Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Gesù Cristo immagine di Dio in 2Cor
di Giovanni Giavini

Il contesto della lettera

Che Gesù si «immagine di Dio» è esplicitamente scritto in 2Cor 4,4. Ma che cosa intendeva precisamente Paolo con quell’affermazione? E, una volta compresa, quale attualità possiede ancora per noi, che quasi nemmeno la usiamo per parlare di Gesù? Lo vedremo alla fine: prima, da buoni esegeti benché non specialisti «doc», dobbiamo cercare di ascoltare il testo paolino nel suo contesto originario, precisamente quello della 2Cor.

Questa lettera è, per certi aspetti, molto interessante, assai ricca di tematiche preziose per la fede cristiana di sempre; basti pensare al «caritas Christi urget nos» (la carità di Cristo ci spinge) di 5,14. La lettera è anche uno spettacolo: in quanto molto autobiografica, essa presenta al lettore una vasta gamma di sentimenti e allude a diversi episodi di quel vulcano che era Paolo; ma non solo di lui: anche dei primi cristiani, in particolare dei suoi cari e deludenti corinzi. Tra l’apostolo e loro correvano sentimenti contrastanti, specialmente lui ne è quasi travolto a ondate successive e diverse: a volte è tenero come una madre, altre invece diventa polemico e sferzante, pronto ad addolcire espressioni, sfoghi, colpi severi. Soprattutto egli è preoccupato di difendere a spada tratta il suo «evangelo», ossia la sua tipica e appassionata proclamazione di Gesù crocifisso, risorto, Signore; e di difendere anche il suo ministero apostolico, compreso il suo stesso modo d’agire con la Chiesa di Corinto.

Tutto ciò imprime alla 2Cor un tono molto simile a Galati, altra lettera stupenda ma assai difficile: per la forte carica emotiva e polemica. Si sa: quando scrivi sotto la pressione dei sentimenti e volendo anche polemizzare con gli interlocutori diretti, si battono e ribattono errori, esagerazioni, approssimazioni, accuse; si sfrutta il loro linguaggio per arrivare dritti allo scopo, senza troppe attenzioni alla precisione e alla logica concatenazione del discorso: le idee escono a fiotti, per contrasti, lasciando da parte o da ricostruire una sintesi organica. Tanto più quando si scrive o parla è un semita, come lo era Paolo, e non un greco abituato alla chiarezza e alla logica dell’analisi e della sintesi.

È appunto in un contesto vivace e polemico, appassionato e forte, che è inserita anche l’affermazione di Cristo «immagine di Dio». Altrove Paolo aveva scritto, e proprio ai corinzi, che l’uomo è «immagine e gloria di Dio», anzi il maschio (1Cor 10,7: altro testo polemico, contro un esagerato femminismo, dove le idee si rincorrono e si correggono l’un l’altra); in 1Cor 13,49 aveva già messo accanto all’idea del vecchio Adamo come «immagine di Dio», che noi condivideremo quaggiù, quella di Cristo risorto come «immagine» che condivideremo in giorno (cf. anche Rm 8,29); in 2Cor 4,4 invece l’apostolo sembra ignorare del tutto che anche Adamo era immagine del Creatore. Perché? Per una specifica polemica, che ora dobbiamo considerare da vicino.

Vecchia e nuova alleanza

La polemica immediata riguarda un tema paolino classico (Fil 3, Gal, Rm, Ef): quello del rapporto tra Toràh e Gesù Cristo, tra Antico Testamento, tra opere della legge e fede, tra lettera e Spirito. Questo tema è assai spinoso, anche per le difficoltà già a tradurre e poi a comprendere il senso esatto dei termini e delle questioni. Anche qui esistono problemi di traduzione e di comprensione, come annotano i commentatori citati in bibliografia; vi sorvoliamo, limitandoci ai punti più importanti.

Il nostro brano abbraccia tutto il c. 3 e va almeno fino a 4,6. Esso contrappone polemicamente le figure di Mosè e di Gesù Cristo, il ministero o diaconia del primo e quello del secondo: uno è diaconia della «lettera che uccide», ossia della legge incisa su tavole di pietra, l’altro è ministero dello «Spirito che dà vita». Ovviamente l’esaltazione dell’opera di Cristo comprende e produce anche quella del ministero apostolico di Paolo, in quanto dipende e prolunga quello di Gesù.

Il contrasto tra le due diaconie, quella di Mosè e quella di Gesù e del suo apostolo, si sviluppa in un modo molto originale e sorprendente, ma molto illuminante per il nostro tema. Paolo sfrutta (vv. 7-11) la famosa pagina di Es 34, che parla dello splendore irraggiante dal volto di Mosè dopo i suoi incontri con Dio e con la luce della sua parola. Pur polemizzando, l’apostolo non nega, anzi afferma che quello splendore era vero e significativo; ma, scovando un senso possibile e implicito in Es 34,33-35, egli dice che esso era anche «effimero», passeggero; anzi Mosè apposta si metteva un velo sul volto per nascondere il carattere passeggero di tale splendore!

Qui Paolo ricorre al metodo rabbinico di cavare dalle Scritture sensi impliciti, possibili e pur discutibili. Probabilmente quel metodo risultava molto adatto (come gli argomenti ad hominem ed altri simili) per dare a intendere ai suoi cristiani di Corinto, giudei o giudaizzanti, ciò che veramente gli premeva: Cristo comunica al suo apostolo una forte audacia e franchezza, per la quale questi non si pone alcun velo sul viso, perché in lui risplende una luce non effimera, non passeggera, non limitata!

Ma proprio qui il testo s’ingarbuglia e risulta un po’ difficile seguirlo (vv. 12-15). Paolo infatti sembra innanzitutto pensare che, come lui, anche i cristiani autentici non si pongono un velo sugli occhi quando leggono la parola delle Scritture: ne sono illuminati un modo diverso da Mosè e soprattutto dai giudei legati ancora a lui e alla sua legge. Su questo limite, su questa lettura dell'antica alleanza velata come da un velo sugli occhi, Paolo ora insiste. I giudei, ma gli stessi cristiani di Corinto a loro troppo legati, non riescono a leggere bene le antiche Scritture, a scoprirne, con lo splendore, anche i limiti. Per leggerle bene occorrono occhi e cuore liberi dal velo, occorrono occhi e cuore di Cristo. Perché?

In modo rabbinico i vv. 16-17 offrono una risposta, un po’ oscura per noi (c’è qualche velo anche su noi, o Paolo non si è espresso in modo felice?). Interpretando un po’ liberamente Es 34,34 e giocando sul doppio senso del termine greco «Kurios - Signore» e su quello di «rivolgersi - conventirsi», egli fa capire che: come Mosè quando rivolgeva/convertiva al Signore Dio si toglieva il velo dal viso per esserne illuminato (sia pur in modo effimero), così anche il giudeo sarà illuminato veramente e raggiungerà la forza vitale delle Spirito e la vera libertà a patto che non si limiti alla lettera scritta su tavole di pietra o nelle Scritture antiche, ma si rivolga/converta al Signore Dio e al Signore Gesù: ora infatti conosciamo il Signore Dio e il suo Cristo assai di più del pur irraggiato Mosè.

Il v. 18 torna «noi tutti» credenti nel Dio di Mosè e in Gesù: la fede ci permette un nuovo e decisivo contatto (sia pure come mediante uno specchio) con la luce della vera gloria di Dio; ma questo contatto non è solo una conoscenza intellettuale: ci trasforma sempre più «in quella medesima immagine […] per l’azione del Signore [Dio e Gesù], cioè del suo Spirito». Qual è quell’ «immagine»? Il contesto non lascia dubbi: è proprio Gesù, in quanto rispecchia e riecheggia la luce e la gloria di Dio assai di più di Adamo (e quindi di ogni uomo) e soprattutto di Mosè e della sua legge pur splendida! Conviene ricordare che un certo giudaismo aveva divinizzato la legge, assimilandola alla Sapienza, alla Parola, alla vita e alla luce di Dio stesso (cf. Sir 24; Baruc 3,9-4,4 e tradizioni giudaiche connesse).

Gesù, immagine di Dio

In 4,1-2 Paolo riafferma l’autenticità del contenuto e del metodo del suo apostolato. Nei vv. 3-4 dà un’amara e polemica (quindi parziale) spiegazione del fatto che molti (tra i giudei e i pagani?) non credono ancora al vangelo: «Si perdono, perché il Dio di questo mondo ha accecato la loro mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio».

