Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

1. Il silenzio grembo in cui prende vita la preghiera e l’intera celebrazione

La prima cosa che viene in mente parlando del silenzio è di pensare a un tempo o un luogo caratterizzato dall'assenza della parola, dei rumori e delle relazioni; l'immagine che si accompagna è quella del vuoto, della solitudine... In realtà il silenzio è il grembo da cui nasce la parola carica di verità, da cui sgorga la preghiera. Fare silenzio è accingersi a pregare, è dare inizio alla preghiera.

Possiamo anche dire che il silenzio è il grembo da cui nasce e in cui si sviluppa la celebrazione. Eravamo soliti incominciare il Sal 65 (64) dicendo - seguendo il testo greco -: «A te si deve lode, o Dio, in Sion». La nuova traduzione CEI, facendo riferimento al testo ebraico, ci fa pregare dicendo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion». Secondo questa formulazione, parafrasando, potremo dire: «Per te il silenzio è eucaristia, o Dio, in Sion (nella chiesa)».

Non fa meraviglia perciò che, a differenza del Ritus servandus in celebratione Missae del Messale tridentino, il nuovo Ordinamento Generale del Messale Romano (= OGMR), frutto della riforma liturgica del Vaticano II, richiami ripetutamente lungo l'intera celebrazione al valore del silenzio: cfr. OGMR 43,45,51,54,55,56, 66, 71,78,84,88, 127, 128, 130, 136, 147,164,165,271. Ripercorrendo queste indicazioni rubricali possiamo parlare di “silenzi dell'eucaristia”.

2. I silenzi dell'eucaristia

La linguistica ci insegna che una parola o un gesto, a seconda del contesto in cui viene a trovarsi inserita, amplia o restringe il suo significato1. Questo avviene anche per il silenzio: a seconda del momento in cui 'si fa silenzio', esso si carica di un particolare significato e contribuisce a dare un senso all'intera sequenza rituale. Ce lo ricorda l'OGMR formulando una indicazione generale:

Si deve anche osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l'atto penitenziale e dopo l'invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l'omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione (OGMR 45).

A prima vista questo testo sembra dare al silenzio un significato puramente funzionale; in realtà è proprio per il suo collocarsi in quel preciso momento, in quella sequenza rituale, che riceve e dà senso a essa. Per rendercene conto prendiamo in esame alcuni dei silenzi che sono previsti per la celebrazione dell' eucaristia.

2.1. Il silenzio della preparazione

Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione (OGMR 45).

Questo silenzio ha come soggetto il luogo e le persone. È un silenzio liminale, cioè che fa da confine, da soglia. Anche chi è entrato nella chiesa, ha cioè varcato fisicamente la soglia, deve intraprendere quel cammino che lo porta dal 'rumore' al silenzio interiore. Questo silenzio dà avvio a un movimento, quello dell'entrata nella celebrazione: movimento fisico è movimento del cuore e della mente. Fa spazio all'attesa dell'incontro con Dio e con gli altri (assemblea).

Attualmente si fa poca attenzione a questo silenzio; in questo modo si pregiudica l'avvio della celebrazione, che nasce da questo primo silenzio.

2.2. Il silenzio dei peccatori

Dopo il saluto iniziale, il sacerdote invita all'atto penitenziale dicendo: «Fratelli, prima di celebrare i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati»; «Dopo una breve pausa di silenzio, viene compiuto da tutta la comunità mediante una formula di confessione generale» (OGMR 51).

Questo silenzio porta a una presa di coscienza di trovarsi davanti ai 'santi misteri' che l'eucaristia racchiude e sta per ripresentare; conseguentemente fa scoprire la nostra situazione di peccatori da cui nasce la domanda di perdono. Infatti quando l'uomo si trova davanti a Dio e al suo mistero, scopre il suo stato di peccatore; avvenne così per Isaia che disse: «Ohimè, sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,5). Lo è stato anche per Pietro; davanti alla pesca miracolosa egli si getta alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8s.).

2.3. Il silenzio che genera la preghiera

Chi viene alla messa porta con sé un mondo inespresso - problemi, aspirazioni, ricerche... - che attende di poter emergere. Per questo l'OGMR dice che, dopo l'atto penitenziale ed eventualmente il canto del Gloria:

Il sacerdote invita il popolo a pregare e tutti insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera. Quindi il sacerdote dice l'orazione, chiamata comunemente 'colletta', per mezzo della quale viene espresso il carattere della celebrazione (OGMR 54).
Il sacerdote invita il popolo alla preghiera, dicendo a mani giunte: Preghiamo. E tutti insieme con il sacerdote pregano, per breve tempo, in silenzio. Poi il sacerdote, con le braccia allargate, dice la colletta; al termine di questa, il popolo acclama: Amen (OGMR 127).

Questo silenzio, in cui è inserita la colletta, è orientato a «prendere coscienza di essere alla presenza di Dio» e a dare la possibilità di «formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera», che vengono poi raccolte (di qui 'colletta') da chi presiede in un'unica orazione, conclusa con la partecipazione di tutti mediante «l'acclamazione Amen».

2.4. Il silenzio dell'ascolto e della meditazione

L'OGMR, descrivendo la sequenza della liturgia della Parola, richiama ripetutamente la necessità del silenzio, prima, durante e dopo la proclamazione; è un silenzio fecondo, perché da esso sgorga la risposta orante, la professione di fede, la preghiera dei fedeli, l'offerta del sacrificio spirituale del credente.

Le letture scelte dalla sacra Scrittura con i canti che le accompagnano costituiscono la parte principale della liturgia della Parola; l'omelia, la professione di fede e la preghiera universale o preghiera dei fedeli sviluppano e concludono tale parte. Infatti nelle letture, che vengono poi spiegate nell'omelia, Dio parla al suo popolo, gli manifesta il mistero della redenzione e della salvezza e offre un nutrimento spirituale; Cristo stesso è presente, per mezzo della sua parola, tra i fedeli. Il popolo fa propria questa parola divina con il silenzio e i canti, e vi aderisce con la professione di fede. Così nutrito, prega nell'orazione universale per le necessità di tutta la chiesa e per la salvezza del mondo intero (OGMR 55).
La liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento, in essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all' assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l'aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera. Questi momenti di silenzio si possono osservare, per esempio, prima che inizi la stessa liturgia della Parola, dopo la prima e la seconda lettura, e terminata l'omelia (OGMR 56).

 Alla fine [della lettura] il lettore pronuncia l'acclamazione «Parola di Dio» e tutti rispondono «Rendiamo grazie a Dio». Quindi si può osservare, secondo l'opportunità, un breve momento di silenzio affinché tutti meditino brevemente ciò che hanno ascoltato (OGMR 128).

Se c'è una seconda lettura prima del vangelo, il lettore la proclama dall'ambone, tutti stanno in ascolto, e alla fine rispondono con l'acclamazione. Poi, secondo l'opportunità, si può osservare un breve momento di silenzio (OGMR 130).

È opportuno, dopo l'omelia, osservare un breve momento di silenzio (OGMR 66).

Il sacerdote... pronuncia l'omelia, al termine della quale si può osservare un momento di silenzio (OGMR 136).

Il popolo invece, stando in piedi, esprime [nella preghiera dei fedeli] la sua supplica con una invocazione comune dopo la formulazione di ogni singola intenzione, oppure pregando in silenzio (OGMR 70).

In questi testi intravvediamo una pluralità di funzioni e di significati del silenzio, a seconda di dove viene a trovarsi inserito.

C'è il silenzio prima della parola: è il silenzio della disponibilità all'accoglienza. Ancor prima di essere possibilità di riflessione, il silenzio è qui spazio per l'ascolto, per l'accoglienza senza pregiudizi, per la disponibilità libera dalla presunzione di sé. Il silenzio, così inteso, può paragonarsi a quel terreno buono di cui leggiamo nel vangelo (Lc 8,8) capace di ricevere il seme della parola di Dio.

C'è il silenzio durante e dopo la parola: è il silenzio della 'meditazione'. Chi ascolta fa come Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19), cioè ricercandone il senso per la vita propria e della comunità.

In questo silenzio matura la riposta a Dio che ci ha parlato: il Credo (OGMR 67s.), la preghiera dei fedeli (OGMR 70), l'offerta (preparazione dei doni), l'azione di grazie (Preghiera eucaristica). L'insistenza dell'OGMR nel sottolineare i momenti di silenzio lungo tutta la sequenza della liturgia della Parola sta a indicare che essa deve essere immersa in un clima di silenzio.

2.5. Il silenzio dell'offerta e della glorificazione

Secondo l'OGMR il popolo accompagna la Preghiera eucaristica con il silenzio:

Il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell'azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa preghiera è che tutta l'assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell'offrire il sacrificio. La Preghiera eucaristica esige che tutti l'ascoltino con riverenza e silenzio (OGMR 78).
La Preghiera eucaristica esige, per sua natura, di essere pronunciata dal solo sacerdote, in forza dell' ordinazione. Il popolo invece si associ al sacerdote con fede e in silenzio, e anche con gli interventi stabiliti nel corso della Preghiera eucaristica (OGMR 147).

