Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Se è vero che la violenza è presente in ciascuno di noi, per avere maggiori possibilità di reagire a quella che si manifesta nella società, occorre per prima cosa prendere coscienza di quella che ci si porta dentro.

Anglicani.
Incontro con l'arcivescovo di Canterbury
"Non accade niente
 di interessante nella Chiesa
se non per opera di Gesù"
di Gianni Valente


Quando non aveva ancora due anni, Rowan Williams prese la meningite e fu sul punto di morire. I dottori dissero che quel bambino fragile per sopravvivere avrebbe dovuto trascorrere per quanto possibile una vita tranquilla. Niente a che vedere col duro lavoro che gli è toccato in sorte, da quando nel 2002 è stato eletto centoquattresimo arcivescovo di Canterbury e primate di una Comunione anglicana attraversata come non mai da dissidi dottrinali e da presagi di declino. Eppure il 54enne gallese, che 30giorni ha intervistato durante il convegno su Thomas Merton organizzato dalla Comunità di Bose dall'8 al 10 ottobre, non ha l’aria della persona angosciata. Oggi che anche tanti ecclesiastici si agitano per riaffermare e difendere il peso e lo spazio dei valori religiosi nella società postmoderna, lui ha ben presente che camminare con Gesù "comporta il rischio di non avere da dire niente che il potere possa ascoltare, il rischio di diventare una nullità nello schema di qualcuno". E cita i primi cristiani, i quali sapevano bene che "appartenere al Dio di Gesù è altra cosa rispetto ad essere un cittadino, qualcuno con chiari diritti e uno status pubblicamente riconosciuti".

Lei è diventato arcivescovo di Canterbury da quasi due anni, e sono stati anni turbolenti all'interno della Comunione anglicana. Sono noti i suoi studi sul cristianesimo del IV secolo e sulla crisi ariana. L'hanno aiutata a valutare la condizione presente del cristianesimo nel mondo?

ROWAN WILLIAMS: Qualche volta forse abbiamo costruito un'immagine troppo abbellita delle epoche passate, come se tutto andasse bene nella vita della Chiesa. Invece se si studia la storia, ti accorgi che a volte per interi decenni la Chiesa era profondamente divisa. Ma questo non vuol dire che anche in quei periodi non ci fossero verità da scoprire. Lo studio del IV secolo che ho condotto per tanti anni mi ha aiutato a vedere che le persone possono rimanere sante pur in mezzo al vortice degli eventi in tempi tribolati. E che non puoi pensare di dedurre da che parte sta la verità contando le teste. Perché in quella crisi sant'Atanasio era rimasto quasi solo a custodire la vera fede davanti all'arianesimo. In alcune situazioni occorre aspettare con pazienza. Atanasio era molto vicino alla vita monastica dei suoi tempi. E questo per me è un indizio che coloro che affidano la propria vita alla vocazione monastica hanno spesso la vista più lunga.

Anche dei primi vescovi in terra britannica lei ha esaltato la virtù della pazienza...

WILLIAMS: Il vescovo Restitutus nel 314 aveva preso parte al Concilio di Arles. Negli ultimi anni doveva essere fiducioso nel futuro della sua Chiesa, perché le cose parevano andare bene. La persecuzione era finita, l'imperatore era amico. Se fosse vissuto cento anni dopo, avrebbe visto la fine di quella iniziale civilizzazione cristiana, quando i pirati barbari travolsero tutto. Quando arrivò Mellitus, inviato da Gregorio Magno, non sembra che ci fossero più tracce di presenza cristiana. Dovette rimanere parecchio tempo in Francia, in attesa di tempi migliori, che permettessero di ricominciare. Per questo ho detto che i vescovi di Londra hanno sempre dovuto essere tenaci e pazienti...

Il nostro appare come un tempo di prova per il cristianesimo. Eppure sembra un tempo religioso e spirituale. Come spiega questo paradosso?

WILLIAMS. Uno dei tratti salienti della nostra cultura è che siamo individualisti e con un'attitudine consumistica nei confronti delle cose. Anche nella religione non si cerca quello che è vero, che è reale, ma ciò che mi offre benessere, che si può usare per sentirsi a posto. Un sentimento spirituale che tranquillizzi il resto della propria vita. Non un annuncio che irrompa nella vita come una novità, cambiando le cose. In vaste parti dell'Occidente, poi, le persone hanno il rigetto verso l'appartenenza a organizzazioni collettive. Se la Chiesa ha una crisi della propria membershtp, i partiti politici stanno anche peggio...



Il cristianesimo appare come un passato che non riguarda la vita, o addirittura come un peso. Le Chiese reagiscono cercando di riaffermare il proprio peso nella società. E moltiplicano gli interventi pubblici. Su ogni argomento.

WILLIAMS. Quando ascolto domande come questa, mi sento subito imputato. Dall'arcivescovo tutti si aspettano che parli in pubblico su tante cose. È una cosa che adesso mi tocca fare, e non è facile. Quando mi capita di incontrare dei giovani, si vede bene che quello che può attirarli alla fede non sono certo i pronunciamenti dei capi della Chiesa. Quando ero vescovo in Galles mi davo molto da fare per i giovani della diocesi, e per molti anni abbiamo avuto un eccellente ministero pastorale rivolto a loro, che consisteva principalmente nell'intrattenerli e farli divertire. Poi è arrivato un nuovo cappellano, ha organizzato subito un ritiro di preghiera con i giovani della diocesi per la Settimana santa. E in quell'occasione un ragazzo che era venuto da agnostico alla fine ha chiesto di essere battezzato. Da quel semplice fatto ho intuito che vedere gli occhi di altri che guardano al Signore è la sola cosa che fa prendere sul serio la Chiesa. Se la Chiesa qualche volta ha cose utili da dire sulla cultura e la politica beh, si può fare, e va bene. Ma la storia non finisce lì...

Cosa è la Chiesa per lei?

WILIIAMS: Ho scritto di recente sulla cristianità degli inizi, e ciò che secondo me descrive la Chiesa nei primi secoli è che è una comunità che vive seguendo un altro Re. A pensarci bene, nei tempi moderni diamo molto peso alle convinzioni teoriche delle persone, a quello che hanno nella loro testa, ma non pensiamo mai all'appartenenza reale a Cristo, dentro una comunità. La Chiesa non esiste per decisione mia o di un qualsiasi numero di persone, ma per l'azione di Dio. Noi, le nostre opinioni, le nostre prospettive, non dettiamo legge su ciò che la Chiesa è al presente. L'esperienza di tale assenza di controllo è in sé stessa salutare. Mentre a volte le Chiese sembrano agitate per questo, per l'incontrollabilità, di Gesù Cristo, per il fatto che Lui non è prigioniero dei nostri pensieri. Adesso c'è bisogno di questo riconoscimento, più che in altri momenti. Il riconoscere che siamo nella Chiesa come degli invitati, perché siamo stati chiamati. Altrimenti la Chiesa sarebbe soltanto una Litigiosa società umana.