È qui che troviamo esplicitamente il nostro tema, ormai ben illuminato dal contesto precedente e completato dal v. 6: «Sul volto di Cristo rifulge la gloria di Dio», la sua presenza illuminante e salvifica, più che nella divina legge, nel tempio e soprattutto più che nel vecchio Adamo e in altre realtà pur belle e buone.

Paolo, per grazia, rispecchia quello splendore e lo irradia, così che anche i suoi cristiani di Corinto ne sono illuminati e divengono a loro volta illuminanti nel loro mondo (cf. 2Cor 3,1-3: la Chiesa di Corinto – pur con tutti i suoi difetti! – è «lettera di Cristo» inviata al mondo).

Come le Chiese degli autentici credenti effettivamente riflettono e irradiano lo splendore che rifulge sul volto di Cristo? In 2Cor Paolo risponde: specialmente con la testimonianza della speranza anche di fronte alla morte (4,7-5,10) e con la carità tra genti diverse, di cui la colletta per i poveri di Gerusalemme era segno preclaro (cc. 8-9). Facile viene il richiamo a 1Cor: anche là (c. 15) il tema di Cristo-immagine era connesso con la speranza e alla speranza non poteva mancare la «via della carità» (c. 13).

Oltre al richiamo a testi paolini precedenti si potrebbe anche procedere verso altri testi successivi, nei quali ritorna il tema di Cristo-immagine di Dio: Col 1,15 è chiaro; più vaghi Col 3,10 ed Eb 10,1, ma anche qui incontriamo gli stessi aspetti di 2Cor 4. Interessantissimo il confronto con il prologo di Giovanni: Gesù non vi compare come immagine di Dio, ma come sua «Parola»; il messaggio però è identico: «La Parola s’è fatta carne […] e noi vedemmo la sua gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità […]. La legge fu data [fu quindi anch’essa un dono] per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità [ossia la grazia quella vera, quella piena e definitiva] avvenne per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,14-17; cf. anche 1Gv 1,1-4). Le analogie tra Giovanni e il paolo di 2Cor 4 sono davvero molto forti, al di là del linguaggio leggermente diverso.

Dalla 2 Corinzi a noi

Dopo aver ascoltato il testo paolino nel suo contesto originale e quindi colto il suo messaggio alla Chiesa di Corinto, ora avviamo qualche rilettura attualizzante per il nostro tempo.

Come sempre, anche qui Paolo ci trasfonde la forza e il calore della sua fede in Gesù Cristo e nel suo Dio. Non era facile allora credere che sul volto di quel crocifisso risplendesse la gloria di Dio, quando tutto induceva a pensare che su di lui pesassero una «maledizione», quella della Toràh sugli appesi a un patibolo (Dt 21,23; Gal 3,13) e l’ombra di una «scandalosa follia» (1Cor 1,18-23). Non era facile allora, certo, ma nemmeno adesso, quando tanti fatti mettono in crisi la nostra fede nel Signore Gesù e nel suo Dio. Ben altri infatti sembrano i veri «signori» e i veri «dèi». Di qui la crisi forse più profonda che stiamo attraversando. Paolo ha forza da venderci al riguardo.

La fede in Cristo non era pura «gnosi», semplice conoscenza intellettuale di qualche messaggio astratto, generico, semplicemente rivestito di una storia apparente (come quella della New Age e di altri movimenti religiosi antichi e recenti). Certo, la fede era anche gnosi, comprendeva cioè anche una conoscenza e precisamente di una storia vera, recente, bella ma anche drammatica (la croce!), ma diventava poi dinamica: produceva speranza e carità, quelle che derivano dalla convinzione che Cristo crocifisso e glorioso (risorto), lui e lui solo, era la vera «immagine» di Dio e quindi anche il vero Adamo, l’autentico uomo: un uomo capace di vincere anche la morte e di costruire nuovi ponti tra popoli, razze, religioni diverse, superando anche i limiti e le barriere della vecchia legge mosaica.

Qui tocchiamo un altro problema attualissimo: il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra Israele e Chiesa, tra legge mosaica e morale cristiana. Lo sappiamo: è un problema assai delicato e arduo, anche perché siamo stimolati e pressati da tendenze diverse: da quella che tende a svalutare del tutto o quasi l’Antico Testamento, l’antica alleanza e la sua legge, oppure a leggerlo allogoricamente, solo come premessa, anticipo, profezia di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti, ecc. (tendenza molto diffusa in passato e non defunta nemmeno tra la nostra gente); e da quella che invece cerca di mantenere all’Antico (o «primo») Testamento un autentico, originale, perenne valore salvifico almeno per gli ebrei, se non addirittura per la Chiesa stessa. Il testo di 2Cor 3-4 suggerisce un corretto equilibrio: l’Antico Testamento, con le sue realtà, era e rimane «splendido», ma di uno splendore non pieno, incompleto, relativo rispetto a quello del volto di Cristo.

È questa la linea che ci permette, da una parte, di valorizzare i tesori della tradizione ebraica (pensiamo, per esempio, alla straordinaria ricchezza e attualità dei profeti, di Giobbe, dei Salmi, della Genesi, che una volta si studiavano quasi solo per cercare le scarse profezie sul Messia); dall’altra, di coglierne anche i limiti, la temporalità, i legami con culture precristiane e con le varie fasi della «pedagogia» di Dio nel condurre il suo popolo verso la pienezza della grazia e della verità (pensiamo, per esempio, alle pagine sulle guerre e su altri aspetti della vita morale o a quelle in cui appare ammessa l’esistenza di altri dei). Tutto ciò, ovviamente, a prescindere da qualsiasi giudizio sul cammino personale o di coscienza dei singoli «fratelli maggiori». La posizione di Paolo e di Giovanni, vista sopra, si può leggere nella Dei Verbum del Vaticano II (nn. 14-16) e in modo più ampio e mirabile nel recente documento: Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.

Da ultimo 2Cor 3-4 è pure un esempio (pienamente riuscito?) di inculturazione della fede cristiana: è evidente, infatti, lo sforzo, purtroppo anche polemico, di paolo di trasmettere ai suoi lettori immediati quella fede tradizionale con vari linguaggi adatti a loro, specialmente con quello giudaico-rabbinico e i rispettivi metodi usati allora (e non solo allora). Anche per questo aspetto, pur meno importante dei precedenti, il brano paolino si dimostra attuale. Ci è costata un po’ di fatica la sua esegesi, ma , a conti fatti, n’è valsa la pena…o no?

(da Parole di vita, 5, 2002)

Venerdì, 17 Febbraio 2006 20:40

L’amore immotivato (Giovanni Vannucci)

L’amore immotivato
di Giovanni Vannucci



Gesù, invitato a pranzo da uno dei capi religiosi del suo popolo, osservò come molti ospiti discutevano per decidere chi doveva sedere a capo tavola e chi più vicino o lontano dai notabili. Con fine senso realistico e ironico, osserva che l’invito a pranzo è un gesto di amicizia per consumare dei cibi con semplice gioia; la ricerca dei primi posti a tavola è l’espressione di una vanità che niente ha a che fare con la gioia di consumare insieme un pasto con amici, anzi ne costituisce un avvelenamento.

«Quando sei invitato a pranzo, scegli con semplicità l’ultimo posto, lascia al capotavola la libertà di chiamarti più vicino a lui [...]. Se poi tu fai un pranzo, invita alla tua tavola i poveri, i reietti, quelli che non possono darti niente in contraccambio. Compi un gesto di amore disinteressato, la ricompensa ti sarà data sul piano dell’infinita coscienza di Dio, a essa la tua gioiosa liberalità ti introdurrà» (cfr. Lc 14, 8-14).

La grande catena dell’amore universale viene tracciata e indicata da queste semplici parole: «Dona a chi non può contraccambiarti il tuo dono, offri i tuoi pranzi a chi non può invitarti a sua volta. Se inviti chi può restituirti il pranzo, tu non esci dai confini di un misero egoismo; invita chi non potrà renderti il contraccambio, in tal modo la tua gioiosa generosità ti aprirà un credito presso il Padre che è nei cieli» (cfr. Lc 14, 12-14).

Ogni azione umana crea continuamente dei vuoti e dei pieni, apre delle parentesi che dovranno venir chiuse. Se l’uomo fa il male come reazione al male, chiude una parentesi aperta dal male inferto; se fa il male per il male, apre una parentesi creando un vuoto che gli attirerà del male. Cosi avviene per il bene. Se l’uomo usa generosità per attirare generosità, apre e chiude questa parentesi; ma se è generoso con chi non potrà ricambiarlo, apre un vuoto di bene in cui entrerà dell’altro bene per colmarlo.