In questo silenzio il popolo è associato «per Cristo, con Cristo e in Cristo» all'azione di grazie per le 'grandi opere di Dio', all'offerta del sacrifico, alla glorificazione di Dio. È davvero un 'sacro silenzio', il silenzio dell'offerta e della glorificazione di Dio, in un atteggiamento adorante.

2.6. Il silenzio della fede e dell'adorazione

Dopo aver pronunciato le parole dell'istituzione, prima sul pane e poi sul vino, il sacerdote, in silenzio, presenta al popolo le specie eucaristiche, poi genuflette in segno di adorazione e conclude proclamando «Mistero della fede!». L'assemblea resta in silenzio e durante l'ostensione del pane e del vino consacrati, professa la sua fede nella presenza del Signore morto e risorto; vi è un suggerimento al riguardo: guardare le specie eucaristiche nel momento dell'ostensione e fare propria la professione di fede di Tommaso dicendo: «Signore mio e Dio mio!». Al termine della sequenza del racconto dell' istituzione, frutto del silenzio adorante, l'assemblea proclama la sua fede nel ripresentarsi oggi della passione morte e risurrezione del Signore.

2.7. Il silenzio dell'intimità che diventa canto

Anche nella sequenza rituale della comunione, come in quella della liturgia della Parola, ricorre continuamente il richiamo al silenzio, prima, durante e dopo la comunione.

Il sacerdote si prepara con una preghiera silenziosa a ricevere con frutto il corpo e il sangue di Cristo. Lo stesso fanno i fedeli pregando in silenzio (OGMR 84).

 Dopo aver purificato il calice, conviene che il sacerdote osservi una pausa di silenzio; poi dice l'orazione dopo la comunione (OGMR 271).

 Stando alla sede o all'altare, il sacerdote, rivolto al popolo, dice a mani giunte: Preghiamo e, a braccia allargate, dice l'orazione dopo la comunione, alla quale può premettere una breve pausa di silenzio (OGMR 165).

 Questo silenzio personale permette il dialogo intimo con lo Sposo venuto per le nozze. Da questo silenzio nasce il canto di tutti gli invitati alle nozze dell' Agnello:

 Terminata la distribuzione della comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l'opportunità, pregano per un po' di tempo in silenzio. Tutta l'assemblea può anche cantare un salmo, un altro cantico di lode o un inno (OGMR 88).
Compiuta la purificazione, il sacerdote può ritornare alla sede. Si può osservare, per un tempo conveniente, il sacro silenzio, oppure cantare un salmo, un altro canto di lode o un inno (OGMR 164).

Da notare che questo canto è l'ultimo previsto dall'OGMR, il vero canto finale. Purtroppo l'inosservanza di questo dettato dell'OGMR e delle dinamiche che vi soggiacciono, hanno portato un po' dovunque a fare un così detto canto finale che finisce per svilire la sequenza rituale della comunione, privandola del suo punto culmine: la preghiera intima che si fa canto.

3. Conclusione

Abbiamo percorso a grandi linee il dettato dell'OGMR in tema di silenzio. Ciò che emerge è che il nuovo rito - checché ne dicano i suoi detrattori - messo in opera da una sapiente regia e da presidenti e animatori competenti, orienta a far nascere dal silenzio la celebrazione dell'eucaristia, un silenzio che assume di volta in volta colori diversi, rende possibile l'ascolto fecondo, carica di significato le parole e i gesti, fa assumere alla preghiera tutte le sue diverse dimensioni, fino a farsi canto.

Gianfranco Venturi

 

 1 Cfr. G. VENTURI, Apporti della linguistica moderna alla comprensione della problematica del linguaggio liturgico, in AA.VV., Il linguaggio liturgico. Prospettive metodologiche e indicazioni pastorali, Dehoniane, Bologna 1981, 63 -117 .

 

(tratto da Rivista di Pastorale Liturgica, anno 2011, n. 289)

 

 

 

 

Ogni suicidio è una storia a sé e non ci sono spiegazioni dinanzi a un gesto che, il più delle volte, lascia sconcertati e interdetti. Non si sa mai quello che passa nella mente e nel cuore di chi sta per togliersi la vita.

Talvolta l'atto suicida contrasta con i valori professati dalla persona; è un tassello che non quadra con la sua storia. In qualche circostanza, il suicidio sopraggiunge proprio quando sembrava che le cose stessero prendendo una piega giusta.

Chi decide di sopprimere la propria vita lo fa per un'infinità di motivi, tra cui: la depressione, il disturbo bipolare, la solitudine, il senso di inutilità, le conflittualità familiari, l'incapacità di tollerare le frustrazioni, i fallimenti, le spigolosità caratteriali, una diagnosi infausta, le perdite. La scelta di chiudere il sipario matura all'ombra di sentimenti o pensieri struggenti, vissuti spesso come monologo. Il suicida rimane avvolto in un vortice di considerazioni che assolutizzano la sua visione catastrofica delle cose e lo convincono che la sua situazione è disperata e irreversibile.

Per chi resta l'impatto è terribile. Non è solo il sentimento di abbandono che sconvolge, ma la drammaticità di un gesto che, razionalmente o irrazionalmente, è percepito come un'accusa.

Lo strazio di chi resta

Familiari e amici si consumano nel tormento di aver fallito nel proprio ruolo di genitore, coniuge o figlio, di non aver amato abbastanza, di non aver prestato sufficiente attenzione a un gesto o a una parola, di non aver saputo decifrare un messaggio, di non poter tornare indietro.

I superstiti si sentono oppressi da una valanga di interrogativi, da tanti "ma" e "se", e da sentimenti contrastanti tra cui predominano il senso di colpa e la rabbia.

Innanzitutto familiari e amici sono sconvolti per non aver potuto prevenire la tragedia: «Vivrò il resto dei miei giorni nel tormento, per non averlo potuto salvare». «Passo le notti insonni, cercando disperatamente di cambiare ciò che è successo». «Sono rammaricata di non aver capito il dolore che si portava dentro».

Alcune famiglie provano vergogna e mascherano le vere cause di morte, attribuendola a fattori circostanziali: «Un infarto se l'è portato via per sempre». «Aveva un tumore al cervello». «Stava pulendo il fucile ed è partito il colpo».

Talvolta il senso di colpa emerge quando i familiari vanno al supermercato o in chiesa e avvertono il sussurro di qualcuno che dice: «Quella è la madre del ragazzo che si è impiccato». «Quello è il marito della donna che si è buttata dal quinto piano». Dietro ai commenti, i superstiti avvertono una silenziosa accusa per quanto accaduto o per aver fallito nel loro ruolo formativo o protettivo.

La presenza del senso di colpa richiede comprensione, ma anche una saggia valutazione nel rivisitare quanto accaduto. C'è il rischio di tormentarsi per colpe o errori non imputabili alla propria conoscenza o responsabilità. D'altro canto, non si può giudicare il passato con la conoscenza di oggi; né si può ritenere di essere l'unica persona di riferimento nella vita del defunto, né lo si può vegliare 24 ore su 24, per impedirne la morte, né si può scegliere per lui/lei. Se così fosse, il proprio caro sarebbe ancora vivo.

L'amore ferito

L'altro forte sentimento è di collera verso il proprio caro per averli lasciati, per aver rinunciato a lottare, per essersene andato senza salutare e aver inquinato l'immagine della famiglia. Per alcuni, la rabbia prorompe dinanzi agli imbarazzanti colloqui sostenuti con i carabinieri o per l'infinità di problemi causati.

Ecco alcune espressioni: «Non aveva il diritto di pensare solo a sé». «Non doveva lasciarci così!». «Perché lo ha fatto?». «Perché non ha pensato ai bambini?». Spesso sono le notti in bianco, il letto freddo, i mille grattacapi della vita quotidiana ad acutizzare l'irritabilità e la tensione.

In qualche modo i superstiti, a differenza del proprio caro che ha deciso di arrendersi, attraverso questa reazione dichiarano la loro volontà di andare avanti e di non lasciarsi travolgere dallo scoraggiamento.

La collera è un sentimento legato all'amore ferito, alla frustrazione per progetti distrutti, attese mancate, opportunità perdute. Non bisogna reprimerla o redarguire quanti la sperimentano con frasi. del tipo: «Non sentirti così!». «Non arrabbiarti!». «Non dire così!». È necessario che chi è in lutto dia spazio alla propria amarezza, quale premessa per maturare successivamente un atteggiamento di comprensione verso chi lo ha ferito, accettandone i misteri e la paura di vivere.