E i litigi di certo non mancano.

WILLIAMS: Il fatto è che la Chiesa non è la comunità di persone che vanno d'accordo con noi e condividono le stesse idee. Sono persone che non scegliamo noi. Che magari non ci piacciono. Ma che sono scelte e cambiate da Gesù stesso. Non accade niente di interessante nella Chiesa se non per opera di Lui, che può redimere i nostri disastri umani. Che ha promesso di rimanere coi suoi ogni giorno, fino alla fine del mondo. E ha detto di guardare e chiedere aiuto ai piccoli, ai poveri, ai bambini.

Mi ha colpito la frase di un suo discorso, in cui lei ha detto che "l'ortodossia fluisce, sgorga dalla gratitudine, e non il contrario". Cosa intendeva dire?

WILLIAMS: Il pensiero dei primi cristiani, anche a livello teologico dottrinale, sorse dal fatto che loro vedevano di essere condotti da Gesù in una nuova vita. Le prime parole del cristianesimo sono state quelle usate per rendere gloria a Dio. La dottrina teologica è sorta riflettendo su questo. Se manca questa iniziale gratitudine e riconoscenza per il semplice fatto di Gesù, non si risolvono certo i nostri problemi solo insistendo sulla disciplina.

D'altra parte, circolano anche teologie per cui l'incarnazione di Cristo garantirebbe a priori la salvezza a tutto il genere umano e a tutto il mondo, in maniera meccanica. Concorda con queste tesi?

WILLIAMS: Il disaccordo che provo nei confronti di alcune correnti della teologia americana della creazione è sul fatto che tutto è già deciso, non lasciano spazio neanche alla possibilità che l'uomo possa dire no. Non conosco il cuore degli altri ma conosco il mio, e so che sono capace di creare disastri. Il mio professore all'Università mi ripeteva sempre che nessuna teologia può stare in piedi senza tenere in conto la possibilità del fallimento.

È noto che lei si appassiona alle vite dei santi. Quali santi le sono più cari?

WILLIAMS: Amo soprattutto santa Teresa e san Giovanni della Croce. Ho sempre avuto una predilezione per la spiritualità carmelitana. Ho letto Teresa a quindici anni. Non l'ho capita, ma sentivo che mi piaceva. Poi ho letto anche Edith Stein. Riguardo alle Chiese d'Oriente, mi sono affezionato a san Serafino di Sarov. Lo scorso anno in Russia ho potuto visitare la sua tomba.


Lei cita spesso anche sant'Agostino.

WILLIAMS: Agostino ha creato la disciplina dell'autoanalisi, dell'autocomprensione, mostrando come siamo modellati dalla nostra memoria. Oggi, nell'era postmoderna, siamo indotti a passare da sensazione a sensazione, bruciamo esperienza dopo esperienza, e non c è più storia. Mentre lui ci fa vedere che è la storia che fa la persona. Anche nel rapporto con la realtà civile, Agostino ci ha insegnato che dobbiamo cercare il bene della città in cui viviamo, del luogo in cui siamo, lavorando per la giustizia, senza identificare mai il successo di tale società con il regno di Dio. Coinvolgimento, e allo stesso tempo distacco. Come ho detto prima, noi siamo di un altro Re. Insomma, a volte dico che Agostino può anche essere considerato il fondatore della psicoanalisi e della politica moderna...

É nota anche la sua passione per la liturgia.

WILLIAMS: La liturgia ci ricorda sempre che andiamo verso il giudizio. Che le nostre vite sono poste dentro un nuovo contesto, dove noi entriamo come ospiti. Una liturgia che fosse solo la proiezione delle mie idee sarebbe qualcosa di effimero. Della liturgia che si celebra alla Comunità di Bose, ad esempio, mi piace che non è frettolosa, si prende il tempo che serve, è piena di riferimenti biblici, ed è semplice.

In tutta sincerità, come giudica il primato petrino?

WILLIAMS: Mi è chiaro che fin dall'inizio c'è stato uno speciale carisma, un servizio speciale esercitato dal vescovo di Roma per tutta la Chiesa. Ma dal momento in cui questo è diventato qualcosa di legale e rigidamente definito dal punto di vista teologico, come risulta nelle definizioni del Concilio Vaticano I, mi riesce difficile non avere riserve. Ad esempio, riguardo all'infallibilità come carisma spirituale individuale. Come scriveva il teologo anglicano Austin Farrer, l'infallibilità non dovrebbe essere considerata come una "licenza di stampare fatti". Da quando questo Papa nell'enciclica Ut unum sint ha invitato a discutere di questo tema, tutti noi, anglicani, cattolici e altri, abbiamo una buona occasione per valutare criticamente ciascuno la propria storia. Noi anglicani sperimentiamo come può essere difficile vivere in una Chiesa senza un centro chiaro di autorità. Io non voglio essere un papa. Ma ho presente il problema. So quanto è importante nelle Chiese avere una vera responsabilità l'uno verso l'altro. Nella Chiesa d'Occidente questa esigenza di un'autorità centrale storicamente si è focalizzata nel papato...

Ma si tratta solo di una costruzione storica? Il ruolo della Chiesa di Roma non sorge dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo?

WILLIAMS: Quando io e mia moglie siamo venuti a Roma, scendendo alla tomba di Pietro siamo rimasti veramente commossi. La testimonianza apostolica di Pietro, riportata in tutto il Vangelo, si compie lì, nel suo martirio. E quando si parla di ministero petrino, si parla di questo, io penso che sia questo. Hans Urs von Balthasar, un teologo a cui sono affezionato, scrisse sul ministero petrino al tempo di Paolo VI, quando Paolo VI era criticato e attaccato da tutte le parti. E lui scrisse: ecco, adesso io vedo bene cosa è realmente il ministero petrino.

Nelle convulsioni del presente, in Occidente aumentano gli allarmi nei confronti dell'islam, che starebbe portando un sistematico attacco alla civiltà occidentale e alle sue radici cristiane. Come giudica queste interpretazioni dell'attuale momento storico?

