La condizione della donna
ai tempi di Nazaret
di Enrica Varaldi
«Mercati, consigli, tribunali, processioni festive, assembramenti di grandi folle, in breve tutta la vita pubblica, con le sue discussioni e i suoi affari, in tempo di pace e di guerra, è un fatto di uomini. È conveniente che le donne restino a casa e vivano ritirate. Le donne devono stare nei loro appartamenti privati, fissandosi come limite la porta di comunicazione (con le stanze degli uomini); e le donne sposate come limite la porta del cortile» (Philo Alexandrinus, De specialibus legibus, III, 169-171).
L’ambito ristretto delle pareti di casa circoscrive tutto l’orizzonte di una donna ebrea. Non è richiesta la sua partecipazione alla vita dello stato, né alla vita economica del commercio, né a quella della maggior parte delle cerimonie religiose. Tutti questi ambiti sono aperti alla partecipazione degli uomini che vivono la dimensione pubblica e la amministrano.
Raggiunta la maturità sessuale, intorno ai dodici anni, secondo la volontà del padre, le ragazze vengono assegnate ad un uomo, spesso appartenente ad uno dei due rami della famiglia e a lui cedute attraverso un contratto matrimoniale, inteso come un atto di acquisto. Veniva infatti fissato un prezzo diverso a seconda dello status della ragazza, che serviva a risarcire la donna in caso di morte del marito o di divorzio. Non c’era alcuna differenza né a livello legale né nella mentalità comune tra l’acquisto di uno schiavo e quello di una sposa. Era l’uomo soltanto a poter ripudiare la moglie o a divorziare da lei, mentre la donna era autorizzata a tornare nella casa paterna solo in casi eccezionali.
Il trattato Ketubot del Talmud dice dei doveri di una donna: «Questi sono i lavori che una donna deve fare per il marito: macinare (la farina) e cuocere (il pane), lavare (i panni) e cucinare, allattare i bimbi, rifargli il letto e lavorare la lana. Se ha portato con sé una serva non macina né cuoce il pane, né lava; se ne ha portate due...» (V, 5).
Il ritratto della donna che emerge, reclusa tra le pareti domestiche, intenta ai lavori di casa e completamente sottomessa al volere del padre prima e del marito poi, non è tuttavia così generalizzabile. Esso rispecchia la vita di donne del ceto medio, alleviate nel loro lavoro dalla presenza di una o più serve. Diversa era la condizione di vita degli strati popolari, in città o in campagna. La difficoltà della vita quotidiana portava a condurre l’attività lavorativa, per esempio, dei campi o di vendita dei prodotti, tutti insieme, i coniugi con i figli e le figlie. La donna poteva allontanarsi per attingere acqua alla fontana o addirittura partecipare a feste popolari dove si danzava uomini e donne insieme.
Anche per quanto riguarda l’istruzione si sa che essa non era impartita alla donna. La scuola (andreîon) era aperta, come testimonia il suo stesso nome, unicamente agli uomini. Non venivano istruite, le donne, neppure nella Legge giacché «meglio bruciare la Torah che trasmetterla alle donne» (Talmud di Gerusalemme, trattato Sota III, 4).
Per la vita religiosa essa era tenuta a rispettare i comandamenti negativi della Torah, ma non quelli positivi; non aveva l’obbligo, dunque, di partecipare al pellegrinaggio a Gerusalemme, alla recita dello Shema’, non poteva offrire vittime imponendo le mani per la benedizione, non pronunciava preghiere ai pasti. Era esclusa dall’area più interna del Tempio e doveva osservare norme di purità precise e severissime dopo il ciclo mestruale o dopo il parto (era doppio il periodo di purificazione previsto dopo il parto di una femmina rispetto a quello per un maschio). Non è mai attestato il fatto che una donna avesse potuto svolgere funzioni di sacerdotessa né in epoca antica, né in epoca ellenistica, come invece avvenne in altre culture antiche.
A carico della figura femminile dobbiamo ancora aggiungere una intensa misoginia, non estranea peraltro neppure alla cultura greca e latina in epoca antica e tardoantica. Dice il Siracide: «Dalla donna ha avuto inizio il peccato e per causa sua tutti noi moriamo» (Sir 24-25). Si riscontra qui come in alcuni testi talmudici, non un giudizio parziale sulla donna, difficilmente buona e saggia e molto più frequentemente pettegola, litigiosa, frivola e avventata; ma piuttosto una condanna radicale e assoluta poiché la donna è causa della caduta dell’umanità (cf ad esempio anche Qo 7,26-28 cronologicamente precedente al passo citato). La donna, trasgredito all’origine dell’umanità il volere di dio, diventa per sempre la tentatrice dell’uomo, attaccata alla realtà dei sensi e della materialità. Direttamente o indirettamente, dunque secondo la mentalità giudaica la donna è causa del male. È ovvio che in misura maggiore o minore tutta la cultura ebraica visse il contatto con la donna come una condizione pericolosa e inquietante.
Se è vero che attraverso questa prospettiva possono essere letti in modo più chiaro il confinamento della donna in ambiti ristretti, la sua estraneità dalla vita pubblica civile e religiosa, non va tuttavia dimenticato che anche in quegli stessi autori più metafisicamente misogini si leggono passi che riconoscono alla donna come madre e come sposa un ruolo di particolare dignità. Sappiamo che un uomo è ritenuto ebreo se la madre lo è: nel giudaismo antico la discendenza è matrilineare, fatto che ha permesso di ipotizzare un antico istituto matriarcale.
In questo ruolo di sposa-madre, la donna è sentita come compagna e complemento indispensabile per l’uomo. Qoelet stesso insegna di godere la vita con la donna che si ama (9,9). Ben Sirac sostiene che l’aiuto reciproco tra moglie e marito è da porre al di sopra di quello tra amici (40,23).
Nell’epoca ellenistica in cui tutta la cultura giudaica subì una profonda trasformazione, anche la figura femminile venne riletta in modo meno duro ed emarginante. Ci si sposa non solo per via di parentele ed interessi, ma per amore e in molte opere si sottolinea l’importanza del sentimento nell’unione matrimoniale. I nuovi diritti che essa acquista e la nuova libertà di cui gode da questo periodo storico fanno acquisire alla donna una nuova condizione; esempio ne sia il fatto che possa accedere a scuole miste o, nel caso più eclatante, governare in luogo del figlio, senza che però né in ambito giuridico, né culturale, né religioso essa abbia mai raggiunto una piena equiparazione all’uomo.
Cf LILIANA ROSSI UBIGLI, La donna nel Giudaismo antico, in Parole di Vita, 30 (1985) 352-360, con bibliografia.