Il corpo:
soggetto della vita spirituale
di Luciano Manicardi
L’incarnazione, al cuore della rivelazione cristiana, afferma che Dio incontra l’uomo nel corpo e che il corpo è la vita dell’uomo per incontrare Dio. «Entrando nel mondo Cristo dice: “Tu non hai voluto nè sacrificio nè offerta per i peccati, un corpo invece mi hai preparato”» (Eb 10,5). Il cammino di Dio verso l’uomo, dall’atto creazionale e attraverso l’intera storia di salvezza, è il continuo tendere di Dio alla corporeità: «Il fine di tutto l’agire di Dio è la corporeità» (Friererich Oetinger).
«Noi siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Cristo», prosegue la lettera agli Ebrei (Eb 5,10); ovvero, la salvezza non è ottenuta da Cristo mediante la via religiosa dell'economia sacrificale, ma attraverso la via esistenziale del dono, dell'amore e dell'offerta di sé che avviene nel corpo. Ormai, nel Verbo fatto carne (cfr. Gv 1,14) il corpo è patrimonio comune di Dio e dell'uomo. Vivere la condizione umana è vivere la corporeità. E vivere l'obbedienza a Dio significa per il cristiano, passare attraverso l’obbedienza al proprio corpo.
Del resto, come suggerisce il testo della lettera agli Ebrei, il corpo, nella visione cristiana, non è opacità (come nella visione platonica), ma trasparenza dello spirituale: «Tu mi hai preparato un corpo». Il corpo è rimando di trascendenza, trasparenza del "tu" di Dio. Non un fastidioso fardello, non la prigione dell’anima, ma responsabilità che personalizza. Possiamo dire che il corpo che noi siamo (nel cristianesimo non è possibile pensare il rapporto tra l'uomo e il corpo in termini di avere, di possesso), ma che non viene da noi, è la nostra inscrizione originaria nel senso della vita. Ciò che è più inalienabilmente mio, non viene da me ma mi rinvia ad altri da me, e mi rinvia anzitutto all'incontro di due corpi che ha dato alla luce il mio corpo, e rinvia al Dio signore e creatore del corpo.
Giovanni Paolo II ha affermato: «Il Creatore ha assegnato all’uomo come compito il corpo. A ciascun cristiano è chiesto di divenire il proprio volto - l'elemento più personalizzante del corpo -, realizzando quell'unicità creata e voluta da Dio, e tutto questo in riferimento all'uomo compiuto (cfr. Ef 4,13), Gesù Cristo. L'immagine e somiglianza con Dio trova proprio nella corporeità il suo culmine. Del resto, tutta l'esperienza della salvezza, dalla creazione all'incarnazione fino alla resurrezione della carne ha il suo centro nel corpo: caro cardo salutis, «la carne è il cardine della salvezza» (Tertulliano).
Alla luce di questa visione si comprende come l'esperienza spirituale sia essenzialmente un'esperienza corporea: non solo non si tratterà di fuggire o negare o, ancora meno, disprezzare il corpo, ma di imparare ad abitarlo in tutta la sua potenzialità relazionale. "Corporeità" indica dunque il soggetto umano nella sua integralità, e designa il corpo individuale della persona come luogo d'incontro di una storia che lo precede e in cui si inserisce (un corpo di tradizione), di una società e una cultura in cui egli si situa (un corpo sociale e culturale), di una natura e di un creato che lo accolgono (un corpo cosmico e di natura). «Il più "spirituale" non avviene, dunque, altrimenti che nella mediazione del più "corporeo"» (Louis-Marie Chauvet).
Il lavoro spirituale della vigilanza e della preghiera non può astrarre, pertanto, dal lavoro di ascoltare il proprio corpo, di aprirsi alla memoria di cui esso è portatore, perché noi siamo anche la storia del nostro corpo. E questa storia, che per il credente è anche la storia della relazione di Dio con noi, non risale solo al giorno della nostra nascita, ma al momento del nostro concepimento e ai mesi di vita intrauterina. In noi si sono così depositate tracce di una memoria profonda di ciò che abbiamo patito e sperimentato, vissuto e provato, e che vengono portate alla luce dalle esperienze che facciamo nell'oggi: il corpo è così il libro del tempo su cui restano incise emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è tanto dietro, quanto dentro di noi.