 

Arnaldo Pangrazzi

 

(tratto da Missione Salute, n. 1/2018, pag. 64)

 

Sabato, 08 Febbraio 2025 17:51

Quinta domenica del tempo ordinario. Anno C

Quinta domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 6, 1-2. 3-8

Dal libro del profeta Isaia
 
Nell'anno in cui morì il re Ozìa, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Sopra di lui stavano dei serafini; ognuno aveva sei ali. Proclamavano l'uno all'altro, dicendo:
"Santo, santo, santo il Signore degli eserciti!
Tutta la terra è piena della sua gloria".
Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi:
"Ohimè! Io sono perduto,
perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo
dalle labbra impure io abito;
eppure i miei occhi hanno visto
il re, il Signore degli eserciti".
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall'altare. Egli mi toccò la bocca e disse:
"Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua colpa
e il tuo peccato è espiato".
Poi io udii la voce del Signore che diceva: "Chi manderò e chi andrà per noi?". E io risposi: "Eccomi, manda me!".
 

Salmo Responsoriale Sal 127

Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria.

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.

Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.
Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore!

La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l'opera delle tue mani.

Seconda Lettura 1 Cor 15, 1-11


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Vi proclamo, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!
A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè
che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
e che fu sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.
In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto.
Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me.
Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.
 
Canto al Vangelo (Lc 4,18)


Alleluia, alleluia.

Venite dietro a me, dice il Signore,
vi farò pescatori di uomini.

Alleluia.

Vangelo Lc 5,1-11


Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: "Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca". Simone rispose: "Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti". Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: "Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore". Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: "Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini".
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.

OMELIA

«Quest’è l’ora in cui nulla / può accadere. / Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara / che l’inutilità» (Cesare Pavese).
Un giorno all’alba ti svegli e t’accorgi d’aver sbagliato tutto; un senso di fallimento ti pervade, pare d’esserti ingannato su te stesso, sull’amore, le scelte fatte, su Dio… E tutto diventa non-senso, inutile.
Tutto questo lo ritroviamo nel vangelo di oggi: dopo una notte di fatica, all’alba non rimane che contemplare reti e mani vuote. Ma poi il giungere dell’inaspettato: una voce ordina ‘duc in altum’, prendi il largo, ossia: “più in alto che puoi, verso il fondo”. Rischia il folle volo. Rischia ancora.
C’è un Amore che sposa le conseguenze del mio male, perché il fallimento non deve inficiare il futuro; per questo mi invita a non rimanere sul bagnasciuga della storia a contemplare la vastità del mare struggendomi in sensi di colpa e recriminando sulle cose fallite. ‘Prendi il largo!’. Tu sei fatto per altezze vertiginose, vai! La vita sta dinanzi, non alle spalle.
Dio è verbo declinato al futuro.
Ma Pietro a tutto ciò non crede: «Signore allontanati da me, perché sono un peccatore». Questo è l’unico ‘peccato’ che possiamo commettere: credere che il proprio fallimento sia impedimento all’Amore. Come Pietro coltiviamo il pensiero che la ‘perfezione’, il farsi trovare adeguati e puliti sia condizione per stringersi all’Amato. E invece no. Il Vangelo afferma proprio il contrario: «Non temere» (v. 10), la tua barca – la tua vita – va bene così com’è, per questo posso salirci sopra (cfr. v. 3). La tua miseria è luogo della mia misericordia, le tue mani vuote prerogativa perché io le riempia, il tuo peccato la tua parte di vangelo. Il tuo nulla condizione perché qualcosa possa accadere.
«D’ora in poi…» conclude Gesù (v. 10). L’amore fa sempre ripartire da dove ci si era fermati.

 
Paolo Scquizzato
 
Festa della Presentazione del Signore nel tempio

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ml 3, 1-4

Dal libro del profeta Malachìa
 
Così dice il Signore Dio:
"Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l'angelo dell'alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti.
Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai.
Siederà per fondere e purificare l'argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un'offerta secondo giustizia.
Allora l'offerta di Giuda e di Gerusalemme sarà gradita al Signore come nei giorni antichi, come negli anni lontani".
 

Salmo Responsoriale Sal 23

Vieni, Signore, nel tuo tempio santo.

Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.

Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso,
il Signore valoroso in battaglia.

Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.

Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria.

Seconda Lettura Eb 2, 14-18


Dalla lettera agli Ebrei

Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte, erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.
Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura. Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo.
Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.
 
Canto al Vangelo (Lc 2,30.32)


Alleluia, alleluia.

I miei occhi hanno visto la tua salvezza:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele.

Alleluia.

Vangelo Lc 2, 22-40


Dal Vangelo secondo Luca

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore - come è scritto nella legge del Signore: "Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore" - e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
"Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele".
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: "Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione - e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori".
C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 

OMELIA

«Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore» (Lc 2, 22s.).
Ad accogliere Gesù il vecchio Simeone – rappresentante dell’antico Israele – con le parole: «Egli è qui per la caduta, la resurrezione, … segno di contraddizione» (v. 34).
Il termine ‘caduta’ ha significato di crollo, distruzione, rovina. Questo bambino è qui, e ovunque, ora e sempre perché l’essere umano sperimenti finalmente il crollo e la rovina, la distruzione e la rinascita.
In India, Shiva (शिव) è conosciuto come il dio della distruzione ma sempre in vista di una ricreazione. Simbolo del ciclo continuo di morte e rinascita nel quale tutto l’esistente è immerso.
Nascita e morte, distruzione e ricreazione, morte e risurrezione altro non sono che momenti di quella danza che chiamiamo vita.
Nella Bibbia numerosi sono i passi in cui Dio si presenta come forza distruttrice, ad esempio:
“Io formo la luce e creo le tenebre,
faccio il bene e provoco la sciagura;
io, il Signore, compio tutto questo” (Is 45, 7).
Abbiamo bisogno di entrare in contatto col quel ‘dio della distruzione’, che ci abita, principio in grado di frantumare ciò che è bene che muoia per far spazio a quel qualcosa di nuovo e fecondo che è già lì pronto a sbocciare.
In Occidente C.G. Jung ha identificato tutto questo con l’archetipo del Distruttore. Quell’energia al centro di noi stessi che se contattata ci permette di distruggere ciò che in noi non tiene più, e non ha più motivo di esistere; le situazioni, le relazioni che si trascinano avanti magari da anni ma ormai morte e che non abbiamo il coraggio di ammetterlo; quelle abitudini mentali che non ci fanno crescere provocandoci solo profonda tristezza…
Sì, che il dio della distruzione trovi libero spazio in noi perché qualcosa di nuovo e fecondo possa cominciare a fiorire.
«Sfasciami il cuore, o Dio in tre persone;
perché tu finora solo bussi, aliti, risplendi e cerchi di guarire;
perché mi alzi e stia in piedi, buttami giù
e piega la tua forza per spezzarmi,
dissolvermi, bruciarmi e farmi nuovo.
Io, come città usurpata, schiava di un altro,
mi sforzo per farti entrare, ma, ahimè, senza riuscirci.
La ragione, in me tuo viceré, difendermi dovrebbe,
ma è prigioniera, e si rivela debole o infida.
E tuttavia teneramente t’amo,
e amato vorrei essere, ma fidanzato sono al tuo nemico:
divorziami, sciogli, o spezza quel nodo ancora,
legami a te, imprigionami,
perché io se non mi rendi schiavo, mai libero sarò,
e casto mai, se tu non mi violenti». (John Donne 1572-1631)

 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 08 Febbraio 2025 17:35

Terza domenica del tempo ordinario. Anno C

Terza domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ne 8, 2-4. 5-6. 8-10

Dal libro di Neemia
 
In quei giorni, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all'assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.
Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d'intendere; tutto il popolo tendeva l'orecchio al libro della legge. Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l'occorrenza.
Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: "Amen, amen", alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore.
I levìti leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura.
Neemìa, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: "Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!". Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge.
Poi Neemìa disse loro: "Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza".
 

Salmo Responsoriale Sal 18

Le tue parole, Signore, sono spirito e vita.

La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Ti siano gradite le parole della mia bocca;
davanti a te i pensieri del mio cuore,
Signore, mia roccia e mio redentore.

Seconda Lettura 1 Cor 12, 12-31


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito.
E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: "Poiché non sono mano, non appartengo al corpo", non per questo non farebbe parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: "Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo", non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato?
Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l'occhio dire alla mano: "Non ho bisogno di te"; oppure la testa ai piedi: "Non ho bisogno di voi". Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui.
Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano?
 
Canto al Vangelo (Lc 4,18)


Alleluia, alleluia.

Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione.

Alleluia.

Vangelo Lc 1, 1-4; 4, 14-21


Dal Vangelo secondo Luca

Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch'io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
"Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l'anno di grazia del Signore".
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all'inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato".

