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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Per la pace, “ecologia umana internazionale”
Card. Renato Martino





Il Magistero sociale della Chiesa nelle sue varie manifestazioni – ricordo per inciso il ricco patrimonio di idee contenute nella Pacem in terris del Beato Giovanni XXIII, nei tanti Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace proposti dai Sommi Pontefici da Paolo VI sino a quello di quest’anno del Santo Padre Benedetto XVI, nel capitolo decimo del Compendio della dottrina sociale della Chiesa - usa sostanzialmente la stessa chiave, miscelando, con sapienti dosaggi, le quattro dimensioni sopra richiamate e illuminandole con la grazia e la forza del Vangelo della pace di nostro Signore Gesù Cristo.

Lo stesso Consiglio per la Giustizia e per la Pace, già nella sua denominazione, è una dimostrazione di quanto sia importante utilizzare il registro di molteplici dimensioni interdisciplinari nell’approccio alle complesse tematiche della pace. Essendo il Presidente di questo Dicastero, recentemente ho voluto anch’io offrire una qualche riflessione che, utilizzando lo stesso paradigma, ho reso pubblica nel mio volume Pace e guerra. Sono certo che i valenti e qualificatissimi oratori convocati a questo nostro Colloquio sapranno darci contributi di grande spessore e profilo. Per quello che mi riguarda permettetemi una qualche riflessione previa che mi auguro possa essere utile a stimolare la nostra comune ricerca dei cammini della pace. Mi sembra che la prima cosa di cui abbiamo bisogno è una corretta comprensione di come si pone oggi il problema della guerra e della pace. Il conflitto in genere e la guerra in particolare, infatti, stanno cambiando la propria fisionomia. Sono più orizzontali che verticali, più diffusi che concentrati, più frammentati che unitari, più quotidiani che eccezionali, più vicini che lontani, più immateriali (e perfino virtuali) che materiali. L’11 settembre ha dimostrato che la morte di tremila persone è alla portata di tutti: basta un coltellino come quello adoperato da un dirottatore. A questo riguardo, un attento osservatore ha parlato di «guerre democratiche».

Questi rilevanti cambiamenti sono stati provocati soprattutto dal processo di globalizzazione. È doveroso tenere conto di questo contesto completamente nuovo in cui oggi si collocano le problematiche della pace e della guerra, sia per conoscere i nuovi condizionamenti negativi per il processo di pace, sia per discernere le nuove opportunità, su cui fare leva, con evangelica speranza, per creare migliori condizioni di pace. La violenza, i conflitti e le guerre si frammentano e quasi si nebulizzano, mentre un tempo erano situazioni circoscritte e unitarie. Aumentano i micro-conflitti ampiamente dislocati, mentre diminuiscono le guerre convenzionali attuate su grandi teatri. C’è una recrudescenza di guerre civili, etniche, tribali, locali. Nel mondo sviluppato c’è un incremento di insicurezza civile, di guerra per bande e tra gruppi di potere illegale, di micro-illegalità attuata, purtroppo, anche da minorenni. Dopo la fine del sistema dei blocchi contrapposti, le guerre si sono disseminate nel mondo come espressione di tensioni particolaristiche difficilmente riconducibili a uno schema unitario.

Ho qui accennato ad alcuni cambiamenti in atto nel modo di considerare la guerra nell’epoca globalizzata. Medesime considerazioni andrebbero fatte per la pace. Poiché la globalizzazione è «quello che gli uomini ne faranno», dobbiamo mettere in evidenza le opportunità positive che essa pone nelle nostre mani. L’orizzontalità, per esempio, ha permesso e permetterà ancor più in futuro, di moltiplicare gli attori della pace sulla scena globale, di sviluppare la partecipazione della società civile e dei gruppi di advocacy. La trasparenza delle informazioni rende possibile all’opinione pubblica mondiale farsi un’idea, esprimersi e diventare un vero e proprio interlocutore dei poteri politici su temi di guerra e di pace. Il tragico fenomeno della «delocalizzazione» delle guerre può stimolare maggiormente gli uomini di buona volontà e la comunità internazionale ad affrontarne le cause sociali ed economiche e a favorire il dialogo tra le etnie e le religioni. Se la fine dei blocchi ha prodotto e tuttora tende a produrre una fase di instabilità internazionale, apre anche a nuove possibilità di intervento che in precedenza erano precluse. Ogni epoca porta con sé rischi ed opportunità. Appartiene al realismo cristiano considerare i primi e alla speranza cristiana valorizzare le seconde. Se la guerra si fa diffusa e decentrata, quotidiana e smaterializzata … ebbene, anche la pace lo può essere, e lo deve essere. Ciò che vale per il negativo vale anche e prima di tutto per il positivo.

Il contesto globalizzato cambia i connotati sociologici della pace, ma non ne altera la dimensione antropologica ed etica. Occorre quindi un supplemento di interpretazione del mondo di oggi nelle sue dinamiche principali e di coraggio profetico per poter annunciare e preparare la pace anche nel nuovo contesto globale. Parallelamente, serve anche la capacità di recuperare il senso pieno della pace. Possiamo allora chiederci quali siano le nuove esigenze della pace e, quindi, quali strade possiamo percorrere per costruirla e realizzarla meglio di quanto non siamo riusciti a fare fino ad ora.

a) Acquisire una mentalità preventiva. È plausibile ritenere, in primo luogo, che la pace richiederà sempre di più di essere ricercata con una mentalità attrezzata a prevenire i conflitti piuttosto che con interventi a posteriori. Le cause della guerra si moltiplicano e si intrecciano. Le cause legate ad interessi economici si aggiungono a conflitti etnici o religiosi; il retaggio di storici rancori si combina con situazioni politiche di incertezza o di dispotismo; sofferenze sociali alimentano rivendicazioni espresse in forme violente che spesso si combinano con la lotta per la sopravvivenza, oppure con le tensioni provocate dal possesso di risorse naturali. Il carattere dell’incertezza caratterizza così anche la guerra e, quindi, la pace, come altri importanti fenomeni sociali del nostro tempo. Che la guerra sia un’«avventura senza ritorno», come aveva detto Giovanni Paolo II, è purtroppo vero anche dal punto di vista delle novità sociologiche: una volta scoppiata diventa difficilissimo dipanare il groviglio delle sue cause per intervenire ex post e ristabilire la pace. Per tutti i motivi che ho qui brevemente richiamato, il futuro richiederà sempre di più una maggiore prevenzione dei conflitti piuttosto che una loro «riparazione» posteriore. Pertanto non si può non concordare con quanti affermano che la complessità del mondo globalizzato non richiede meno politica, ma una intensificazione del ruolo della politica, proprio per gestire la maggiore incertezza con un dialogo più aperto e una concertazione più responsabile. In questo contesto va collocata l’esigenza, più volte richiamata dalla Santa Sede, di potenziare e riorganizzare gli Organismi internazionali.

b) Coltivare una «ecologia umana» internazionale. La guerra è oggi un fenomeno globale e questo dato deve far emergere sempre di più, come risposta attiva, che anche la pace è un fenomeno globale. Credo che questa globalità vada intesa soprattutto in senso intensivo: il venir meno dell’ecologia politica e perfino dell’ecologia naturale, dipendono dal venir meno della «ecologia umana» (Cf. Centesimus annus n. 38) Cosa si intende con questa espressione? Significa che non solo l’ambiente naturale, ma anche l’ambiente umano – la famiglia, la società, l’economia e la politica – richiede il rispetto di una sua propria ecologia, di un suo funzionamento fisiologico ove la dignità della persona sia veramente posta al centro.

Ora, il fatto nuovo tipico della società globalizzata è che tendono a sparire i confini tra ecologia naturale (ossia il rispetto responsabile dell’ambiente), ecologia sociale (la giustizia e la promozione di persone e gruppi), ecologia politica (le relazioni tra gli Stati e gli organismi politici) ed ecologia umana (un ambiente morale in cui la dignità della persona sia rispettata). I confini tendono a sparire nel senso che le interrelazioni tra questi ambiti sono sempre più strette e complesse. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel caso della guerra. Per esempio: le lotte per sfuggire alla povertà ed accaparrarsi risorse naturali generano conflitti; a loro volta i conflitti comportano distruzione di risorse naturali e generano povertà. Le lotte per garantirsi i diritti di sfruttamento dell’ecosistema (si pensi alla bioingegneria vegetale ed animale che tenderebbe a mettere il proprio copyright sulla biodiversità) generano profitti e benessere per alcuni, ma anche possono indurre ceti e popoli alla povertà. Trovo che il concetto di ecologia umana possa fornire una chiave di lettura dei fenomeni del conflitto e della guerra e quindi, in positivo, della pace, in grado di aiutarci a fronteggiare le nuove sfide globali. Essa permette di intendere l’interconnessione nell’uomo dei diversi ambiti di ecologia e la necessità di un impegno coerente e orientato perché, come in un sistema di vasi comunicanti, tutto influisce su tutto. La costruzione della pace si fa oggi in primo luogo, impegnandosi per una ecologia umana plenaria, per un rispetto della dignità dell’uomo in tutti gli ambiti.

c) L’impegno delle religioni. Fino a qualche anno fa sembrava vincente l’idea di uno spazio pubblico internazionale «neutro» rispetto alle religioni, affidato quasi esclusivamente agli Stati e, in particolare, alle due superpotenze. Sembrava che nel mondo occidentale la valenza pubblica della religione fosse inibita dalla laicità della vita politica, quando non dal laicismo e dal processo di secolarizzazione che tendevano a relegare la religione nel privato. Inopinatamente, invece, dopo il crollo del Muro e la fine dei blocchi, anche le religioni sono state sdoganate. In Occidente si è così appreso che, sotto la patina di un secolarismo rampante, vivevano forti tensioni religiose e non solo nella forma consumistica della New Age. Gli Stati Uniti, per esempio, considerati l’avanguardia della secolarizzazione in Occidente, hanno riscoperto le proprie radici religiose al punto che qualche osservatore parla di una crescente differenziazione proprio su questo punto tra Stati Uniti ed Europa. In Oriente, dalla disgregazione dell’impero sovietico sono emerse molteplici appartenenze religiose, che in alcuni casi, purtroppo, sono addirittura esplose anche in forma di virulenti conflitti. Le migrazioni globali, d’altra parte, hanno posto le religioni l’una accanto all’altra e la scena politica mondiale, con le sue note vicende, ha condotto alla ribalta della cronaca e della politica la religione islamica. Tutto questo comporta non solo un rinnovato peso sociale e politico delle religioni, ma soprattutto una loro rivendicazione di «diritto» a un ruolo pubblico. Se talvolta ciò è stato ed è fonte di conflitto e di guerra, ritengo che possa e debba diventare oggi e domani elemento di pace. Su questo terreno si giocheranno sempre di più nel prossimo futuro le sorti della pace nel nostro mondo. Una condizione fondamentale per la pace è che le religioni sappiano evitare con sempre maggiore accortezza i due estremi del fondamentalismo laico e del fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo laico non ammette la presenza della religione nello spazio pubblico, relegandola ad affare privato; il fondamentalismo religioso si risolve nell’occupazione diretta dello spazio pubblico, senza rispetto del principio cristiano di laicità: simili posizioni non possono avere altro esito se non quello di aumentare i conflitti religiosi. Come si vede, sarà sempre più importante garantire in futuro la libertà religiosa non solo nei testi costituzionali, ma soprattutto nella pratica politica concreta. La libertà religiosa non è causa di guerra, anzi essa è la condizione per evitare il fondamentalismo sia laico sia religioso, le due principali forme di intolleranza religiosa nel mondo di oggi.

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Lunedì, 17 Aprile 2006 18:57

Talmud

Talmud




Introduzione

Accanto alla Bibbia, il Talmud (che significa "insegnamento") è il grande libro sacro dell'Ebraismo: diversamente dalla Bibbia ebraica, il Talmud è infatti riconosciuto solo dall'Ebraismo, che lo considera come la "Torah orale", rivelata sul Sinai a Mosè e trasmessa a voce, di generazione in generazione, fino alla conquista romana. Il Talmud fu fissato per iscritto solo quando, con la distruzione del Secondo Tempio, gli ebrei temettero che le basi religiose di Israele sparissero.


Torah scritta e Torah orale


Il Talmud consiste in una raccolta di discussioni avvenute tra i sapienti (hakhamim) e i maestri (rabbi) circa i significati e le applicazioni dei passi della Torah, e si articola in due livelli;
la Mishnah (o "ripetizione") raccoglie le discussioni dei maestri più antichi (giungendo fino al II secolo d.C.);
la Ghemarah (o "completamento"), stilata tra il II e il V secolo, fornisce un commento analitico della Mishnah.
La Torah comprende due parti:
- i primi cinque libri della Bibbia ebraica (che costituiscono la Torah scritta);
 - la Torah orale (che ha dato origine al Talmud).
Secondo la tradizione ebraica la Torah scritta non può essere applicata senza la Torah orale.

La trasmissione della Torah orale
Nel 587 a.C., dopo la distruzione del tempio di Salomone il popolo ebraico viene deportato in Babilonia. Si era allora necessario precisare in che modo mantenere una vita ebraica in terra d'esilio e in mancanza del santuario di Gerusalemme. Questa è stata l'opera degli scribi (Sopherim), fondatori della sinagoga, interpreti della Torah scritta e maestri della Torah orale.

Dopo il ritorno da Babilonia, i tre ultimi profeti (Ageo, Zaccaria e Malachia), lo scriba Esdra, poi "gli uomini della Grande Sinagoga" assicurarono la trasmissione della tradizione orale, che passa successivamente attraverso i farisei e le loro grandi scuole (Jeshivoth).
I maestri del Talmud sono i farisei.

La formazione del Talmud

Presto, di fronte a situazioni nuove e a divergenze di scuola, fu necessario ricavare dalla Torah, scritta e orale, le decisioni pratiche. Questa fu opera dei rabbini e specialmente dei 71 membri del Sinedrio.Più tardi le persecuzioni e la necessità di tener conto della distruzione del secondo Tempio (70 d.C.) e della diaspora ebraica, indussero rabbi Aqivah e poi rabbi Meir a raccogliere e a classificare gli appunti dei loro allievi. All'inizio del III secolo, rabbi Jehudah, soprannominato il Santo, li ordinò in 63 trattati, raggruppati in sei ordini, il cui insieme costituisce la Mishnah (Insegnamento da ripetere), compendio della Torah orale e destinato a essere imparato a memoria. La Mishnah è scritta in ebraico, benché l'aramaico già a quell'epoca fosse la lingua corrente anche in Palestina.Col passare degli anni divenne evidente che il testo della Mishnah era troppo conciso.

Il Talmud ci è giunto in due versioni diverse: il Talmud di Gerusalemme (Talmud Jerushalmì)(redatto tra il IV e il VI secolo nella Terra d'Israele) e il Talmud di Babilonia (Talmud Bavlì)(redatto tra il V e il VII secolo in Babilonia). Il Talmud Babilonese, la cui Ghemarà è scritta in aramaico e che fu compilato inizialmente da rav Ashì e terminato da Rabina, ambedue capi della famosa jeshivah di Sura, è molto più lungo di quello di Gerusalemme.

I Maestri del Talmud e il loro insegnamento

Maestri della Mishnah sono chiamati Tannaim (Insegnanti). Quelli della Ghemarà accettarono soltanto il titolo di Amoraim (Interpreti). Quanto a coloro che redassero il testo definitivo, essi si considerarono modestamente come Saboraim (Opinanti). Molti di questi illustri rabbini esercitavano il mestiere di artigiano.

Il messaggio del Talmud si presenta in due forme:
* quella della Halakhah (Via da seguire) che riguarda le prescrizioni legali,
* quella della Aggadah (Racconto), consistente in racconti immaginosi e in parabole. L'insieme costituisce una vera enciclopedia delle conoscenze dell'epoca (matematica, medicina, astronomia ecc.).

Il Talmud ha autorità per tutte le generazioni. Oggi si assiste ad un vero e proprio risveglio degli studi talmudici.

Il Talmud ricchezza sconosciuta

Nel Medioevo le comunità ebraiche sono esposte a vessazioni, persecuzioni e sfruttamento economico.

Mal conosciuto negli ambienti cristiani, il Talmud è diventato ben presto il bersaglio preferito. A Parigi, nel 1240, fu istruita una parodia di processo, cui seguì il rogo solenne di 24 carri di copie del Talmud, sequestrate agli ebrei. Da quel momento, e per secoli, il Talmud venne vietato in molti luoghi.

Nell'opinione pubblica, questa condanna ebbe come effetto la diffidenza: si era convinti che il Talmud contiene "cose malvagie, contro ogni ragione e diritto", cose che gli ebrei utilizzano per trarne "malefici". Gli autori antisemiti sfrutteranno questo tema fino ai nostri giorni. Anche i filosofi del XVIIl secolo, che pure reclamavano l'emancipazione degli ebrei, consideravano il Talmud una raccolta di "leggi ridicole". Ignoranza e diffidenza che non sono ancora scomparse.

La natura e lo scopo del dialogo
Gruppo misto di lavoro cattolici-CEC




Introduzione

Dialogo: un dono alle Chiese

1. La nascita nel XX secolo del movimento ecumenico contemporaneo ha assistito al sorgere parallelo di una «cultura del dialogo». I presupposti filosofici, culturali e teologici di una tale cultura, che hanno portato a nuove modalità di relazione tra comunità e società, vennero elaborati nella prima metà del secolo. Tuttavia è sorta anche una contro-cultura, alimentata dal fondamentalismo, sono emerse nuove forme di vulnerabilità e nuove realtà politiche come la fine della Guerra fredda, i popoli sono venuti a contatto con concezioni e finalità molto differenti, e vi è stato l’impatto della globalizzazione che ha condotto a una crescente consapevolezza delle identità etniche e nazionali. Ciò si è ulteriormente manifestato nella destabilizzazione di istituzioni e sistemi di valori e nella messa in discussione dell’autorità. Il dialogo è divenuto una conditio sine qua non per le Chiese e le culture nazionali. Per le Chiese cristiane il dialogo è un imperativo che nasce dal Vangelo e per tale motivo è una risposta alla sfida di quanti vorrebbero adottare posizioni esclusiviste.

2. Questo documento segnala l’importanza della cultura del dialogo nelle Chiese, offre una riflessione teologica sulla natura del dialogo e suggerisce una spiritualità che possa guidare i cristiani e le loro comunità nel reciproco avvicinamento. Grazie a un’esperienza intrapresa fin dal 1967, esso costituisce un tentativo d’incoraggiare le Chiese a proseguire nel dialogo ecumenico con impegno e perseveranza.