WILLIAMS: Uno degli impegni che mi sono assunto come arcivescovo è stato quello di continuare il dialogo islamo-cristiano ad alto livello iniziato già dal mio predecessore. Alcune settimane fa sono andato in Egitto, e all'Università islamica di Al-Azhar ho parlato sulla dottrina della Trinità. In quel Paese, ad esempio, c'è una stretta collaborazione tra le nostre comunità e le comunità islamiche. Io non vedo come prospettiva obbligata quella dello scontro di civiltà. La civilizzazione cristiana deve qualcosa al mondo islamico, cosi come la civiltà islamica deve molto alla cristianità. Ebrei, cristiani e musulmani hanno una lunga storia comune. Più riconosciamo questa storia di convivenza, meglio è per il futuro. Non è neanche vero che tutto il Medio Oriente è islamico. Le antiche Chiese d'Oriente sono lì dai tempi della predicazione apostolica. Prima della guerra in Iraq ho fatto interventi pubblici e ho anche parlato privatamente con membri del nostro governo per segnalare il pericolo che sarebbe venuto, a causa della guerra, ai cristiani del Medio Oriente, che finiranno per pagare il risentimento crescente verso il mondo occidentale.

A pagare nel vortice di violenza che avvolge il mondo sono spesso i bambini. Lei ne ha parlato spesso...

WILLIAMS: Ritengo che uno dei peggiori nuovi mali degli ultimi due decenni, propriamente satanico, è l'attacco ai bambini. Quelli di Beslan, quelli iracheni o egiziani. Quelli palestinesi e quelli israeliani. O gli innocenti bambini soldato in Africa. È una connessione difficile da fare, ma anche la scelta dell'aborto la prendiamo così alla leggera... Non c'è più speranza e fiducia nel futuro dei bambini, e in queste vicende ciò si vede come in uno specchio.

(da 30giorni, n. 10, anno XXII - 2004)

L'utopia della fede
 come forza per curare l'universo
di Marcelo Barros

Quanto più si moltiplicano le guerre e si inasprisce il sistema economico che assassina interi popoli come una bomba terrorista, tanto più si estende per il mondo una rete di persone e gruppi che si impegnano a favore della pace e vogliono trasformare il mondo. La moltiplicazione di incidenti ecologici rivela come la natura non sopporti più tante aggressioni. Di fronte a questo, le religioni non possono limitarsi a consolare il cuore dei fedeli o a chiudersi nei propri interessi istituzionali interni. I loro fondatori hanno lasciato in eredità l'amore solidale, la compassione e la cura nei confronti dell'umanità e della terra povere di salvezza. Sempre più gruppi di fedeli di diverse tradizione spirituali, molti dei quali non legati ad alcuna istituzione religiosa, cercano di vivere la spiritualità come solidarietà e non accettano di godere della pace interiore che la religione propone senza che il mondo intero sia salvo.

In questi giorni, si completano 42 anni da quell'11 ottobre in cui Giovanni XXIII, un papa anziano eletto dai cardinali perché non cambiasse niente, convocò a Roma i vescovi cattolici di tutto il mondo nel Concilio Vaticano II, soffiando nella Chiesa cattolica una nuova aria di amorevolezza, un'inattesa primavera di apertura e di impegno a dialogare amichevolmente e rispettosamente con tutta l'umanità. È importante sottolineare come egli facesse questo in una Chiesa estremamente centralizzata, nel modello dell'Impero governato da Pio XII e in un mondo in cui nordamericani e russi si minacciavano con missili atomici e i marines di Kennedy aveva invaso la Baia dei Porci.

Per quanto molti dei semi piantati da papa Giovanni e dal Concilio non siano stati successivamente coltivati e sviluppati dal Vaticano e da gran parte della gerarchia ecclesiastica, la Chiesa cattolica non è più stata la stessa. Nessuno può fermare lo Spirito. Alcune intuizioni fondamentali di questo processo di rinnovamento sono irreversibili: l'importanza della comunità locale come Chiesa con volto e consistenza propri, l'uguaglianza di dignità e di diritti tra tutti i membri del popolo di Dio, la relazione tra fede e vita, la centralità della Parola di Dio rivelata nella Sacra Scrittura e la missione di costruire un mondo nuovo come testimonianza del regno di Dio.

In America Latina, il Concilio Vaticano II ispirò la seconda Conferenza dei vescovi cattolici a Medellin (1968). Questo incontro significò la nascita di una Chiesa cattolica dal volto propriamente latinoamericano. Qui. Presero ufficialmente il via la Teologia della Liberazione e un modello di Chiesa impegnata a non convertire nessuno alla propria fede, ma a collaborare con tutte le persone di pace nella costruzione di un Continente libero e giusto. È necessario che risuoni di nuovo in questo Continente la proposta dei vescovi di quella epoca:

"Che si presenti sempre più nitido, in America Latina, il volto di una Chiesa autenticamente povera, missionaria e pasquale, slegata da ogni potere temporale e coraggiosamente impegnata nella liberazione dell'essere umano nella sua integrità e dell'umanità intera" (Medellin 5,l 5 a).

Ora, più di quarant'anni dopo, viviamo in un mondo in cui, in funzione del mercato, differenti attività umane si associano e si integrano a livello planetario. Tuttavia, il progresso e il benessere conquistati dalla tecnica sono al servizio di una minoranza dell'umanità. Appena 200 multinazionali controllano l’800/o della ricchezza mondiale. L'Europa e l'America del Nord consolidano il proprio comfort a costo di un aumento terribile della miseria e della fame di più di 2/3 dell'umanità. I governi nazionali perdono la loro autonomia e si trasformano i meri funzionari locali della Banca Mondiale per garantire che gli interessi sul debito vengano pagati. La dignità di ogni essere umano e i diritti dei popoli sono violati in funzione della sicurezza militare dell'impero nordamericano. Questi squilibri economici e sociali provocano terribili problemi ecologici. Per servire le leggi del mercato, la natura è saccheggiata, avvelenata e privata della sua biodiversità. Molte discussioni sullo sviluppo sostenibile ricordano quello che i prigionieri politici dicono sulle sessioni di tortura nelle prigioni della dittatura militare. Un medico assisteva alla tortura per dire fino a che punto il torturato potesse sopportare i colpi senza rischio della vita. È questo che certe imprese che dicono di avere "un impegno ecologico" fanno con la terra, l'acqua e l'aria che respiriamo.