Quando uno fa del male come reazione a un male, chiude la parentesi del male; in questo caso vige la legge del taglione, chi è stato offeso può domandare giustizia: giustizia che è sempre una larvata forma di vendetta e, una volta soddisfatta l’esigenza di giustizia, la parentesi è chiusa, l’offensore ha pagato, non deve più nulla; l’offeso non ha più alcun diritto. Ma se chi ha ricevuto l’offesa non reagisce, l’offensore apre in sé un vuoto che sarà fatalmente ricolmato da un’altra offesa, anche se interviene il perdono dell’offeso.

Una legge severa presiede a questi meccanismi; così colui che fa il bene, e di questo riceve la ricompensa e la gratitudine del beneficato, chiude la parentesi, e il benefattore ha ricevuto la sua ricompensa; se invece la generosità è gratuita, se l’amore non è limitato da nessuna finalità, se qualcuno rivolge la sua forza di amore e di dono a chi non potrà rispondergli con altra generosità e amore, si stabilisce una corrente di vuoto che sarà colmata da altra generosità e da altro amore.

Le nostre azioni, le nostre opere di cristiani dovranno essere contrassegnate dall’apertura di una assoluta gratuità: questa stabilirà un continuo flusso di bene e di grazia tra il cielo e noi. E ci libererà da tutte quelle solidificazioni create dall’ambizione vanitosa di porre una finalità alle nostre azioni, anche a quelle che riteniamo più conformi alle qualità cristiane. Amiamo «per», preghiamo «per», facciamo delle opere sociali «per»; motivare l’amore non è amare, avere una ragione per donare non è dono puro, avere una motivazione per pregare non è preghiera.

Cristo ci dice: «Se dai un bicchier d’acqua a chi ha sete, nel mio Nome, non lo dai all’assetato, ma a Me!» (cfr. Mt 25, 35 s). «Nel Nome del Signore» vuoi dire nella più assoluta gratuità, nell’amore più libero e oggettivo, nella vastità della Coscienza divina che a noi si è rivelata come Pane e come Vino.

La finalizzazione dell’amore porta all’affermazione di lottare perché questo nostro amore si affermi, alla necessità di essere più forti, più abili, più tortuosi per imporlo, alla necessità di apparire portatori dell’amore, alla necessità delle mille strutture per renderlo obbligatorio. Quando saremo soltanto amore, dono e preghiera, come è Dio e il suo Cristo?

«Ai tuoi pranzi non invitare gli amici, i potenti, i consanguinei [...]. Al contrario invita i poveri, i reietti, gli storpi, che non avranno mai di che ricompensarti» (Lc 14, 12-14). Il tuo amore sarà immotivato come l’amore del Padre che è nei cicli, il tuo dono sarà l’offerta pura e incontaminata che è accetta a Colui che crea, ama, dona per la pura gioia della creazione, del dono, dell’amore! Altrimenti creerai delle strutture, dei modelli, delle forme che ti faranno sentire potente, generoso, buono, e perderai te stesso e le tue opere nelle strettoie del secolo presente! Ti sei mai domandato se lo sbocciare di un fiore, il canto dell’usignolo, il brillare di una stella sono motivati? Impara dai gigli dei campi, dagli uccelli dell’aria la grande lezione del dono puro e immacolato da finalità!

Solo colui che ha raggiunto il senso della sua eternità può non dare importanza al tempo e alle egoistiche esigenze del tempo. Solo colui che è forte ama senza porsi dei perché; solo colui che è forte dona generosamente e instancabilmente come il Creatore della vita. Cristo ci addita la via per diventare forti, ricchi, per attuare l’essenzialità del regno di Dio, essenzialità che è potenza di spirito, e che qualcuno raggiungerà quasi a sua insaputa, come il contadino che lavorando il campo trova un tesoro, altri invece conquisterà per appassionata ricerca, come il mercante di perle.


Giovanni Vannucci, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985. «L’amore immotivato», 22a domenica del tempo ordinario. Anno C., Pag. 178-181.

Venerdì, 17 Febbraio 2006 20:16

Il Tibet della Cristianità (Piero Pisarra)

Il Tibet della Cristianità

di Piero Pisarra


«Ci sono luoghi al mondo in cui la natura sembra offrirsi un santuario, con tutta la ricchezza del simbolismo primordiale: centro, asse, bellezza paradisiaca delle acque. E l'Athos è uno di questi», ha scritto il teologo Olivier Clément.

Monte Athos, Aghion Oros, Santa Montagna. Da più di un millennio il promontorio orientale della penisola Calcidica - secondo la mitologia, fu scagliato in mare dal gigante Athos in collera con Poseidone - richiama monaci e viandanti dell'assoluto. Dell'Athos parlano, nelle veglie attorno al fuoco del grande inverno siberiano, i personaggi di Leskov. All'Athos sogna di andare il Pellegrino russo, autore dei celebri Racconti. E all'Athos, quando le convulsioni della storia si fanno insopportabili, quando le guerre e l'odio lacerano l'umanità, si rivolgono le speranze del mondo ortodosso. Perché l'Aghion Oros non è soltanto un luogo di aspra bellezza, rifugio ideale di asceti in fuga dalle lusinghe del secolo: è anche, come vuole la leggenda, il "giardino della Vergine", precluso a ogni altro volto di donna. Un luogo di battaglie spirituali e di pace, di hesychia, la pace interiore che nasce dalla ripetizione incessante della "preghiera di Gesù" («Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»), secondo il ritmo della respirazione.

Alla frontiera del mondo greco e del mondo slavo unito dal Mediterraneo ai patriarcati orientali e alla cattolicità latina, l'Athos - aggiunge Clément - sembrava predestinato «a diventare il cuore di una Chiesa che si definisce soprattutto come un mistero di deificazione». Ed è così che è stato visto da intere generazioni di credenti.

Cuore dell'ortodossia, Tibet della cristianità: queste definizioni possono farci sorridere, ma esse hanno affascinato i viaggiatori dei secoli scorsi, gli antenati di Bruce Chatwin e di William Darlymple, che a dorso d'asino - coi loro pesanti bagagli - venivano qui a respirare una dose di esotismo, senza le fatiche di un viaggio nella lontana India. Nel 1834, sir Roben Curzon concluse il suo viaggio tra i monasteri d'Oriente, alla ricerca di antichi manoscritti, qui all'Athos (si veda il suo pittoresco resoconto: Visits to Monasteries in the Levant, Century, Londra, 1983). E quasi un secolo dopo, nel 1926, il giovane Robert Byron, omonimo del celebre lord, vi fece due lunghi soggiorni. Curzon comprò per poche sterline, ingannando i monaci, manoscritti antichissimi. Byron, più disinteressato o squattrinato, si accontentò di raccontare il paesaggio umano e spirituale dell'Athos in un libro che avrebbe influenzato in maniera durevole i travel writer delle generazioni successive (The Station, tradotto sciattamente da Bompiani nel 1952, col titolo Monte Athos). Ma la descrizione più accurata della vita sulla Santa Montagna, prima che i germi della modernità - come lamenta l'autore - introducessero anche qui «gli agi e le usanze mondane», si deve alla penna e al pennello di Fortunato Perilla.

Sfoglio con emozione il Monte Athos del pittore italiano (Parigi e Salonicco, 1926), ricco di xilografie, corredato di acquerelli: monaci dalla lunga barba, con il tradizionale copricapo (lo skufos) oppure con l'abito angelico, il megaloskima dei monaci professi; volti levigati dagli anni, ma da cui emana una luce interiore come nei santi delle icone; novizi coi capelli raccolti a crocchia, secondo l'uso orientale. Perilla non trascura alcun dettaglio: gli affreschi antichi, le reliquie, i sigilli, le simandre, cioè le tavole di legno sulle quali ancora oggi i monaci battono ritmicamente per invitare alla preghiera o al riposo, le fiali, cioè i chioschi con al centro una fontana in cui è così gradevole prendere il fresco nelle sere d'estate.

Sono passati circa ottant'anni, eppure quel libro sembra parlare di oggi. Perché se anche qui trillano i cellulari, se le jeep e le Range Rover hanno sostituito gli asini e i muli, se i monaci non disdegnano Internet e le autostrade telematiche, l'Athos è pur sempre un angolo di Bisanzio sopravvissuto per miracolo agli assalti della modernità. Nulla sembra distinguerlo dall'ambiente circostante, dal resto della penisola Calcidica: qui ritrovi la stessa vegetazione, querce, castagni, cipressi, eucalipti, ulivi, aranci, gli stessi odori di origano e di basilico, la luminosità accecante, i riflessi dorati sull'azzurro dell'Egeo. Ma non appena si arriva nel porticciolo di Dafnì sembra di essere in un altro mondo, in un'altra dimensione. E non solo perché si torna indietro di tredici giorni, calendario giuliano oblige. «Qui il tempo sembra essere fatto di una sostanza differente. E il mondo dei vivi riproduce con tanta precisione quello dei morti e degli antenati che i monaci danno talvolta l'impressione di essere icone animate, ombre di ieri smarritesi nel nostro presente», ha scritto Jacques Lacarrière che all'Athos ha dedicato uno dei suoi libri più belli (L'ètè grec, 1975).