OMELIA

Sempre sul punto di venire al mondo, (ciò che chiamiamo) Dio ha bisogno d’essere dato alla luce.
Pura potenzialità, ‘Ciò’ emerge laddove s’incarna il principio dell’amore. Gravidi di Dio, lo si darà alla luce nella misura in cui ci prenderemo cura del nostro mondo interiore, dell’altro e del creato.
Dio non è amore, ma piuttosto è l’Amore ad essere Dio.
«La divinità s’incontra quando l’umanità diventa così integra e profonda, quando si vede una persona senza difese e senza potere che è capace di darsi totalmente. Questo è il momento in cui il Gesù umano ci apre gli occhi a tutto ciò che significa Dio e ci permette di vedere tutto ciò che Dio è. Non è attraverso il divino che noi sperimentiamo l’umano; piuttosto il contrario, è dall’interno dell’umanità che sperimentiamo il divino» (John Spong).
Non c’è bisogno di credere in un dio. La credenza non fa che moltiplicare le nostre limitate e insulse immagini, proiezioni, pensieri su ciò che reputiamo essere lui, requisendolo nell’angusto spazio del tempo e dello spazio, e riducendolo ad oggetto tra oggetti. A cosa fruibile. La questione è vivere di fede. Perché la fede non è ‘rappresentazione’ di un qualcosa come altro da sé, ma un sapere che è ‘sapere d’essere Ciò’. A quel punto, come afferma Margherita Porete non vi è neanche più bisogno di Dio, giacché non si ha bisogno di ciò che si possiede: “L’anima non cerca più Dio, non ne ha motivo, non sa che farsi di lui. Non ne ha bisogno; perché dunque dovrebbe cercarlo?” (Lo specchio delle anime semplici).
Va da sé che ‘il Dio’ nei riguardi di questo mondo, non potrà fare nulla dall’esterno. Semplicemente ha posto sé stesso nella creazione stessa – e dunque in noi -, come principio del Bene e della Vita che avanza, quel principio evolutivo che tutto avvolge e conduce alla luce, e riguardo al quale siamo chiamati ad essere responsabili con la nostra azione nel mondo.
La questione sarà dunque prenderci a cuore lo spazio e il tempo affidatici, collaborando come possiamo, seminando semi di bene e di luce, come antidoto all’oscurità, e che per quanto piccoli, saranno comunque in grado di sprigionare energia infinita, creatrice e vivificante.
E tutta la pasta sarà lievitata.
«A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi» (Etty Hillesum).

 
Paolo Scquizzato
 

Prima di tutto vorrei condividere con voi un episodio del mio passato, vissuto nella Chiesa Ortodossa Russa, della quale faccio parte come presbitero. Dico subito: davanti alla sfida della pace penso che questa Chiesa si trova attualmente in una grave crisi spirituale. Come dice il Salmo: “di pace essi parlano ai loro vicini, mentre malizia c’è nel loro cuore” (28,3). Adesso non parlano nemmeno. La Teologia della pace esiste ancora, ma la pace non c’è. Per cominciare propongo la mia testimonianza.

Quando ero giovane, la parola “pace” faceva parte del discorso indispensabile della Chiesa ortodossa Russa, nella quale sono stato battezzato nel lontano 1971. Questa Chiesa mi ha spalancato le porte della fede cristiana. Ho avuto la sfortuna di venire in un mondo che era costretto, la mia famiglia inclusa, quasi condannato, all’ateismo di Stato, ma io ho avuto anche la fortuna di trovare la fede nell’età adulta, con una scelta cosciente. Poi ho riflettuto tutta la vita su questa svolta, chiedendomi : perché il Signore mi ha mandato un invito improvviso a questo banchetto? E sono diventato sacerdote proprio per non lasciarlo mai più.

La Chiesa ortodossa nell’Unione Sovietica, come tutti sanno, esisteva su di un territorio ideologico dove era incluso tutto ciò che esisteva e dal quale nessuno poteva uscire. Se tu occupaviun posto più che modesto nella gerarchia sociale, potevi almeno tacere. La Chiesa, come ogni struttura religiosa giuridicamente legale, era sempre sospettata e non aveva questo diritto. In quel tempo, parlo degli anni brezneviani, la memoria delle persecuzioni subite, sanguinarie sotto Stalin, oppure senza effusione di sangue, ma con la chiusura massiccia dei luoghi di culto sotto Kruscev, era ancora molto viva e dolorosa nella Chiesa. Dagli anni venti del secolo scorso il suo organismo ha imparato la scienza dell’adattamento, del conformismo, senza frontiere. Peggio ancora: la Chiesa si è inserita con comodità in questa posizione declassata e degradata. L’ha anche amata, in un certo senso, perché il conformismo era pieno di privilegi per le persone importanti, per i vescovi, i metropoliti. Uno dei privilegi era il permesso di uscire dal mondo ermeticamente chiuso, invalicabile per i cittadini semplici, ed andare all’estero, in Occidente in primo luogo. Certo, non per turismo personale, ma per parteciparealle varie conferenze teologiche con i colleghi occidentali. Per fare la teologia della pace prima di tutto.

Cosa dicevano questi teologi alle conferenze internazionali? Oltreai problemi degli addetti ai lavori, due motivi emergevano ed erano sempre presenti negli incontri all’estero e che andavano benissimo anche insieme ai discorsi più sublimi. Il primo: nell’Unione Sovietica non c’erano mai e non potevano neanche esserci una qualche persecuzione della fede cristiana (o di un’altra religione) per mano del regime poiché la sua Costituzione garantiva la libertà di coscienza per tutti i suoi cittadini. Qualunque chiacchiera su questo argomento non era altro che propaganda antisovietica e non poteva nemmeno essere discusso. Un altro motivo, più permanente ed insistente,durante i colloqui di quel tenore, era la lotta per la pace. Se con i diritti dei credenti non tutto era chiaro per gli interlocutori occidentali, con la lotta per la pace le cose procedevano più liscie e nel reciproco compiacimento.

Ma la lotta con chi? I due mondi usavano un linguaggio quasi comune e tuttavia con un messaggio diverso. “Siete per la pace in tutto il mondo?” - chiedevano gli inviati sovietici agli interlocutori occidentali. “Certo!”. “Siete contro la bomba atomica?”- “Come tutto il mondo”. “Siete contro l’imperialismo occidentale e soprattutto americano?”. “Senza dubbio”. “Siete contro i vostri governi venali al soldo del padrone d’oltreoceano?” “In gran parte sì, siamo decisamente contro”... e così via. Questo era il piatto principale, tutto il resto era, direi, il contorno. Una piena compressione reciproca si stabilisce tra due teologie della pace quando ambedue manifestano una nobile volontà per il trionfo del bene sul male dappertutto. Era assolutamente inopportuno e maleducato parlare in questo contesto dei diritti dei credenti in Oriente e della libertà di coscienza, oppure menzionare l’invasione di un altro paese, come la Cecoslovacchia o l’Afghanistan. Sotto questi discorsi patetici, molto simili ai discorsi cristiani, nella parte ortodossa si poteva leggere il programma chiaramente politico di uno Stato apertamente anticristiano. Le parole, però, spesso coincidevano e sembravano quasi identiche. Lo slogan della pace, anche se solo slogan, era più importante della realtà – assai poco pacifista. Pochi, anzi pochissimi, potevano indovinare che tutte queste belle parole facevano parte di un compito speciale, dato a ciascuno dei partecipanti, i quali dopo ogni riunione avrebbero dovuto scrivere un rapporto segreto alla polizia che aveva dato il permesso di partecipare a questi colloqui, con il resoconto di ogni cosa, inclusi i contatti privati, soprattutto quelli avvenuti fuori aula.

In Russia queste cose non facevano un gran mistero. Tutto ciò che all’interno e fuori del Paese si chiamava “lotta per la pace” ha avuto per noi un suo prezzo, per dire la verità, a buon mercato. Bisogna aggiungere che all’epoca la lotta per la pace andava avanti anche con lo stesso ecumenismo ortodosso. Ma appena è arrivata la libertà, i vecchi amici ecumenici sono rimasti perplessi: perché dopo il crollo del regime è quasi crollato anche l’ecumenismo? Semplice: perché un’attività del genere non era più obbligatoria, la scena internazionale era cambiata. In quel momento la stessa parola “pace”, abusata e compromessa, si è svuotata di qualsiasi contenuto specifico, al pari di un vecchio dettaglio del discorso ideologico. La Chiesa Russa non è più minacciata e non ha più bisogno di giustificare la propria esistenza all’interno di uno Stato che era, confessionalmente e aggressivamente, ateo. Invece il discorso sulle persecuzioni, proibitissimo qualche anno fa, dagli anni ‘90 in poi è diventato non soltanto lecito, ma quasi ufficiale. La parola “pace” piano piano è sparita dallo spazio pubblico. Poi, trent’anni dopo, un’altra svolta inaspettata: lo Stato, più che ortodosso e diventato autoritario, dichiara l’Operazione Speciale contro l’Ucraina. E la parola “pace” ha cambiato rotta. Proprio nel senso orwelliano: la “pace” ormai significa guerra. Ma come? In che modo la lotta per la pace si è trasformata nella benedizione del massacro?