I problemi sono urgenti e chiedono soluzioni immediate. Gli organismi internazionali si mostrano impotenti ad amministrare la crisi. I partiti politici, anche quelli dagli ideali più puri, arrivati al potere si sono mostrati uguali a chi li ha preceduti. Il divorzio sempre più grave tra Stato e società civile fa sì che anche il cammino di incontri e forum che l'umanità ha visto svolgersi non riesca, perlomeno finora, ad influenzare il cammino ufficiale delle nazioni. Da dove può venire la speranza? Che contributo possono dare le persone che credono in Dio come fonte di amore, se le religioni continuano ad essere isolate e prese dai loro interessi istituzionali e dai loro problemi interni?

Dalla fine degli anni '80, il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che riunisce 340 Chiese cristiane, propone un processo di dialogo tra le Chiese e un nuovo Concilio ecumenico, per approfondire la responsabilità dei cristiani nei riguardi della giustizia e della pace nel mondo e della difesa della natura. Durante il processo preparatorio dell'anno 2000, 40 vescovi cattolici avevano scritto una lettera al papa chiedendo un nuovo Concilio. Questa lettera già conta più di l0 mila firme, tra quelle di religiosi e quelle di laici

Nel gennaio del 2005, prima del quinto Forum Sociale Mondiale, si svolgerà a Porto Alegre un Forum Mondiale su Teologia e Liberazione per approfondire i fondamenti religiosi e spirituali dell'impegno delle religioni e delle Chiese per un nuovo mondo possibile.

Le maggiori difficoltà che le religioni incontrano per dialogare ed unirsi nel servizio dell'umanità vengono da fattori che nulla hanno a che vedere con Dio e la spiritualità. Sono questioni legate al potere dei leader e alle interpretazioni dogmatiche della dottrina. La spiritualità non divide mai nessuno. Al contrario, crea tra gli esseri umani una Fraternità dello Spirito che può essere il punto di partenza per un'alleanza mondiale tra tutte le persone amanti della pace, della giustizia e della comunione con l'universo. Pur senza ancora incontri formali, viene lanciato un grande Forum Mondiale per una Mistica della Vita. Non mi chiedete altro. Nel IV secolo, diceva S. Agostino: "Indicatemi qualcuno che ami ed egli sentirà quello che sto dicendo. Datemi qualcuno che desideri, che cammini in questo deserto, qualcuno che abbia sete e aneli alla fonte della vita. Mostratemelo ed egli saprà quello che voglio dire" (Trattato sul Vangelo di Giovanni 26,4).

(Tratto da Adista n. 88, 2004)

 Nonviolenza
Gesù non era scemo
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Amare i nemici, diceva. Quelli ti odiano e tu li ami. Furbo! Prestare senza aspettarti restituzione. Fallimento assicurato! A chi ti dà uno schiaffo, porgi l’altra guancia. A chi ti prende la tunica, dai anche il mantello. Così lo incoraggi a continuare! Se uno ti costringe per un miglio, tu vai per due. Sì, e poi?

Tanti bravi cristiani mettono silenziosamente da parte queste esagerazioni di Gesù: va bene, voleva dire di essere generosi, ma se dovessimo prenderlo alla lettera… E chi è meno pio giudica che Gesù insegnasse a sottomettersi ai prepotenti. Tre volte bon — dicono a Venezia — con quel che segue... Non è così che si sta al mondo.

Come capire questi insegnamenti?

Walter Wink, nel libro Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, edizioni EMI, dà alcune interpretazioni interessanti. Giorgio Barazza, che ringrazio molto, me ne fornisce una sintesi, che io qui restringo ancora.

Questi consigli di Gesù offrono una misura pratica e strategica per dare agli oppressi un potere nonviolento e liberante (pag. 308).

«Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male, anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra» (Matteo 5, 38-39). Per colpire la guancia destra, l’altro avrebbe dovuto usare la sinistra, il cui uso era vietato, riservato ai soli compiti impuri. Dovendo usare la destra, il colpo sulla guancia sinistra poteva essere solo un manrovescio. Questo colpo, più che una percossa inflitta ai propri pari, era un’umiliazione, destinata agli inferiori: schiavi, figli piccoli, donne. Gesù parlava a povera gente, che conosceva questa umiliazione. Ora, offrire l’altra guancia era privare l’oppressore della sua pretesa superiorità. Era come dirgli: «Prova ancora. Io non ti riconosco il potere di umiliarmi. Sono pari a te. Tu non riesci ad offendere la mia dignità». Questa reazione avrebbe messo l’offensore in difficoltà: come può colpire ora la guancia sinistra (ovviamente con la propria destra)? Non più con un manrovescio (impossibile), ma con l’interno della mano, come farebbe in una rissa con un proprio pari. Anche se facesse flagellare l’inferiore per quella reazione, questi avrebbe comunque mostrato in pubblico la sua uguaglianza naturale con chi si crede superiore. Un debole ha impedito a un prepotente di svergognarlo, ed anzi ha svergognato lui. Dirà Gandhi: «Il principio dell’azione nonviolenta è la non-collaborazione con tutto ciò che si prefigge di umiliare».

Leggiamo poi: «A uno che vuole trascinarti in giudizio per prenderti la tunica, dagli anche il mantello» (Matteo 5, 40). Questa disgrazia poteva capitare a un povero, carico di debiti. Ce n’era certamente, tra la gente che ascoltava Gesù. L’indebitamento era una piaga endemica nella Palestina del primo secolo. I romani tassavano pesantemente i ricchi. Questi investivano in immobili, cioè in terre, per mettere al sicuro il denaro. La legge e l’uso ebraico erano contrari alla vendita della terra, il bene più ambito. La politica di innalzamento degli interessi rendeva sempre più difficile ai contadini piccoli proprietari il saldo dei loro debiti e li costringeva a vendere la terra ai ricchi. Ai poveri così derubati, impotenti a pagare nuovi debiti, Gesù consiglia di dare via anche l’ultima veste. Sarebbero usciti dal tribunale completamente nudi. C’è da immaginare che la folla in ascolto del discorso della montagna a questo punto sia scoppiata a ridere. Nella scena abbozzata da Gesù, il creditore è lì con gli abiti del debitore in mano, mentre questo esce nudo. La situazione si ribalta a favore del debitore. La legge lo condanna a quella condizione, ma, denudandosi, egli eleva un’aspra protesta contro il sistema che lo riduce così. La nudità era tabù in Israele ma più del nudo era censurato chi lo guardava e chi l’aveva causato. Il creditore è posto nella condizione di voyeur, quella per cui Cam fu maledetto (Genesi 9). Il sistema che opprime i piccoli proprietari è smascherato. Il creditore, se comprende, può pentirsi della durezza di cui ha approfittato. Il povero che si riteneva impotente scopre di poter avere l’iniziativa, e, anche se l’ingiustizia legale rimane immutata, ne dimostra l’assurda crudeltà, la ridicolizza. Il vero denudato è il creditore e la legge che lo favorisce.