3. Il Gruppo misto di lavoro (GML) tra la Chiesa cattolica romana e il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) si è costituito nel 1965. Ha iniziato il proprio lavoro con una riflessione sulla natura del dialogo. Nel 1967 ha pubblicato un rapporto dal titolo Dialogo ecumenico, che da allora in poi è stato un riferimento utile. Per il GML, che si accingeva a iniziare il proprio mandato, l’esperienza dei dialoghi multilaterali di Fede e costituzione che datavano dal 1927 e dei negoziati per l’unione delle Chiese, come quelli nell’India del Sud, costituivano la prospettiva di riferimento. L’anno 1967 non fu l’inizio dei dialoghi ecumenici ma, grazie all’attiva partecipazione della Chiesa cattolica romana in seguito al concilio Vaticano II, essi si rafforzarono e si estesero. Divennero in fretta uno strumento chiave del progresso ecumenico.

4. Sono trascorsi quasi quarant’anni. Il GML presenta un nuovo documento di studio su La natura e lo scopo del dialogo ecumenico. Si sono tenuti dialoghi organizzati a livello locale, nazionale e internazionale che hanno coinvolto tutte le più importanti Chiese e comunità confessionali. Sono stati raggiunti esiti sostanziali, gli organismi che vi hanno preso parte hanno chiarito le posizioni, è emerso il consenso riguardo a importanti argomenti su cui si era divisi e sono stati identificati quegli ostacoli all’unità che tuttora permangono. Nel frattempo è mutato il contesto del dialogo, è continuata la riflessione su di esso ed è cresciuta l’urgenza di ricercare l’unità visibile attraverso un dialogo onesto e costante alla ricerca della verità nell’amore.

5. Dal 1967 le relazioni tra le diverse Chiese, le comunità cristiane nel mondo e le famiglie cristiane sono cresciute e si sono sviluppate come risultato del dialogo; quest’ultimo ha incoraggiato le Chiese alla comprensione reciproca ed è stato utile a eliminare gli stereotipi, a distruggere le barriere storiche e a promuovere nuovi e più positivi rapporti. Tra gli esempi possibili: – la dichiarazione congiunta di papa Paolo VI e del patriarca ecumenico Atenagora I nel 1965 che tolse dalla memoria e dal vissuto della Chiesa le sentenze di reciproca scomunica pronunciate nel 1054; – l’accordo cristologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa assira d’Oriente nel 1994; – la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione firmata nel 1999 dalla Federazione luterana mondiale e dalla Chiesa cattolica, nella quale è stabilito che le condanne delle reciproche visioni sulla giustificazione pronunciate durante il periodo della Riforma nelle confessioni luterane e nel concilio di Trento non sono applicabili oggi, per quel tanto che concernono la comprensione della dottrina espressa nella dichiarazione congiunta. Queste sono tappe significative lungo il percorso verso il riconoscimento reciproco, la comunione e l’unità visibile della Chiesa.

6. I risultati dei dialoghi internazionali hanno favorito nuovi rapporti tra Chiese. Il documento di Fede e costituzione Battesimo, eucaristia, ministero (BEM, 1982) e i dialoghi bilaterali hanno contribuito a gettare le basi per gli accordi di Meissen, Porvoo e Chiamati a una missione comune tra anglicani e luterani in varie parti del mondo. L’accordo bilaterale tra le Chiese ortodossa e ortodossa orientale ha facilitato la riconciliazione tra queste famiglie ecclesiali. Il dialogo teologico della Commissione internazionale anglicana - cattolica romana (ARCIC) ha condotto all’insediamento di una nuova commissione che favorisse la crescita nella comunione tra queste Chiese, attraverso la recezione degli accordi e lo sviluppo di strategie che rafforzassero la compartecipazione (Commissione internazionale anglicana - cattolica romana per l’unità e la missione - IARCCUM).

7. I dialoghi hanno anche contribuito alla sfida di modificare gli atteggiamenti di comunità che vivevano situazioni di tensione.

8. Le prospettive nate dai dialoghi hanno portato Chiese diverse al rinnovamento e al cambiamento della propria vita, del proprio insegnamento e dei modelli di culto. Per esempio il BEM ha incoraggiato celebrazioni più frequenti del sacramento della cena del Signore in alcune comunità e ha influenzato la revisione della loro stessa liturgia.

9. Dal 1967 è emersa chiaramente una cultura di dialogo presso varie Chiese che influenza ogni aspetto della vita cristiana. Ciò è evidente nei progetti di collaborazione quando membri di comunità differenti cercano di affrontare le necessità di quanti nel nostro mondo sono emarginati. Lo si è anche notato nella varietà di gruppi di discussione che coinvolgono membri di comunità diverse. È un atteggiamento di apertura verso le altre comunità e i loro membri.
10. Sua santità papa Giovanni Paolo II ha definito questa cultura «dialogo di conversione» dove, insieme, singoli cristiani e comunità cercano il perdono delle colpe contro l’unità e vivono nello spazio in cui Cristo, sorgente dell’unità della Chiesa, può effettivamente agire, nella pienezza dello Spirito (cf. Giovanni Paolo II, lett. enc. Ut unum sint, 25.5.1995, nn. 34.35). Mentre l’atteggiamento dialogante deve essere manifesto in ogni aspetto della vita cristiana, l’impegno nei dialoghi internazionali e bilaterali è una forma di dialogo molto specifica.

Due approcci al dialogo

11. Dopo il 1967 si sono evidenziati due distinti approcci a questa specifica forma di dialogo ecumenico, che hanno caratteristiche specifiche e affrontano aspetti diversi, ma collegati, della ricerca di una piena comunione.

12. I dialoghi bilaterali tra i rappresentanti ufficiali di due comunioni cristiane mondiali o famiglie di Chiese tentano di superare le difficoltà storiche esistenti tra loro. Viene prestata attenzione alla storia e ai testi classici che definiscono quelle comunità, ai problemi aperti del passato e del presente che hanno inibito i rapporti reciproci e ostacolano il cammino verso la comunione. Normalmente tali dialoghi evidenziano quanto c’è di comune, chiariscono le diversità, cercano soluzioni e incoraggiano la collaborazione dove è possibile.

13. I dialoghi multilaterali operano in uno scenario più ampio, con rappresentanti ufficiali di Chiese che tentano di attingere alla sapienza di tutte le tradizioni cristiane per indagare su un problema teologico. Ciò ha reso possibile fare distinzioni sui problemi sui quali i cristiani sono stati divisi (per esempio tra episkope ed episcopato), in virtù del fatto che i dialoghi bilaterali offrono nuovi approcci alle difficoltà storiche. I cristiani hanno tenuto bene presente che i dialoghi multilaterali e bilaterali hanno luogo nel contesto della missione della Chiesa e che, in quanto tali, sono a servizio dell’unità della Chiesa «perché il mondo creda…» (Gv 17,21). Il dialogo multilaterale ha anche posto l’accento sul fatto che vi sono fattori non dottrinali importanti per comprendere le divisioni dottrinali; tali divisioni si sono verificate per molteplici ragioni – politiche, culturali, sociali, economiche e razziali come pure dottrinali – e c’è bisogno che anche questi fattori siano affrontati nei processi di riconciliazione e di guarigione delle memorie.

14. Sia i dialoghi bilaterali sia quelli multilaterali sono essenziali per il processo dialogico. Nel migliore dei casi vi è un’interazione continua tra essi nella quale ognuno attinge alle prospettive raggiunte dall’altro. Ogni dialogo sarà soggetto al contesto storico e culturale che influenza i rapporti tra comunità differenti.

Dialogo e nuovo contesto

15. Mentre le Chiese hanno abbracciato una cultura del dialogo ed è possibile segnalare un certo numero di risultati derivati dall’impegno in dialoghi ecumenici ufficiali, nei trentasei anni trascorsi dalla pubblicazione di Dialogo ecumenico sono emersi nuovi fattori che caratterizzano un nuovo contesto all’interno del quale hanno luogo questi dialoghi.

16. Mentre il dialogo ha portato a un’accresciuta sensibilità e a un impegno ecumenico nelle tradizioni ecclesiali, si è sviluppata anche una rinnovata forma di fedeltà all’identità confessionale, che potrebbe portare a confessionalismi esclusivisti. Si è inoltre verificata una certa riluttanza a porre in atto quei cambiamenti richiesti dai risultati del dialogo. A volte ciò è stato causato dalla difficoltà di ottenere un consenso più ampio all’interno delle varie Chiese. Le difficoltà nella recezione hanno anche condotto alla divisione all’interno delle confessioni, dal momento che è sempre più chiaro che nessuna Chiesa o tradizione confessionale è un’entità omogenea. In alcuni casi la recezione è stata resa più difficile dal fatto che sono emerse divisioni all’interno di alcune Chiese e tra di esse su temi culturali ed etici – quasi mai dovute a questioni inerenti i dialoghi stessi. Per alcune Chiese i problemi affrontati nei dialoghi internazionali bilaterali e multilaterali sono percepiti come lontani dai propri interessi esistenziali. Dopo oltre trent’anni di dialogo teologico e nonostante i significativi accordi raggiunti in questo periodo non tutti i problemi che era necessario affrontare per arrivare all’unità tra le Chiese sono stati risolti. Il processo di riconciliazione è stato lento. Per qualcuno, e per diverse ragioni, ciò ha messo in dubbio la validità di portare avanti tali dialoghi teologici.

17. Eppure è evidente in ogni parte del mondo che il Vangelo di riconciliazione non può essere credibilmente proclamato da Chiese non riconciliate tra di loro. Le Chiese divise sono una contro-testimonianza del Vangelo.

18. Che cosa possiamo imparare dall’esperienza del dialogo circa la natura del dialogo ecumenico stesso? Il nuovo contesto suggerisce la necessità di un riesame del dialogo ecumenico, riprendendo le prospettive di Dialogo ecumenico del 1967, riflettendo sugli oltre tre decenni di attività di dialogo multilaterale e bilaterale e prendendo in considerazione le sfide che sono emerse.


La natura e lo scopo del dialogo ecumenico

Per una descrizione del dialogo ecumenico

19. Il dialogo ecumenico viene perseguito come risposta alla preghiera di nostro Signore per i suoi discepoli che «siano una cosa sola, perché il mondo creda» (Gv 17,21). È essenziale conversare, parlarsi e ascoltarsi tra partner. Ciascuno parla a partire dal proprio contesto e dalla propria prospettiva ecclesiale. Il linguaggio dialogico cerca di comunicare tale esperienza e prospettiva all’altro e di ricevere la stessa cosa dall’altro al fine di entrare nell’esperienza dell’altro e vedere il mondo, per così dire, coi suoi occhi. Lo scopo del dialogo è che ciascuno comprenda profondamente il partner. Comprendersi, ascoltarsi e parlarsi reciprocamente nell’amore sono esperienze di tipo spirituale.

20. Il dialogo implica camminare con l’altro; il pellegrinaggio è una buona metafora del dialogo. Esso rappresenta una parola – né la prima né l’ultima – di un viaggio comune, segna un momento tra il «già» delle nostre storie passate e il «non ancora» del nostro futuro. Esso è immagine della conversazione tra i discepoli sulla strada per Emmaus, dove si narra la meraviglia suscitata dal Signore durante il viaggio, culminata nel riconoscimento del Signore nell’atto di spezzare il pane mentre si condivideva la mensa.

21. Il dialogo è qualcosa di più di uno scambio di idee. È uno «scambio reciproco di doni». È un processo attraverso il quale noi cerchiamo insieme di andare al di là delle divisioni chiarendo le passate incomprensioni grazie a studi storici o superando gli ostacoli attraverso la scoperta di nuovi linguaggi e categorie. Di più: esso comporta l’essere recettivi all’ethos dell’altro e a quegli aspetti della tradizione cristiana mantenuti nell’eredità altrui. Le diverse tradizioni della Chiesa hanno spesso dato la preferenza ad alcuni testi biblici e tradizioni piuttosto che ad altri. Nel processo di dialogo siamo invitati a riappropriarcene e quindi a dare testimonianza alla ricchezza del Vangelo nella sua integrità.

22. Un importante fulcro del dialogo è la reciproca esplorazione del significato della fede apostolica. Contemporaneamente i dialoghi vengono condotti nel contesto della fede vissuta nelle comunità di tempi e luoghi particolari; per questo essi riflettono sempre un’esperienza legata a un contesto. Essi non fanno solo fulcro sui sistemi o sulle formulazioni dei credo ma anche sul modo in cui questi vengono vissuti dalle comunità coinvolte nel dialogo. Ciò è vero particolarmente rispetto ai dialoghi nazionali. Anche nel dialogo internazionale il contesto è un elemento essenziale, tuttavia in questo caso uno specifico contesto locale non può prevalere ed è presa in considerazione la completa, spesso complessa, autocomprensione di una comunione cristiana mondiale.

23. Inoltre vi è un’ulteriore differenza riguardo al contesto. Essa deriva dai modi molto diversi in cui le comunioni cristiane mondiali comprendono il rapporto tra espressioni locali e universali della Chiesa. Ciò, a sua volta, ha una ricaduta sull’impatto dell’esperienza legata a un contesto rispetto all’insieme. Così, per molti, l’autorità suprema (e quindi la questione dell’indipendenza di un livello rispetto all’altro) si trova in ogni Chiesa membro di una comunione mondiale (per esempio nelle Chiese derivate dalla Riforma). Per altri invece (ad esempio la Chiesa cattolica) i vincoli di comunione di natura teologica, canonica e spirituale governano i rapporti tra le Chiese particolari e la Chiesa universale. La vera comprensione di una Chiesa particolare o locale coinvolge il suo essere in comunione con ogni altra Chiesa locale e con la Chiesa di Roma. Così esiste una continua, reciproca influenza tra espressioni particolari ed espressioni universali della Chiesa. Mentre le espressioni particolari e universali della Chiesa sono interdipendenti, la priorità viene data all’unità dell’insieme.

24. Il dialogo si rivolge alle divisioni del passato, esaminandole attraverso lo studio, cercando di stabilire che cosa i rappresentanti del dialogo stesso possono dire oggi e insieme sulla fede. Il dialogo tenta di cogliere il carattere evangelico della fede, della vita e del culto attuale del partner. Per questo il dialogo ha un carattere descrittivo.

Fondamenti teologici del dialogo

25. Il dialogo ecumenico riflette per analogia la vita intima del Dio uno e trino e la rivelazione del suo amore. Il Padre comunica se stesso attraverso la sua Parola, il Figlio che, a sua volta, risponde al Padre nella potenza dello Spirito: una comunione di vita. Nella pienezza dei tempi Dio parlò a noi attraverso il Figlio (cf. Eb 1,1-2); la parola di Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (cf. Gv 1,14).

26. Lo scambio tra Padre e Figlio nella potenza dello Spirito stabilisce la reciproca interdipendenza delle tre persone nel Dio uno e trino. Nell’autocomunicazione di Dio al suo popolo, Dio ci invita ad accogliere la sua Parola e a rispondere nell’amore. Così, attraverso una partecipazione all’azione di grazia di Dio e attraverso l’imperativo dell’obbedienza cristiana, entriamo nella comunione con Dio che è comunione: Padre, Figlio e Spirito Santo. Imitando tale modello dialogico tra il parlare e l’ascoltare, tra il rivelare noi stessi e il ricevere l’altro, noi abbandoniamo l’illusione dell’autosufficienza e dell’isolamento ed entriamo in un rapporto di comunione.

27. La natura stessa dell’esistenza umana mette in rilievo il fatto che non viviamo né esistiamo gli uni senza gli altri. «Noi non solo c’incontriamo, ma siamo incontro. L’altro non è il limite del mio io; l’altro è parte e arricchimento della mia stessa esistenza. Dunque il dialogo appartiene alla realtà dell’esistenza umana. L’identità è dialogica» (card. Walter Kasper).

Presupposti del dialogo

28. Il dialogo ecumenico presuppone il nostro comune essere incorporati a Cristo mediante la fede e il battesimo e l’azione dello Spirito Santo e che ci riconosciamo scambievolmente come comunità di fede che cercano unità in Cristo (cf. il documento del GML Implicazioni ecclesiologiche ed ecumeniche del battesimo comune, 2004). Nel dialogo ecumenico non ci incontriamo come stranieri ma come coinquilini della dimora di Dio, come cristiani che, attraverso la comunione col Dio uno e trino, fanno già esperienza «di una certa comunione, seppure imperfetta» (Unitatis redintegratio, n. 3; EV 1/503).

29. Dunque il dialogo ecumenico presuppone impegno nella preghiera. Esso assume la forma della croce, con l’intersecarsi tra la nostra relazione «verticale» con Dio e la nostra scambievole comunione «orizzontale». In ciò noi imitiamo anche l’auto-donazione e la vulnerabilità di Cristo. Passiamo dall’essere assorbiti e interessati solo a noi stessi a fare esperienza dell’altro, accettando la vulnerabilità di permettere agli altri di conoscerci e di permettere a noi stessi di vedere il modello cristiano di vita, testimonianza e culto dell’altro attraverso i suoi occhi. Tale scambio reciproco ci consente di fare esperienza di una fusione di orizzonti, di diventare capaci di guarire le nostre divisioni, di rafforzare la testimonianza comune e d’impegnarci nella missione condivisa di far progredire il regno di Dio.

Scopo del dialogo ecumenico

30. Lo scopo del dialogo ecumenico, come espresso dalla dichiarazione di Canberra L’unità della Chiesa come koinonia: dono e vocazione, è quello del movimento ecumenico stesso: «L’unità della Chiesa a cui siamo chiamati è una koinonia donata ed espressa: nella comune confessione della fede apostolica; in una comune vita sacramentale a cui abbiamo accesso per l’unico battesimo e celebrata insieme nell’unica comunione eucaristica; in una vita comune nella quale membri e ministri sono reciprocamente riconosciuti e riconciliati e in una comune missione che testimonia a tutti il Vangelo della grazia di Dio e si pone al servizio di tutto il creato. Lo scopo della ricerca della piena comunione sarà raggiunto quando tutte le Chiese potranno riconoscere pienamente l’una nell’altra la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Tale piena comunione si esprimerà a livello locale e universale attraverso forme conciliari di vita e di azione. In tale comunione le Chiese si ritrovano unite in ogni aspetto della loro vita comune a tutti i livelli, confessando l’unica fede, nel culto e nella testimonianza, nelle decisioni e nelle azioni» (n. 2.1).

31. Il dialogo conduce non solo ad accordi dottrinali, ma anche al risanamento delle memorie attraverso il pentimento e il perdono reciproco. Può anche essere una strada per esplorare quelle attività che possiamo intraprendere insieme, per fare insieme tutto ciò che non siamo costretti a fare separatamente, come auspicato nella dichiarazione della conferenza di Fede e costituzione di Lund nel 1952.

Principi del dialogo

32. L’unità cristiana è un dono dello Spirito Santo, non un merito umano. Il dialogo prepara al dono, prega per esso e lo celebra una volta ricevuto.