Le icone animate, i primi anacoreti, scelsero questi luoghi, le grotte a strapiombo sul mare, già nel VII e nell'VIII secolo, quando l'impero bizantino era lacerato dalla controversia iconoclasta. Ma il primo eremita venerato dai monaci della Santa Montagna è Pietro, un ex soldato che nelle caverne dell'Athos trascorse cinquantatre anni in solitudine, nel IX secolo. A Pietro l'Atonita apparve in sogno - così racconta la Vita scritta dal monaco Nicola nel X secolo - la Theotokos, la Madre di Dio. «La tua dimora sarà sul Monte Athos che su mia richiesta ho ricevuto in eredità da mio figlio», gli disse la Vergine. «Là quelli che abbandoneranno i turbamenti mondani e abbracceranno le cose spirituali, secondo le loro forze, e invocheranno il mio nome in verità, fede e disposizione d'animo, trascorreranno la vita presente e guadagneranno la vita futura per mezzo di opere gradite a Dio». Secondo la profezia, il Monte Athos si sarebbe riempito di monaci da un capo all'altro. E così avvenne. Non lontano dalle caverne degli eremiti, sorse il primo monastero, fondato da Atanasio, un greco di Trebisonda, amico del futuro imperatore Niceforo Foca.

La prima pietra della Grande Lavra fu posta nel 963. In pochi decenni, sulle tracce di Atanasio l'Atonita, arrivarono, da ogni regione dell'Oriente cristiano e poi anche dall'Occidente, centinaia di uomini: greci, georgiani, slavi del Sud, italiani. Lungo la costa, sorsero i monasteri di Vatopediou, Zografoti, Filotheou, Dochiariou, Xenophontos e Iviron. Serbi e russi arrivarono più tardi, tra l'XI e il XII secolo. Con la benedizione di patriarchi e imperatori, era nata una curiosa Repubblica monastica, uno Stato federale, senza esercito, ma sotto la protezione della Vergine. Accanto ai venti monasteri maggiori o lavre, furono fondate numerose dipendenze, che ospitavano comunità più piccole. Tutte le forme di vita monastica trovarono rifugio nel giardino dell'Athos: da quella eremitica a quella cenobitica e alla idiorritmica, secondo la quale ogni monaco organizza in maniera indipendente la propria vita, con pochi obblighi comunitari. Senza dimenticare i "folli in Cristo" della tradizione russa, dal comportamento che alle cosiddette persone normali può sembrare stravagante, ma che è il segno di una saggezza più alta (quella delle beatitudini). E i sarabaiti, i monaci girovaghi, a volte indicati a cattivo esempio, nella letteratura spirituale, per la loro irrequietezza.

Arrivarono anche i maestri dell'arte bizantina: nel XIV secolo, Manuele Pansélinos e i suoi discepoli affrescarono le chiese di Vatopediou, Chilandari e Karyes, nello stile della cosiddetta "scuola macedone", conciliando ieraticità e umanità nella raffigurazione dei personaggi e degli episodi del Vangelo. Poi, tra il XV e il XVI secolo, si impose lo stile cretese, più austero e di una religiosità tutta interiore. Ai grandi cicli della "scuola macedone", gli artisti di questa nuova corrente - il cui iniziatore fu il grande Teofane di Creta - preferivano composizioni più vicine, nella tecnica e nello spirito, alle icone o alle miniature destinate a favorire la contemplazione e la preghiera. Sull'Athos sorsero vari atelier, laboratori iconografici che nulla avevano da invidiare alle botteghe dei maestri italiani. E anche per la vita spirituale cominciò una fase nuova.

Gli uomini che avevano scelto il nascondimento, che in alcuni casi avevano abbandonato il potere o rinunciato al mestiere delle armi, che avevano lasciato affetti e amicizie, cantavano nel giardino della Vergine, in liturgie interminabili e affascinanti, le lodi al Signore del cosmo e della storia, il Pantocrator di cui vedevano, alla luce tremula delle candele, la figura maestosa negli affreschi o nei mosaici delle loro chiese. Vita angelica: così la tradizione definisce il monachesimo. Ma quella dell'Athos era una vita dura, povera, essenziale, nel rispetto della sobrietà e della vigilanza, la nepsi, che i Padri consideravano come valore fondamentale, per non lasciarsi sorprendere dal nemico in agguato e non essere vinti dalle passioni.

Vita di lotta spirituale e di penitenza, perché - come scrisse Gregorio Palamas in un encomio di san Pietro l'Atonita - «quando la mente si leva al di sopra di tutte le cose sensibili ed emerge dal diluvio turbinoso che le circonda e osserva l'uomo interiore, e vede la ributtante maschera derivata dalla caduta, cerca di lavarla con l'afflizione». Testimoni dell'unità e l'universalità dell'Ortodossia, i monaci atoniti hanno salvato in almeno due occasioni, secondo Olivier Clèment, la Chiesa ortodossa: nel XIV e nel XVIII secolo al momento della polemica sull'esicasmo che scosse l'Oriente cristiano e all'epoca dell'Illuminismo, quando la fede sembrava minacciata dalla dea Ragione.

Nato in ambiente monastico, l'esicasmo (da hesychia) trovò sull'Athos il terreno più fertile. Non soltanto una corrente teologica o un movimento che mette l’accento sulle “energie divine” all’opera nel mondo e che trasfigurano il creato, bensì una via alla contemplazione. Un "metodo" basato sul respiro e caratterizzato da una particolare postura del corpo, la testa raggomitolata tra le gambe. E che anche per questo si attirò il sarcasmo di un teologo come il monaco calabrese Varlaam di Seminara. «Omfalolatri, adoratori dell'ombelico», fu il giudizio sprezzante e superficiale. Gregorio Palamas (1296-1357), che era stato monaco dell'Athos prima di essere eletto arcivescovo di Tessalonica, definiva la vera hesychia come «il ritorno e la conversione della mente a sé», cammino di unità e di pacificazione interiore, illuminato dalla grazia. Il contrario, insomma, del ripiegamento narcisistico su sé stessi o sul proprio ombelico.

L'esicasmo segnò in profondità la vita del monachesimo atonita. E i suoi frutti, dopo periodi di crisi o di stagnazione, si manifestarono nel XVIII secolo, in tutto l'Oriente cristiano, in quella che fu chiamata l'epoca del "rinnovamento filocalico".

Sull'Athos, Macario di Corinto e Nicodemo l'Agiorita compilarono l'antologia che avrebbe rivelato all'Europa, nel clima dell'Illuminismo, la ricchezza della tradizione ascetica e mistica dell'Oriente cristiano, dai Padri del deserto ai grandi "teorici" dell'esicasmo, Gregorio il Sinaita e Gregorio Palamas.

Stampata a Venezia nel 1782, la Filocalia ebbe un impatto fortissimo nel mondo slavo, grazie alla traduzione di un grande maestro spirituale, lo starec Paisij Velickovskij. La "vita angelica" era, dunque, nient'altro che filocalia, amore della bellezza. Al di là del colore, delle lunghe liturgie e dei riti che tanto colpivano i viaggiatori occidentali, l'Athos aveva conservato per secoli, non come un tesoro inaccessibile ma come pratica di vita ascetica, la tradizione dei santi padri, l'insegnamento di Evagrio, di Massimo il Confessore, di Simeone il Nuovo Teologo. Così come aveva custodito gelosamente la tradizione dell'arte bizantina e ne aveva tramandato i canoni in un manuale preziosissimo per gli iconografi e gli studiosi di iconografia: l'Ermeneutica della pittura di Dionisio da Furnà (XVIII secolo).

Ma forse a queste due epoche, all'esicasmo e al rinnovamento filocalico, bisogna aggiungere il periodo della grande glaciazione comunista, quando anche sull'Aghion Oros si preparava la rinascita dell'Oriente cristiano, con i santi anonimi che qui custodivano i tesori spirituali della Santa Russia. O l'epoca immediatamente precedente la rivoluzione sovietica, quando al monastero di San Panteleimonos viveva, facendo il mugnaio, un uomo semplice, senza grande cultura, ma che fu uno dei grandi mistici del XX secolo: Silvano dell'Athos. Un uomo che bruciava di compassione per i suoi simili e per tutte le creature. E che anche nel buio della tentazione o della prova diceva: «Fratello mio, chiunque tu sia, per quanto grande sia il tuo peccato, per quanto oscura sia la tua tenebra, tieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare!».