«Se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Matteo 5, 41). Chi può costringere così un altro? Il contesto è l’occupazione militare. I soldati romani occupanti potevano imporre questa angaria (corvée, lavori forzati) ai locali, per esempio facendo portare carichi pesanti. Per le popolazioni soggette ai romani, ciò era motivo di forte risentimento. Ed era già un provvedimento benevolo la limitazione ad un miglio. La quale indica pure che dovevano essere frequenti gli abusi dei soldati, che imponevano percorrenze maggiori. Gesù non propone né la rivolta né la sottomissione. Propone un atto con cui l’oppresso riprende l’iniziativa e afferma la propria dignità. Immaginiamo la scena: passata la prima pietra migliare, il soldato si sente dire dall’ebreo con fermezza e dignità: «Te lo porto un altro miglio», e deve pensare: cosa diavolo ha in mente? mi vuole provocare? vuole denunciarmi, farmi punire? Dalla situazione servile, l’oppresso ha ripreso la sua libertà d’azione. Il soldato è disorientato davanti all’imprevedibile. Oggi non riesce a sentirsi superiore ai civili. Si abbassa a pregare l’ebreo di restituirgli il carico! Lo humor di questa scena può sfuggire a noi, ma non sfuggiva agli ascoltatori di Gesù, ben esperti di questa prepotenza, bisognosi di riscattarsi.

L’amore verso il nemico vuol dire anche portarlo in condizione di incertezza e di ansia, che possano aiutarlo a cambiare comportamento. Quando Gesù, nella sinagoga di Nazareth (Luca 4, 14 e seguenti) inaugura la sua missione attribuendosi la realizzazione della profezia di Isaia (cap. 61): «Lo Spirito del Signore … mi ha inviato … a liberare gli oppressi», non fa dello spiritualismo disincarnato, tanto meno propone una “religiosa” rassegnazione alla violenza. Gesù non era né scemo né vigliacco, come dimostrò fino in fondo. Era anche un leader della lotta nonviolenta.

Venerdì, 24 Dicembre 2004 00:31

Europa e Islam: due identità smarrite

Europa e Islam:
 due identità smarrite
di Sandro Magister
da www.chiesa.espressonline.it

(abstract)

È uscito da pochi giorni in Italia un libro su occidente e Islam che è una lettura d’obbligo anche per i diplomatici vaticani. È stampato da Vita & Pensiero, l’editrice dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ne è autore Roger Scruton, filosofo e saggista inglese, già professore al Birkbeck College di Londa e alla Boston University. Il titolo originale è "The West and the Rest". La versione italiana, "L’Occidente e gli altri", è apparsa nella collana di geopolitica dell’Alta Scuola di Economia e di Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica diretta da Vittorio E. Parsi, che è anche editorialista del quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire", ed esperto di fiducia del cardinal Camillo Ruini.

Già le primissime righe del libro vanno contro i canoni del politicamente corretto: "La famosa tesi di Samuel Huntington secondo la quale alla guerra fredda sarebbe seguito uno scontro di civiltà ha più credibilità oggi di quanta ne avesse nel 1993, quando fu avanzata per la prima volta". Ma assai più ricco di sorprese è il seguito. Se la libertà di cui si fa vanto la civiltà occidentale comprende anche il rifiuto di sé — e Scruton riserva a questa pervasiva cultura del rifiuto uno dei suoi capitoli più fiammeggianti — allora "si tratta di una civiltà volta alla sua stessa distruzione". Viceversa l’Islam si definisce non in termini di libertà ma di sottomissione: e anche questa sottomissione è autodistruttiva. È prigioniera di un testo sacro, il Corano, che finché continua a essere letto al di fuori del tempo e della storia fa di ogni musulmano uno sradicato. Nella prefazione all’edizione italiana del volume, Khaled Fouad Allam — acuto intellettuale della diaspora musulmana, algerino con cittadinanza italiana — convalida in pieno questa condizione di smarrimento di sé dell’Islam nella modernità.
 
E non è tutto. A giudizio di Scruton, ciò che rende ancora più esplosivo lo scontro tra le due civiltà è l’avanzata della globalizzazione. Essa diffonde nelle nazioni musulmane immagini, prodotti e figure delle democrazie occidentali secolarizzate, sia in quanto hanno di attrattivo e vincente, per ricchezza e potere tecnologico, sia in quanto hanno di vacillante e morente sul terreno della cultura e dell’identità collettiva. Scrive Scruton: "Lo spettacolo della libertà e della ricchezza occidentali, che si accompagna al declino dell’occidente e allo sgretolarsi delle sue fedi, provoca necessariamente, in chi invidia il primo e disprezza i secondi, un cocente desiderio di punire". Altri passaggi folgoranti del suo libro sono quelli che criticano la tendenza a dar vita a legislazioni transnazionali, a corti penali internazionali, alla stessa Unione Europea come superstato, in realtà "nuova mano invisibile dell’imperialismo" ed "espressione politica della cultura del rifiuto". A giudizio di Scruton solo la giurisdizione territoriale e le fedeltà nazionali possono fondare una cittadinanza condivisa e ospitale, anche per il musulmano. In occidente sono gli Stati Uniti a tener ferma questa consapevolezza: "Il trionfo dell’America è stato di persuadere ondate di immigrati a rinunziare a tutti i legami conflittuali e a identificarsi con quel paese, quella terra, quel grande esperimento di insediamento, e a partecipare alla sua difesa comune".
 