Non si può spiegare tutto solo con l’ubbidienza cieca allo Stato. Questa Operazione Speciale che sostituisce la parola guerra ha una sua dimensione non soltanto ideologica, ma anche psicologica, perfino spirituale. Naturalmente, la Chiesa Russa non dice apertamente: “andate tutti alla guerra, uccidere è una gioia per il cristiano”. Ella chiama il suo gregge alla difesa della patria. Difesa contro chi? Qui troviamo il momento più drammatico, emozionante: l’invenzione del nemico. Il nemico dello Stato nella guerra con l’Ucraina coincide, nel nostro caso, con il nemico ecclesiale. Chi è questo nemico? È lo stesso, il nemico da secoli, raramente anche amico, cioè l’Occidente collettivo – ma con qualche sfumatura in più. Nel caso politico tutto è semplice: l’Occidente è l’aggressore, colui che fa la guerra contro la Russia sulla terra ucraina. Tutto qui. Ma nella prospettiva ecclesiale questa battaglia si riveste dei vestiti teologici, come il sacro dovere della difesa della patria contro l’invasione straniera. La guerra, parola non pronunciabile, è ormai sacra perché l’invasore possiede i tratti apocalittici dell’Anticristo. Anzi, infernali come Satana. Satana: proprio questa parola gira negli ambienti ecclesiali ed esce dalla bocca dello stesso patriarca.

Non cerchiamo le tracce del senso comune in questa posizione, sia politica, sia teologica; di solito l’ideologia prevale sul sano ragionamento. Ma dal punto di vista ecclesiale con quali “versetti satanici” l’Occidente conduce la guerra contro la Russia? Prima di tutto, si tratta della caduta morale: l’Occidente è accusato della corruzione totale: come modo di vivere, dell’omosessualità onnipresente, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, delle lezioni di educazione sessuale cominciando dalla più tenera età, e così via. Di più. L’Occidente che ha tradito se stesso vuole imporre la sua corruzione anche a noi, puliti e sani, aspira a rubare l’Ucraina dalla sua salute morale. Non è tanto chiaro come queste accuse possano giustificare le bombe che cadano sulla gente pacifica che non è omosessuale, bambini inclusi, ma à la guerre come à la guerre, nella lotta totale contro l’Occidente le vittime non si contano e non hanno i tratti individuali. L’invenzione di qualsiasi nemico va sempre insieme all’invenzione della sua controparte, alla personificazione del bene, anche inventato, nell’incarnazione della patria stessa. Oggi questo bene s’incarna nel “mondo russo”, nel cosiddetto “russkij mir”.

Il “mondo russo” è progettato come il simbolo, la bandiera, la fortezza della moralità, cominciando dall’opposizione della sessualità sana a quella perversa. Da testimone di due mondi, russo e occidentale, potrei affermare che in questo campo non ci sia una grande differenza. Nell’orrore della guerra i soldati occupanti stuprano anche le bambine. Lo slogan “il mondo russo” serve per l’orgoglio nazionale, ma soprattutto per la ricerca della propria identità. Dal punto di vista ecclesiale, espresso da tanti teologi della Chiesa ortodossa, ma al di fuori della Russia, il concetto stesso di “mondo russo” introdotto nel vocabolario spirituale della Chiesa rappresenta una pura eresia. Ma questa eresia non è da ieri. Come non è da ieri è la confusione degli interessi dello Stato con la vita propria della Chiesa. Questo tipo di confusione esiste da tanto tempo; nel 1872 il concilio locale di Costantinopoli ha condannato la confusione di questo genere con il nome di etnofiletismo. La condanna è ancora valida, ma essa, come la libertà di coscienza garantita nella Costituzione, serve piuttosto da decorazione; quasi tutte le Chiese ortodosse sono alquanto ripiegate su se stesse. Tra le innumerevoli ricchezze e virtù della Chiesa ortodossa l’universalismo del messaggio cristiano non occupa il primo posto. La psicosi militarista dopo aver infettato il “russkij mir”, ha rubato i cervelli, danneggiando la fede stessa. Coinvolge la gente semplice nella follia della guerra non soltanto socialmente, ma anche spiritualmente.

Mi ricordo un’immagine quasi commovente che ho trovato sulla pagina FB di un sacerdote ortodosso italiano: una pia vecchietta al momento del voto per lo zar-presidente fa il segno della croce benedicendo l’urna elettorale. Credo che l’autore della fotografia non abbia sospettato che in questo modo lui ci offre un ritratto perfetto della dittatura. Non quella di una tirannia primitiva e violenta, ma quella della padronanza vera e onnipresente che agisce nelle anime. Sotto l’apparenza di una “sancta simplicitas” il televisore-Putin, insieme a tutti i mezzi della comunicazione dei quali egli ha il controllo totale, con le mani del manipolatore-mafioso-Putin vota per il dittatore-Putin. Non a caso il sistema totalitario preferisce chiamarsi democrazia popolare, perché il capo (oppure il partito) unico e il suo popolo fanno in questo tipo di democrazia la stessa cosa. Almeno nel mondo virtuale. Nel mondo reale il padrone non chiede a nessuno il permesso di gettare il proprio popolo nelle fiamme della guerra, ma la guerra si fa sempre nel nome del valore supremo, con un coinvolgimento della sua popolazione non solo sul piano politico (dove la gente non è mai ammessa), ma su quello prima di tutto verbale, dottrinale, appassionato e anche religioso. Proprio l’omogeneità ideologica della società costituisce il nucleo del regime totalitario, sia sovietico, sia attuale, basato sull’identità comune dell’Uno e degli altri. Il “russkij mir” produce oggi questa identità comune.Chi non vuole iscriversi in questa personalità collettiva va defenestrato, emarginato, esiliato, eliminato in un modo o nell’altro.

I giornali parlano della guerra di Putin, è vero o no? Direi, sì e no nello stesso tempo. Certo, solo lui, capo delle forze armate, ha potuto dare l’ordine per iniziare l’Operazione militare speciale che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto essere breve e trionfante. Tre giorni per prendere Kiev. Tre settimane per schiacciare tutta l’Ucraina. Poi fare il bagno nell’osanna della Russia-vincitrice, come fu dopo la presa della Crimea, e l’umiliazione dell’Occidente che si morderà le mani nel suo rancore impotente. Dopo il restauro graduale dell’impero russo, detto storico, di cui l’Unione Sovietica era solo una tappa provvisoria. Moldova, Georgia, preparatevi! Paesi Baltici, perché no? Se l’Occidente lascia l’Ucraina, lascerà anche la Finlandia che fino al 1918 faceva parte dell’impero russo. L’Europa avrà paura di opporsi alla superpotenza nucleare. Tutti si ricordano la dichiarazione di Putin che la caduta dell’URSS rappresenta la tragedia più grande del XX secolo. Non la Seconda guerra Mondiale con l’Olocausto, non il Gulag. Chi riesce a capovolgere questa tragedia riceverà il gran premio dalla storia.

L’operazione, però, non è andata secondo i progetti iniziali. Essa non è diventata la guerra-lampo, ma un fango di sangue in cui si è trovato tutto il paese. Non soltanto militarmente, ma soprattutto ideologicamente. Nella Federazione Russa attuale non c’è più un’ideologia di Stato di tipo classico (proibita tra l’altro anche dalla Costituzione, ancora eltsiniana) ma c’è un’ideologia in atto, il cui pilastro più importante è la vittoria nel passato. La vittoria sovietica nella Guerra patriotica è festeggiata il 9 maggio ogni anno con una solennità liturgica crescente mentre la partecipazione degli Alleati è sempre più oscurata. Questa festa non fa più accenno alle vittime incalcolabili (nessuno sa la cifra esatta, ma non meno di 30 milioni), ma si basa sempre sulla gloria, sull’eterna invincibilità della Russia. Proprio la vittoria del 1945 è ormai la parte principale di una religione di Stato; tanti bambini nell’età della scuola materna portano con orgoglio l’uniforme militare, mentre mamme sorridenti fanno spesso la gita usando carrozzelle costruite come piccoli carri armati. Nelle strade si possono vedere automobili con sopra l’iscrizione “A Berlino!”. In questo anno nelle tante scuole materne ed elementari sono state introdotte le lezione obbligatorie del patriottismo. Adesso, alla fine del 2024, una decina di conferenze ecclesiali è programmata per festeggiare la gloria degli 80 anni dalla vittoria del 1945. Certo, non tutta la popolazione è tentata da quest’ossessione (di una “vittoria indemoniata”, secondo l’espressione di un sacerdote ortodosso), ma il vento impetuoso che soffia sulle acque russe è così.

Quel vento soffia sulla Chiesa ortodossa perché la guerra in corso ha anche una sua dimensione teologica. Secondo una formula famosa, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Tra questi mezzi il primo posto è occupato dalla demonizzazione del nemico, anche se inventato. Ripeto, non eravamo noi ad aver attaccato il paese vicino, ma l’Occidente l’ha fatto con le mani ucraine. Noi difendiamo la nostra patria dall’aggressione occidentale, ma anche dalla sua corruzione, dalla loro democrazia falsa e ipocrita. Ci difendiamo dai missili che nel futuro, forse, sarebbero stati messi ai nostri confini. Se le nostre bombe cadono sugli ospedali, sui teatri, le chiese ed i sistemi energetici in Ucraina (soprattutto sulle città russofone Kharkiv, Odessa, ma anche Kiev) e se lasciamo le città rase al suolo, lo facciamo, come ho detto, per difendere la Santa Rus’ dall’Anticristo.