Nato in uno sperduto villaggio della provincia di Tambov, in Russia, nel 1866, Silvano visse per quarantasei anni sul Monte Athos, fino alla morte nel 1938. «Fin dalla mia infanzia amavo il mondo e le sue bellezze», scrisse nei suoi quaderni spirituali. «Amavo i boschi, i verdi giardini e i campi, amavo guardare le nuvole splendenti e vederle correre nell'azzurro cielo, e tutto il mondo di Dio creato in modo così meraviglioso. Ma da quando ho conosciuto il mio Signore, è cambiata ogni cosa dentro di me, non desidero più contemplare questo mondo, ma l'anima mia è attratta incessantemente verso quel mondo dove si trova il Signore». Per tutta la sua vita, l'ex contadino russo, divenuto uno starec amato e ascoltato, volle essere testimone dello Spirito, «perché lo Spirito Santo è la vita eterna».

Quanti monaci come Silvano, quante altre icone viventi hanno percorso i sentieri dell'Athos? Quante altre storie di santità celano le grotte e i monasteri dell'Aghion Oros? Quanti altri uomini spirituali, veri pneumatikoi, praticano la preghiera di Gesù, alla ricerca dell’hesychia, il silenzio del cuore e dei pensieri, la serenità piena che nasce dalla lotta contro le passioni e che non è indifferenza al mondo, ma una forma più alta di compassione?

Ora, dopo il crollo dell'impero sovietico, l'Athos conosce un'altra fase di rinnovamento. Progressivamente, i monasteri hanno abbandonato il sistema idiorritmico, all'origine di molte contraddizioni e di abusi, per la vita cenobitica. Sotto l'impulso dei monaci di Stavronikita, Iviron, Simonos Petra, hanno riscoperto le radici autentiche della vita monastica, lo studio dei Padri, il valore della nepsi e dell'hesychia. Mai interrotti, i legami con i Paesi di quello che fu il blocco comunista sono ora più frequenti. E anche dai luoghi più lontani della diaspora ortodossa - America, Australia - arrivano nuovi candidati alla vita monastica, nuovi postulanti. L'Athos vive una nuova primavera. Eppure, di tanto in tanto riaffiora la tentazione della chiusura, dell'integralismo, della conservazione gelosa dell'identità ortodossa. Come nel 2003, quando alcuni monaci di Esfigmenou, ribellandosi al Patriarca di Costantinopoli, giudicato troppo aperto, troppo debole verso l'Occidente, issarono la lugubre bandiera: «Ortodossia o morte!».

Battaglie di retroguardia? Scaramucce di una piccola minoranza? Manifestazioni di"zeloti", nemici del dialogo ecumenico, difensori di un ritualismo senz'anima? Certamente. Nella stragrande maggioranza, i monaci disapprovano questo fanatismo, anche se la diffidenza per l'altro, in particolare per i latini (fratelli sì, ma eretici) è ancora forte. Ma è inutile applicare, a una realtà così complessa, troppo riduttive categorie di giudizio, schemi politico-teologici che non reggono alla prova dei fatti.

«L'Athos sconcerta gli occidentali», scrive Olivier Clément nei Dialoghi con Atenagora. «E talvolta di esso si nota soltanto l'aspetto pittoresco o le ombre: la sporcizia, le celebrazioni dall'orario indefinito, la tentazione dell'omosessualità. Ma questo operaio che lavora al mulino è forse uno starec Silvano. La santità non si vede. Tuttavia essa riempie certi luoghi, e l'anima attenta scopre subito che il silenzio delll'Athos è saturo di santità». Saturo di santità e di bellezza.

(da Jesus, agosto, 2004)

Alla luce del nuovo orizzonte tracciato diventa comprensibile che la prospettiva dell'interculturalità abilita il cristianesimo alla pluralità delle culture e delle religioni, che lo abilita all'esercizio plurale della propria memoria e alla rinascita, a partire dalla rinuncia a ogni centro di controllo, con la forza di tutti i luoghi della pluralità.

Anche l'islam storico (alla pari di altre religioni, tra cui il cristianesimo) ha conosciuto la "strumentalizzazione" della religione da parte della politica. Ma questo è l'islam "politico", che fa a pugni con la coscienza moderna dei diritti della persona umana.

Se la domenica è la Pasqua settimanale, la Pasqua è la grande domenica annuale. E se tutta la settimana converge verso la domenica e da essa riparte per vivificare, alla luce del Mistero celebrato, la nuova settimana, così la Pasqua è la meta del cammino quaresimale e sorgente della vita nuova donataci dal Cristo.

L'affaire delle vignette satiriche
di Maria Domenica Ferrari

“La reazione di certi musulmani si situa al di là del surrealismo” inizia in questo modo un articolo dell'ex mufti di Marsiglia Sohieb Bencheick.

Questo breve scritto è una specie di collage di articoli e interventi su blog che darà voce alla maggioranza silenziosa di tutti quei musulmani che in questi giorni si sentono offesi non tanto per le caricature, ma, da una parte per il monopolio mediatico esercitato dagli integralisti e dall'altra dai media occidentali che ne diventano i portavoce.

Alla fine di settembre 2005 un giornale danese ha pubblicato una serie di vignette che avevano come soggetto Muhammad. Dopo le proteste, prima di alcuni paesi musulmani e, poi, della Lega Araba l'affare scoppia alla fine di gennaio quando l'Unione Internazionale degli Ulema, al Cairo, chiede ai musulmani di boicottare i prodotti danesi e norvegesi. Sull'onda delle crescenti manifestazioni di piazza (spontanee?) a fine gennaio le vignette compaiono prima su un giornale norvegese e in seguito su vari giornali europei.

La cosa strana è che il giornale danese abbia giustificato la scelta di pubblicare queste vignette come reazione al fatto che tutti si siano rifiutati di fare disegni per un libro sulla vita di Muhammad. Eppure esistono manoscritti con bellissimi disegni raffiguranti episodi della vita di Muhammad, sono stati fatti film, è il suo viso che viene celato o con un velo, o perché visto di spalle e nessuno ha mai protestato. Che rappresentare Muhammad sia proibito dalla religione islamica lo sostiene solo una piccola parte: gli wahhabiti. Per la maggior parte di essi le vignette, non solo blasfeme, ne si sente offesa, non sono di buon gusto e del tutto innocue, eccetto quella con Muhammad con una bomba sul turbante, che equipara in questo modo musulmano a terrorista.

Lo stesso profeta è stato oggetto di ingiurie ed umiliazioni, tanto penose da indurlo ad emigrare a Medina e ai politeisti di Mecca che lo definivano un impostore rispondeva: “Dio sarà giudice tra noi il giorno del Giudizio”.

Se i cattolici del mondo reagissero nello stesso modo quando sui giornali compaiono caricature sulla Chiesa e scendessero in piazza a milioni bruciando le ambasciate voi li giudichereste dei pazzi. Perché questo non viene fatto quando, come in questo caso, sono una manciata di integralisti musulmani? Perché gli ambienti progressisti giustificano questi musulmani e dicono di non offenderli, di non essere blasfemi?

Gli integralisti impongono alla stessa manggioranza dei musulmani la loro ristretta visione dell'islam, chi non si comporta come loro è accusato di kufr (infedeltà), è contro l'islam, l'unico vero islam è il loro.

E tutti gli altri, compresi gli agnostici e gli atei originari dei paesi musulmani, non hanno la possibilità di far sentire la loro voce, ignorati dai media.

Certo è che questi musulmani che manifestano sono molto ignoranti, ignorano che nel Corano è scritto di trascendere le polemiche e di rispondere ai provocatori con la parola pace.

Come può una religione sicura di sé, solida, fuggire alle critiche, vacilllare innanzi a futili provocazioni?

E' grazie alla libertà d'espressione che l'islam si può esprimere liberamente nei paesi democratici. Nessuno impedisce in Europa ai musulmani di esprimersi liberamente.

Non sono i musulmani a domandare le scuse, sono gli integralisti. Fino a quando in Europa si lasceranno parlare gli integralisti a nome di tutti i musulmani, quando verrà dato alle forze progressiste il posto di interlocutore per iniziare a risolvere quei problemi sociali di lavoro, di integrazione, di riconoscenza sociale su cui fondano il loro proselitismo gli integralisti?