33. Il dialogo ecumenico è ecclesiale: i partecipanti giungono come rappresentanti delle proprie tradizioni ecclesiali, cercano di rappresentare la propria tradizione esplorando i misteri divini insieme ai rappresentanti di altre tradizioni (cf. Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Direttorio per l’applicazione dei principi e norme sull’ecumenismo, 1993, n. 176).

34. Il dialogo presuppone l’uguaglianza dei partecipanti, come partner che operano insieme per l’unità cristiana. Ciò manifesta l’esistenza di una reciprocità, così che non ci si aspetta che i partner adottino le «nostre» strutture per il dialogo (cf. Ut unum sint, n. 27).

35. Man mano che il dialogo avanza è importante essere consapevoli della «gerarchia delle verità», dove non tutto viene presentato allo stesso livello di prossimità con le dottrine essenziali della fede cristiana (cf. Direttorio, n. 176).

36. Le formulazioni dottrinali della fede sono condizionate culturalmente e storicamente. Un’unica e identica fede può venir espressa con linguaggi diversi in momenti diversi, riflettendo nuove prospettive e sviluppi organici. La consapevolezza di ciò ha dato prova di essere un’esperienza liberatoria nei dialoghi ed è servita a creare possibilità di sviluppo di nuove comprensioni e relazioni. Il processo di discernimento di un consenso nella fede deve tener conto di approcci differenti, sottolineature e linguaggi che rispettino la diversità e i limiti alla diversità in e tra chi dialoga.



La spiritualità e la pratica del dialogo ecumenico


Spiritualità

37. Dal momento che la stessa vita cristiana è dialogica (cf. supra,nn. 23-24) il dialogo ecumenico è un modo di essere, di vivere la vita cristiana. Sebbene abbia caratteristiche precise, esso presuppone una larga spiritualità di apertura all’altro alla luce dell’imperativo dell’unità cristiana, governata dallo Spirito Santo. Il dialogo è un processo di discernimento e come tale richiede pazienza, poiché il progresso ecumenico può essere lento. Occorre umiltà per essere disponibili a ricevere la verità dall’altro. È necessario anche l’impegno nell’amore per cercare insieme di manifestare quell’unità voluta da nostro Signore. Perciò possiamo inserire le considerazioni che seguiranno nell’ambito della spiritualità del dialogo.
Spiritualità per comunità che dialogano

38. Le comunità coinvolte nel dialogo s’impegnano a condividere un percorso. Anche se viene portato avanti da poche persone per ciascuna parte, il dialogo ha lo scopo di assistere le comunioni coinvolte affinché avanzino un gradino dopo l’altro verso l’unità, adoperandosi affinché ogni esponente comprenda, per quanto possibile, in che modo la vita e la testimonianza dell’altro possono essere vantaggiose per tutti. Se si trascura questo aspetto del dialogo i risultati sembreranno lontani dall’esperienza della Chiesa, e forse non saranno accolti nella sua vita e non trasformeranno i rapporti. Inoltre quando questo aspetto del dialogo viene sottovalutato lo stesso impegno ecumenico diventa una scusa per conservare lo status quo ante. Dunque il dialogo ecumenico comporta nuovi obblighi spirituali non solo per i singoli partecipanti, ma anche per le comunità nel loro complesso.

39. La volontà di cambiare attraverso il dialogo richiede di vedere l’altro in modo differente, di mutare i nostri parametri di ragionamento, di linguaggio e di azione nei suoi confronti. Dato che l’unità dei cristiani si realizza attraverso la forza di Dio, non con la nostra, il dialogo è anche un processo di conversione, di discernimento, di attenzione alle sollecitazioni di Dio. Ci apre al giudizio e al rinnovamento. Perciò nel cercare di aprirci a rapporti trasformati e riconciliati esploriamo processi di guarigione e perdono.

40. Il dialogo coi cristiani dai quali siamo separati richiede che noi esaminiamo in che modo la nostra identità è stata formata in opposizione all’altro, per esempio in quale modo abbiamo identificato noi stessi con quanto non siamo. Il superamento di costruzioni identitarie di stampo polemico richiede un rinnovato sforzo al fine d’articolare l’identità secondo modalità più positive, distinguendo tra identità confessionale intesa come segno di fedeltà al proprio credo, e confessionalismo inteso come ideologia costruita in opposizione all’altro. Ciò implica una preparazione sia spirituale sia teologica al dialogo ecumenico. Con la comprensione delle offese reciproche e dando e ricevendo il perdono ci allontaniamo dalla paura reciproca per portare i pesi gli uni degli altri, essendo chiamati a soffrire insieme. L’impegno nel dialogo richiede, quantomeno, una revisione del modo in cui la nostra Chiesa educa i propri membri riguardo ai partner del dialogo.

41. La preparazione al dialogo richiede il recupero delle risorse teologiche per lo sviluppo e il perfezionamento della dottrina all’interno della propria tradizione. Ciò esige la buona volontà di lasciarci interpellare dagli altri e lasciare che essi c’insegnino qualcosa. Quando l’incontro si fa più profondo sentiamo la nostra vita coinvolta nella riflessione teologica della tradizione del partner, e i pensieri e le parole dell’altro come fossero nostri.

42. Il nostro comune impegno verso l’unità cristiana richiede non soltanto di pregare gli uni per gli altri ma di condurre una vita di preghiera comune.

Prassi

43. Ogni dialogo è unico e deve tener conto dei fattori che caratterizzano determinati partner, in un dato dialogo, in uno specifico momento. A tale proposito i seguenti punti possono essere importanti.
Profilo del partner che dialoga

44. Il profilo dei partner influenzerà necessariamente la prassi di ogni dialogo. Per concordare gli scopi e i metodi del dialogo, sia bilaterale sia multilaterale, è cruciale comprendere chi sia il partner, quale sia l’origine delle divisioni, e/o in che modo tali comunità cristiane si siano relazionate tra loro in passato.

45. Ogni partner ha una comprensione particolare della storia delle divisioni. Uno dei due o entrambi possono essere portatori di memorie dolorose per essere stati vittime di sopraffazioni messe in atto da esponenti dell’altra comunità in dialogo. Possono esservi asimmetrie considerevoli tra partner (per esempio di consistenza numerica, di autocomprensione ecclesiale, di titolarità a parlare a nome della comunità ecclesiale più ampia, di condizioni di maggioranza o minoranza). Il dialogo deve tenere conto di queste asimmetrie e ogni partner deve comprendere l’approccio dell’altro. Molti partner in dialogo sono impegnati anche in altri dialoghi, bilaterali e multilaterali. I dialoghi dovrebbero interagire e influenzarsi vicendevolmente.

Temi e argomenti nell’agenda del dialogo

46. Il dialogo che mira all’unità cristiana richiede, sulle questioni che non dividono, qualcosa di più di una semplice cooperazione. Riconduciamo al dialogo ecumenico tutto quanto cade fuori del principio di Lund che chiede: «Le nostre Chiese non dovrebbero agire insieme in tutte le materie tranne quelle in cui profonde differenze di convinzione le costringono ad agire separatamente?» (EO 6/1720). Dove la coscienza ha, finora, proibito l’unità noi ci impegniamo nel dialogo proprio per chiarire e superare queste profonde differenze di convinzione passate e presenti.

47. Gli argomenti del dialogo sono tratti a partire dai rapporti passati e presenti intercorsi tra i partner. Nell’identificare i temi da affrontare potremmo chiederci: «Dove, nelle nostre relazioni come partner in dialogo, è in gioco il Vangelo? Che cosa impedisce il pieno riconoscimento reciproco?». Il contesto influenzerà la scelta degli argomenti su cui dialogare; tuttavia questi saranno tanto più rilevanti se compresi all’interno dello spettro più ampio delle divisioni cristiane storiche.

48. La scelta dei temi dovrebbe ispirarsi alla storia. Sebbene ogni generazione debba riappropriarsi di quanto avvenuto prima, non dovremmo dimenticare che stiamo contribuendo a un percorso iniziato prima di noi e che continuerà dopo di noi.

49. I temi possono comprendere non solo formulazioni dottrinali, ma anche modi di fare teologia e di utilizzare le fonti della fede. Le metodologie stesse possono divenire il soggetto del dialogo. La scelta dei punti di partenza richiede discernimento di ciò che è maturo per la discussione. Può essere importante cominciare esaminando quanto unisce i partner; gli interrogativi che più dividono potrebbero venire accantonati finché un’esperienza condivisa di fiducia renda possibile affrontarli. Ma il dialogo tra Chiese divise non può rimandare all’infinito un esame dei problemi cruciali connessi alla loro divisione.

50. I dialoghi maturati attraverso accordi di vasta portata su aree conflittuali possono alimentare un ulteriore impegno costruttivo riguardo a temi particolari.


Metodologie

Contesti e approcci diversi

51. Poiché i diversi temi su cui si dialoga richiedono metodologie differenti, non possiamo parlare di un unico approccio al dialogo. Ogni partner si sentirà più a proprio agio con alcuni metodi piuttosto che con altri. Non dobbiamo dare per scontato che alcune modalità d’impegno reciproco siano preferibili ad altre.

52. L’esperienza del dialogo ecumenico nel XX secolo ha mostrato quanto sia importante esaminare i fattori storici e socio-economici riguardanti temi dottrinali. Situare le formulazioni dottrinali nel loro contesto storico può consentirci di esprimere oggi in modi nuovi la stessa fede. Tale metodologia applicata nel rapporto del Gruppo misto sulla dottrina della giustificazione ha plasmato un’ermeneutica che potrà giovare altrove.

53. Il lavoro sull’ermeneutica svolto dalla commissione Fede e costituzione (Un tesoro in vasi di creta, 1998) pone l’attenzione su come «leggiamo» la nostra storia in quanto comunità e come troviamo dei punti d’incontro con le storie degli altri. Un’«ermeneutica di coerenza» suggerisce la consapevolezza simpatetica con la fede e la testimonianza degli altri come complementari alle proprie. Un’«ermeneutica di fiducia» suggerisce che la recezione e il riconoscimento reciproci sono possibili attraverso i doni dello Spirito Santo alla comunità cristiana. Un’«ermeneutica del sospetto» suggerisce la domanda: «Questa lettura particolare quali interessi serve?». Poiché il dialogo serve la causa dell’unico Vangelo di Gesù Cristo, ogni tipo di lettura può portarci a giungere insieme a una maggiore comprensione della verità.

54. Il dialogo non è una negoziazione verso un «minimo comune denominatore» ma una ricerca di nuovi approcci per scoprire la via da percorrere insieme. A volte i dialoghi mettono a confronto temi che in passato hanno fatto sorgere reciproche condanne. In questo caso ciò può aiutare a chiarire quale fosse la posizione delle parti all’epoca e in che modo ognuno cercò, tramite la propria posizione, di preservare l’integrità del Vangelo in un contesto particolare. Forse le domande del Vangelo oggi rendono capaci i partner di trovare un terreno comune.

55. Non tutti i conflitti dottrinali si possono risolvere facilmente. Perciò un’attenta considerazione delle posizioni – in che misura esse sono complementari e dove o come esse divergono – può risultare molto utile nel favorire la crescita delle Chiese nei rapporti ecumenici.


Partecipanti e competenze

56. Oggi nel dialogo ecumenico sono richieste varie competenze. Sono necessari esperti in ambito storico e dottrinale ma occorrono anche altri tipi di esperti: liturgisti, moralisti, missionologi e altri con responsabilità di supervisione pastorale. Più è ampia la partecipazione di una Chiesa al dialogo più saranno applicabili i suoi risultati all’insieme della vita della Chiesa. Chiese diverse hanno modi diversi di comprendere come un individuo «rappresenti» la Chiesa nel dialogo, ma tutti i partecipanti dovrebbero essere consapevoli di essere assoggettati alle norme della propria tradizione e di doverne rendere conto.
57. Come raccomanda Dialogo ecumenico, è opportuno coinvolgere spesso nel dialogo degli osservatori, per riconoscere e incoraggiare le più ampie implicazioni ecumeniche di quell’attività.


La recezione dei dialoghi ecumenici

58. Se gli accordi raggiunti col dialogo ecumenico devono avere un impatto sulla vita e la testimonianza delle Chiese e condurre a un nuovo livello di comunione, allora è necessario porre molta attenzione ai processi di recezione degli accordi, così che l’intera comunità possa essere coinvolta nel processo di discernimento.

Il significato di «recezione»

59. La «recezione» è il processo attraverso cui le Chiese fanno propri i risultati di tutti gli incontri avuti le une con le altre, in particolare le convergenze e gli accordi raggiunti su temi rispetto ai quali esistevano divisioni storiche. Come riporta la relazione del VI forum sui dialoghi bilaterali: «La recezione è parte integrante del movimento verso quella piena comunione che si realizza allorché "tutte le Chiese potranno riconoscere pienamente l’una nell’altra la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica" (Dichiarazione di Canberra, n. 2.1)». Dunque la recezione è molto di più delle risposte ufficiali ai risultati del dialogo, sebbene le risposte ufficiali siano essenziali. Comunque, anche se non riguardano la globalità delle relazioni intraecclesiali, i risultati dei dialoghi teologici internazionali sono un aspetto cruciale della recezione, in quanto tentativi specifici di superare ciò che divide le Chiese e impedisce l’espressione dell’unità voluta da nostro Signore.

Strumenti per la recezione

60. Le Chiese hanno sviluppato modi e strumenti appropriati a ricevere i risultati dei dialoghi internazionali bilaterali e multilaterali. Le strutture e i processi decisionali che determinano lo «spirito» di una Chiesa o comunità di Chiese riflettono l’auto-comprensione, la forma di governo e il particolare approccio di ciascuna Chiesa o comunità.
Difficoltà nella recezione

61. Le Chiese hanno incontrato difficoltà nel processo di recezione in parte a motivo dei diversi modi e processi di recezione.

62. Sono emersi problemi di coerenza. Quando una comunità ecclesiale è coinvolta in diversi dialoghi ecclesiali con partner provenienti da tradizioni ecclesiali diverse la presentazione della propria autocomprensione deve essere coerente con quanto viene detto a tutti i partner e i risultati ottenuti nel dialogo con una parte debbono essere coerenti con quelli avuti con le altre. Alcune comunioni cristiane mondiali (la Comunione anglicana, l’Alleanza riformata mondiale, la Federazione luterana mondiale) hanno sviluppato delle strutture per verificarlo.

63. Sono emersi interrogativi di rilevanza notevole. I temi del dialogo ecumenico sono in larga misura quelli che compaiono nell’agenda delle Chiese europee e dell’America del Nord, anche se le divisioni dottrinali in questione sono state veicolate in tutto il mondo dall’attività missionaria?

64. In che modo i dialoghi internazionali riguardano le priorità pastorali e teologiche delle Chiese locali? Se i temi affrontati non sono problemi esistenziali vissuti dalle Chiese, la recezione diventa difficile. Occorrono nuove strade per aiutare le Chiese a vedere che la divisione contraddice il Vangelo della riconciliazione. Come possono i risultati dei dialoghi internazionali coinvolgere le Chiese in modo esistenziale nei loro contesti diversi? Molti fattori che precludono la recezione del dialogo non sono dottrinali. Dove sono evidenti le tensioni tra maggioranze e minoranze, i processi di perdono, guarigione e riconciliazione debbono venire prima e durante i processi di recezione.

65. Proprio per loro natura i dialoghi sono portati avanti da rappresentanti nominati a livello ufficiale, competenti sui temi in discussione. Ma la recezione, sebbene consista in un processo di discernimento per la leadership delle Chiese, coinvolge anche quello di tutto il popolo di Dio. L’insensibilità al fatto che tutta la comunità necessiti di un’azione educativa e di discernimento ha reso difficile la recezione. Il linguaggio dall’alto al basso, e non viceversa, è apparso in alcuni processi come un punto critico. Dunque mentre i dialoghi tendono alla comunione tra le Chiese, può accadere che conducano alla formazione di gruppi dissenzienti e a divisioni interne alle Chiese.

Esperienze positive di recezione

66. In che modo la gestione dei processi di recezione può portare alla risoluzione di tali problemi? Durante gli ultimi trent’anni molti dialoghi internazionali sono stati ampiamente accolti, e hanno condotto a nuove espressioni di amicizia tra Chiese e al rinnovamento delle Chiese coinvolte. Forse ciò può fornire degli indizi su che cosa sia essenziale perché la recezione abbia luogo.

Un esempio di dialogo multilaterale

67. Il dialogo multilaterale che ha condotto a Battesimo, eucaristia, ministero (BEM) ne è un esempio. Il processo del BEM ha richiesto tempo, dialogo costante tra le Chiese, la fornitura di materiali di studio, la seria considerazione delle risposte alle bozze, la traduzione in molte lingue, la costruzione di qualcosa su quanto era stato precedentemente ottenuto attraverso il dialogo e la capacità di fare tesoro di altri dialoghi e iniziative ecumeniche.

68. Tale processo è durato circa vent’anni e di fatto su questi temi vi erano state discussioni sin nei quarant’anni precedenti. Nel periodo dal 1963 al 1982 per tre volte le bozze e le relative modifiche furono mandate alle Chiese, agli istituti teologici e agli organi ecumenici per commenti e reazioni. Esse furono ampiamente divulgate e i commenti furono presi in seria considerazione in ogni stadio della ristesura. Molte Chiese incoraggiarono discussioni sulle bozze nelle comunità, coinvolgendo in tal modo l’intera comunità. Anche i redattori utilizzarono i dialoghi bilaterali internazionali sui temi attinenti e le prospettive derivate dal movimento liturgico. L’approccio multilaterale è rimasto al di qua delle divisioni tra le Chiese alla ricerca delle radici bibliche utili alla comprensione dei problemi specifici (per esempio l’anamnesis). Ciò ha fornito punti di riferimento, mettendo le diversità storiche in una nuova prospettiva.

69. Ogniqualvolta diveniva chiaro che il consenso su un tema particolare si stava affievolendo, il tema specifico veniva affrontato da una riunione di teologi (per esempio il rapporto tra il battesimo di quanti fanno una professione di fede personale e quello dei bambini; il tema dell’episcopato). Da tali consultazioni emergeva un linguaggio nuovo che consentiva di esprimere un accordo.

70. Una volta terminato e approvato dalla commissione Fede e costituzione nel 1982, il testo fu inviato alle Chiese per la risposta. Accompagnavano il documento domande ben calibrate, così che le Chiese potessero farlo proprio grazie a un processo di discernimento. Lo accompagnava anche un commento che facilitava la comprensione di quanti non avevano partecipato alla discussione. Un volume di studi teologici incoraggiò la discussione negli istituti teologici mentre una serie di materiali liturgici assistette le Chiese nella riflessione sul rapporto tra la propria comprensione teologica e la pratica liturgica. Per dare espressione liturgica all’accordo eucaristico fu sviluppata una liturgia che illustrava quale convergenza era ora possibile nella celebrazione del sacramento. La cosiddetta «liturgia di Lima » contribuì senza dubbio a rendere popolare l’accordo e il processo del BEM.