Di più: difendiamo gli ucraini stessi dal loro ucrainismo testardo, perché la difesa della patria in un caso si chiama patriottismo, nellaltro nazismo. Come se gli ucraini fossero soltanto dei russi smarriti che vanno puniti per aver ceduto all’appello delle sirene occidentali. Il nome stesso Ucraina è sbagliato, il vero nome suo è Novorossia, la vecchia Russia Nuova che faceva sempre parte di quella vecchia. Tutto questo è stato apertamente scritto e proclamato dal Concilio Mondiale Popolare Russo che non è un organo ecclesiale, ma il cui presidente è il patriarca Kirill in persona. Per chi ha un po’ di chiarezza cartesiana nello spirito, si tratta di una povera leggenda politica che comunque funziona. Le guerre non si fanno con le chiarezze, ma con i miti.

Si può capire che sotto un regime dittatoriale la posizione pubblica del capo della confessione più grande del paese non possa essere completamente indipendente. Leggendo i numerosissimi interventi pubblici del patriarca si vede come egli, una persona comunque intelligente, davvero creda alla giusta causa di questo massacro di due popoli, ucraino e russo. Nessun dittatore ha affermato quella recente novità teologica secondo cui i caduti russi di questa guerra siano già liberati da tutti i loro peccati e vadano subito nel Regno dei Cieli. Ciò è molto simile all’assoluzione dei peccati garantita una volta ai crociati. I dittatori non inventano cose del genere. Nello stesso tempo Sua Santità non ha pronunciato nemmeno una parola di compassione nei confronti delle vittime ucraine che rimangono ancora, almeno dal suo punto di vista, nel suo ovile ecclesiale.

La mitologia politica della guerra va avanti e si riveste della teologia. Oggi la Russia si proclama il Katechon (2 Ts. 2,6-7), colui che trattiene (l’ordine divino). La Russia trattiene, si oppone, fa d’ostacolo all’Anticristo collettivo e la Chiesa partecipa per prima in questa battaglia cosmica. Senza nessuna esitazione, a questa battaglia per il Katechon sono mandati anche i criminali comuni. A tutti paesi belligeranti mancano i soldati e la Russia chiede che i carcerati - con qualsiasi crimine sulle spalle - prendano le armi, più uno stipendio oltre le stelle, in cambio di un servizio di sei mesi al fronte, per poi essere liberi. La metà di loro ha già perso la vita. Un’altra metà torna in libertà e uccide di nuovo. È un grande flagello per la società civile quando decine di migliaia di assassini professionisti sono rimessi in libertà senza nessun controllo. Di più: qualsiasi protesta in Russia, anche un semplice “no alla guerra”, pronunciato pubblicamente, può costare qualche anno di galera. Per quale motivo? Per calunnia alle forze armate o addirittura per terrorismo. Ma il fatto più drammatico è che la stessa logica agisce anche nella Chiesa; il patriarca personalmente ha composto la preghiera per la vittoria della mitica “Santa Rus” e l’ha imposta come obbligatoria a tutti i chierici della Chiesa Russa. La devono leggere tutti. Chi si rifiuta è sospeso o anche ridotto allo stato laicale. La maggior parte dei sacerdoti la legge con una buona fede “patriotica”, ma altri - non si sa quanti - col cuore spezzato. Essi sono messi di fronte ad una scelta insopportabile: andare contro la propria coscienza o perdere tutto, rompere con la parrocchia che, a volte, loro stessi hanno costruito, condannando la propria famiglia alla miseria. A tutti i crimini della guerra se ne aggiunge un altro: la confusione totale delle anime, la violenza sulla coscienza, l’asservimento della verità.

La verità da sempre è la prima vittima della guerra, come anche la nostra capacità di compassione, di empatia, di partecipazione al dolore di un altro essere umano si trovano paralizzate. Un’altra vittima è la nostra facoltà di guardare le cose in faccia: un male demografico; le perdite russe sono davvero terribili (spesso i cadaveri dei soldati russi sono abbandonati sui campi di battaglia), una rovina economica imminente, una macchia di sangue sullo stesso nome “Russia” nel mondo. Gli sforzi enormi che la guerra chiede alla Federazione Russa minacciano la sua esistenza stessa come paese unito e multinazionale; bisogna essere ciechi per non accorgersi di questo pericolo.

Immaginiamo: dopo aver sacrificato un milione dei suoi soldati, che ormai non daranno figli, dopo aver provocato un’emigrazione di massa dei migliori specialisti, scienziati, scrittori, dopo aver mandato migliaia e migliaia di giovani che non volevano uccidere in prigione, dopo aver speso mille miliardi di euro per la vittoria militare, dopo aver imposto al paese conquistato un governo fantoccio e la bandiera russa sventolare a Kiev e dappertutto, la Russia finalmente avrà vinto. Con quale guadagno? La conquista di uno spazio completamente rovinato e imbevuto d’odio fino alla gola verso gli invasori che durerà per secoli? Questa guerra non si fa per un guadagno reale, ma per sconfiggere un nemico inventato. La sagoma di questo nemico cresce ogni giorno, chiude la nostra facoltà di riflettere. Una capacità di giudizio sobrio, però, è la virtù più apprezzata nell’Ortodossia.

Qui sta il punto: l’infezione della fede in Cristo con la follia dell’ideologia statale. La confusione della fede ortodossa con la menzogna e gli orrori del regime. Non si tratta di una semplice collaborazione o obbedienza alle circostanze che non si possono cambiare, ma proprio del danno portato all’Ortodossia stessa, del miscuglio del Vangelo con la macchina della propaganda putiniana, ben ingrassata con i soldi dello Stato e che lavora senza sosta. La trasformazione della fede ortodossa in una sorta di religione civile con la sua Santa Rus’, un concetto immaginato nel XIX secolo, contro il mondo anglosassone, come nemico da sempre e così via?... E per questa religione i soldati russi che tornano a migliaia a casa nelle bare di zinco?

Questa guerra si fa non per i soldi che sono buttati via in quantità enorme, ma per il mito nazionale inserito nella stessa vita religiosa. Per il territorio imperiale che è diventato un vero feticcio nella spiritualità perversa. Per provare al mondo corrotto che siamo i più forti, i più veri, i più perfetti. Ma chiediamo: cosa può fare la teologia della pace di cui abbiamo provato a descrivere il suo passato miserabile e il suo presente ingannevole per tornare alla pace vera in futuro? Cristo disse “Abbiate pace in me” (Gv.16,33). Non abbiate l’orgoglio che la vostra fede sia migliore di quella degli altri, che la vostra patria sia più bella e virtuosa, ma abbiate pace in comunione con Cristo – cosa che la Chiesa ortodossa insegna da sempre. Ma che insegna rivolgendosi ad un quadro strettamente personale, che non esce mai fuori dalla pratica ascetica, dal combattimento invisibile. L’Ortodossia ha tutti i mezzi spirituali per liberarsi dalla gabbia ideologica perché la via d’uscita si trova nel suo patrimonio. Questa via è il pentimento. Ho sentito tanti discorsi e prediche sul pentimento e mi chiedevo sempre: perché la spiritualità adatta per una singola persona non è compatibile con la comunità, con la Chiesa di Cristo nel suo insieme? Perché il pentimento per un singolo e l’orgoglio nazionale per il gregge? Se la Chiesa un giorno trova la strada per passare da una spiritualità isolata di tipo monastico alla spiritualità comune, e condivisa con tanti, essa troverebbe anche una vera teologia della pace con gli altri. Dopo essere usciti dalla gabbia dorata del “mondo russo”, possiamo aprirci anche al mondo creato da Dio che Cristo è venuto a salvare. L’unico vantaggio che possiamo avere in questo disastro è il risveglio d‘una nuova vocazione spirituale che crede nell’uomo e che ha aperto le porte a Cristo non soltanto nella cella dell’anima di un monaco solitario, ma nella solidarietà con l’umanità sofferente.

La “Santa Rus’” del lontano passato è un’icona di un paese che esisteva solo nell’immaginario o nel subconscio collettivo e che si è nascosta sotto il nome del “russkij mir”, oggi è opposta alla fede cristiana e davvero ortodossa. Questo è il compito della teologia della pace che consiste non nelle belle citazioni e buone intenzioni, ma anche nella scoperta del pericolo penetrato nella stessa eredita cristiana. Bisogna saper tracciare una linea di demarcazione proprio spirituale tra il messaggio politico e quello ecclesiale, tra la fedeltà a Cesare e la fedeltà a Dio. Nel “mondo russo” (vi ricordo tra l’altro che un centinaio di popoli di etnie diverse vivono sul territorio della federazione Russa) riconosciamo la faccia del fariseo evangelico, in questa pretesa d’essere portatoridi valori eccezionali nei confronti degli altri popoli. Questa è la nuova versione dell’ideologia della terza Roma del XV secolo. Questa ideologia si riduce ai tre formule; la Prima Roma è caduta per eresia, la seconda Roma, Costantinopoli è caduta sotto gli infedeli, la Terza Roma è rimasta come unica guardiana della vera fede con il suo zar ortodosso e rimarrà per sempre.