Il cristianesimo è indicato da Scruton come elemento essenziale di questa cittadinanza capace di dare identità all’occidente e di accomunarlo agli altri, sia pure nella diversità delle fedi. Esso "dice al cristiano di guardare l’altro non come una minaccia ma come un invito all’accoglienza". Ma, allo stesso tempo, il cristianesimo impone di difendere chi è aggredito. Perché la predicazione di Gesù è predicazione di pace, non però pacifista: "L’idea di perdono, simboleggiata dalla croce, distingue l’eredità cristiana da quella musulmana. Cristo ci ordina persino, quando siamo aggrediti, di porgere l’altra guancia, allora incarno la virtù cristiana della mansuetudine. Ma se mi è stato dato in custodia un bambino che viene aggredito, e porgo l’altra guancia del bambino, divengo complice della violenza. Questo è il modo in cui il cristiano dovrebbe comprendere il diritto alla difesa, ed è come esso è inteso nelle teorie medievali della guerra giusta. Il diritto alla difesa nasce dalle obbligazioni nei confronti degli altri. Sei obbligato a proteggere coloro il cui destino è sotto la tua custodia. Un leader politico che porge non la sua guancia ma la nostra, si rende partecipe della successiva aggressione. Perseguendo l’aggressore, anche in maniera violenta, il politico serve la causa della pace e anche quella del perdono, del quale la giustizia è lo strumento" (*). Pagina dopo pagina, Scruton mette a nudo grandezze e miserie dell’occidente di oggi, a tu per tu con la sfida islamica. Con argomentazioni spesso controcorrente.

(*) — N.d.r: il precetto evangelico di porgere l’altra guancia è stato troppo spesso guardato come un messaggio assurdo e impraticabile; troppe altre volte sono stati fatti tentativi penosi o maldestri di adattarlo ai propri interessi o alle proprie idee. Che cosa vuole dire Gesù con questa espressione? Per comprenderla in pieno dobbiamo rileggere la frase che Gesù dice al sommo sacerdote quando questo, durante l’interrogatorio notturno in casa sua, lo schiaffeggia: "Se ho parlato male, dimostrami dove è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti ?" (Gv 18,23). Dunque Gesù reagisce non porgendo l’altra guancia, ma facendo una domanda; quale è dunque il significato della sua frase a un tempo famosa e controversa? È, a nostro avviso: non opporti al nemico lasciandoti trascinare sul piano del malvagio. Reagisci, come cristiano saggio, vivo e creativo, così da creare una situazione nuova che faccia riflettere il nemico. Il cristiano dunque ricorrerà alla violenza per difendere i deboli o per mettere il nemico nella impossibilità di nuocere unicamente e soltanto se nessun altro modo o nessun’altra strada sono stati efficaci...


Lo statuto della donna
intervista a Ghaleb Bencheikh




Ghaleb Bencheikh el-Hocine, nato in Francia di origine algerina, dopo la laurea in fisica si è dedicato agli studi di filosofia e teologia. Il padre Abbas è stato rettore della moschea di Parigi e il fratello Soheib è il gran mufti della moschea di Marsiglia. Vicepresidente della conferenza mondiale delle religioni per la pace, animatore della trasmissione televisiva dedicata alla religione islamica, in onda la domenica mattina su France 2. In Italia è stato pubblicato Che cos'è l'Islam

Il progetto della riforma del Codice della famiglia in Algeria ha scatenato un forte confronto politico. Mentre i partigiani del progetto si difendono, i partiti islamici attaccano affermando che contraddice i testi sacri dell'islam. Ma possiamo trovare nel Corano delle prescrizioni corrispontenti a un Codice della famiglia, o a uno statuto della donna?

G. Bencheikh- Gli islamisti sono i partigiani della “ideologizzazione” della religione islamica. Vogliono farne un progetto sociale, politico, il che, in sé, è una innovazione recente nella storia dell'islam; databile, grosso modo, agli anni venti con l’affare dei Fratelli musulmani.

E' sorta come contro-riforma in relazione alla famosa nahda, la nahda è stata il rinnovamento, la rinascita a cavallo del XIX e XX sec. Dunque, ecco l'idea dell'islamismo come progetto politico, assoggettamento, statalizzazione, manipolazione della tradizione islamica, per fini sociali e politici. Non c'è nel Corano un codice ben stabilito, che sia così chiaro, esplicito come quello  a cui si riferiscono questi islamici. Perché l'idea che noi abbiamo del progresso, della modernità, della civilizzazione, è  che appartiene agli uomini di legiferare nelle questioni della città. E' vero che per i credenti musulmani, Dio parla nel Corano. Ma tutto questo è molto complicato. Per definizione se Dio è onnipotente, onnisciente, se tutto può, tutto fa, la sua parola è inesauribile. In compenso, il Corano è contingente, finito, si articola nella storia, è trasmesso all'interno di una cultura. Questo vuol dire che c'è una maniera di lasciare posto all'interpretazione degli uomini. Perciò, alcuni passaggi del Corano che sarebbero duri contro le donne, non sono da considerare ai nostri giorni che una giurisprudenza- d'origine divina per chi crede- per  un certo momento della storia, per una società particolare, nel caso la società tribale della penisola arabica del VII sec. Voler dare un valore atemporale, normativo, universale a quello che è contingente e finito, e articolato nella storia, è un grave errore. Questi passaggi del Corano che, presi tali quali, sono duri contro la donna, non si possono integrare nella grande opera sociale di questo inizio secolo. Semplicemente bisogna dire che sono caduti in disuso. La loro incidenza sociale è caduca. Ciò a cui fanno allusione è obsoleto. Ai nostri giorni, per esempio, non si può domandare seriamente che in caso di testimonianza ci debbano essere due donne per un uomo. E' un attacco gravissimo alla dignità della donna.

Nonostante ciò le autorità algerine affermano a viva voce che il codice della famiglia deve rispettare la šarî‘a..

Nel 1984, quando il Codice della famiglia è stato adottato, la pusallimità, l’apatia, la vigliaccheria del legislatore, cedendo alle sirene islamiche che tuonavano, a fatto si che si sia stati più realisti del re. In questo codice ci sono cose che la stessa šarî‘a -parola che non vuol dire altro che legge di ispirazione religiosa-, nella sua forma più rigida, non ha previsto. Un esempio: quando una donna divorzia, questa šarî‘a prevede che lei abbia la custodia dei figli, che resti a casa. Ora il Codice di famiglia non le ha concesso ne la custodia dei figli, ne l'abitazione, ciò è iniquo. Recentemente si è ritornato su questi casi gravi, ma a mio parere si è ancora molto al di qua di ciò che bisognerebbe dire e fare per avere semplicemente un Codice civile, per le questioni matrimoniali, che rispetti la dignità umana della componente femminile, come di quella della componente maschile.

Cosa risponde a chi, pretendendo di basarsi sui testi sacri e la tradizione islamica, dice che la donna non è uguale all'uomo? O che “deve obbedire all'uomo”?