71. Il BEM fu tradotto in più di trenta lingue, e ciò ne facilitò la recezione nel mondo. Il processo fu arricchito grazie a seminari tenuti dai delegati e dallo staff di Fede e costituzione. Vennero preparati in vari contesti guide di lettura come supporto alle discussioni comunitarie e interecclesiali sul testo. Il processo che fin dall’inizio ha coinvolto le Chiese fino all’attuale sviluppo del testo facilitò le risposte ufficiali «ai più alti livelli di autorità» quando il testo fu completato nel 1982. Furono ricevute circa 186 risposte che vennero pubblicate in sei volumi. Ciò fece sì che il testo avesse un’autorità ecumenica senza precedenti, il che a sua volta incoraggiò le Chiese a sviluppare nuove relazioni reciproche.

72. Sulla base di questa convergenza parecchie Chiese furono in grado di intrattenere nuove relazioni di comunione (per esempio Chiese luterane e anglicane nei paesi nordici e baltici, in Gran Bretagna, Irlanda, Canada, Germania, Stati Uniti; riformati e luterani negli Stati Uniti; Chiese unite o in via di unione in Sudafrica…). Altre Chiese furono incoraggiate, rispondendo alle domande, a rinnovare la frequenza e il contenuto liturgico delle proprie celebrazioni eucaristiche. Le distinzioni in tema di ministero hanno facilitato i dialoghi bilaterali, persino in situazioni in cui era divenuto difficile affrontare questi temi.

Alcuni esempi di dialoghi bilaterali

73. Molti dialoghi internazionali bilaterali hanno anche sviluppato meccanismi e modelli di lavoro che hanno favorito la recezione.

74. La firma ufficiale della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione è stata il risultato di una serie di successivi momenti della cooperazione luterano-cattolica. La dichiarazione congiunta è stata il frutto dei risultati ottenuti in più di trent’anni di dialogo internazionale e nazionale. Nel 1991, avendo deciso di prestare maggiore attenzione alla recezione dei risultati del dialogo, la Federazione luterana mondiale e il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani svilupparono un documento di lavoro intitolato Strategie per la recezione: prospettive sulla recezione di documenti che derivano dal dialogo internazionale luterano-cattolico. Nel 1993 fu nominata una commissione ristretta congiunta per mettere mano a una prima stesura di una dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione. Ogni parte poi sottopose la bozza ai rispettivi processi interni di valutazione. In base ai risultati della valutazione la bozza fu rivista. A ogni passaggio ciascuna delle parti riceveva sostegno ai massimi livelli d’autorità. La versione definitiva della dichiarazione congiunta fu accettata formalmente da entrambe le parti nel 1998 e firmata nel 1999. Il successo nella recezione della dichiarazione è stato reso possibile dalla stretta collaborazione tra i due partner nel processo di recezione.

75. L’accordo frutto del dialogo tra Chiese riformate e Chiese mennonite venne suggellato con una visita ai luoghi di battaglia in cui le rispettive forze si erano scontrate nel periodo della Riforma. Le Chiese manifestarono pentimento, ricevettero il perdono per consentire alla memoria di quegli eventi di determinare le relazioni attuali, e cercarono d’iniziare nuovi rapporti. Una costante azione reciproca di accordo, commento e spiegazione da parte delle componenti che hanno sponsorizzato la Commissione internazionale anglicana-cattolica romana (ARCIC) può aver facilitato la recezione dei rapporti dei dialoghi. Un certo interesse in molti dialoghi coinvolgenti l’Alleanza riformata mondiale e la Chiesa cattolica romana collegava l’agenda teologica alle effettive relazioni riformati-cattolici nel mondo. Si trattava di un precoce tentativo di far marciare di pari passo i punti all’ordine del giorno di quel dialogo con quelli delle Chiese locali.

Alcune conclusioni sulla recezione

76. Dal 1967 è possibile individuare molteplici fattori cruciali per i processi di recezione. È necessario l’impegno più ampio possibile con la comunità e i suoi teologi perché il dialogo risulti appropriato. Ciò avviene meglio grazie a uno scambio, nei momenti più idonei durante lo sviluppo del processo, di un testo tra le persone impegnate nei dialoghi e le Chiese coinvolte; in tal modo infatti il testo è sviluppato alla luce dei commenti ricevuti.

77. Il processo viene arricchito dalla condivisione delle risorse bibliche, teologiche e liturgiche che aiutano le comunità a comprendere il cammino intrapreso da coloro che hanno lavorato alle bozze e a situare il tema sia all’interno delle confessioni coinvolte sia tra gli studiosi contemporanei. Il testo dovrebbe venir tradotto in tutte le lingue opportune ed essere accompagnato da guide di lettura (scritte dai membri del gruppo preparatorio, poiché solo loro conoscono la strada percorsa per raggiungere l’accordo). La recezione può essere arricchita da gesti simbolici appropriati compiuti dagli organismi che sponsorizzano il dialogo, per indicare che è stato raggiunto un nuovo stadio del cammino verso la più completa manifestazione della comunione.

78. Per la recezione e la successiva applicazione è importante individuare strumenti per una comune supervisione. Alla luce degli accordi raggiunti, è necessario prendere in considerazione i processi di recezione che coinvolgono due comunità desiderose di discernere insieme. Al presente molti processi di recezione vengono condotti separatamente all’interno di ogni comunità.

79. Le visite tra comunità alimentano la crescita nei rapporti. Dovrebbe diventare naturale invitare i partner agli eventi significativi nella vita della Chiesa e incoraggiare l’amicizia cristiana a livello locale. Il movimento ecumenico include una spiritualità dell’ospitalità, di desiderio di ricevere l’altro a casa propria. L’impegno nel dialogo richiede la volontà dei capi della Chiesa di essere esempi di nuova apertura, per esempio con azioni simboliche condivise, con visite e con l’essere presenti nei momenti di gioia e di dolore. Tutti questi contatti alimentano la comprensione reciproca e la recezione dei risultati del dialogo.


Sfide per il dialogo nel XXI secolo

80. Il movimento ecumenico ha aiutato i cristiani ad allontanarsi dal virtuale isolamento reciproco tra le Chiese, sperimentato per secoli e dovuto alle divisioni del V, XI e XVI secolo. A partire dalla fine del XX secolo, le Chiese possono parlare di un nuovo rapporto di condivisione di «autentica anche se imperfetta» comunione. Dati tali risultati, quali sono le sfide per il dialogo ecumenico nel XXI secolo?

81. Mentre questi esiti sono stati considerevoli, durante lo stesso periodo c’è stata anche una tendenza a maggiori frammentazioni e fratture nelle Chiese e tra di esse. Vi sono quelli che asseriscono con forza che il dialogo è nemico della tradizione cristiana e quelli che fanno proclami di assolutismo e unicità. Sotto l’influsso della cultura postmoderna, l’autorità e le sue strutture in tutti gli aspetti della vita sono state messe in discussione. Ciò pone in questione all’interno delle Chiese i documenti dottrinali e anche le strutture di governo. Qualcuno si chiede se sia possibile che un singolo o un gruppo possa rappresentare una comunità. Il fatto che la società prenda in considerazione i problemi etici secondo modalità totalmente nuove ha influenzato sempre di più il modo in cui questi problemi compaiono nelle agende delle Chiese, dove è chiaro che la discussione dei diversi punti di vista e approcci passa attraverso le linee denominazionali e confessionali. È cruciale che tali aspetti della vita ecclesiale contemporanea siano tenuti in considerazione dal momento che la cultura del dialogo si è sviluppata in questo decennio.

82. Comunque ci limitiamo a prendere in considerazione alcune prospettive più ampie e alcune sfide al movimento ecumenico e al dialogo in particolare.

La sfida di un mondo che cambia

83. L’ampio contesto in cui la gente vive oggi, caratterizzato da un mondo in crescente interdipendenza e interconnessione, continuerà ad avere un forte impatto sui cristiani. Nel suo senso più positivo la globalizzazione esprime l’aspirazione degli esseri umani a diventare un’unica famiglia. Comunque, la globalizzazione ha ulteriormente diviso l’umanità, poiché nel mondo contemporaneo le sue forze operano a beneficio di pochi e a svantaggio di molti.

84. In tale contesto il movimento ecumenico può essere un seme di speranza in un mondo economicamente, culturalmente, socialmente e politicamente diviso. Le gioie e i dolori, le speranze e le disperazioni di tutti sono anche quelli dei cristiani. Nel rispetto di tutti gli sforzi che gli uomini compiono per creare unione, il movimento ecumenico può dare il proprio contributo specifico all’unità della famiglia umana guarendo le divisioni tra cristiani. Una risposta alla globalizzazione chiede lo sviluppo di rapporti reciproci benefici tra le strutture sociali globali e nazionali. Una parallela sfida ecumenica sta raggiungendo il traguardo di prospettive comuni sul rapporto specifico tra le espressioni universali e locali della Chiesa, e tra l’unità e la diversità. Dimostrando che il dialogo può risolvere diversità persistenti, il progresso compiuto rispetto a tali questioni ecclesiologiche può avere un impatto positivo sulle persone come risposta alla globalizzazione.

85. Dunque il continuo impegno nel dialogo ecumenico non solo alimenta la riconciliazione tra cristiani ma è anche un segno delle più profonde aspirazioni dell’umanità a diventare un’unica famiglia.

La sfida permanente della riconciliazione cristiana

86. Alcune sfide si riferiscono specificamente al movimento ecumenico.

87. Mentre ci rallegriamo degli esiti del movimento ecumenico del XX secolo, riconosciamo che la riconciliazione cristiana è lungi dall’essere completa. Il dialogo ecumenico deve proseguire al fine di risolvere le serie divergenze riguardanti la fede apostolica. Esse impediscono di ottenere l’unità visibile tra cristiani, l’unità necessaria per la missione in un mondo diviso.

88. In secondo luogo, il movimento ecumenico è importante per i cristiani ovunque si trovino. All’inizio del movimento la maggioranza dei partecipanti proveniva dall’Europa e dal Nord America, sebbene la minoranza proveniente da altri continenti abbia avuto un notevole impatto nei primi incontri ecumenici, asserendo che la divisione della Chiesa costituiva un peccato e uno scandalo. Come notato altrove, molte delle più importanti divisioni tra i cristiani ebbero inizio in Europa e, con l’attività dei missionari europei e americani, esse furono estese ad altri continenti.

89. Oggi, comunque, i partecipanti al dialogo provengono anche da Africa, Asia, America Latina, Oceania e Caraibi, e i loro contributi sono significativi. Molti ritengono che il lavoro a favore delle necessità primarie delle proprie comunità sia più pertinente e urgente dell’agenda ecumenica; tuttavia ormai molti cristiani si rendono conto che perpetuare le divisioni mina la credibilità dell’unico Vangelo e che molti degli argomenti che essi affrontano sono in realtà temi di unità e divisione. Questo Vangelo parla alla gente nei suoi diversi linguaggi e culture e sanare le ferite della divisione richiede gli sforzi dei cristiani in ogni parte del mondo. La diversità tra i cristiani nel mondo dovrebbe ricevere molta più attenzione nei dialoghi ecumenici del XXI secolo.

90. In terzo luogo, ci siamo resi conto che il panorama cristiano sta cambiando. Sappiamo che tra le comunità cristiane che crescono più in fretta vi sono gli evangelicali e i pentecostali. Molti, se non i più, non sono coinvolti nel movimento ecumenico, non hanno contatti con il CEC né dialogano con la Chiesa cattolica romana. In realtà anche le parole «unità» ed «ecumenismo» sono un problema per queste comunità. La loro attenzione è concentrata soprattutto sulla missione e non la vedono necessariamente nel contesto di collaborazione con le altre Chiese in una certa regione, nemmeno dove tali Chiese sono radicate da secoli. Una sfida odierna è costituita dal trovare il modo di coinvolgere meglio nel dialogo ecumenico questi importanti gruppi cristiani.

91. In quarto luogo, i dialoghi bilaterali hanno preso in esame questioni che necessitano di risoluzioni affinché sia raggiunta la riconciliazione tra due comunioni. Questo processo deve continuare. Forse potrebbe essere utile che alcuni dialoghi prestassero una maggiore e sistematica attenzione all’eredità cristiana condivisa da Oriente e Occidente, come struttura di riferimento per tutti. Forse tutti i dialoghi, persino quando riguardano i propri problemi particolari, potrebbero trarre vantaggio da questa comune eredità cristiana.

La sfida del dialogo interreligioso

92. Per quanto il dialogo interreligioso non possa prendere il posto di quello ecumenico, anch’esso si svolge tra religioni diffuse in tutto il mondo. Esso non cerca di creare una religione ma d’attivare una collaborazione tra religioni nutrendo i valori spirituali per contribuire ad armonizzare la società, e per collaborare alla costruzione della pace nel mondo. La cooperazione tra cristiani per promuovere il dialogo interreligioso oggi è necessaria, anzi è un imperativo. Di recente le religioni sono state strumentalizzate per giustificare e persino promuovere la violenza, oppure sono state tenute fuori dagli sforzi per costruire la comunità umana. Attraverso la cooperazione ecumenica nel dialogo interreligioso i cristiani possono aiutare le religioni del mondo nel promuovere armonia e pace.

93. Non si deve confondere il dialogo ecumenico con quello interreligioso. Entrambi sono figli della cultura del dialogo, ma ciascuno ha uno scopo e un metodo specifici. Il dialogo ecumenico si svolge tra cristiani; esso cerca l’unità cristiana visibile. Deve continuare perché la discordia tra i cristiani «contraddice apertamente alla volontà di Cristo» (Unitatis redintegratio, n. 1; EV 1/494) e deve essere superata.


Conclusione

94. A partire dal documento sul dialogo del GML del 1967 le Chiese hanno partecipato al dialogo specialmente negli ultimi decenni del XX secolo. Il dialogo ecumenico ha aperto nuovi orizzonti mostrando che, nonostante lunghi secoli di separazione, i cristiani divisi hanno molto in comune. Il dialogo ha contribuito alla riconciliazione. La recezione dei suoi risultati è stata utile nell’avvicinare i cristiani in vari modi.

95. Ora, giunto il XXI secolo, il dialogo ecumenico prosegue con gli stessi scopi ma in un nuovo contesto. Esso è ancora uno strumento che i cristiani devono impiegare nella loro ricerca dell’unità visibile, uno scopo che resta ancora da conseguire. Il dialogo continua a essere uno strumento per favorire la riconciliazione di cristiani divisi. Nel tempo che abbiamo di fronte i risultati del dialogo debbono essere continuamente riesaminati nelle Chiese. Il dialogo ecumenico ha già aiutato a mutare le relazioni tra le Chiese. Nel nuovo contesto di un mondo più globalizzato, di un mondo contraddistinto dalla comunicazione immediata e dall’abbondanza dell’informazione, il compito della Chiesa di proclamare la parola di Dio e la salvezza in Cristo entra in una competizione senza precedenti con la proclamazione di ogni genere d’informazione che mira a catturare il cuore dell’uomo. In questa epoca storica diviene sempre più urgente una comune testimonianza al Vangelo da parte dei cristiani, i quali possono accantonare le divisioni e rendere una comune testimonianza al Signore il quale pregò per i suoi discepoli: «siano una cosa sola, perché il mondo creda» (Gv 17,21).

Nota sul processo


Dopo che i documenti sul dialogo sono stati presentati dal vescovo Walter Kasper e da Konrad Raiser, la prima plenaria ha sviluppato una serie di argomenti da trattare in uno studio sul dialogo. Un piccolo gruppo di redazione costituito da Eden Grace, Susan Wood, mons. Felix Machado, mons. John Radano e dal rev. Alan Falconer, si è incontrato a Cartigny, in Svizzera (febbraio 2003), e ha steso una bozza iniziale. Dopo le discussioni nella plenaria di Bari, il testo è stato ulteriormente ampliato sia attraverso scambi di posta elettronica sia nella sessione di una giornata nel settembre 2003 (Falconer, Radano, Thomas Best). Dopo un’ulteriore discussione all’incontro dell’esecutivo del GML nel novembre 2004, al vescovo David Hamid è stato chiesto di rivedere il testo dal punto di vista editoriale. Il documento di studio è stato adottato dal GML nella plenaria di Chania, Creta, nel maggio 2004.

Condizioni per un dialogo delle culture
di Hans Küng


Molti uomini si interrogano di fronte agli sbandamenti e ai disordini odierni: sarà il XXI secolo realmente migliore del XX secolo, un secolo pieno di violenza e di guerre? riusciremo a conseguire un nuovo ordine mondiale, un ordine mondiale veramente migliore? Nel XX secolo abbiamo perduto tre occasioni per la realizzazione di un nuovo ordine mondiale: il 1918 dopo la Prima Guerra Mondiale a causa della "Realpolitik" europea; il 1945 dopo la Seconda Guerra Mondiale a causa dello Stalinismo; il 1989 dopo la riunificazione tedesca e la guerra del Golfo a causa di mancanza di visioni.

Ma il nostro gruppo del "Progetto per un’etica mondiale" ha una tale visione, e cioè la visione di un nuovo paradigma delle relazioni internazionali, che prende in considerazione anche nuovi attori nella scena globale.

Nei nostri giorni di nuovo si fanno avanti le Religioni come attori nella politica mondiale. È vero che molto spesso nel corso della storia le Religioni hanno mostrato il loro lato distruttivo. Esse hanno fomentato e legittimato odio, inimicizia, violenza, perfino guerre. Ma in molti casi esse hanno promosso e legittimato comprensione, riconciliazione, collaborazione e pace. Negli ultimi decenni ovunque si sono rafforzate nel mondo iniziative del dialogo inter-religioso e della collaborazione delle Religioni.

In questo dialogo le Religioni del mondo hanno riscoperto che le loro proprie affermazioni etiche supportano e approfondiscono quei valori etici secolari, che sono sviluppati nella "Dichiarazione universale dei diritti umani". Nel "Parlamento delle Religioni mondiali" che si è tenuto a Chicago nel 1993, più di 200 rappresentanti di tutte le religioni mondiali hanno espresso per la prima volta nella storia il loro consenso su alcuni comuni valori, standard e atteggiamenti etici come base per un’etica mondiale, che poi nel rapporto del nostro gruppo di esperti sono stati assunti per presentarli al Segretario generale e all’Assemblea plenaria delle "Nazioni Unite". Qual è allora la base per un’etica mondiale, capace di essere condivisa da uomini e donne di tutte le grandi Religioni e tradizioni etiche?