Credo che le vie della speranza e della pace vera non sono esaurite ancora. Oltre l’Ortodossia nazionale e cosiddetta patriottica c’è anche l’Ortodossia cristiana che non si esaurisce mai. La Tradizione ortodossa che proviene dai Padri della Chiesa, dai Padri del deserto nasce dalla radice spirituale che istruisce a distinguere il bene e il male dentro noi stessi giudicando noi stessi. In questa scienza del stare davanti al giudizio di Dio l’Ortodossia ha sviluppato una profondità eccezionale ma la sua spiritualità rimane nei muri dei monasteri, nell’intimità di una singola anima. È arrivato il tempo in cui il senso del pentimento dovrebbe uscire fuori, per entrare nel campo sociale confessando i nostri peccati davanti il mondo intero. Questo tipo di pentimento sarebbe perfettamente ortodosso senza consolazioni celeste e metafisiche, senza chiacchere sulla “Santa Rus”, senza nascondersi dietro il “mondo russo”, dietro il Katechon, ecc. “Ho peccato davanti al cielo e davanti a te”, come dice il figlio prodigo, sono diventato il complice dei peccatori coperti del sangue dei fratelli; una vera teologia della pace inizia con la confessione della colpa, una teologia che resta ancora da scoprire.

Le Chiese occidentali hanno un grande esperienza nella confessione della colpa non soltanto personale, ma anche collettiva. Mi ricordo il primo paragrafo della Dichiarazione di Barmen del 1934: “Gesù Cristo, così come ci viene testimoniato nella Sacra Scrittura, è la sola Parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo affidarci in vita e in morte e cui dobbiamo obbedire”. Come manca una fermezza simile alla Chiesa d’oggi! La fermezza del metropolita Filippo di Mosca che cinque secoli fa aveva proclamatoin faccia dell’ortodossissimo Ivan il Terribile - e poi fu da lui ucciso. “Noi cristiani facciamo immolazione senza sangue sull’altare, ma fuori delle nostre chiese è versato dappertutto il sangue cristiano”. Perché un giorno qualcuno di alto rango ecclesiale non potrebbe dire: noi imploriamo il Signore per il perdono dei nostri peccati e perché il nostro esercito, anche se super ortodosso, con la nostra piena benedizione ed i suoi cappellani militari uccide i nostri fratelli in Ucraina con il pretesto ideologico inventato da un altro zar?

Si può ricordare anche la confessione di colpa di Stoccarda dopo la Seconda Guerra Mondiale, come anche numerosissime confessioni simili nella Chiesa cattolica all’epoca di Giovanni Paolo II e così via. Il riconoscimento comune della colpa, anche se le colpe sono diverse, non è la strada giusta per una vera teologia della pace? Anzi, non si tratterebbe soltanto della pace nella prospettiva dell’unità di tutti noi, cristiani colpevoli?

Anche da noi, nel nostro piccolo, nel marzo di 2022, subito dopo l’inizio della guerra, circa 300 sacerdoti della Chiesa Russa hanno firmatouna protesta. Il tono di questa lettera era molto pacifico, ma comunque una trentina di questi sacerdoti ha già subito un contraccolpo da parte della Chiesa ufficiale, con la sospensione a divinis o anche la riduzione allo stato laicale. Certamente, una trentina di sacerdoti sono una minima parte del clero che non è d’accordo con la guerra, ma i firmatari si rendevano conto del pericolo che potevano subire. Senza dubbio, questa la lettera non ha avuto nessun effetto pratico, ma è importante per la coscienza che le parole chiave fossero pronunciate. Ogni voce di protesta ha il suo peso, perché si tratta del futuro della Chiesa. Fuori di internet, parole simili non esistono, naturalmente, nello spazio pubblico all’interno della Russia, ma un giorno la Chiesa potrà ricordarle. Anzi, trovare in queste parole la sorgente della propria rinascita, come dopo il crollo del regime sovietico la Chiesa ha ritrovata nelle testimonianze dei suoi martiri, negati prima, la forza della propria identità.

Vladimir Zelinskij

 

 

Domenica, 19 Gennaio 2025 10:11

Seconda domenica del tempo ordinario. Anno C

Seconda domenica del tempo ordinario. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is Is 62, 1-5

Dal libro del profeta Isaia
 
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.
 

Salmo Responsoriale Sal 95

Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.

Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: "Il Signore regna!".
Egli giudica i popoli con rettitudine.

Seconda Lettura 1 Cor 12, 4-11


Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell'unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l'interpretazione delle lingue.
Ma tutte queste cose le opera l'unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.
 
Canto al Vangelo (2Ts 2,14)


Alleluia, alleluia.

Dio ci ha chiamati mediante il Vangelo,
per entrare in possesso della gloria
del Signore nostro Gesù Cristo.

Alleluia.

Vangelo Gv 2,1-12


Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno vino". E Gesù le rispose: "Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora". Sua madre disse ai servitori: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela".
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le anfore"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto". Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua - chiamò lo sposo e gli disse: "Tutti mettono in tavola il vino buono all'inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora".
Questo, a Cana di Galilea, fu l'inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

OMELIA

La festa della vita langue. Manca il ‘superfluo necessario’, ciò che nel nostro brano – alle nozze di Cana – viene identificato col vino, metafora di ciò che rende la vita, Vita.
Ci accontentiamo di vite vuote, esistenze trascinate nella distrazione e nella coazione a ripetere, anestetizzate col narcotico del fare.
Abbiamo tutti bisogno di una voce che ci raggiunga e dica: attingete! O se vogliamo: ‘Vieni fuori’ come Gesù disse all’amico Lazzaro. Che è come dire svegliati, diventa consapevole di ciò che ti abita. Sappi chi sei, di quale sostanza sei fatto, della tua natura autentica. Tu-Sei. Semplicemente sei Essere, e non ciò che fai e hai fatto, ciò hai costruito, edificato, posseduto, professato e creduto. Attingi a questa verità, abbi fede in questa tua sorgente interiore. D’altronde cos’altro significa ‘credere in Dio’ se non questo?
Tu-Sei-Ciò che rimane quando tutto il resto decade.
‘Non andare fuori di te. Rientra in te stesso. È nell’interiorità dell’essere umano che abita la verità’ (Agostino).
Una vita consumata ‘fuori di sé’ è mera esistenza.
Dunque svegliati e attingi alla Vita che ti abita pare dirci il Maestro, indipendentemente dall’anfora che sei o credi d’essere. E quindi diventa creativo, generativo, metti in circolo l’amore facendo germogliare ciò che tocchi e chi incontri.
Perché questa nostra avventura terrena possa trasformarsi in una festa-senza-fine ha in fondo bisogno di molto poco: uscire dall’illusione e cominciare a sbocciare investendo sulla parte migliore di sé.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 19 Gennaio 2025 10:02

Battesimo di Gesù. Anno C

Battesimo di Gesù. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Is 40, 1-5. 9-11

Dal libro del profeta Isaia
 
«Consolate, consolate il mio popolo –
dice il vostro Dio.
Parlate al cuore di Gerusalemme
e gridatele che la sua tribolazione è compiuta
la sua colpa è scontata,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
il doppio per tutti i suoi peccati».
Una voce grida:
«Nel deserto preparate la via al Signore,
spianate nella steppa la strada per il nostro Dio.
Ogni valle sia innalzata,
ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Allora si rivelerà la gloria del Signore
e tutti gli uomini insieme la vedranno,
perché la bocca del Signore ha parlato».
Sali su un alto monte,
tu che annunci liete notizie a Sion!
Alza la tua voce con forza,
tu che annunci liete notizie a Gerusalemme.
Alza la voce, non temere;
annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio!
Ecco, il Signore Dio viene con potenza,
il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio
e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna;
porta gli agnellini sul petto
e conduce dolcemente le pecore madri».
 

Salmo Responsoriale Sal 103

Benedici il Signore, anima mia.

Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda.

Costruisci sulle acque le tue alte dimore,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento,
fai dei venti i tuoi messaggeri
e dei fulmini i tuoi ministri.

Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Ecco il mare spazioso e vasto:
là rettili e pesci senza numero,
animali piccoli e grandi.

Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni.

Nascondi il tuo volto: li assale il terrore;
togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Seconda Lettura Tt 2, 11-14; 3, 4-7


Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito

Figlio mio, è apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l'empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo.
Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone.
Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro,
e il suo amore per gli uomini,
egli ci ha salvati,
non per opere giuste da noi compiute,
ma per la sua misericordia,
con un'acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo,
che Dio ha effuso su di noi in abbondanza
per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro,
affinché, giustificati per la sua grazia,
diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna.
 
Canto al Vangelo (Cf. Lc 3,16)


Alleluia, alleluia.

Viene colui che è più forte di me, disse Giovanni;
egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.

Alleluia.

Vangelo Lc 3, 15-16. 21-22


Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».