Dov'erano le gerarchie musulmane, le persone che oggi manifestano quando in Algeria uomini, donne e bambini erano sgozzati da gruppi islamisti? Chi infanga la religione islamica e il suo Profeta sono i disegnatori danesi o i gruppi estremisti?

Perché gli stessi giornali europei che oggi sono solidali con il giornale danese non si sono mai pronunciati in favore dei giornalisti algerini che hanno pagato con la loro vita il diritto alla libertà d'espressione?

In realtà il politico viene camuffato da conflitto religioso da entrambe le parti: l'Islam contro Occidente - Cristianesimo contro Islam ovvero il Bene contro il Male.

Per dirla con le parole dell'altro Bencheick, Ghaleb “Non è che scontro delle inculture e degli ignoranti".

Gli strumenti delle Buone Opere
nell'insegnamento monastico di San Bernardo

di Sr. Maria Pia Schindele o. cist.


San Bernardo nei suoi insegnamenti monastici si serve spesso degli “strumenti delle buone opere” (osservanze con le quali i monaci e anche i cristiani dovranno purificarsi), senza menzionare espressamente il quarto capitolo della Regola in cui S. Benedetto indica le condizioni del cristiano (RB 4,1-9), della vita monastica (RB 4,10-40) e della speranza nella grazia santificante (RB 4,41-74). Per queste tre suddivisioni del suddetto capitolo della Regola benedettina presentiamo alcuni strumenti scelti dalla grande quantità proposta da San Benedetto.

1. Amare Dio ed il prossimo

Gli strumenti fondamentali per la vita del cristiano, elencati all'inizio del capitolo quarto sono indicazioni che riguardano l'amore verso Dio e verso il prossimo: “Amerai il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le tue forze” (RB 4,1) e “poi il prossimo come te stesso” (RB 4,2).

Dal momento che Bernardo parla di questo tema nel trattato "Sul dovere di amare Dio", dobbiamo riportare qui i pensieri più importanti.

a) Il trattato "De Diligendo Deo"

Nel trattato "Sul dovere di amare Dio" san Bernardo parte dall'inclinazione naturale dell'uomo verso l'amore, radicato nella sua tendenza all'amore di sé e che può svilupparsi soltanto in rapporto all'amore verso Dio e verso il prossimo. Bernardo spiega, che ogni tentativo dell'uomo di limitarsi all'amore di sé per se stesso, porta alla sua distruzione, perché nessuno può sussistere senza essere giusto. Chi si rifiuta di condividere i beni indispensabili per la vita, li condivide, in fondo, con il nemico della sua anima. Bernardo quindi interroga:

Non è più giusto e più onesto far partecipe di quei beni non il nemico, ma chi ha la natura in comune con te, cioè il prossimo?” (1).

Più avanti afferma:

Allora il tuo sentimento sarà equilibrato e giusto, se ciò che è sottratto ai personali piaceri non sarà negato alle necessità del fratello. Così l'amore carnale, essendo esteso alla comunità, si trasforma in sociale” (2).

Bernardo ritiene che: “è quindi atto di giustizia non tralasciar di dividere i doni di natura con chi ha la natura in comune con te” (3).

Lo sviluppo del nostro amore verso Dio, ancora inconscio, presuppone questo comportamento naturale nell'amore; la sua crescita dipende dalla nostra disponibilità ad aprire il nostro cuore a Dio. Per amare rettamente il nostro prossimo, afferma Bernardo, Dio deve essere considerato l'origine di tutto.

In realtà come si potrebbe amare puramente il prossimo, se non lo si ama in Dio? Ma non si può amare in Dio, se non si ama Dio. Occorre quindi che prima sia amato Dio, perché si possa amare in Dio anche il prossimo” (4).

Bernardo parla dell'aiuto che Dio ci dona nelle nostre necessità e in quelle del prossimo. Questo aiuto ci avvicina a Dio e ci insegna ad amarlo non solo per il nostro interesse, ma per Lui stesso:

A colui che avrà raggiunto questo grado d'amore non sarà difficile osservare il comandamento relativo all'amore del prossimo. Essendo arrivato ad amare Dio secondo verità, ama anche ciò che appartiene a Dio. Ama in maniera casta, e perciò non gli pesa obbedire ad un casto comandamento, rendendo più casto il suo cuore, come è stato scritto, nell'obbedire alla carità. Ama secondo giustizia e perciò accoglie volentieri un comandamento giusto. Questo amore è ben gradito perché è gratuito. È casto, perché non è profuso in vane parole, ma in opere di verità. È giusto, perché così come lo si riceve, tale lo si rende. Chi ama così, non ama diversamente da come è stato amato, ricercando anche lui a sua volta non il proprio interesse, ma quelle di Gesù Cristo, come egli non ha ricercato il suo interesse, ma il nostro, o meglio noi” (5).

Dopo averci spiegato il precetto dell'amore, Bernardo parla ancora di un altro tipo di amore verso Dio, interamente donato dalla grazia, in cui l'amore naturale di sé, raggiunge nella “dimenticanza di se stesso”, il perfezionamento dell'amore. Bernardo descrive tale stato spirituale con queste parole: “Arrivare a questo sentimento significa indiarsi” (6).

È l'offerta di Dio a noi, che cerchiamo la cosiddetta “realizzazione di noi stessi”. Le persone che hanno fatto una simile esperienza, tornano alla vita quotidiana, anelando con tutto il cuore l'adempimento della richiesta del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Bernardo esalta questo stato d'animo quando esclama:

O amore santo e casto! O sentimento dolce e soave! O volontà schietta e purificata, tanto più schietta e purificata in quanto non vi rimane commisto nulla che sia personale, e tanto più dolce e soave, in quanto tutto ciò che si avverte è di origine divina! Arrivare a questo sentimento significa indiarsi” (7).

2. Imitazione di Gesù Cristo

Bernardo addita nei suoi diversi sermoni gli strumenti delle buone opere che riguardano in particolare la vita monastica:

- Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo (RB 4,10);

- mortificare il proprio corpo (RB 4,11);

- rendersi estraneo alla mentalità del mondo (RB 4,20);

- non anteporre nulla all'amore di Cristo (RB 4,21).

a) Il Sermone nel mercoledì della Settimana Santa

Nel sermone del mercoledì della Settimana Santa Bernardo raccomanda questo strumento delle buone opere: “Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo” (RB 4,10) e ci ricorda i patimenti di Cristo per la nostra salvezza quando afferma:

Nella sua vita ebbe un'azione passiva, nella sua morte sopportò una passione attiva, per operare la salvezza sulla terra” (8).

Bernardo esorta a considerare che il Signore mediante la sua fortezza divina e la sua somiglianza con la natura umana, ci salva se siamo decisi ad imitarlo e di conseguenza, a seguirlo, perciò afferma:

La sua forza e la sua somiglianza dunque agisce in me a condizione che non manchi l'imitazione, seguendo le sue orme” (9).

Inoltre egli ci pone davanti l'esempio di coloro che hanno seguito questa strada:

Questa imitazione è per me una validissima prova, sia la Passione del Salvatore, sia la somiglianza dell'umanità, vengono per mia utilità” (10).

b) Il Sermone sul versetto: "Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo" (Mt 13,44)

Nel Sermone 65° De Diversi, che, in riferimento al versetto del Vangelo di San Marco, è intitolato: “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo”, Bernardo medita sullo strumento delle buone opere: “Mortificare il proprio corpo” (RB 4,11). In questo sermone afferma:

Il campo è il corpo. Quando è ancora dominato dalle passioni dei desideri, esso giace incolto e vittima della maledizione, produce spine e rovi, e non si sa cosa nasconda al suo interno” (11).

Poi riguardo al nostro corpo precisa:

Non sai cosa vi è nascosto? Cosa se non il "regno dei cieli”? Trovare nel corpo questo regno significa produrre quelle opere di salvezza che permettono di conquistare il regno dei cieli. Compra dunque il campo e libera dalle concupiscenze il tuo corpo, pagando il prezzo richiesto, vendendo ciò che fomenta e stimola le concupiscenze stesse” (12).

c) Il sesto Sermone sull'Ascensione del Signore

Nel sesto sermone in occasione della solennità dell'Ascensione, Bernardo, medita sullo strumento delle buone opere: “Rendersi estranei alla mentalità del mondo” (RB 4,20).

Tutti, se non sbaglio, con l'intelligenza della fede e il giudizio della ragione, cerchiamo le cose di Lassù; però forse non tutti gustiamo allo stesso modo delle cose di lassù, dal momento in cui viviamo presi, fino a un certo punto, dalle cose di questa terra con una veemente attrazione” (13).