Il "principio di umanità": "Ogni essere umano – sia uomo o donna, bianco o colorato, ricco o povero, giovane o vecchio – deve essere trattato umanamente." Questo è affermato in maniera più espressiva nella "Regola d’oro" della reciprocità: "Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso". Questi principi sono stati sviluppati in quattro ambiti centrali vitali e appellano ogni essere umano, ogni istituzione e ogni nazione ad assumersi le loro responsabilità:

  • per una cultura della non violenza e del rispetto di ogni vita;
  • per una cultura della solidarietà e di un ordine economico giusto;
  • per una cultura della tolleranza e per una vita nella veracità;
  • per una cultura della equiparazione dei diritti e di pari dignità di uomo e donna.

Proprio nel tempo della globalizzazione una tale etica globale è assolutamente necessaria. Infatti la globalizzazione di economia, tecnologia e comunicazione porta anche ad una globalizzazione di problemi in tutto il mondo, che minacciano di sommergerci: i problemi nell’ambito dell’ecologia, della tecnologia atomica e della tecnologia genetica, ma anche della criminalità e del terrorismo globalizzati. Nel nostro tempo si rende urgentemente necessario che la globalizzazione di economia, tecnologia e comunicazione sia sostenuta da una globalizzazione dell’etica. In altre parole: la globalizzazione necessita di un’etica globale, non come peso aggiuntivo, ma come fondamento e aiuto per gli esseri umani, per la società civile.

Alcuni politologi prevedono per il XXI secolo uno "scontro delle culture". Ma noi contrapponiamo a questa previsione una visione del futuro diversamente articolata; non semplicemente un ideale ottimistico, ma una realistica visione di speranza: le Religioni e le culture del mondo, in collaborazione con ogni uomo di buona volontà, possono aiutare ad evitare un tale scontro, a condizione che esse realizzino le seguenti convinzioni: nessuna pace tra le nazioni senza pace tra le Religioni. Nessuna pace tra le Religioni senza dialogo tra le Religioni. Nessun dialogo tra le Religioni senza valori etici globali. Nessuna sopravvivenza del nostro globo nella pace e nella giustizia senza un nuovo paradigma delle relazioni internazionali sulla base di valori etici globali.


(pubblicato in Teologi@Internet, Queriniana, Brescia)
Venerdì, 14 Aprile 2006 22:13

Sacrifici umani per il vitello d'oro

Occorre anche ragionare e capire che dietro questi fenomeni esiste una precisa ideologia: quella che ha posto il profitto al di sopra di tutto. Anche del diritto, anche della vita.

Per una strategia della pace

di don Tonino Bello




Gerusalemme, tema generatore


1. Se ricorriamo a uno schema biblico, non è solo per un bisogno di organicità espositiva, ma anche perché vorremo tonificare la saldezza delle nostre analisi, esemplare lo stile del nostro impegno, irrorare la genialità delta nostra prassi di pace, e non banalizzare le nostre utopie.

Lo schema biblico fa perno attorno a un fortissimo tema generatore che sì racchiude in una parola: Gerusalemme. Lo snoderemo in quattro icone.

Nessuno è ormai tanto digiuno di riferimenti scritturistici da non sapere che Gerusalemme è la città santa, che già nella sua etimologia ne rievoca tutta la galassia dello "Shalom" biblico.

E' la "beata pacis visio": il simbolo, l'immagine della pace. Anzi, la sede per eccellenza della pace:
"Glorifica il Signore, Gerusalemme; loda, Sion, il tuo Dio.. egli ha messo pace nei tuoi confini, e ti sazia con fior di frumento" (Salmo 147,12-14).

Verso Gerusalemme, casa del Dio della pace, si orientano i passi dei pellegrini ebrei. A Gerusalemme diroccata si volgono le nostalgie degli esuli che hanno perso la pace in terra di Babilonia. Su Gerusalemme si impernia tutta la vita terrena di Gesù, Principe della pace. Verso la Gerusalemme celeste, luogo della pace escatologica, si muove finalmente tutta la storia universale.

Sulla scorta, allora, di questo tema generatore, tracceremo quattro proiezioni:
- salire a Gerusalemme (linea ermeneutica della pace);
- sostare a Gerusalemme (linea dossologica della pace);
- scendere da Gerusalemme (linea politica della pace);
- verso la Gerusalemme del cielo (linea utopica della pace).

Salire a Gerusalemme


2.1 Per gli Ebrei era sempre un momento di grande intensità emotiva il pellegrinaggio verso Gerusalemme, "città del sommo Dio".

Quando arrivavano certe date classiche, un fremito di commozione prendeva l'animo di tutti. E mentre salivano verso il colle di Sion, cantavano i salmi detti appunto delle "ascensioni". Uno dei più belli è il salmo 122: "Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ... Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano; sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: su di te sia pace":

L'icona degli ebrei che salgono verso Gerusalemme, città della pace, deve essere paradigmatica per noi, pellegrini che faticosamente saliamo le alture alla ricerca della pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione ermeneutica del nostro impegno: quella della ricerca.

Si potrebbe assumere come telaio di questa prima dimensione la frase di un monaco certosino del 1100, Guigo II, che, parlando della "lectio divina", cioè della metodologia da usare per leggere compitamente, in modo sapienziale, la Parola di Dio, scandisce quattro momenti: la lettura, la meditazione, la preghiera, la contemplazione. E dice così: "La lettura è un esercizio esteriore, la meditazione è una comprensione intellettuale, la preghiera è desiderio, la contemplazione è superamento di ogni senso.
Ora, ecco la prima proiezione.

I credenti dovrebbero essere testimoni di una "lectio divina" della pace. Scandendo, appunto, i quattro momenti che venivano proposti ai monaci per la "lectio divina" della Parola.

2.2 Anzitutto la lettura.

Di che cosa? Dei segni di guerra e dei segni di pace. Gli apparecchi ricetrasmittenti dell'opinione pubblica sono spesso grossolani. Registrano solo ingiustizie e guerre "scenografiche". E comunicano solo segnali di pace connotati dall'enfasi.
Dovremmo avere antenne più sensibili a captare le modulazioni di violenza emesse da tutte le direzioni.

La violenza a onde corte che viene perpetrata, ad esempio, mediante l'aborto.
Dopo gli anni roventi degli steccati culturali e degli scontri etici, pare che il bisogno di una autentica difesa della vita non nata stia ricongiungendo le sue proiezioni con l'ansia di un mondo affrancato dall'incubo nucleare, verso un comune allargamento degli orizzonti di quelle evidenze etiche che tutti si affannano a proclamare in decadimento.
La violenza a onde medie che viene perpetrata in paesi pure vicini a noi, ma non sempre collocata nella focale dei "media". Così sui massacri che avvengono nel Libano, in Iran, in Irak, in Etiopia, in Mozambico, in Sudan..., nei paesi del Medio Oriente, o sulle violazioni dei diritti umani che vengono perpetrate non solo in Sud Africa, o in Centro America, o nell'America Latina, ma anche nei paesi dell'Est europeo, cade la complicità della stampa e l'indifferenza delle coscienze.

La violenza a onde lunghe che viene subdolamente perpetrata, più che sul versante dell'avere, su quello dell'essere. Hanno ancora valore le parole che Solgenitzin scriveva nel 1972: "I tipi di coercizione più pericolosi per la pace sono quelli che agiscono senza missili nucleari, senza flotte e senza aviazione, e sono tanto larvati che si potrebbe quasi scambiarli per tradizioni e usanze abituali... Per ottenere pace autentica, è necessario che la lotta contro le forme invisibili, larvate, di violenza sia condotta con la stessa decisione con cui se ne combattono le forme clamorose.... L'impegno è quello di cancellare dagli uomini l'idea che qualcuno possa avere il diritto di usare violenza contro il diritto e la giustizia. Non si serve la causa della pace se ci si abbandona alla benignità di coloro che usano la violenza: la pace è favorita da colui che integralmente, decisamente e instancabilmente difende il diritto dei perseguitati, degli oppressi, degli assassinati".

Ma dovremmo avere anche antenne più sensibili a captare le modulazioni di pace, e a ritrasmetterle per dare speranza alla gente.

Oggi assistiamo a un impressionante trapasso culturale sul tema della pace, che si esprime, come osserva E. Balducci, in una duplice forma: "quella di superficie, che diventa prorompente quando gli eventi politici e militari creano le giuste occasioni, e quella sommersa, che ha i suoi luoghi di incubazione e di creatività disseminati nelle città e nei villaggi, sotto le denominazioni più diverse e con i più diversi sostegni: dagli enti locali ai partiti, dagli istituti scolastici alle parrocchie. Il movimento per la pace è come una galassia che occupa la zona intermedia tra l'opinione pubblica e le strutture di partito, una zona nella quale avvengono, magari silenziosamente, le metamorfosi chimiche destinate, forse, a mutare in futuro anche gli apparati del potere. E' difficile ridurre a tratti unitari un fenomeno che è, come dicono i sociologi, allo "stato nascente". Vi si trova il massimalismo utopico che abbraccia in uno slancio generoso dell'immaginazione il futuro del mondo intero, e l'insistenza ossessiva su di una opzione particolare, come, tanto per fare un esempio, l'abolizione della caccia; la pro pensione a risolvere tutti i problemi sul piano etico, senza tener conto della complessità del nesso che stringe ed oppone etica e storia; la demonizzazione degli uomini politici in cui si incarna l'ideologia di sicurezza armata, e l'idealizzazione della guerriglia contro gli imperi atomici. E' un mondo fluido quello del movimento per la pace, in cui si alternano stati di incandescenza e improvvisi raffreddamenti. Ma, osservato nel suo insieme, esso esprime un vero e proprio processo di conversione culturale, che investe ormai anche gli ambienti più tradizionali e che, attraverso la pluralità eterogenea dei suoi approcci, va elaborando alcune linee che già prefigurano un disegno unitario destinato ad imporsi, nel futuro, a tutti i livelli della società".

2.3 Il secondo momento della "lectio divina" della pace è quello della meditazione.

Io vorrei dire: quello della sistematizzazione teologica. Purtroppo non c e ancora in Italia una apprezzabile teologia della pace. Non si va più avanti dei troppo frammentati sussulti di ordine biblico, e delle pur giuste analisi di linguaggio che indugiano intorno ai termini shalom, eirene, o intorno al termine opposto hamas (il contrario di shalom non è guerra, ma violenza), la violenza essenziale che scompagina il complesso delle relazioni tra l'uomo e Dio, tra l'uomo e le cose, tra l'uomo e l'altro uomo.

Quello delta pace viene visto ancora solo come tema di ordine etico, che risiede cioè esclusivamente nelle nicchie operative della morale, non un tema di carattere cristologico e trinitario che cerca cittadinanza negli spazi speculativi della fede.
Non c'è ancora una "irenologia" sistematica. Si annaspa attorno a incerti riferimenti cristolo-gici, centrati sul famoso passo della lettera agli Efesini (2,14-18), in cui si afferma che "Egli (Cristo) è la nostra Pace".

Si intuisce che il Vangelo è annuncio di pace, ma poi per un verso ci si impantana nelle dissertazioni sulla spada da rimettere nel fodero o sull'altra guancia da porgere allo schiaffo; mentre, sul fronte opposto, si tenta addirittura la fondazione di una teologia della guerra o la legittimazione di una certa violenza sulla base del Vecchio Testamento e di alcune espressioni del Nuovo ("non sono venuto a portare la pace, ma la spada"...).
Manca ancora del tutto una riconduzione della pace sul terreno trinitario: anzi, definirla proprio su questo modulo trinitario come la convivialità delle differenze, o come icona della vita trinitaria, sembra poco più che una esercitazione retorica.

E' davvero malinconico osservare come il cristiano, definito da Tertulliano "uno che lavora per la vita", non trovi ancora chiari riferimenti in una "irenologia", che dovrebbe essere una "obiezione di coscienza totale" di fronte ai poteri della terra che minacciano di bruciare l'umanità in un olocausto senza precedenti.

Ecco il compito più duro della "ascesa" verso Gerusalemme. Emerge da più parti la necessità di affrontare il problema della fondazione teologica detta pace, mollando gli ormeggi dall'area moralistica, tecnica, funzionale, intramondana e diplomatica. Sarà proprio dalla "irenologia" che si scateneranno nel mondo quei venti freschi e salutari che rinnoveranno la storia.

2.4 Ed eccoci al terzo momento della "lectio divina": la preghiera.

E' qui che si deve innestare, in moduli più forti, l'impegno dei credenti sulla spiritualità della pace. Spiritualità che non significa confino nelle zone vaporose dei sospiri, o trastullo di gruppo con la panna montata delle canzonette religiose.

Mi sembra molto significativa una espressione di Nicolas Berdiaeff: "Il pane per me stesso è una questione materiale. Il pane per il mio vicino è una questione spirituale".
Spiritualità delta pace significa appunto cercare il pane per il proprio vicino. Ma significa anche approfondire la coscienza che il pane "sovrasostanziale" della pace è un dono che va chiesto a Dio, è qualcosa che l'uomo da se stesso non può darsi. Lo shalom non nasce dal regolamento internazionale dei conflitti. Non viene fuori dai trattati e dalle pattuizioni delle cancellerie. Non è semplice frutto di operazioni diplomatiche. Non è il puro risultato che si ottiene da sforzi di buona volontà. Questi elementi sono pure necessari, ma come predisposizione all'accoglimento del dono di Dio. Da soli, otterranno al massimo il disarmo, non ta pace. Produrranno la coesistenza pacifica, non l'esistenza della pace.

La pace è "oriens ex atto", come la Chiesa. E come ci stiamo abituando a pensare alta "Ecclesia de Trinitate", così dobbiamo abituarci a pensare alla "pax de Trinitate". E come la Chiesa non è una realtà atemporale ma storica, non celeste ma inserita nel mondo, non utopica ma profetica... così deve essere la pace. E come la Chiesa, icona detta Trinità, è epifania e primizia del mondo nuovo come Dio lo ha progettato dall'eternità, così la pace sulla terra, icona della vita trinitaria, deve essere epifania e primizia della pace del mondo rinnovato.

Questo parallelo tra Chiesa e pace, caratterizza la spiritualità delta pace come spiritualità ecclesiale.

Cercare il contesto della più cordiale ecclesialità non è tentare un'operazione di assestamento aziendale.

Significa, invece, intuire che l'unica trama che può veicolare l'acqua della pace "oriens ex alto" è la trama ecclesiale, non tanto per le sue strutture, quanto per il suo essere "realtà di comunione".

Di qui, dovrebbero scaturire molteplici iniziative tutte da inventare, e che vanno dalla stimolazione nei confronti delle nostre comunità ecclesiali, al coinvolgimento "simpatico" dei nostri pastori, alta pressione rispettosa sui nostri vescovi perché siano più audaci in certe denunce e impegnino il loro magistero anche sul terreno difficile della pace, a una maggiore "parresia" delle nostre Chiese locali, alla riconduzione diuturna delle nostre realtà di base sul versante della implorazione, secondo la formula umile e coraggiosa del Card. Etchegherray: "Signore, dammi l'accortezza di spiegare bene che la pace non è così semplice come immagina il cuore, ma più semplice di quanto crede la ragione!".

E che la letizia della pace sia in fermento nella nostra comunità ecclesiale, è un segno dei tempi che con speranza dovremmo annunciare. Non è forse vero che per noi credenti d'occidente la pace è il nostro modo di costruire la liberazione?

2.5 Finalmente siamo arrivati all'ultimo momento della "lectio divina" della pace: la contemplazione. Che non e "stasi", ma "estasi" (ex-sta-sis), cioè movimento, esodo, sequela.

Sequela di Cristo, che significa camminare nella luce del Signore e nell'ascolto della sua Parola, con tutte le implicanze difficili del martirio. Ecco il discorso sulla mitezza, sulla nonviolenza attiva, sulla povertà come metodo, sul servizio, sulla partenza dagli ultimi, sul perdono come disarmo unilaterale (insegnatoci direttamente da Cristo, e così difficile da accogliere sia a livello personale, sia a livello internazionale).

Senza queste dimensioni, noi credenti diventeremmo solo banditori di pseudo-profezie, o di una pace "a basso prezzo", direbbe Bonhoeffer il quale parlava di "grazia a caro prezzo".

Sostare a Gerusalemme

3.1 Scegliamo anche qui un paradigma biblico tratto dal Vangelo di Luca: "I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per La festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava" (2,41-61).

L'icona di Gesù che rimane a Gerusalemme e che, nel tempio, ascolta e interroga, occupandosi delle cose del Padre suo, deve essere parabolica anche per noi, alla ricerca di uno stile che ci caratterizzi come operatori di pace.

Eccoci condotti, allora, alla dimensione dossologica del nostro impegno. Come telaio di questa seconda dimensione, assumo i tre pilastri che hanno Sostenuto l'incontro di preghiera del 27 ottobre ad Assisi: silenzio, digiuno, pellegrinaggio.

3.2 Anzitutto, il silenzio.

Gesù ascolta, e se rompe il silenzio è solo per interrogare, non per dare risposte. Mi sembra che ci sia qui la freccia stradale che ci indica una proiezione molto significativa sul piano dette nostre metodologie. Chi si impegna per la pace non è chiamato a emettere un rumore tra i tanti rumori attuati che parlano di pace. Non ha la vocazione a dire cose eclatanti, atte a conciliare il fascino della prima donna o il "look" del protagonista nel concerto degli "strumenti delta pace". Non è smanioso di emergere, dicendo ogni volta la sua su ogni problema di fondo o su ogni vicenda occasionale. Non ha paura di perdere il treno della popolarità, né si affanna a prendere tutte le coincidenze sotto la pensilina della cronaca. Non ama declamare la verità, rivestendola di arroganza. Predilige l'ascolto e la riflessione.

Il suo, però, non è un "silenzio-stampa", dettato cioè dal calcolo. Tantomeno è un silenzio prudenziale, pavido, bilanciato, turgido di compromessi. E' un silenzio che esplode, anzi, con audacia profetica, nella direzione della Parola rivelata. Diventa allora incontenibile: non imbavaglia la verità per paura di dispiacere ai potenti; non decurta la Parola per farla entrare nel clichè delle cautele carnali; non sterilizza il linguaggio per tener buoni quelli del Palazzo; non attenua le asprezze "irrazionali" del messaggio per timore di apparire ingenuo, ma lo trasmette per intero fino alle sporgenze del paradosso.

Il silenzio diviene così l'utero entro cui la Parola diviene carne, come nel grembo di Maria.

3.3 Dopo il silenzio, il digiuno.

Siccome nell'antichità era vietato digiunare di domenica, il digiuno è il segno della ferialità. Colloca pertanto la pace sul terreno banale e difficile dei giorni normali. Ed è questo della "ferialità" il digiuno più significativo che potremmo esprimere nel deserto del mondo, così pieno di "aspiranti al ruolo dì Dio".
Forse coinciderà per noi anche col digiuno della gloria e della cronaca. Ma se ne avvantaggerà la dossologia verso il Principe della pace.

