergine, non ammettevano la sua preesistenza. Il loro giudizio era dunque diverso da quello di Girolamo. Di fatto la fedeltà di questi gruppi alle pratiche del giudaismo suscita il corruccio dei Padri. Quindi, se continuiamo a risalire verso i primi secoli cristiani, percepiamo che il rimprovero indirizzato a questi uomini e donne concerne le loro prati - che giudaiche; in compenso, la loro confessione di fede è conforme alla fede comune secondo Origene
(185 - dopo il 251) o Giustino (100 - 165). Effettivamente i Padri si scagliano contro gruppi che praticano i costumi ebraici, pur essendo, al meno in origine, profondamente attaccati a Gesù di Nazaret il Cristo di Dio, colui che nacque da una vergine, che giudicherà il mondo e che ha ricevuto la regalità eterna (secondo i termini di Giustino).
La comunità dei discepoli di Gesù
Come abbiamo letto prima, Epifanio collega la nascita degli ebioniti e dei nazirei alla caduta di Gerusalemme e alI'insediamento di gruppi di discepoli di Gesù a Pella, città della Decapoli. Egli si appoggia ad un' informazione di Eusebio; in effetti, secondo la storia della Chiesa, dagli inizi della guerra giudaica, grazie ad un ordine ricevuto attraverso «una profezia trasmessa per rivelazione ai notabili della zona», la comunità dei discepoli di Gerusalemme o, almeno una parte di questa, sarebbe fuggita da Gerusalemme verso questa città: «I fedeli di Cristo si spostarono a Pella, dopo essere usciti da Gerusalemme in modo che gli uomini santi abbandonassero completamente la metropoli reale degli Ebrei e tutta la regione della Giudea» (HE III, 5,3). L'abbandono fu meno radicale di quello preteso da Eusebio, almeno un ritorno a Gerusalemme avvenne negli anni che seguirono.
Alcune indicazioni del Nuovo Testamento confermano i legami intessuti tra i gruppi denunciati dai Padri e la comunità di Gerusalemme, o almeno la sua frazione più importante. Malgrado lo sforzo unitario che ha condotto a qualche semplificazione, il libro degli Atti non elimina completamente le tensioni che si manifestano dall'origine all'interno della comunità di Gerusalemme, dove si affrontano Ebrei ed Ellenisti (At 6,1). A Gerusalemme le autorità giudaiche perseguitano gli Ellenisti: questo porta alla loro dispersione e alla proclamazione del Vangelo alle nazioni (At 8, 5.26 – 40 ; 11,20). In compenso, a causa del loro attaccamento ai costumi giudaici, gli Ebrei poterono dimorare a Gerusalemme almeno fino alla guerra giudaica. Essi costituirono la matrice della Chiesa di Gerusalemme. Tra loro si trovavano gli avversari più accaniti delle concezioni paoline (At 15,1-2.5). Quindi, Paolo non esita a trattare da «falsi fratelli» (GaI 2,3) quelli che avrebbero voluto circoncidere i pagani e così chiudere la «porta della fede» alle nazioni.
Due racconti riecheggiano l' assemblea che, nel 51, seguì il ritorno di Paolo a Gerusalemme, in seguito alla sua missione in Macedonia e in Acaia. L'Apostolo ebbe la fortuna di vedervi riconosciuta la grazia che gli era stata fatta di annunciare il Vangelo presso le nazioni (GaI 2, 3 - 4). La versione degli Atti degli Apostoli (At 15, 5 - 21) differisce su numerosi punti da quella della lettera ai Galati, comunque i due racconti sono in pieno accordo sul risultato decisivo per l'avvenire della comunità cristiana: non vi era l' obbligo di imporre la circoncisione ai discepoli che venivano dalle nazioni.
Malgrado la vittoria di Paolo, i discepoli attaccati alle usanze ebraiche non disparvero per questo. Alcuni che, a torto, si misero sotto il patronato di Giacomo, il fratello del Signore, non si consideravano ancora battuti; saranno ancora fonte di numerose preoccupazioni per Paolo, come indica specialmente l' incidente di Antiochia (GaI 2, 11 - 14) e la situazione in Galazia. I Galati avevano accolto con gioia il Vangelo, ma alcune persone, che si richiamavano ovviamente a Giacomo, cercarono in seguito di imporre la circoncisione ai discepoli. Gli avversari di Paolo attribuivano un valore salvifico alle pratiche ebraiche. Questi discepoli di Gerusalemme condussero missioni nella Diaspora, in particolare in Mesopotamia e in Egitto. Pur confessando Gesù come Messia di Israele e Signore, essi predicavano la circoncisione e il complesso delle pratiche ebraiche. Per questa corrente l'incendio del Tempio ebbe conseguenze notevoli, perchè la distruzione contribuì a ridurre la sua influenza in seno al cristianesimo primitivo. Ormai questi discepoli di Gesù si trovavano in una situazione difficile. In effetti, non soltanto erano destabilizzati dalla fine di un ebraismo eterogeneo, ma si trovavano anche presi in mezzo tra un giudaismo che si stava unificando ed un cristianesimo che, pur abbeverandosi alle Scritture di Israele, fioriva rifiutando le pratiche tradizionali ebraiche.