Poi aggiunge: “si esaurisce il flusso dell'olio, dove mancano i recipienti vuoti” (Cfr. 2Re 4,3-6), vale a dire, se siamo pieni delle cose del mondo ci vengono a mancare le grazie divine.

Ci esorta dunque a prendere in considerazione che: “da ogni parte si infiltra in noi l'amore del mondo con le sue consolazioni, o meglio con le sue desolazioni; spia le vie d'accesso, irrompe all'improvviso e prende in possesso il cuore” (14).

Bernardo ci ammonisce a gioire della vera e santa letizia nel Signore che però, percepiamo soltanto, se rinunciamo alle gioie terrene, perché non può stare insieme “il vero con il falso, l'eterno con il caduco, lo spirituale con il carnale, il sublime con il basso”.

d) il terzo Sermone sul salmo 90

Nel terzo sermone sul salmo 90 Bernardo esorta a “non anteporre nulla all'amore di Cristo” (RB 4,21), ci induce dunque a riflettere intensamente sull'amore di Cristo, l'amore che il Signore vuole dai suoi discepoli. Dice infatti:

"I mondani, quando li esortiamo a fare penitenza, rispondono: "È duro questo linguaggio”. È appunto ciò che leggiamo nel Vangelo. Allora il Signore parlava proprio di penitenza, ma in figura, come a gente alla quale non è concesso di conoscere il mistero del regno di Dio. E sentendolo dire: “Se non mangerete la carne del Figlio dell'uomo e non berrete il suo sangue... Molti dei suoi discepoli dopo aver ascoltato dissero: "Questo discorso è duro” e se ne andarono (Gv 6,53.60)” (16).

Dal momento che Bernardo vede nel Signore “il sacramento primordiale”, contempla il legame fra l'eucaristia e la vita di Gesù. Dice quindi a proposito dell'amore verso Gesù Cristo:

Che cosa è infatti mangiare La sua carne e bere il suo sangue se non prendere parte alle sue sofferenze e imitare La condotta che egli tenne durante la sua vita terrena? Per cui, l'illibato sacramento dell'altare nel quale riceviamo il corpo del Signore ci insegna che come le specie e le apparenze del pane entrano visibilmente in noi, così dobbiamo pensare che egli stesso entra in noi con quella condotta che egli tenne sulla terra, per abitare nei nostri cuori mediante la fede. Quando, infatti, entra nelle nostre anime la giustizia, è colui che per opera di Dio Padre è divenuto per noi giustizia che entra. Così pure "colui che sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (l Gv 4,16)” (17).

3. Vivere nella speranza della salvezza

Riguardo al gruppo degli strumenti delle buone opere che hanno per tema principale la nostra speranza nella salvezza (RB, 4,41-74), Bernardo, ci offre in diversi sermoni le sue indicazioni. Approfondisce soprattutto i primi tre:

1. “Riporre la propria speranza in Dio (RB 4,41);

2. se uno scorge in sé qualche cosa di buono, lo attribuisca a Dio, non a se stesso (RB 4,42);

3. sappia invece che il male è sempre opera sua e se ne ritenga responsabile lui solo” (RB 4,43)

a) Il nono Sermone sul Salmo 90

Il sermone nono del salmo 90 è intitolato: “Sì, tu, Signore, sei la mia speranza, hai posto in luogo altissimo il tuo rifugio”, (cf. v. 9). Bernardo spiegando questo versetto commenta lo strumento delle buone opere: “Riporre la propria speranza in Dio” (RB 4,41).

Nessuno può dire dal profondo del cuore "tu, o Signore sei La mia speranza” all'infuori di colui, che, per un'intima convinzione proveniente dallo spirito... getta sul Signore il proprio affanno” (18).

In riferimento al versetto del salmista: “Hai posto in luogo Altissimo il tuo rifugio”, Bernardo dice: “Fuggiamo spesso fratelli, verso questo riparo è un luogo fortificato, là non c'e da avere paura di nessun nemico” (19).

Gli dispiace, però che in questa vita questo non sia possibile:

Quello che ora è rifugio, un giorno diventerà dimora, e dimora eterna. Per adesso, anche se non ci è dato di rimanervi, bisogna almeno ritornarci spesso. Infatti, per ogni tentazione, per ogni tribolazione, per qualsiasi necessità sta aperta per noi una città di rifugio, abbiamo un seno materno largo per accoglierci...” (20).

La meta altissima di ogni speranza è il Signore stesso, per spiegarlo Bernardo commenta il brano del salmista “Tu Signore sei la mia speranza”.

Le parole forse dicono qualcosa di più grande e più sublime, cioè che egli non soltanto spera nel Signore, ma che spera il Signore stesso... Forse vi sono alcuni che bramano di ottenere dal Signore beni corporali o spirituali di ogni specie, ma l'amore perfetto ha sete soltanto del bene sommo e grida con desiderio ardentissimo: “Che c'è per me in cielo e che cosa desidero da te sopra la terra? O Dio del mio cuore e mia porzione, o Dio, in eterno! (cfr Sal 73, 25-26)” (21).

b) Il Sermone: "Le sei giare della purificazione"

Nel sermone 55 “De Diversi" intitolato “Le sei giare della purificazione" Bernardo indica questi due strumenti delle buone opere:

1. “Se uno scorge in sé qualche cosa di buono, lo attribuisca a Dio, non a se stesso e

2. sappia invece che il male è sempre opera sua e se ne ritenga responsabile lui solo” (RB 4,42-43).

Bernardo, fra le sei giare della purificazione, menziona al secondo posto la forza purificatrice del canto dei salmi, afferma che l'uomo che prega attraverso la salmodia con cuore sincero, sarà mondato dalla lode di se stesso e dal disprezzo di Dio e descrive l'effetto di questa purificazione:

Una volta che uno si converte e confessa il suo peccato ed è istruito nei cantici divini, dopo aver corretto il suo modo di vivere, corregge anche le parole: accusa se stesso e attribuisce a sé i suoi mali; loda invece Dio e, il bene che vede in sé lo attribuisce a Lui non a sé. Tutto questo lo si canta nella salmodia” (22).

c) Il primo Sermone nella Festa dell'Annunciazione del Signore

San Bernardo che nei suoi diversi sermoni cita spesso san Paolo, medita i suddetti strumenti delle buone opere (RB 4,42-43) alla luce del versetto ai corinzi: “Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza...” (2Cor 1,12).

Il primo sermone per la festa dell'Annunciazione inizia con le parole del salmo 84:

Affinché la gloria [di Dio] abiti nella nostra terra, la misericordia e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate (v. 10-11). Poiché questo è il nostro vanto insegna l’Apostolo, la nostra coscienza” (23).

Questa testimonianza non ha niente in comune con quell'orgogliosa e falsa del fariseo (cfr. Lc 18,11-12), poiché è vera soltanto la testimonianza che ci dà lo Spirito stesso.

Io credo che tale testimonianza consti di tre elementi. Anzitutto credere che non puoi ricevere il perdono dei peccati, se non per la misericordia di Dio; poi che non puoi fare alcuna opera buona se non ti dà egli stesso di farla; infine che non potrai meritare la vita eterna con le tue opere, se egli non te la desse come dono gratuito” (24).

Infine Bernardo insegna:

Riguardo il perdono dei peccati, ho un argomento molto più valido: la passione del Signore... È stato messo a morte per i nostri peccati. Ora, non vi è dubbio che è più potente ed efficace per il nostro bene, la sua morte, che non i nostri peccati, per la nostra disgrazia. Quanto poi, alle buone opere, l'argomentazione più valida per me, ritengo, sia la risurrezione, perché "egli è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25). Inoltre, quanto alla speranza del premio, ne è testimonianza la sua ascensione, poiché egli ascese al cielo per la nostra glorificazione” (25).

NOTE

1) Le Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. I, De Diligendo Deo, VIII, 23, p. 305, (d'ora in poi Dil).

2)  Dil. VIII, 23, p. 305.

3) Dil. VIII, 24, p. 307.

4) Dil. VIII, 25, p. 307.

5) Dil. IX, 26, p. 309.

6) Dil. X, 28, p. 313.

7) Ibid.

8) SAN BERNARDO, Sermone nel Mercoledì della Settimana Santa, 11.

9) Ibid.

10) Ibid. 12.

11) Le Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 2000, vol. IV, Sermoni diversi e vari, LXV, 1, p. 417, (d'ora in poi Div.

12) Div. LXV 1, p. 417.

13) SAN BERNAROO, Sermone sull’Ascensione del Signore, 6, 8.

14) Ibid.

15) Ibid.