3.4 E, infine, il pellegrinaggio.

Verso dove? All'interno della comunità ecclesiale e all'esterno, nello stile della missione.
Più precisamente: verso il cuore della gente, verso il cuore delle comunità cristiane che stanno nel "tempio", verso gli ultimi.

E' splendido quell'inciso di Luca che dipinge Gesù "seduto in mezzo".

Stare in mezzo alla gente. Per interrogarla, ponendole domande di fondo sul senso della vita. Per coscientizzarla facendo fermentare i germi di verità depositati nelle più profonde stratificazioni popolari. Per smuoverla, operando quegli smottamenti di terreno sul quale il fatalismo e il senso dell'ineluttabilità hanno sopraelevato edifici di inerzia.
Stare in mezzo alle comunità cristiane. Per animarle al coraggio. Per esortarle alla denuncia profetica. Per coinvolgerle nei processi di liberazione planetaria.

Stare in mezzo agli ultimi. Perché, partendo da essi, va riformulata la strategia di ogni movimento che si impegna per la pace. E' mettendosi in corpo l'occhio del povero che potremo ridisenare la cartina geografica dei luoghi dove oggi Cristo è crocifisso.
Se sapremo compiere questo pellegrinaggio verso la gente (scegliendo la dimensione popolare del nostro impegno), verso le comunità ecclesiali (portando al loro interno il soffio della universalità e della speranza) e verso gli oscuri domicili degli ultimi (rendendoli protagonisti del loro riscatto), allora si sprigionerà davvero, dai sotterranei della storia più che dai palazzi dei potenti, una incontenibile dossologia trinitaria.

Scendere da Gerusalemme

4.1 L'icona biblica che ci richiama la dimensione politica della pace e che traduce la coscienza in progetto, è quella del buon samaritano in viaggio sulla Gerusalemme-Gerico.

E' su quest'asse che si giocano i sogni diurni delle nostre utopie. E' l'asse che parte dalla Città Santa (Gerusalemme è la città del tempio; è il luogo dove si celebra l'ultima cena, dove si consuma la morte di Gesù e si realizza la sua risurrezione; è l'epicentro della pentecoste...) e conduce verso Gerico (verso l'ecumene, la storia, anzi la cronaca: cronaca nera, per giunta, che ha come protagonisti dei briganti, i quali spogliarono, percossero, lasciarono mezzo morto un uomo, simbolo di tutti gli oppressi della terra).
E' l'asse su cui la fede interseca la storia, la speranza incrocia la disperazione della terra, la carità s'imbatte con i frutti della violenza.

Tra i verbi che traducono i comportamenti concreti del samaritano ("lo vide, n'ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò te ferite, gli versò olio e vino, lo caricò sul suo giumento, lo portò ad una locanda, si prese cura di lui"), quello che mi sembra più espressivo è questo: "gli si fece vicino".

Farsi vicino a chi? Al popolo.

Eccoci condotti allora a quella che, secondo me, dovrebbe essere l'opzione fondamentale degli operatori di pace: farci vicini al popolo.

Il samaritano non lasciò il malcapitato sulla strada, per andare in città a denunciare l'accaduto alle forze dell'ordine. Non si recò agli sportelli della polizia per sporgere querela contro ignoti. Non andò a protestare contro le omissioni del Ministero degli Interni. Non lasciò boccheggiante sul sentiero verso Gerico quell'uomo mezzo morto per convocare una conferenza-stampa sul degrado etico della città, o sulle violenze del sistema, o sull'inadempienza dei poteri costituiti.

Forse, dopo, avrà fatto pure questo. Anzi, visto il suo zelo, c'è da pensare che in seguito, "il giorno seguente", abbia assolto anche a questo compito. Diversamente, avrebbe peccato per omissione di atti di ufficio.

Ma intanto, il gesto fondamentale che ritenne di compiere fu quello "di farsi vicino", e passare dal piano della denuncia a quello della costruzione diretta. La pace parte dal popolo e non dalle cancellerie. Dalle cancellerie semmai vi passa: ma per trovare le ratifiche, per ricevere il marchio di origine controllata.

L'intelligenza diplomatica e la ragione fredda porteranno allora a compimento ciò che la profezia creativa, che fermenta nel popolo, ha già indicato.

Laddove si scopre questa verità, è la democrazia tutta che avanza, sussulta, si migliora. Sicché la testimonianza, la solidarietà, la partecipazione, il coinvolgimento del popolo si pongono al servizio di un unico grande progetto storico da realizzare. Divengono i nuovi strumenti della politica. Gli impegni concreti da assumere con forza dovrebbero essere il riflesso di questa opzione di fondo. E quali sono?

Ne individuiamo cinque, o meglio proponiamo cinque aree:

4.2 L'area della educazione alla pace.

Forse potrà sembrare una forzatura, ma io considero che il discorso sulla educazione alla pace è il crinale, o se si vuole, la peripezia decisiva su cui ogni movimento si gioca la sopravvivenza.

Oggi stanno esplodendo numerose iniziative che hanno come scopo la promozione di una cultura della pace. Soprattutto nel mondo della scuola assistiamo a una fecondità di pubblicazioni e programmi, non gestiti più in termini di semplice trasmissione della cultura tradizionale. Un nuovo ecumenismo culturale si sta organizzando proprio attorno al tema della pace.

4.3 L'area della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta.

Si inserisce qui non solo un maggiore approfondimento concettuale della nonviolenza come valore di popolo, ma anche la comprensione delle metodologie nonviolente, in relazione con la fede.

L'irrobustimento che si compie nella nonviolenza tra la fede e la storia. Il ricongiungimento tra morale individuale e quella collettiva.

Si inserisce qui il lavoro di coscientizzazione popolare contro il commercio delle armi e la militarizzazione del territorio.

Si inserisce qui tutta l'azione educativa della base perché si accorga degli effetti disastrosi della violenza tecnologica. L'ecologia è un grosso capitolo del grande libro della pace.

4.4 L'area dei diritti umani e del rapporto Nord-Sud.

Lo spostamento dell'asse che spaccava l'Est dall'Ovest sulla demarcazione che divide il Nord dal Sud ci ha fatto prendere coscienza che mancanza di pace non è solo la guerra, ma la violazione dei più elementari diritti umani.

Entrano qui tutte le riflessioni sulla qualità della vita. Sullo sviluppo tecnologico. Sull'allargamento dello sguardo agli orizzonti della mondialità.

Sul permanere della logica del profitto che tende a riproporre, nei paesi poveri, fasti e nefasti dei paesi industrializzati. Sulla solidarietà con i paesi del Terzo Mondo che esige lo smascheramento del mercato delle armi. Sul Nuovo Ordine Economico Internazionale. Come anche sulla tragica situazione degli immigrati in casa nostra. Dobbiamo assecondare gli sforzi che vanno compiendo anche tante riviste missionarie divenute tribune implacabili contro le ingiustizie, e divulgare in mezzo al popolo le planimetrie di tutte le violenze, a partire da quelle che si consumano nel nostro territorio.

4.5 L'area della obiezione di coscienza.

Non tanto per ciò che immediatamente produce scombinando i calcoli del potere costituito, quanto per il contenuto di crescita popolare che essa racchiude.
Starei per dire che non è tanto l'obiezione di coscienza che ci interessa, quanto la coscienza dell'obiezione. Perché dietro le quinte di ogni obiezione c'è sempre una coscienza collettiva che matura.

4.6 L'area delle cesure difficili da ricomporre.

Tra testimonianza personale (ineludibile specialmente sulle scelte di sobrietà e di coerenza) e progetti sociali.

Tra impegno locale (con tutte le sue logiche di incarnazione e quindi, di vissuto spicciolo) e mutamenti globali.

Tra tensioni di solidarietà concreta (fatta di gesti di condivisione, di assistenza, di "olio e vino" sulle ferite) e politica.

Tra diritti dell'uomo (volti verso una nuova qualità della vita) e sviluppo appropriato.

E' qui, su queste cesure e su queste lacerazioni che dobbiamo chinarci per operare la ricomposizione o, se volete, per "fasciare le ferite".

Verso la Gerusalemme del cielo
5. "Non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb. 13,14). La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta nei capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace.

C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio". Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo di pace!

Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più bella. Perché è l'icona della speranza.
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già" impallidisce sempre dinanzi al "non ancora".

Ma non dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far maturare nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia, la libertà.
E' dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile: la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la tenerezza...

Ci accorgeremo finalmente che la pace non è un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il Dio con noi.

"Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo 71).

La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già" sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso "cieli nuovi e terra nuova".

(Testo base del discorso pronunciato al Congresso nazionale di Pax Christi, a Rocca di Papa)

La Malaysia si propone al mondo come modello di paese musulmano progressista; una delle personalità più note del paese è una donna che da venti anni lotta per i diritti delle donne con l'organizzazione Sister in Islam.

Mercoledì, 12 Aprile 2006 23:09

Il nome della gioia (Vladimir Zelinskij)

Il nome della gioia
di Vladimir Zelinskij



Il simbolo della fede dei primi cristiani era brevissimo, di una densità incomparabile. San Paolo lo rende così: “…se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rm.10, 9). Sembra che il nucleo di questo credo: il Signore è in Gesù abbia nascosto in sè un’energia nucleare che esplodeva nell’effusione dello Spirito Santo una generazione dopo l’altra, parlava nelle conversioni, si rivestiva dalle preghiere, si riempiva delle visioni, si versava col sangue dei testimoni, mandava i predicatori su tutta la terra, cantava nelle liturgie delle catacombe. Come se il potere del nome si sia incarnato nella straordinaria avventura umana che, nonostante le nostre crisi, continua anche oggi, facendo il suo lavoro visibile ed invisibile. Il nome del Signore proclamato una volta non è diventato un deposito chiuso fino all’Ultimo Guidizio, ma rimane una sorgente della rivelazione che nessun spettro dell’aldilà freddo può congelare.

ΚΥΡΙΟΣ ΙΗΣΟΥΣ, Signore Gesù: un Vangelo che con due parole annunzia l’umanità storica del Verbo che venne ad abitare in mezzo a noi, presta la lingua ad esprimere il mistero di Dio che nessuno ha visto e che è venuto sulla terra, e afferma anche che il tempo della loro unione può essere la tua esistenza stessa che santifichi il Verbo nel nome umano. Il Verbo che si è fatta carne si è sottomessa al ritmo della vita umana con la nascita, sofferenza, morte. Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre Dio con noi. La Sua età include l’abbisso del passato, ma anche l’immensità dell’avvenire che se perde all’orizonte, ma Egli anche è il “bambino avvolto nelle fasce” (Lc. 2,12) che la Sua Madre ha portato sulle bracce, un condannato che muore sulla croce. L’inizio e la fine, Betlemme e Golgotha sono iscritti in quel presente eterno che è messo nella nostra fede.

Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana ha tanto fatica di unire, ma il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in quell’avventura del credere? La risposta è già nell’invito di Gesù: “prendi parte nella gioia del tuo Signore” (cf. Mt. 25,21). Il ponte è proprio la gioia, anche se può portare le lacrime del vivere con la croce, quella che unisce il nome di un ebreo vissuto 2000 anni al Signore incomprensibile, il suo breve soggiorno fra gli uomini alla speranza di tutti popoli, il nostro presente che ci fuggi alla luce dell’eternità, l’intimità di un’anima alla comunità planetaria dei cristiani. Quel ponte di gioia si chiama Risurrezione.

E se entri davvero nel dolore e nella gioia ch’è nel nome del Morto e del Risorto, se scopri che il nome della gioia è amore,

«…sarai salvo».

Venerdì, 07 Aprile 2006 01:19

Salve Venezia (Renzo Bertalot)

Salve Venezia

di Renzo Bertalot

1. Premessa

Non si può ricordare l'ecumenismo che si è sviluppato a Venezia negli anni sessanta senza richiamare i precedenti che lo hanno determinato. Si tratta di richiamare rapidamente l'esperienza fatta all'estero e più precisamente in Canada negli anni 1954-61.

Appena consacrato pastore dal sinodo valdese del 1954 trascorsi i primi sette anni del mio lavoro con la comunità italiana della Chiesa Presbiteriana del Canada, che si trovava a Montreal, nella provincia del Quebec. Era necessario conoscere le due lingue del luogo e mantenere i rapporti ecclesiastici in inglese. Ero uno dei tanti pastori stranieri al servizio degli emigranti europei. I particolarismi e i provincialismi di ognuno cedevano lentamente il passo all'interesse comune per il pane quotidiano e alla spontanea e reciproca solidarietà.

Le comunità di lingua straniera erano luoghi di forte aggregazione. Nonni, figli e nipoti si trovavano insieme in tutte le attività. Con il tramonto dei nonni bisognava inserire le nuove generazioni nel mondo inglese e vederle cavalcare i fusi orari senza apparente difficoltà. La consistenza delle comunità era evidentemente destinata ad assottigliarsi sempre più. A quarant'anni di distanza la mia antica comunità italiana si è trasformata in comunità presbiteriana coreana.

Le comunità di lingua inglese o francese subivano un fenomeno analogo nel senso che ogni anno il settantacinque per cento si trasferiva altrove e veniva sostituito da elementi delle stessa lingua. Così diversa dall’Europa la cura pastorale si trasformava nell’esercizio di un ministero a favore di una continua processione di gente sempre in movimento.

Anche gli studi assumevano aspetti diversi almeno per le minoranze degli immigrati. Con un titolo universitario italiano era possibile iscriversi agli studi per il Master soltanto dopo alcuni esami integrativi. Si poteva allora, dopo aver frequentato i corsi, presentare una tesi per ottenere il Master che, se valutata positivamente, permetteva la continuazione degli studi verso il dottorato di ricerca (Ph.D.). superati gli esami in lingua straniera e quelli generali delle sei cattedre di teologia si era ammessi a presentare una tesi definitiva per il dottorato di ricerca (Ph.D.). ricordo una curiosità oggi ancora lontana dall’orizzonte europeo. Mi fu, tra l’altro, richiesta una dissertazione scritta sulla preghiera nell’Islam. L’esame orale avrebbe avuto luogo all’Istituto Islamico dove non c’era neanche un cristiano. Ora il dottorato di ricerca ammette direttamente alla carriera universitaria o a quella diplomatica. Anche nel mio caso tutto era possibile. E la cattedra c’era! Bastava un sì, ma avevo promesso alla mia chiesa di tornare in Italia dopo i sette anni di missione. E così fu.

Come si sa ogni ritorno comporta gioie e dolori, ma il nostro fu funestato dal più grande dolore che genitori possano conoscere: la perdita di un figlio di soli cinque anni.

2. Ecumenismo veneziano anni sessanta

Negli anni sessanta eravamo in pieno Concilio Vaticano II e le notizie ecumeniche, messe in circolazione, facevano presentire l’aprirsi di un’epoca nuova. Era entrato in gioco un nuovo modo di pensare che aveva rari precedenti storici. Si parlava dell’incontro dei fratelli cristiani sulla base del par cum pari, delle gerarchie delle verità in rapporto al nesso centrale e di una perennis reformatio.

Il Consiglio Ecumenico delle Chiese seguiva con vari osservatori le fasi evolutive della nuova apertura. Allo stesso modo l’Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate e una serie notevole di teologi tracciavano le vie per orientare l’incontro delle chiese e incoraggiare confronti ed eventuali divergenze. Le Chiese in Italia si trovarono a fare i conti con un passato difficile, più incline al monologo che al dialogo.

Nonostante queste difficoltà vi furono incontri ecumenici fruttuosi tra le comunità locali: “fra i primi quello di Venezia per opera del pastore Renzo Bertalot e del teologo don Germano Pattaro” (1). Era giunto il momento di lasciar cadere le iniziative sporadiche ed occasionali per lo più a carattere sociale.

Il Sinodo Valdese del 1962 invitò tutte le comunità a dedicare un anno di studio al problema dei matrimoni misti. Come pastore, appena approdato a Venezia, cerca di mettere in moto un aspetto della metodologia ecumenica, lungamente attestato all’estero, che faceva parte della mia settennale esperienza canadese. È infatti importante che il “diverso da noi” presenti se stesso per evitare fraintendimenti e mistificazioni. Fu quella l’occasione per chiedere udienza al patriarca cardinale Urbani ed ottenere che la posizione cattolica venisse presentata alla comunità valdese da un teologo cattolico. Era la richiesta di un servizio che escludeva polemiche e si limitava a domande di precisazione e di approfondimento. Con molta cortesia l’invito fu accettato e don Germano Pattaro arrivò alla chiesa valdese di Venezia insieme a Mons. D’Este. Si trattava di studio e non certo di programmare un matrimonio misto.

L’incontro ebbe un risultato molto positivo e facilmente si prolungò nel tempo. Nonostante la forte minoranza valdese l’incipiente interesse interconfessionale si allargò sempre più a livello di base favorendo la conoscenza di diverse comunità cattoliche cittadine.

Stava maturando una nuova metodologia ecumenica -Dall'incontro con il "diverso" si passò all'informazione reciproca diretta man mano che da Roma e da Ginevra uscivano documenti orientati verso il confronto e la convergenza. Non c'è formazione senza informazione perché, come già si diceva alla conferenza di Losanna nel 1927, è necessario andare a scuola gli uni dagli altri.

In seguito a questi primi passi le presenze evangeliche agli incontri andavano lentamente allargandosi nella misura in cui si cominciava a transitare dal monologo al dialogo.

Don Pattaro ed io fummo invitati in molte altre località (Brescia, Chiari, Bassano, Treviso, Mestre e Pinerolo) Anche istituti, seminari (S. Massimo, S. Zeno, S. Bernardino di Verona) e università ci ospitarono per incontri con gli studenti o per colloqui internazionali (Roma).

L’editrice cattolica Morcelliana pubblicò una serie di mie conferenze, tenute durante il 1963 e l'AVE di Roma ristampò il Corpus Domini di Ugo Janni che, in Italia prima della seconda guerra mondiale, fu un precursore valdese dell'ecumenismo. In entrambi i casi le prefazioni erano di don Germano. Anche il piccolo Centro Evangelico di Cultura della comunità valdese di Venezia fece una larga diffusione di un opuscolo sulle "componenti del dialogo ecumenico". Era un'occasione per richiamare alla memoria i teologi protestanti più significativi che si erano impegnati nel dialogo e nel confronto con i sacerdoti cattolici. Più tardi, negli anni settanta, fu sollecitata una collaborazione tra la Claudiana (casa editrice protestante) e la LDC (casa editrice cattolica).

Al di là dei documenti ecumenici che uscivano da Roma e da Ginevra, i punti di riferimento di don Germano Pattaro e miei avevano una forte componente estera, ricca di una meditazione ecumenica approfondita e capace di tracciare nuove prospettive per il futuro. (Per don Pattaro: Y.Congar, J.B.Metz, H.U. Balthasar, K. Rahner. La mia scelta andava a favore di K. Barth, P. Tillich, R. Niebuhr, P. Lehmann, J. Dewey).