Obbedire a cosa e per cosa? Perché vorremmo che all'interno della coppia ci fosse una relazione dominante- dominato, uno che ordini e qualcuno che deve obbedire? Non ha senso! Ed è pure in contraddizione con la Costituzione algerina che prevede che una cittadina possa postulare alla magistratura suprema. Allora come potremmo volere che il più alto magistrato del paese, il capo dell'esercito, colui che incarna la nazione e lo Stato, debba obbedire, nelle considerazioni private e famigliari, a uno dei suoi amministrati? Non è serio. Per quanto concerne i testi sui quali ci si fonda, a livello ontologico, dell'uguaglianza innata, vera, non c'è differenza tra uomo e donna. Non c'è nel Corano che la donna è nata dalla costola dell'uomo, non c'è che lei è la tentata e la tentatrice a sua volta, non c'è una teologia che fa della donna la causa di tutti i nostri peccati, di tutti i nostri mali. In compenso, a livello statutario, ci sono dei passaggi che affermano, ahimè! una preminenza dell'uomo rispetto alla donna in certi casi: la testimonianza, a cui mi riferivo poco fa, la poligamia, l'eredità, e questa storia del velo. Ma anche là, bisognerebbe saperli relativizzare al loro contesto, spiegare perché sono stati rivelati a quell’ epoca. Sono questi passaggi che ai giorni nostri i giureconsulti maschilisti, sessisti, fallocrati, misogeni, hanno preso a pretesto per giustificare la soggezione della donna. Ma questo modo di piegare il religioso per delle considerazioni, psicologiche, personali, politiche, sociali non ha fondamento legittimo a livello di esegesi, di interpretazione.

Prendiamo l'eredità. E' vero si dice che alla donna va la metà di ciò che spetta all'uomo. Ma e il “ma” è di peso, in primo luogo lei prima non ereditava: il fatto di darle una parte di eredità, è riconoscerla come soggetto, autrice del suo destino, mentre prima faceva parte del patrimonio allegato, del bene trasmissibile. Certo non ha che la metà dell'eredità, ma non è tenuta, religiosamente,a sovvenire ai bisogni della famiglia; all'epoca era il marito che ne aveva il dovere. Ai nostri giorni la situazione è cambiata, l'uomo e la donna sovvengono insieme ai bisogni della casa. Di colpo le ragioni che facevano si che si desse la metà dell'eredità alla donna non sono più valide. Perciò neanche le conseguenze non devono più essere valide

Lei richiama i credenti al dovere permanente d'interpretazione dei testi...

Il Corano dice effettivamente che bisogna esercitare la ragione, l'intelligenza. C'è di meglio. Nel Corano un passaggio dice “ E le loro faccende sono oggetto di consultazione tra di loro”. Perciò fa parte delle nostre faccende, di noi musulmani, all'inizio del XXI secolo. In Algeria, è già gravissimo aver messo nella Costituzione che l'islam è la religione dello Stato. Lo Stato non deve avere religione per principio. Lo Stato è il garante del libero esercizio dei culti. Se vogliamo essere moderni, dobbiamo dotarci di istituzioni moderne, rispettare tutte le tradizioni religiose e lasciare la gestione del culto islamico a un organismo autonomo, indipendente. Ai nostri giorni, si dovrebbe dire che non c'è nessuna ragione in materia di considerazione matrimoniale, o di successione, o di Codice civile, di riferirsi al Corano. Tanto più che il Corano a dato luogo nel corso della storia a multi interpretazioni. Non vedo perché oggi se ne deve previleggiare una rispetto a un'altra. E come per caso si privilegia la più drastica.

L'opposizione degli islamici alla riforma del Codice della famiglia si focalizza soprattutto sulla soppressione della tutela della donna per il matrimonio, che considerano come “una protezione”. Cosa ne pensa?

E’ una stupidaggine. Ciò ha origine dall’idea che la donna è una minore a vita. Considerarla una protezione è confinare la donna in un ruolo inferiore, e in uno statuto che non è degno della sua condizione di essere umano. È vero, in questo modo la giovane donna ancora vergine, aveva bisogno del parere del padre, che era un po’suo tutore, essendo le società ciò che erano all’epoca. Ma non è una obbligazione religiosa rigida, una prescrizione coranica. La sola questione che vale è sapere se è maggiorenne oppure no. Se lei ha raggiunto la maggiore età, non ha più bisogno di nessuna tutela, fosse quella di suo padre, per sposarsi, viaggiare, ecc.Bisogna uscire dall’archaismo.

Gli islamici tengono in massima considerazione il mantenimento della poligamia, a motivo, ancora, che è stabilita dal Corano.

Il Corano non ha mai detto agli uomini: voi avete diritto di avere quattro mogli. Non è un diritto, è una virtualità in un contesto ben particolare. È detto :”Se temete di non essere equi con gli orfani, sposate allora di fra le donne che vi piacciono, due o tre o quattro, e se temete di non essere giusti con loro, una sola, o le ancelle in vostro possesso,questo sarà più atto a non farvi deviare (1)". "Dio non ha posto due cuori nel petto dell’uomo. Voi non potete essere equi con le vostre spose, anche se ciò fosse il vostro più ardente desideri (1).” Ecco i testi che parlano di questa famosa poligamia. Tre osservazioni. Uno, è in un quadro molto particolare, la presa in carico di vedove e orfani. Due, in una società tribale, dove la poligamia era anarchica, senza limiti, rispetto al numero delle donne di Salomone o di Davide, portarle a quattro, per l’epoca, era un progresso spettacolare. Tre, ai nostri giorni, è la monogamia stretta che deve prevalere; non si può seriamente continuare a tergiversare domandandosi se la poligamia deve essere assoggettata al consenso della prima sposa (2). Abbiamo a che fare con uomini maschilisti, sessisti, fallocrati, misogini che vogliono soddisfare i loro bisogni libidinosi fondandosi sul Corano. Non c’è altro da dire. Un a nazione democratica, moderna, che crede nel progresso, abolisce cose del genere. Non si deve volerla limitare per legge- che deve essere una legge relativa al diritto positivo-, teorizzare sulla poligamia.

Cosa ne pensa della proibizione, ugualmente stipulata nel Codice di famiglia, del matrimonio di una donna o di un uomo musulmano con un uomo o una donna non musulmani?