16) SAN BERNARDO, Sermoni sul salmo 90, introduzione, traduzione e note a cura di I. Teli, Scritti monastici 20, Edi. Abbazia di Praglia 1998, 3,3, p. 19.

17) Ibid. 3,3, pp. 19-20.

18) Ibid. 9,6, p. 76.

19) Ibid. 9,7, p. 78.

20) Ibid.

21) Ibid. 9,8, p. 78-79.

22) Div. LV 1, p. 307.

23) BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermoni per le feste della Madonna, Ed. Paoline, sec. ed. rev., Milano 1990, Nell’Annunciazione del Signore, 1, 1, p. 141.



FONTI

Le opere di San Bernardo, testo latino/italiano, a cura di E Gastaldelli, Scriptorium Ciaravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, vol. I, De Diligendo Deo, Milano 1984; Sermoni diversi e vari, vol. IV, Milano 2000.

SAN BERNARDO, Sermoni sul salmo 90, a cura di I. Tell, Scritti monastici 20, Abbazia di Praglia 1998.

S. BERNARDO Dl CHIARAVALLE, Sermoni per le feste della Madonna, a cura di Giorgio Picasso, Ed. Paoline 1990.

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Teologie a confronto:
Paul Tillich e Karl Barth
di Renzo Bertalot

Con la salita di Hitler al potere nel 1933 Karl Barth e Paul Tillich perdono le loro cattedre in Germania. Il primo trova rifugio in Svizzera e il secondo negli Stati Uniti d'America. Gia si è scritto molto su questi due teologi che hanno segnato profondamente la teologia del XX secolo. Non si tratta quindi di insistere sui contenuti delle loro opere, ma soltanto di rilevarne alcuni punti che hanno caratterizzato la loro testimonianza.

Insieme hanno partecipato alla crisi della società borghese che si era affermata con il liberalismo precedente. Le chiese avevano fatto il loro nido, con una certa soddisfazione, accanto ai poteri costituiti ed erano entrate in crisi per il crescente allontanamento del proletariato e dei giovani sempre più attratti dalle promesse di una secolarizzazione crescente.

Per Karl Barth e Paul Tillich era giunto il momento di far riemergere tutta la forza dell'Evangelo che contesta sempre le nostre sicurezze e riorienta il divenire della comunità cristiana.

Vi fu innanzi tutto una rinnovata attenzione di carattere politico. Il socialismo religioso di Paul Tillich e il socialismo democratico di Karl Barth erano entrambi tesi all'ascolto delle nuove esigenze della società e al carattere profetico delle attese che andavano manifestandosi. Si incarnava così un nuovo modo di vivere in riferimento alla riscoperta dell’Evangelo.

Intanto tra i due teologi si erano inseriti altri elementi. La distanza tra l'Europa e l'America e i venti di guerra che stavano preannunciando nuove catastrofi, non facilitavano i contatti delle rispettive esperienze.

Paul Tillich lasciò l'Europa con grande amarezza non certo per risentimenti personali, ma per la convinzione della maledizione della storia europea e della demonia della cultura tedesca che si era affermata. "La Germania sopra tutti" non aveva convinto solo i politici ma anche gli spiriti più avvertiti dell'epoca. La malattia radicale era dovuta al "provincialismo", cioè al metro con il quale andiamo costantemente misurando gli altri e li troviamo sempre mancanti. Gli Stati Uniti offrivano un crocevia di culture che, offrendo ognuna il meglio di se stessa, dà un carattere veramente universale alla ricerca e allo studio. Paul Tillich conobbe anche la contestazione pratica che ebbe modo di apprezzare. Al termine delle sue dotte lezioni gli veniva posta la domanda: "A che serve?" L'esistenzialismo europeo, al quale Tillich faceva spesso riferimento, si presentava come una corazza ingombrante per i popoli dell'America e dell'Asia: non era conforme al loro modo di intendere la vita.

La nozione di angoscia va curata dal medico in casi nevrotici, ma la scienza è impotente quando si tratta di mancanza di significati e di senso di colpa. Tuttavia, a sua grande meraviglia, Paul Tillich incontrò un russo che non conosceva affatto l'angoscia.

Per Tillich dalla nostra angoscia nascono gli interrogativi sulla nostra esistenza. Bisogna indagare attentamente per individuare i valori definitivi perché non possiamo dare risposte a domande mai poste! L'uomo non può che formulare interrogativi che per lo più puntano verso l'idolatria. La risposta viene solo (extra nos) dalla Parola di Dio.

Per Karl Barth la situazione è diversa. Si trovò impegnato nell'opposizione al nazismo cominciando con la stesura delle tesi di Barmen (1934) e il sostegno alla chiesa confessante che respingeva l'atteggiamento dei cristiano-tedeschi, perché non contestavano apertamente le avventure hitleriane. Barth era molto vicino a Bonhoffer che, per la sua opposizione manifesta al nazismo, venne impiccato.

Paul Tillich e Karl Barth condividono con termini molto forti il rifiuto di ogni teologia naturale: una teologia dalla situazione anziché rivolta alla situazione. La teologia e la filosofia non vanno confuse. Per Barth il teologo che dal basso (è in cammino inverso dell'incarnazione) tenta di risalire a Dio è un "criptoteologo" e il filosofo che parte dall'alto per fare della filosofia di questo mondo è un "criptofilosofo".

Per Tillich la teologia e la filosofia non vanno confuse. Tra di loro non v’è sintesi, non v'è terreno comune, perciò una filosofia cristiana è una "disonestà filosofica". Bisogna saper vivere sulla linea di confine. La religione (la religiosità) non produce fede anche se costituisce la sostanza della cultura e la cultura le dà una forma.

Tuttavia per entrambi una filosofia della religione, pur non essendo necessaria, può essere utile per indagare le forme della nostra religiosità. Da un lato ci aiuta a superare le nostre superstizioni e i nostri pregiudizi e dall'altro ci ricorda la nostra umanità (Cristo vero uomo). Non abbiamo strumenti sterili e non condizionati per parlare della rivelazione!

Sia Barth sia Tillich sono riconoscenti a Kant per averci liberati dalla metafisica dei "visionari" e ridotto le nostre dissertazioni entro i rigorosi limiti della ragione e del fenomeno. Per Tillich, Kant si conferma come "filosofo del protestantesimo". Per molti contemporanei Kant riesce sempre a riaffermarsi dopo il crollo o il tramonto delle varie filosofie.

Per Tillich il mondo creato da Dio non è stato abbandonato come una nave senza timone nella tempesta. Dio gestisce la storia e ne prende le redini nei momenti da lui ritenuti opportuni. È quindi in atto una vittoria di Dio sia pure frammentariamente e saltuariamente, sulle nostre distorsioni e i nostri fallimenti. Questa vittoria, per chi ha occhi per vedere e orecchi per udire rende la nostra storia trasparente. E la storia del Christus Victor!

Anche per Barth meno propenso ad indagare quello che passa nella mente del filosofo (o di qualunque uomo) siamo tuttavia strutturati in vista del nostro destino del Regno di Dio La creazione non gli è estranea: v’è un’analogia creationis.

Con entrambi assistiamo ad una concentrazione cristologia riguardo alla teologia sistematica. Per Barth la cristologia è tutto o siamo di fronte al vuoto. Già nel 1957, riprendendo con Hans Kùng il tema della giustificazione per fede, prevedeva che tra cattolici e protestanti si andasse evidenziando una stessa fede, non più alternativa anche se formulata in maniera diversa. Per Tillich il pensiero teologico gravita intorno al Nuovo Essere che si esprime in Gesù il Cristo.

Intanto si affacciano all'attenzione delle nuove generazioni altri problemi di grande attualità. Qual è il rapporto con le altre religioni? Per Tillich bisognerà interrogarsi sullo Spirito Concreto nella prospettiva del pan-en- tei-smo: tutti raccolti in Dio.

Per Barth nelle varie religioni ci sono delle parole vere, buone, autentiche e notevoli: sono combinazioni o luci non concorrenziali con Dio.

Un'ultima parola sull'uomo: Barth rovescia la tesi di Cartesio "cogito ergo sum". È importante affermare invece "cogitor ergo sum". Quello che io penso di Dio può essere significativo e importante per le nostre biblioteche, ma è decisivo sapere quello che Dio pensa di noi. Io sono quel che sono all'interno del suo pensiero. Chi cerca se stesso non troverà nulla; chi è trovato da Dio troverà se stesso.

(da: Quaderni di Studi ecumenici, Fede e cultura, 8, I.S.E. Venezia)

Sabato, 11 Febbraio 2006 14:54

Il vero digiuno

Perché mentre noi e i farisei digiuniamo i tuoi discepoli non digiunano?”

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