Bisognava tradurre o travasare la teologia contemporanea al livello delle comunità in base alla metodologia ecumenica emergente. L’accento cadeva sulla conversione a Cristo e non degli uni verso gli altri.

Nonostante l'opposizione a qualsiasi forma di curiosità, di superficialità, di "embrassons nous", di irenismo e di neutralità lo zoccolo duro dell'integrismo opponeva le sue resistenze temendo che l'ecumenismo, come conversione al Signore di quanti lo invocano, portasse ad una perdita della propria identità anziché ad un approfondimento della fede comune (2).

3. L'orizzonte ecumenico

È chiaro che l'interesse ecumenico ha un suo lungo e complesso retroterra. Per chi appartiene ad una forte minoranza, come gli evangelici italiani, il problema si pone fin dai primi anni di scuola, in cui il confronto con gli altri è inevitabile: Le polemiche sono spesso infantili, ma non esauriscono il discorso. Si formano anche amicizie che durano tutta una vita e che diventano molto apprezzabili quando gli antichi compagni di banco si ritrovano ad insegnare nelle università. Infatti agli incontri di studenti seguono anche riunioni di gruppo che discutono temi religiosi. I membri delle comunità evangeliche ne hanno fatto spesso l'esperienza anche se soltanto dopo aver familiarizzato con gli studi teologici ci si rende conto della complessità degli argomenti.

Nel 1943, a Trento,era stata significativa la formazione dei Focolarini. Venne organizzato un movimento in prospettiva ecumenica. Il successo enorme, ottenuto oggi su scala mondiale, rende merito all'impegno dei singoli membri. Se una critica è stata sollevata (così ancora all’assemblea di Graz, Austria, nel 1997) questa consiste nel fatto che, prima del Concilio Vaticano II, non era facilmente pensabile un'organizzazione interconfessionale indipendente dalla supervisione della chiesa.

Anche Venezia, sulla terra ferma, ha avuto (almeno fin dal 1958) i suoi momenti di confronto, soprattutto in riferimento al piano politico (3).

Nel 1963 la prof. Maria Vingiani incontrò don Germano Pattaro a Verona in occasione di esercizi spirituali e lo invitò ad offrirsi come esperto e consulente per la formazione dei gruppi ecumenici che stava progettando. Ancora una volta la via passò, ricalcando l'esperienza precedente, attraverso l'autorizzazione del cardinale Urbani. All'inizio non fu facile, ma il desiderio venne esaudito e il compito fu ancora affidato a don Germano Pattaro. A mia volta venni coinvolto dal teologo veneziano nel suo nuovo incarico. Avevamo così l'occasione di verificare insieme le metodologie ecumeniche che nel frattempo erano maturate a Venezia.

4. Segretariato Attività Ecumeniche

Intanto il 15 dicembre 1966 veniva costituito ufficialmente il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) che assumeva un carattere interconfessionale sia pure in assenza di firme evangeliche. Fu un momento decisivo per l'incontro delle chiese in Italia. La presenza evangelica alle riunioni di studio andava aumentando di anno in anno. Un’opera di promozione della prof. Maria Vingiani raggiunse risultati in continua crescita che andavano consolidandosi al di là delle stesse aspettative (4). Il contributo specifico della nostra esperienza veneziana fu espresso con la stesura dei "Principi metodologici" ( ancora attuali) che lo stesso don Pattaro trasmise allo stato di bozza cioè prima che assumesse la veste giuridica definitiva. Le sessioni ecumeniche registrarono un'espansione notevole passando dalla Mendola a Camaldoli, a Napoli e poi nuovamente alla Mendola. La presenza degli ebrei si fece sentire in maniera molto positiva e lentamente andava proponendosi anche l'avvicinamento alle altre "fedi viventi".

L'esperienza dei giovani, che partecipavano agli incontri, aveva richiamato la nostra attenzione sulla necessità di prestare maggiore ascolto al variare dei tempi. Nel parlare alle nuove leve non era saggio dare risposte a domande mai poste (così Paul Tillich). Era urgente promuovere innanzi tutto la formulazione delle domande dei partecipanti e soltanto in un secondo tempo organizzare le relazioni agli incontri.

La caduta del muro di Berlino segnò un momento molto significativo nel lavoro comune di ricerca che, affiancato all'interesse per le altre religioni, aprì prospettive nuove alla meditazione ecumenica.

Intanto Don Pattaro ed io eravamo stati impegnati in vie diverse. Pur essendo sempre accomunati dalla stessa prospettiva ( l'uno spesso a Roma, all'ombra di papa Luciani e l'altro alla prima Società Biblica interconfessionale nata in Italia), fummo costretti dalla cattiva salute del teologo veneziano a rallentare le attività sia come consulenti nazionali del SAE sia come esperti delle varie attività che erano emerse dal lavoro comune.

Il 27 settembre 1986 don Germano si spegneva.

Secondo le parole commemorative del patriarca di Venezia, don Germano aveva ricevuto il dono di una grande intelligenza e ne aveva fatto un servizio.

5. I rapporti con le chiese

L’esperienza internazionale, ampiamente verificata a Venezia, portava con sé la necessità di un continuo aggiornamento degli eventi ecumenici e richiedeva un'attenzione particolare riguardo alle filosofie e alle loro metodologie. Anche la scienza delle traduzioni andava evolvendosi. Per oltre trent'anni fui invitato a tenere corsi negli istituti veneti (S. Massimo, S. Zeno, S. Bernardino di Verona prima e di Venezia poi) di Parma, Bologna e Sorrento. La mia collaborazione ai Marianum di Roma è andata oltre i trent'anni.

L’ecumenismo veneziano ha rappresentato una svolta decisiva per tutto l'evangelismo italiano. L'interesse dei valdesi faceva eco a quello metodista con il past. Mario Sbaffi, a quello del past. Fausto Salvoni della Chiesa di Cristo a quello del past. Mario Affuso della Chiesa Apostolica Italiana e a quello del past. Enrico Paschetto della Chiesa Battista.

Le università di Sassari e di Milano avviarono un corso di formazione ecumenica sulla storia della Riforma protestante. Fui invitato nelle due città a tenere le lezioni che vennero in seguito pubblicate dall'Università di Sassari: "Dalla teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto».

6. La Società Biblica interconfessionale

L'esperienza precedente si riverberava sugli impegni futuri, relativi al lavoro biblico: altri quindici anni in missione in un contesto internazionale e volutamente ecumenico. Dopo vari sondaggi e consultazioni si arrivò al progetto di traduzione della Bibbia in lingua corrente (TILC), sulla scia delle altre nazioni e in conformità ai principi direttivi varati dal Vaticano e dall'Alleanza Biblica Universale il 2 giugno 1968. Trovati i candidati per la traduzione, i revisori e i consulenti il progetto fu approvato separatamente sia dalla Chiesa Valdese sia dalla Commissione Episcopale italiana.

Nel 1976 il Nuovo Testamento in lingua corrente fu consegnato alle rispettive chiese (era allora papa Paolo VI).

I tempi di Dio non sono segnati dal nostro orologio. Fu cosi che, dopo ottocento anni, un altro gruppo di valdesi, accompagnato dai collaboratori cattolici, tornò in Vaticano con traduzioni della Sacra scrittura m volgare, come si diceva allora o in lingua corrente come si dice oggi. Nel 1985 fu consegnata l’intera Bibbia (era allora papa Giovanni Paolo II). Da quel giorno le traduzioni comuni riguardano circa un migliaio di lingue parlate oggi nel mondo. La Società Biblica che rimane la più grande casa editrice del protestantesimo in Italia, stampa le Sacre Scritture approvate dall'Alleanza Biblica Universale e generalmente confermate secondo i principi direttivi, dalle Conferenze episcopali nazionali. Due milioni di copie vennero offerte ai giovani durante il giubileo dell'anno 2000.

Va detto che il lavoro svolto in quegli anni fino all'età della pensione non era un cammino in discesa. Bisognava "mendicare", come disse Lutero in punto di morte, ogni singola collaborazione ed ogni singolo sostegno. Erano gli anni di piombo non particolarmente aperti al dialogo.

Mi fu d'indispensabile aiuto mia moglie incaricata di mantenere i contatti con tutte le denominazioni e tutte le chiese. L'agenda dei lavori e la corrispondenza erano interamente nelle sue mani. Si trattava inoltre di partecipare alle assemblee più importanti organizzate dalla Società Biblica con le varie comunità.

Interessante fu la collaborazione con i pentecostali che, per principio, non possono allontanarsi da una traduzione biblica letterale. La TILC fu perciò adottata come primo commentario per capire le espressioni più ermetiche che potevano prestarsi ad un facile o spontaneo fraintendimento.

Per quanto riguarda la nuova traduzione essa rappresenta l’unico monumento ecumenico italiano del XX secolo, che toccava direttamente la carta costituzionale di tutte le chiese, la Sacra Scrittura. Più tardi si arrivò anche ad un documento comune sui matrimoni misti, firmati dalla C.E.I. e dalla Chiesa Valdese, che , secondo la tradizione protestante, sono temi da decidere innanzi tutto sul piano civile delle singole nazioni.

7. Uno sguardo al futuro

L'attuale comunione reale, ma imperfetta reciprocamente, tende a rafforzarsi non perdendo mai di vista la conciliarità. Si potranno prendere insieme e non più separatamente decisioni sempre più conformi alla visibilità della chiesa, una, santa, cattolica e apostolica evitando tentazioni captative o oblative delle singole identità confessionali. Non si può chiedere alla regina Elisabetta d'Inghilterra di iscriversi al partito repubblicano, né si può chiedere al presidente Ciampi di proclamarsi re d'Italia. Rimane quindi aperto il discorso sub Petro anche se la discussione sul primato torna su tutte le agende e impegna particolarmente gli ortodossi.

Nell'evoluzione delle metodologie occorrerà non perdere di vista il concreto e coerente nesso cristologico perché su questa base si potranno identificare gli elementi separanti da quelli compatibili con l'unità nella diversità.

Bisognerà evidenziare il sempre nuovo e invariabile fondamento della fede liberandolo dalle forme non più attuali e dovute alla variabilità del tempo e dello spazio, alle incrostazioni storiche e alla variegata sensibilità teologica dei continenti. Così già si è espressa la Dichiarazione Comune sulla giustificazione per fede firmata tra cattolici e luterani nel 1999.

Una moratoria sui valori ultimi che impediscono il dialogo interreligioso non dovrà cedere al secolarismo vuoto e colmo di idolatrie nascoste, ma potrà impegnarsi a coltivare con oculatezza quella secolarizzazione che cela in se stessa un segreto messianico: il Signore che provvede alla salvezza degli uomini "secondo vie a lui solo note". All'assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tenutasi a Canberra nel 1991, siamo stati resi attenti ai doni dello Spirito che possono essere presenti anche nelle altre religioni, perciò dobbiamo anche saper imparare da loro.

Insieme dovremo saper affrontare i temi della giustizia, della pace, e della salvaguardia del creato, già proposti alla nostra attenzione dall'assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tenutasi a Vancouver nel 1983.

Il profeta Isaia ci ricorda che il Signore "sarà il giudice delle genti e l'arbitro dei popoli. Trasformeranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci. Le nazioni non saranno più in lotta tra di loro e cesseranno di prepararsi alla guerra" (Isaia 2,4).

Note

1. Valdo Vinay, Storia dei Valdesi III, Claudiana, Torino 1980, p. 465.

2. Cfr. Roberto Giraldo: Inaugurazione anno accademico 2002-2003.

3. Cfr. Maria Vingiani: Un’esperienza di ecumenismo locale. Memoria storica. In Atti del Sae, Edizioni Dehoniane, Bologna 1988: “A Venezia si era tutto spento per la mia partenza e l’avvicendamento dei pastori locali...”.

4. Cfr. Renzo Bertalot: Per dialogare con la Riforma, L.I.E.F., Vicenza 1989. dalla dedica: “All’infaticabile Maria Vingiani, con l’augurio che il servizio del SAE continui per lungo tempo”.

(da Aa.vv., Fede e cultura, Quaderni di Studi Ecumenici n. 8, I.S.E. Venezia, 2004, pp. 155-165)

La vita, la sofferenza, la morte
nella visione ortodossa

di Vladimir Zelinskij




Condividere il patimento con Cristo

Cominciamo con la premessa: l’ortodossia è tutt’altro che una confessione eudemonica. Non crede che la felicità terrena, il successo di qualsiasi tipo, la vita tranquilla e non turbata risulti dalla fede cristiana e dall’amore per Cristo. Anzi, la sofferenza, inseparabile da questa vita, viene considerata come partecipazione alla croce. “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”, dice san Paolo (Col. 1, 24). Non direi, certo, che tutti gli ortodossi - compresi i ministri del culto - vivano così, ma il bene spirituale della sofferenza subita e sopportata da noi, sia fisicamente che moralmente, è come se fosse inscritta nel nucleo della fede ortodossa.

Basta ricordare gli innumerevoli eremiti, i padri del deserto, le Tebaide dell’Egitto e della Russia del Nord, ma anche l’ascetismo quotidiano dei semplici credenti che rispettano più o meno fedelmente i lunghi e assai pesanti digiuni, come, ad esempio, l’attuale Quaresima (uno di quattro digiuni dell’anno liturgico, più tutti i mercoledì ed i venerdì). Nella Chiesa ortodossa non c’è una differenza fra la spiritualità dei monaci e quella dei laici; tutti sono chiamati al sacrificio che si esprime nella rinuncia a certi desideri del corpo, ma anche dell’anima. (Il digiuno riguarda non solo il cibo senza proteine, cibo di cui non è raccomandabile mangiarne a sazietà, ma tutta la parte corporale, vita coniugale compresa, al pari di qualsiasi divertimento, le visite, gli spettacoli, i programmi televisivi - tranne le notizie -, ecc. Tutto questo per partecipare – anche in modo simbolico - al cammino di Cristo che va verso la Sua crocifissione e Risurrezione). Il digiuno è lo scopo in sé; ma anche il modo di alleggerire il corpo affinché lo spirito possa spiegare le ali. È chiaro che la mentalità formata dallo spirito ascetico accoglie anche la sofferenza. Si ricorda spesso le parole della Lettera agli Ebrei :

Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore, e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da Lui; perché‚ il Signore corregge colui che Egli ama e sferza chiunque riconoscere come figlio (12, 5).

La correzione del Signore, cioè la sofferenza che cade su di noi, è un segno di benedizione, essa compie il lavoro della purificazione che ci prepara all’incontro col Dio crocefisso e, forse, ci salva dalle prove nell’aldilà. Questo pensiero o consiglio si può trovare in tantissimi scritti dei padri della Chiesa, nei padri spirituali recenti e contemporanei, i quali rimangono sempre attuali. Anche nella percezione ortodossa dell’inesauribile immagine di Cristo troviamo i due tratti più sottolineati e più importanti per la devozione popolare: Cristo Risorto nella Sua gloria celeste e Cristo che si umilia, si spoglia della sua gloria, il quale “disprezzato dagli uomini... si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”, come dice Isaia (53). La fede ortodossa chiama a imitare Cristo non tanto dall’esterno quanto a vivere in Cristo nel proprio intimo, nel proprio cuore, fosse anche nella propria sofferenza. Condividere i patimenti con Cristo è un modo di vivere la comunione spirituale, quasi un sacramento dell’anima.

La fiducia nella Provvidenza

Un altro componente importante per la fede ortodossa - quando essa è veramente creduta e seguita - è la fiducia totale nell’azione di Dio, nella Sua Provvidenza. Non ci sono le circostanze sfavorevoli che non vanno d’accordo con i nostri piani, ma c’è sempre la mano del Signore che ci guida, che ci corregge, che ci porta alla salvezza, spesso attraverso dure prove. Anche quando si tratta di sofferenze insopportabili, secondo la fede nella stessa Provvidenza, a nessuno Dio manda la croce che non sarebbe capace di prendere sulle proprie spalle. Se il dolore fisico o morale è così forte, allora anche tu sei ancora più forte per affrontarlo. La cosa più importante è di non perdere mai la fiducia. In qualsiasi caso non sono io, ma è il Signore della vita e della morte, della gioia e della sofferenza, che decide e il cristiano è chiamato ad ubbidire.

Da questi orientamenti assai generali proviene anche la visione ortodossa della “spiritualità bioetica”. Il problema, come anche il termine stesso, è nuovo per l’ortodossia e praticamente importato dall’estero, cioè dalle confessioni occidentali, dalle cosiddette Chiese sorelle. Sappiamo che tra queste Chiese sorelle negli ultimi anni sono venuti fuori tanti problemi nuovi e si sono aggravati i vecchi, ma se esiste un unico spazio dove non c’è discussione, non c’è opposizione, almeno con la Chiesa cattolica, è per l’atteggiamento nei confronti della vita e della morte. La differenza è nei dettagli. Se, per esempio, la difesa della vita fin dal concepimento nella Chiesa cattolica cerca di appoggiarsi sul ragionamento scientifico, che, come si crede, debba essere normativa per tutti, per la sensibilità ortodossa è più importante sottolineare la partecipazione immediata di Dio nella creazione della vita nuova. L’amore manifestato nella creazione dell’essere umano prevale sulla logica del programma dello sviluppo dell’embrione. Dal punto di vista razionale s’impone sempre la domanda: perché dobbiamo dare la preferenza ad un mucchio di cellule davanti ad una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare malattie finora incurabili? L’ortodossia potrebbe rispondere così: colui che in qualsiasi caso è più forte - poiché ha avuto la sua vita, anche se non piena (e, come diceva uno dei personaggi di Dostoevsky, “ha già mangiato la mela”) - è chiamato a non impedire a un essere umano infinitamente più debole (che non ha vissuto, ch’è ancora innocente), di entrare nella vita,. La venerazione della vita nascente fa parte della fede ortodossa la quale crede che ognuno di noi sceglie da solo il peccato di Adamo, ma Dio ci crea senza peccato.

Prima di tutto, la vita, la morte, la sofferenza non sono "problemi" per i quali dobbiamo trovare una buona soluzione ortodossa accanto alle soluzioni cattoliche, protestanti o laiche, ma appartengono piuttosto al mistero del rapporto umano col Creatore. Il termine "bioetica", però, ci costringe già a una certa scelta, ad un primato semi-nascosto della razionalità morale dell'uomo e della sua certezza di rispondere al mistero della vita. Per questo motivo il modo di vedere rivolto al mistero della creazione, che è proprio dell'ortodossia, si perde davanti alla necessità di risolvere questi "problemi" che in verità non sono niente altro che un'espressione tecnica e razionale della volontà di dominare ciò che Dio aveva creato.