La valenza spirituale del corpo è dunque evidente: esso è il nostro modo di essere al mondo, di prendervi parte, di rispondere ai suoi molteplici richiami e alle sue sollecitazioni di gioia o di dolore, cose tutte che plasmano il nostro corpo, fino a renderlo immagine del nostro carattere. Il nostro corpo, che abbiamo ricevuto, è anche costruito da noi e dai nostri incontri, dagli altri e dagli eventi, e il credente lo costruisce anche con Dio, e nella fede vuole fare in modo che l'umanità di Gesù plasmi la sua umanità. La parola facies, "faccia", deriva dal verbo facere, che designa un'attività, e visus, "viso", deriva dal verbo videre, "vedere", e indica che altri ci vedono: noi siamo costruiti dalle relazioni che viviamo; lo sguardo dell'altro, a partire da quello dei genitori fino a quello di Dio che nelle fede sentiamo su di noi (vedi l'esperienza di Maria nel Magnificat: «ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua serva»: Lc 1,48) dà forma alla nostra persona.
Il discorso sul processo che dai sensi conduce al senso, ci dice l'intenzionalità del corpo, ovvero il fatto che attraverso il corpo noi impariamo e attribuiamo significati al reale: con la vista non vediamo solo colori e forme, ma cogliamo emozioni e messaggi; con il tatto non ci limitiamo ad afferrare oggetti, ma a ricevere e trasmettere tenerezza o altri sentimenti... Quanto all'ascolto, poi, che certamente, nella rivelazione biblica è il senso umano privilegiato, perché quello che consente la relazione di Dio con l'uomo, l'alleanza e la conversione, esso tende a inscrivere nel corpo umano, cioè nell'uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola e la volontà divina. Questa è la logica dello shemac Israel («Ascolta, Israele»: cfr. Dt 6,4-9) per cui i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, proclamati in casa e lungo la strada, appesi come pendaglio tra gli occhi, ripetuti ai figli, scritti sugli stipiti delle porte...
Attraverso i sensi la parola di Dio raggiunge l'uomo in tutti gli ambiti del suo vivere: personale, famigliare, sociale, politico. Un detto rabbinico afferma: «Se la Torah è fissata nei duecentoquarantotto organi del tuo corpo, tu la custodirai, altrimenti la dimenticherai». Chi infatti si dedica alla Torah, afferma la tradizione ebraica, ne porta i segni nella sua persona: «Proprio come il fuoco lascia un segno sul corpo di chi opera con esso, così le parole della Torah lasciano un segno sul corpo di chi opera con esse. Proprio come coloro che lavorano con il fuoco sono riconoscibili, così i discepoli dei sapienti sono riconosciuti dal loro modo di camminare, dai loro modo di parlare e dal loro modo di vestire».
Le cose non stanno diversamente per la tradizione cristiana che attesta nel modo più chiaro possibile che il corpo è il luogo dell'incontro fra Dio e uomo e che nell'eucaristia coinvolge tutti i sensi nell'esperienza spirituale dell'incontro nella fede con il Signore morto e risorto. Gusto e olfatto, tatto, vista e udito sono vivificati dallo Spirito santo e divengono capaci di esperienza spirituale. Certo, i sensi devono essere purificati, tenuti vivi, risvegliati, destati perché sono sempre a rischio di idolatria: la vista deve restare aperta all'invisibile, l'udito dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell'ineffabile, il tatto dovrà accogliere che vi sono realtà inattingibili... E tuttavia i sensi, nella loro materialità e corporeità, hanno un'attitudine intrinsecamente spirituale. Sì, essi possono intontirsi e chiudersi: Gesù parla di occhi che non vedono, di orecchi che non sanno ascoltare, di cuori che si induriscono, in una parola, di corpi che si ottundono.
Per svolgere la loro funzione spirituale essi devono restare aperti allo Spirito Santo. L'uomo spirituale è appunto colui che tende con tutto il suo essere all'acquisizione dello Spirito. E l'uomo spirituale non sarà rivelato dai riti che pratica o dal contenuto più o meno spirituale delle parole che pronuncia ma, come ricorda un testo della tradizione cristiana orientale, dal suo corpo: «Quando lo Spirito pone la sua dimora in un uomo, questi non può più arrestare la sua preghiera, perché lo Spirito non cessa di pregare per lui. Che lui dorma o vegli, la sua preghiera non si separa dal suo cuore. Mentre mangia, mentre beve, mentre riposa, mentre lavora, mentre è sprofondato nel sonno, il profumo della preghiera esala spontaneamente dal suo cuore».
È il corpo che rivela i frutti.
(da L'Ancora, 1/2, 2005).