OMELIA

Ciascuno possiede un proprio Giordano personale, una sorgente interiore da cui scaturisce il ‘fiume d’acqua viva’.
In quest’acqua, in questo luogo vivificante si è invitati a scendere ed immergersi come pratica quotidiana, in Silenzio e con fiducia.
È questo il luogo sacro al centro di sé, dove il Sé autentico dimora. Spazio in cui mi scopro puro, senza sensi di colpa, originale e autentico, e dove il giudizio degli altri è interdetto e le ferite non lasciano il segno. Luogo dove non è più necessario difendersi, mostrare qualcosa e vivere di prestazioni.
Dentro di me esiste una profondità tale dove son uno-con-me-stesso, con la natura e con Dio.
Nel deserto della vita è importante imparare a scendere nel proprio Giordano interiore e lì dimorare. Stare, stare, stare. E poi il cielo si aprirà, perché abbandonato l’io e il mio ciò che rimane è semplicemente il Tutto che si dà come ‘soffio’, vento, quella ruah femminile (Spirito Santo nel vangelo) che feconda la vita, trasformandola in un nuovo inizio, e perciò in una ri-creazione (la colomba del testo).
Ogni volta che ci siederemo praticando l’attenzione, il silenzio, il respiro torneremo a casa, luogo da cui in verità non ci siamo mai allontanati ma che per disastrosa distrazione abbiamo troppo ignorato. E qui, in questo cielo infinito di cui partecipiamo impareremo ad ascoltare le parole che affiorano e dicono: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato’.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 19 Gennaio 2025 09:53

Seconda domenica dopo Natale. Anno C

Seconda domenica dopo Natale. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Sir 24, 1-4. 8-12

Dal libro del Siracide
 
La sapienza fa il proprio elogio,
in Dio trova il proprio vanto,
in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell'assemblea dell'Altissimo apre la bocca,
dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria,
in mezzo al suo popolo viene esaltata,
nella santa assemblea viene ammirata,
nella moltitudine degli eletti trova la sua lode
e tra i benedetti è benedetta, mentre dice:
«Allora il creatore dell'universo mi diede un ordine,
colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda
e mi disse: "Fissa la tenda in Giacobbe
e prendi eredità in Israele,
affonda le tue radici tra i miei eletti" .
Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creato,
per tutta l'eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato
e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare
e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore è la mia eredità,
nell'assemblea dei santi ho preso dimora».
 

Salmo Responsoriale Sal 83

Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi.

Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.

Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.

Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun'altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi.

Seconda Lettura Ef 1, 3-6. 15-18


Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d'amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch'io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell'amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.
 
Canto al Vangelo


Alleluia, alleluia.

Gloria a te, o Cristo, annunciato a tutte le genti;
gloria a te, o Cristo, creduto nel mondo.

Alleluia.

Vangelo Gv 1,1-18


Dal Vangelo secondo Giovanni

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l'hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

OMELIA

«In principio era il Verbo,/e il Verbo era presso Dio/e il Verbo era Dio. Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui/e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste».

Così comincia l’immenso Prologo di san Giovanni.

Il termine originale – e tradotto qui con Verbo – è: Lógos, che trae origine dal verbo léghein che significa ‘mettere insieme – unire – raccogliere’, e poi anche parlare dato che parlando si mettono insieme parole.

Il Prologo ci fa memoria che ‘a fondamento, alla base, a sostrato di tutto ciò che esiste’ (così dovrebbe essere inteso ‘in principio’ e non tanto come ‘all’inizio’) vi è un ‘principio-relazionale’, unificante, una straordinaria forza, un’energia che tiene insieme i singoli minuscoli costituenti della materia, le onde e le particelle, in modo tale che da questa unione emergano livelli di ‘essere’ sempre più complessi e organizzati.

A fondamento della realtà vi è un Amore che aggrega e aggregando fa emergere vita; gli atomi si uniscono in associazioni armoniose, le particelle si uniscono a formare molecole, e le molecole si aggregano a formare organelli e poi cellule e poi tessuti, e poi organi, e così organismi, società, famiglie, sistemi. E poi ancora coscienza e autocoscienza.

In principio – a fondamento’ della realtà vi è dunque un’energia cosciente e amante (‘il Verbo era Dio’) in dialogo costante e fecondo con le forze del caos necessarie anch’esse alla vita, perché il disordine e l’errore sono necessari al prosieguo della vita.

Tutto è stato fatto per mezzo di lui’, ci ricorda ancora il Prologo. Tutto ha fatto e continua a fare questo principio amante che ‘non agisce accanto o al posto delle cose o delle persone, ma le alimenta – come dal di dentro – in modo che esse siano e possano operare’, perché ‘nel cosmo e nella storia Dio non fa nulla in più di ciò che operano le creature» (Carlo Molari).

L’Amore-Logos non è cosa da raggiungere: essendo appunto ‘a fondamento’, sostanza, ‘Essere dell’essere’ (Tommaso), possiamo solo diventarne consapevoli, accoglierlo, aprirci ad esso: ci stiamo già navigando dentro, ne siamo già inzuppati: «In lui viviamo, ci muoviamo, esistiamo» (At 17, 28). Noi, esseri-coscienti possiamo – potenzialmente – farlo, e facendolo prendiamo consapevolezza d’essere della medesima realtà: divini!


 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 29 Dicembre 2024 09:40

Sacra Famiglia. Anno C

Sacra Famiglia. Anno C

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  1Sam 1,20-22.24-28

Dal primo libro di Samuele
 
Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuèle, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto». Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre».
Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo. Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore. Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore». E si prostrarono là davanti al Signore.
 

Salmo Responsoriale Sal 83

Beato chi abita nella tua casa, Signore.

Quanto sono amabili le tue dimore,
Signore degli eserciti!
L’anima mia anela
e desidera gli atri del Signore.
Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente.

Beato chi abita nella tua casa:
senza fine canta le tue lodi.
Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio
e ha le tue vie nel suo cuore.

Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio, Dio di Giacobbe.
Guarda, o Dio, colui che è il nostro scudo,
guarda il volto del tuo consacrato.

Seconda Lettura 1Gv 3,1-2.21-24


Dalla prima lettera di san Giovanni apostol

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
 
Canto al Vangelo (At 16,14)


Alleluia, alleluia.

Apri, Signore, il nostro cuore
e accoglieremo le parole del Figlio tuo.

Alleluia.

Vangelo Lc 2,41-52


Dal vangelo secondo LucaI genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.

OMELIA

La domenica dopo Natale, per la Chiesa Cattolica, prende il nome di ‘Sacra famiglia’.
Sfogliassimo il vangelo rimarremmo un po’ delusi riguardo l’idea di famiglia che ne viene fuori. Gesù ne frantuma il fondamento, rompendo quei legami così stretti da essere coercitivi e quelle dipendenze così totalizzanti da risultare mortali.
Egli stesso s’è dovuto liberare dalle pastoie famigliari che rischiavano di rivelarsi monopolizzanti. Marco, all’inizio del suo scritto, ci ricorda che mentre Gesù parla ai ‘suoi’ gli vengono a riferire che ‘là fuori’ si trovano sua madre e i suoi fratelli giunti fin lì a prenderlo credendolo fuori di testa. E a questi Gesù risponde: lasciatemi qua, devo fare la mia strada, devo portare a compimento ciò che ‘io sono’ e non quello che voi desiderate io sia.
Gesù non perde l’occasione di ricordarci che la famiglia di sangue non è l’ultima istanza sulla vita di una persona.
«È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6, 63).
In fondo aveva ragione il poeta: «Non è la carne e il sangue, ma il cuore a renderci padri e figli» (Friedrich Schiller).
Si dà ‘famiglia’ solo laddove ci si ama.
«Mia madre e i miei fratelli son quelli che ascoltano e mettono in pratica la mia parola», ossia vivono la modalità dell’amore, ripete Gesù. Perché solo l’amore è fecondo, in quanto la sola forza in grado di portare avanti la vita. E fecondità non coincide con generatività, partorire figli. Significa piuttosto vivere qui ed ora in modo da portarsi alla luce.
A dodici anni, nel pellegrinaggio a Gerusalemme, Gesù non tornerà “a casa” coi suoi. Non può.
Ognuno deve trovare il proprio luogo esistenziale, non indicato e preparato da altri – tanto meno dai genitori – e poi abitarlo con ostinazione. Ma per far questo occorre rompere, lasciare tane e nidi, zone di confort caldi come uteri materni, e lasciar morire i propri ‘padri’, sganciarsi da legami troppo direttivi di personalità forti cui abbiamo concesso uno smisurato potere su di noi (cfr. Lc 9, 57-61).
Gesù deve occuparsi delle “cose del Padre suo” (cfr. v. 49b). La via obbligata per portare a compimento la propria vita è anzitutto quella che si prende cura del Padre interiore, quella «Presenza vivente, immanente nel creato e nelle creature che guida verso il compimento del loro specifico e personale destino» (G. Vannucci).

 
Paolo Scquizzato
 
Pagina 1 di 297

Search