Questa lunga introduzione al nostro tema serve a preparare il terreno per capire o per sentire prima la posizione spirituale al cui interno si pongono e si risolvono le sfide dell’etica della vita nella prospettiva ortodossa. L'attività della mente umana è profondamente segnata dalle cose che sono, secondo San Giovanni, "nel cuore di ogni uomo". Ogni conoscenza ottenuta nel lavoro intellettuale riflette in sé il Verbo che "era al principio con Dio", ma nello stesso tempo l'uomo cerca di fare della sua conoscenza uno strumento di dominazione su tutto ciò che è stato creato e messo a sua disposizione.

Questo confronto nascosto nello spirito umano e nella sua conoscenza si manifesta così fortemente in nessun altro luogo come in quelle scienze che assumono l'uomo stesso e tutto ciò che lo riguarda come oggetto. Prima di fare un atto iniziale della conoscenza scientifica l'uomo, nel suo spirito, fa la scelta per lo scopo della sua ricerca. Ogni volta bisogna fare la scelta fra due chiamate: l’amore di Dio che ci interpella - con il silenzio nello spirito - e la tentazione di essere come Dio, di imitare il Suo potere sulla creazione - che si fa vivo con il rumore del mondo. Cosa può scegliere il pensiero dello studioso: l’ascolto della Parola o la rivalità con la Parola? La fede, infatti, è una risposta alla Parola immessa nella vita di una persona - dunque anche nella vita degli altri - ma la Parola, in questo caso, significa azione di Dio nella vita umana.

Per esempio, per quanto riguarda lo statuto dell’embrione, il pensiero laico insiste nell’affermare che il concepito non è ancora un io e non può essere trattato come tale; diventerebbe un io alla fine della gravidanza. “Il bambino concepito oggi non è lo stesso che sarebbe concepito fra un mese, - dice un genetista, - quindi nessuno di noi può pensare l'aborto come soppressione del proprio io e di un io in genere... La difficoltà ad accettare l’aborto è commisurata con la nostra difficoltà ad accettare il carattere casuale della nostra esistenza, l'assoluta contingenza del nostro io”.

Il cuore del problema è qui. Se noi siamo "gettati" in un pasticcio di contingenze dal nostro concepimento fino alla nostra morte, che, giustamente, dovrebbe essere chiamato "assurdo" - assurdo totale e senza speranza, che ci può portare solo alla morte - o se noi entriamo nel mistero altrettanto assoluto che si trova al fondo della nostra esistenza. Questo mistero è aperto, rivelato; esso ci apre alla presenza di Dio, non come una certa idea della Trascendenza, ma come Provvidenza, come Persona che rimane con noi ogni istante della nostra vita. Soprattutto nel momento della creazione della vita nuova e nella sofferenza. Non credo che la bioetica sia capace di oltrepassare questa scelta iniziale. Nessuna norma morale può costringerci a scegliere la vita in qualsiasi circostanza se questa vita non è riempita dalla stessa Presenza che noi portiamo in noi stessi, dalla stessa Presenza in cui crediamo e che ci si dà come vita eterna...

Dio e il concepimento: il primo incontro

Il fondamento della venerazione della vita nell'ortodossia è strettamente biblico. L'uomo scopre Dio nell'atto della sua propria creazione: prima della propria nascita l'uomo incontra lo sguardo dell'amore. La fede, tra l'altro, significa memoria accesa del mio inizio, quando io non avevo ancora alcuna memoria umana. Così dice il famoso Salmo 139(138) :

Sei Tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le Tue opere, Tu mi conosci fin nel profondo... non Ti erano nascoste le mia ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i Tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro.

La creazione dell'uomo è un atto d'amore che continua, che ha inizio ma non ha fine. Nella scoperta di questo amore l'uomo trova se stesso, il proprio "io" prima dell'"io", il nucleo della sua personalità come figlio che Dio ha creato per sé. Ma per chi è "figlio di Dio", il significato più profondo e originario dello statuto di figlio è di essere creato, amato, chiamato alla vita. La figliolanza divina, dunque, è la caratteristica più importante dell'essere umano, e la persona già esiste nell'amore, nel pensiero, nella memoria di Dio ancor prima della nascita della sua coscienza. Ma anche dopo il suo tramonto, anche nella sofferenza davanti a Dio. In più: quando la nostra personalità non ha trovato ancora il suo proprio "io" (o l'ha già perso), cioè finché questo "io" dell’essere nascente, appena creato, non ha costruito il suo modo di essere per sé - chiuso, in parte separato da Dio a causa del suo peccato - la presenza dell'amore si manifesta nel modo più visibile e più misterioso.

Dove si trova questo “io” autentico? Non crediamo che si tratti dell’“io” del cogito cartesiano, ma dell’“io” che proviene dal sum di Dio. Dio è il Creatore che s’intrattiene con le Sue creature. L’uomo esiste perché esiste Dio che ha messo la goccia della Sua presenza, della Sua luce a fondamento della nostra esistenza. “Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv. 1,9). Se crediamo davvero in queste parole, non possiamo prenderle come metafora. La luce che entra nella nostra esistenza produce il vero deposito della nostra personalità. Quell’”io” creato da Dio è qui. Con la creazione di ogni essere umano (ed in un altro senso: di tutto ciò che “respira”) l’“io” vero (che non conosce il suo destino, non conosce ancora niente, tranne l’amore di Dio che l’ha chiamato dal nulla e costruisce il suo futuro corpo), si sviluppa secondo il suo piano, secondo il “programma” messo in noi insieme con la luce, nel Suo atto creatore. Dopo la nascita, dopo l’infanzia, con la perdita della nostra innocenza quando entriamo nel mondo diviso fra l’“io” e gli altri oggetti, nel mondo in cui ogni “io” vuol diventare il padrone di tutto ciò che si presenta davanti ai propri occhi, l’“io” del Verbo, l’“io” iniziale della luce che ci illumina si ritira nell’ombra. Diciamo che esso si addormenta, ma che può essere risvegliato al momento della sofferenza, a volte estrema, nell’ora dell’agonia e della morte. In quel momento osiamo dire: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi" (1 Gv.4, 16) e se tale è la nostra fede, come possiamo non vedere in ogni atto di concepimento un sacramento della creazione del microcosmo che nasce dal nulla e dall'amore ed in ogni sofferenza la partecipazione alla croce? Dio e la morte: l'ultimo incontro Se la vita è sacra come opera prediletta da Dio fin dall'inizio, essa non perde alcuna parte del proprio valore neanche alla fine. Al contrario, il nostro "tempo finale" è il momento più significativo nel nostro cammino, il cui senso nascosto o rivelato è il nostro dialogo con Dio. La morte ci offre l'ultima possibilità di dire la nostra parola definitiva a Dio, ma anche Lui può cogliere il momento dell'estenuazione fisica per la sua ultima entrata nella nostra anima non ancora separata dal corpo. L'ortodossia ha un atteggiamento speciale verso la morte o piuttosto verso il modo in cui l'uomo va incontro alla propria fine. "I giorni sono fissati", ma la testimonianza più sicura ed autentica della fede è l'umiltà e la gratitudine con cui l'uomo accetta la propria morte, nel modo in cui non gli risulta difficile e pesante. Per l’anima ortodossa la morte troppo facile, troppo breve (o "dolce" come diciamo oggi), è sempre esposta al sospetto, perché questa "dolcezza" ruba all'uomo - ma anche a Dio - il mistero del loro ultimo incontro sulla terra. Il senso di questo mistero è l'annuncio dell'amore divino attraverso la penitenza umana. Questo annuncio, tranne per il suo contenuto sconosciuto, aperto solo all'anima morente, è portato dai due sacramenti che la Chiesa propone: l'estrema unzione e la comunione (ed in caso della necessità anche il battesimo). È con l'annuncio, che significa anche perdono, che l'uomo va all’incontro con Dio nella "vita del secolo futuro".

Ma la morte non è solo la fine della nostra vita. La morte fa anche parte della nostra esistenza quotidiana, anzitutto come avvenimento spirituale della p r e p a r a z i o n e e la memoria della morte non è separabile dalla vita della fede. Ogni liturgia ortodossa ripete almeno tre volte la supplica per una morte "senza vergogna" e "pacifica". "Senza vergogna" vuol dire che l'uomo non deve essere lasciato con il disonore della sua vita spiritualmente perduta. "Senza vergogna" e, se possibile, anche senza sofferenza in senso fisico, “però non, come voglio io, ma come vuoi Tu” (Mt. 26,39). Come ha detto Paul Claudel, esprimendo un pensiero veramente patristico: Il Cristo è venuto non per liberarci dalla sofferenza ma per riempirla di se stesso. Questo riempimento,per la fede, significa la Croce. L'uomo non deve scappare dalla sua croce che è un altro momento della comunione che porta alla salvezza. E come può egli rinunciare alla croce nel minuto più solenne, più "cristico" della sua vita? Quale posto possiamo trovare per l'eutanasia in questa visione della morte? Senza parlare della "morte dolce" del povero corpo umano che ha perso già tutto (la coscienza, la possibilità di muoversi, di parlare, di rispondere almeno con i propri occhi), l'ortodossia confessa la sua fede nell'anima che continua a vivere in modo molto fermo e semplice; come abbiamo detto, la Chiesa dà i sacramenti a questo corpo. Sappiamo poco della vita dell’anima morente, ma crediamo alla vita di questa anima. Il sacramento è un vincolo con le "cose... che non si vedono" (Ebr. 11,1). Perché queste cose nascono già qui, sulla nostra terra, nella nostra anima e fino all'ultimo momento non sappiamo dell’esito della propria vita. Sappiamo che il corpo è ancora animato, che lo spirito dell'uomo non ha ancora finito il suo cammino e, dunque, anch'esso ha il diritto, il dovere, la sete di unirsi con il suo Signore nel sacramento del Suo Corpo e del Suo Sangue. E il Signore può risvegliare quest'anima, portarla alla vita; fino all'ultimo instante il miracolo della guarigione è possibile.

Non si tratta di un'impostazione puramente teologica ma dell'esperienza reale, attestata da moltissimi testimonianze di santi e di gente comune. Persino uno scrittore così lontano dall'ortodossia come Lev Tolstoi, nella sue descrizioni veramente geniali della morte (la morte del principe Andrei in "Guerra e Pace", il racconto "La morte d'Ivan Il'ic" ed altri testi ancora) ha saputo vedere, indovinare nei minuti terminali della vita un'ultima illuminazione (che noi chiameremmo "la grazia") e che si mostra infinitamente più importante di tutta la vita precedente. L'eternità entra in questa fessura che la morte che si avvicina apre in quella corazza attraverso cui passa la nostra esistenza quotidiana mentre il nostro "io" autentico ed eterno (che non è quello cartesiano!) appare nudo davanti al suo Dio - finora, forse, ancora sconosciuto. Mi ricordo una testimonianza straordinaria di Padre Serghij Bulgakov (1871-1944, grande teologo, filosofo, pubblicista). Egli è riuscito a descrivere la propria agonia, dalla quale era sopravissuto. Nel suo saggio “La sofiologia della morte” P. Bulgakov parla con incredibile realismo spirituale della presenza di Cristo nella sua sofferenza. “Io stavo per morire e Cristo stava per morire in me. Con lo stesso grido al Padre: “Perché mi hai abbandonato?” Era un autentico momento della comunione con Cristo nella Sua morte sulla croce. Ma questa sofferenza con Cristo è anche il messaggio della salvezza”.

“Sulla mia fine decido “io!”

Togliersi la propria vita, con il suicidio - anche il suicidio come semplice fuga dalle sofferenze - è stato considerato dall'ortodossia come il fallimento umano più grave, il peccato senza possibilità di penitenza. Fino ai nostri giorni la Chiesa non poteva neanche fare il funerale religioso per colui che deliberatamente si era tolto la vita. La pratica ecclesiale dei nostri giorni è in realtà meno severa, ma la norma che riflette i principi ed è fissata negli antichi canoni rimane la più ferma ed inflessibile.
Finora abbiamo parlato solo della dimensione verticale, "mistica", ma esiste anche un'altra dimensione, quella dell'etica della persona che uccide e della società che se ne prende la responsabilità. Abbiamo già parlato della possibilità della globale strumentalizzazione dell'uso della morte. La morte imposta da un altra persona, per quanto sia dolce il modo in cui venga confezionato rimane sempre un'uccisione e l'uccisione significa l’uso di un potere che non può appartenere all'uomo. Un medico, un amico, un parente del malato - chiunque sia la persona chi prende la decisione finale - diventa per forza un ladro del potere divino. E questo ladro, in qualsiasi momento, può essere sostituito da un altro ladro, molto più pericoloso, come, ad esempio, un gruppo potente della politica, del mondo finanziario o come lo Stato con un suo progetto di dominazione totale, aperta o nascosta.

Ma, forse, lo stesso malato, il condannato a morte, ha il diritto di decidere la propria fine? La comunità umana, però, non deve mai essere sua complice. Per la fede ortodossa Dio agisce anche nella morte della persona umana, e noi non abbiamo nessun diritto per cacciarlo via, poiché "la potenza di Dio infatti si manifesta pienamente nella debolezza" ("Cor. 12, 9).

C'è un altro aspetto spirituale non meno importante. La malattia e la morte, nella visione cristiana, sono visti come castigo a causa del peccato. L'uomo deve combattere la malattia, ma egli non è capace e non sarà mai capace di abolire la morte con i suoi sforzi. La sua unica possibilità cristiana è la morte con Cristo e in Cristo e, a volte, come Cristo, nell'agonia e con terribili sofferenze. "Soffro molto, ma con amore", disse il morente Papa Giovanni XXIII. Una tale morte "con amore" ed in Cristo è vista dall'ortodossia come una morte santa. Il concepimento e la morte sono due figure dell'incontro con Dio che dona la vita terrena e quella nell'eternità. E se l'uomo non può evitare la prima, per lui non deve mancare neanche la seconda. Anche con tutte le sofferenze imposte alla fine. In più: lui è chiamato a questo ultimo incontro con la Croce di Cristo. La vita umana ha due confini: il sacramento della creazione ed il mistero della Croce. Lo spazio entro questi confini appartiene alla sua libertà, rispettata anche da Dio, ma in questi confini sacri comincia già la libertà di Dio e l'uomo deve rispettarla a sua volta.

L’ideologia della morte che sta diffondendo nella società odierna si può esprimere con uno slogan: “Sulla mia fine decido “io!”. No, l’uomo può decidere solo sul suo suicidio, la fine della vita appartiene a Colui che l’ha creata. “Decido io”; con il mio “io” piccolo ed orgoglioso è la traduzione nuova della vecchia promessa “sarete come Dio”. Unica “dolcezza” che ci è consentita nella morte è il rispetto della libertà di Dio e la totale fiducia nella Sua sapienza.

Non si tratta di condannare la scienza che cerca di proteggere l’uomo dalle sofferenze; anzi, nonostante tutte le tentazioni, a volte anche diaboliche, la conoscenza umana porta in sé una luce, costituisce un riflesso della saggezza iniziale del mondo, di quella saggezza posta in tutta la creazione fin dalla sua origine. Si tratta di quella concezione della saggezza che il pensiero ortodosso ha sempre valorizzato e caratterizzato il trascendente ed inaccessibile ed il mondo creato. Nella saggezza Dio si dona alla Sua creazione, la riempie con le Sue energie, la investe della Sua presenza. Nella saggezza Dio continua sempre il Suo atto creatore, continua la Sua fecondazione con i suoi "pensieri", continua la Sua opera di formazione delle creature con il Suo amore. "Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con l'intelligenza" (Pr. 3,19). E lo spirito umano vede, percepisce questa saggezza della creazione, che non è altro che la manifestazione dell'amore stesso di Dio nella bellezza della Sua opera. Quando la conoscenza umana si rivolge alla saggezza, l'ascolta, la riceve e l'apre in sé, tale conoscenza diventa santa. Ma quando la conoscenza contesta la saggezza di Dio, la caccia via o la deride, essa diventa una serva del diavolo.

In questo senso ogni scienza ha una vocazione inerente all’essere un insegnamento per l'uso della saggezza o per il dialogo umano con "l'amor che move il sole e l'altre stelle". La scienza può diventare una visione "dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose", come dice S. Isacco, il Siriano. Certo, più spesso essa preferisce violarli e utilizzarli come fa il quartier generale di un esercito che utilizza i segreti militari del nemico. Ma tutti questi segreti, che vengono anche strappati e decifrati, non sono nient'altro che piccolissimi pezzi dell’inesauribile mistero dell'amore - che è un'altro nome della saggezza. E se noi possiamo parlare di saggezza della bioetica, essa comincia dove inizia il cristianesimo: la Parola si è fatta carne. Con l'atto dell'Incarnazione non soltanto il grembo della Santa Madre di Dio - che era stata santificata - ma anche tutta la carne del mondo riceve la sua benedizione, la sua Parola nascosta in ogni creatura. La Parola è dappertutto, nei semi delle piante come nell'embrione umano. Questa Parola non tace, Ella cerca di parlare con noi, ci chiama, vuole entrare in dialogo con noi. "Il mistero dell'Incarnazione della Parola - dice S. Massimo, il Confessore - contiene in sé tutti i significati delle creature..."

L'Incarnazione però è il passo decisivo nella storia della salvezza, storia che non si ferma qui. Questa storia prosegue con la vita, sulla terra, della Parola incarnata, della sua trasfigurazione, della sua morte sulla Croce, della Sua Risurrezione...: "Chi conosce il mistero della Croce e della Tomba” - continua S. Massimo - conosce anche la "ragione delle cose" che nell'ambito della bioetica si apre nell'Incarnazione, cioè nell'adozione di tutto il genero umano nella persona di Cristo. E tutto ciò di cui abbiamo parlato prima: l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica, nella storia di Cristo acquista un senso nuovo...

Possiamo esprimere la risposta ortodossa ai problemi vita, della morte e della sofferenza con l'esortazione di S. Paolo: "in ogni cosa rendete grazia" o nella traduzione letterale: "Fate eucarestia in tutte le cose" (1Tes. 5,18). Questa impostazione eucaristica di fronte alla sfida della conoscenza che sta crescendo senza sosta si fa nell'unione della lode, dell'ammirazione, del mistero. "Fare eucarestia": nella vita di un essere umano significa non soltanto il rispetto della vita, ma la sua venerazione e la sua santificazione, come un miracolo intelligente, fatto da Dio, come l'espressione della Sua saggezza. Accettare la saggezza (che è un altro volto dell'amore) in qualsiasi persona umana (anche nell'andicappato, nel vecchio morente, senza parlare dell'embrione creato dalla saggezza stessa nel grembo della madre) come noi la accettiamo e la riceviamo nei doni consacrati è la sola risposta cristiana alle sfide della sofferenza e della morte, ma anche per la festa della vita.

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