Da sempre si autorizza l’uomo musulmano a sposare una ebrea o una cristiana, una credente adepta di un’altra religione, non un’atea. Ma l’inverso non è possibile: una donna non sposa nessuno che non sia musulmano. Perché? L’argomento avanzato era: in una società patrilineare, (cioè dove i valori metafisici erano sempre trasmessi dal padre, e virolocale, cioè dove la donna si trasferiva nella casa del marito), i musulmani riconoscevano l’insegnamento di Mosè, di Gesù, ma non l’inverso. Quindi si ragionava dicendo: la donna verrà soffocata per la sua religione, perché gli ebrei e i cristiani non riconoscono la profezia di Muhammad; ciò sottindente che essi avrebbero proibito il libero esercizio del suo culto. E per la patrilinearità, i bambini che nasceranno saranno perduti, rispetto alla Umma, la comunità musulmana.

Ai nostri giorni, questi argomenti sono caduti in disuso. Uno stato laico moderno, farà si che l’ebreo, il cristiano, l’ateo o il musulmano non abbia più motivo di predominio sulla coscienza della propria moglie. È lo Stato che deve le garantire il libero esercizio del suo culto. Quale che sia suo marito, la sua islamicità e la sua fede sono garantite. Non possiamo neanche dire che la sua islamicità è in pericolo per il fatto che ha sposato un non musulmano, perché questo non potrà interferire nel modo di vivere la sua spiritualità. E poi bisogna uscire da questa idea contabile della Umma, ne perdiamo qualcuno qui, ne acquistiamo qualcuno là. No, le questioni di salvezza, di religione, di spiritualità, impegnano prima di tutto la coscienza umana nell’intimo di ciascuno, non sono una questione di numero. Infine per una donna vivere con un marito non musulmano nell’armonia, nel rispetto, nell’amore, è molto più apportatore e gratificante, che sposare un musulmano che la picchia e l’opprime.

A sentire gli attacchi contro la riforma del codice, si ha l’impressione di una profonda paura nei confronti della donna..

Senza adulazione, sono tra quelli che pensano che il XXI sec. sarà femminile o non sarà. Sono tra quelli che credono che se avessimo dato alle donne la gestione degli affari del mondo, si avrebbero avute meno violenze, meno guerre. Sono tra quelli dispiaciuti che la civilizzazione sia sempre stata maschile; la donna, dopo essere uscita dal gineceo greco, è stata via via, menade, baccante, odalisca, gheisha, egira, tutto ciò che si vuole, ma mai definita intrinsecamente. Le relazioni uomo-donna devono essere fondate sull’armonia, sull’attrazione fisica, sull’amore, sulla misericordia, sulla complicità, sul fatto di vivere insieme, simultaneamente, una bella avventura; non sulla paura, sulla negazione dell’altro, la soggezione o l’asservimento dell’altro. Cercare di vivere insieme in armonia, e in perfetta uguaglianza ontologica, di diritto, di rispetto, con solo criterio determinante la dignità umana, sia nell’uomo che nella donna.

Anche la questione del velo è sintomatica di questa paura. Per gli islamici, in Algeria come in Francia, sarebbe un’altra protezione della donna. Cosa risponde in proposito?

Anche là si tratta di scempiaggine. La donna non ha bisogno di un tessuto per essere protetta. Ciò che la protegge è prima di tutto la sua istruzione, la sua educazione, la sua cultura,  la sua acquisizione del sapere, il suo senso dell’onore, la sua virtù, il suo pudore. Si il Corano ha menzionato il velo , non è una novità. La donna ebrea si rasa il cranio e mette una parrucca: i capelli sono considerati un attributo erotico. La lettera di S. Paolo ai Corinzi dice: “Se una donna non è velata, è come si fosse rasata, e dato che non è preferibile essere rasata, è preferibile essere velata (3)”. Ciò si poteva spiegare all’epoca. Si dimentica anche che il califfo Umar, potentissimo e piissimo, a cui gli islamici si rifanno sempre, picchiò una donna musulmana, detta di bassa estrazione, quando volle velarsi. Non iniziamo a combattere per mezzo di versetti coranici, ma c’è ne uno ,versetto 60 della sura 24, la sura della Luce, che dice in sostanza: “ ..e che non sperano più di sposarsi, non è peccato per loro se depongono le loro vesti , senza però mostrare le loro parti belle”. Ciò regola il problema delle nostri madri e delle nostre nonne, anche se dietro questo passaggio c’è un’idea maschilista.

Per quanto riguarda le ragazze appena puberi, che imbacucchiamo in un tessuto variegato che le imbruttisce, è una catastrofe, un non senso, e le conseguenze psicologiche che lasceranno sono gravissime. Perché?

Durante un dibattito contro Tariq Ramadan, all’Unesco, dissi:” Se lei dice che bisogna salvaguardare la donna, nascondendole i capelli per non far fantasticare i ragazzi, bisognerebbe piuttosto educare i ragazzi che fantasticano su di essi, che incolpare la ragazza di essere giovane”. Noi siamo in questa situazione semplicemente perché non abbiamo avuto un “ momento Freud” da noi. Non abbiamo avuto il dibattito sulle relazioni uomo-donna, pudore-impudicizia, ecc.

Ci dimentichiamo che a Samarcanda, Tashkent, Bukara, o, ancora meglio, a Cordova, a Seviglia, la licenza era percepita da parte dei musulmani: gli ebrei, i cristiani vedevano le musulmane come giovani piuttosto dissolute, mentre l’ostentazione del pudore, il bigottismo erano più dalla parte, a quei tempi, degli ebrei e dei cristiani, che avevano una relazione con il corpo, i rapporti carnali, esclusivamente ristretta alla procreazione. Questo non era il caso, e in principio non lo è neppure oggi , della visione islamica.

Ai  nostri giorni , è l’inverso, sfortunatamente. Semplicemente perché abbiamo accusato un enorme ritardo in tutti i campi, compreso quello dei rapporti uomo-donna. L’equivalente, ai nostri giorni, del versetto coranico che chiede alle donne di portare su di esse il velo, di non scalpitare al fine di non attirare lo sguardo degli uomini, è il raccomandare alle credenti di vestirsi in maniera pudica, e questo sia da una parte che dall’altra.

(Intervista realizzata da Karima Goulmamine. Da L'Humanité - edizione del 12 novembre 2004. Traduzione dal francese a cura di Maria Domenica Ferrari)

Note

(1) Corano IV 3; IV 129.

(2) il progetto di riforma del Codice algerino prevede di sottomettere la poligamia all’accordo della prima moglie e del giudice.

(3) Corinzi 11,5-6 I versetti dicono “ Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole mettere il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si metta il velo.”

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