È quindi sorprendente constatare che il canone neotestamentario taccia sull' evangelizzazione delle regioni della Diaspora, le cui località sono al massimo ricordate nella tavola delle nazioni, citata nel racconto della Pentecoste (At 2, 9 - 10).
Scegliere tra la sinagoga e la comunità cristiana
Nel 62, dopo il martirio di Giacomo, fratello del Signore, il nuovo responsabile della comunità è Simeone, figlio di Clopas, un parente del Signore (HE III, 11). La caduta di Gerusalemme non segna la fine di ogni insediamento dei discepoli di Gesù nella città. In effetti, secondo Eusebio, fino al 130, si scelse come vescovo di Gerusalemme un Ebreo di antico ceppo; la scelta non è per nulla sorprendente poiché «l' intera Chiesa di Gerusalemme era allora composta da Ebrei fedeli: fu così dagli apostoli fino all'assedio che subirono quelli che vivevano in quel tempo, durante il quale i Giudei si separarono di nuovo dai Romani e furono distrutti in guerre terribili» (HE IV, 5,2).
Verso la fine del I secolo, i «maestri della Sinagoga» proposero di applicare ai discepoli di Gesù la dodicesima benedizione che, dagli anni 150 a.C. era, con qualche variante, utilizzata per impedire agli eretici e a tutti quelli che si allontanavano dalla tradizione di Israele di partecipare alle riunioni comunitarie. Così le autorità della sinagoga rendevano impossibile la partecipazione dei discepoli di Gesù alle attività della comunità giudaica. Da parte sua, la tradizione giovannea è una buona testimonianza della polemica diretta contro i discepoli attaccati ai costumi ebraici.
Questi ultimi sono simboleggiati dai fratelli di Gesù che non credono in lui (Gv 7,5) e dagli Ebrei che avevano creduto, ma che comunque non ispiravano fiducia a Gesù (Gv 2,23-25; 8,31-59). In più il racconto giovanneo della guarigione del cieco nato intima a questi discepoli di scegliere il loro campo: essi sono rappresentati dai parenti del cieco che conoscono la verità, ma temono di essere esclusi dalla sinagoga (Gv 9,22).
In seguito alla rivolta di Bar Kokhba nel 135, l'imperatore vieta agli Ebrei «di avvicinarsi anche ai dintorni di Gerusalemme [...]. Così la città [di Gerusalemme] fu ridotta ad essere completamente abbandonata dal popolo giudaico e a perdere quelli che l' avevano un tempo abitata» (HE IV, 6,4). La decisione dell'imperatore ebbe conseguenze nefaste per i discepoli di Gerusalemme e i loro seguaci rimasti attaccati alla città e alle pratiche del giudaismo. Privati del legame con la terra di Israele, questi discepoli videro accentuarsi la loro marginalizzazione. Si indebolirono talmente che furono considerati come stranieri da quelli che, ormai, venivano chiamati «cristiani». Restare attaccati alla sinagoga e confessare Gesù come «Cristo e Signore, il Figlio», non era ormai più possibile, ne dal punto di vista dei cristiani, ne da quello degli Ebrei. Come gli Ebrei, non avevano più uno statuto
E quelli chiamati «cristiani»?
Per i cristiani che avevano accettato la rottura con le pratiche ebraiche la presa di Gerusalemme non fu di capitale importanza. Si rimane spesso sorpresi che la caduta di Gerusalemme non abbia avuto risonanza nei Vangeli. Nondimeno le tracce della presa della città si possono leggere in qualche racconto di Matteo e di Luca (M t 22,7; Lc 19,43; 21,21-24). La distruzione del Tempio è così acquisita quando Matteo redige la comparsa di Gesù davanti alle autorità deI suo popolo (M t 26,61; 27,40), così come quando Luca riporta, nel libro degli Atti, le accuse portate contro Stefano dai suoi avversari (At 6,14).
Lo scarso numero di menzioni non deve sorprendere; il Tempio non era più da molto tempo al centro deI pensiero cristiano. Ormai per le comunità di tradizione giovannea, il vero santuario è lo stesso Signore Gesù Cristo (Gv 2,21). Le comunità paoline, poi, si considerano come il santuario (I Cor 3,16-17; 2 Cor 6,16).
I primi secoli cristiani, da parte loro, interpretarono la caduta di Gerusalemme come conforme alle predizioni di Cristo e vi riconobbero la sanzione deI comportamento dei suoi abitanti: «Tale fu il castigo degli Ebrei a causa della loro iniquità e della loro empietà nei confronti deI Cristo di Dio» (HE III,7,1).
Questa interpretazione, come ognuno sa, contribuì, ahimé, ad una disistima deI giudaismo da parte dei cristiani.
(da Il mondo della bibbia)