Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 07 Dicembre 2005 00:57

Multiculturalismo (Tamar Pitch)

Universalismo e relativismo sono dunque strettamente intrecciati, due facce di una stessa medaglia e possono ambedue legittimare politiche contraddittorie. In ambedue coesistono il riconoscimento delle differenze.

Mercoledì, 07 Dicembre 2005 00:43

Guadagnarsi da vivere (Martin Neyt osb)

Una riflessione sul modo di guadagnarsi da vivere è un invito a una duplice esigenza evangelica. La prima è un appello a prolungare la creazione con il nostro lavoro...

Martedì, 06 Dicembre 2005 00:55

Il paradiso e le Huri (Maria Domenica Ferrari)

Il paradiso e le Huri
di Maria Domenica Ferrari



E quei della destra, oh quei della destra!- E quei della sinistra, oh quei della sinistra! - E i precursori, i Precursori! - Saranno a Dio i più vicini - in deliziosi Giardini - Molti là vi saran degli antichi - pochi vi saran dei moderni - su troni ornati d'oro e di gemme - adagiati, gli uni agli altri di fronte, - e fra loro garzoni d'eterna gioventù trascorreranno - con coppe e bricchi e calici freschi limpidissimi - da' quali non avranno emicrania né offuscamento di mente - e frutti a piacere- e a volontà carni delicate d'uccelli - e fanciulle da' grandi occhi neri- a somiglianza di perle nascoste nel guscio, - in ricompensa di ciò che avranno operato.- E non udranno colà discorsi frivoli o eccitanti al peccato - ma solo una parola: <Pace, Pace!> - Quei della destra! Oh quei della destra! - s'aggireranno fra piante di loto senza spine - e acacie copiose di rami - e ombra ampia - e acqua scorrente - e frutti molti - mai interrotti e mai proibiti, - e alti giacigli. - e le fanciulle le creammo a nuovo - e ne facemmo vergini - amanti coetanee - per quei della destra.” (1)

Janna Giardino è la parola per antonomasia che indica il luogo nell'Aldilà riservato agli eletti.

La maggior parte delle sure che parlano del Paradiso sono quelle del periodo meccano e la descrizione è incentrata su aspetti concreti: stoffe preziose, gioielli, profumi, banchetti. Gli eletti godranno di tutto ciò con le proprie mogli e figli, in armonia, senza dolori e afflizioni, nei pressi del trono di Dio “Volti in quel giorno saranno splendenti - al loro Signore miranti" (2) .

Negli hadîth viene enfatizzata la tendenza letterale che insiste sulla realtà dei piacere sensuali; alcuni sono ritenuti autentici (sahîh) altri dubbi (da‘îf) secondo il criterio musulmano che si basa sulle linee di trasmissione degli stessi.

I più pensano che l'ubicazione del Paradiso sia sotto il Trono di Dio. I vari livelli sono collegati da porte e ognuno di essi è di solito diviso in cento gradi. Muhammad sarà il primo ad entrare e i poveri precederanno i ricchi, gli angeli li accoglieranno con una melodia araba (l'arabo è la sola lingua del Paradiso). I dotti hanno discusso sull'ubicazione dell'Eden di Adamo c'è chi sostiene che sia uno dei sette paradisi, per altri è un giardino terrestre. La maggior parte dei commentatori divide il Paradiso in:

 1) dimora della Maestà,
 2) della Pace,
 3) il giardino dell'Eden,
 4) del Rifugio,
 5) dell'Immortalità,
 6) dell'Firdaws,
 7) delle Delizie,

 altri testi pongono il Firdwas al vertice, e altri ancora l'Eden.

In Paradiso sarà sempre primavera, un giorno in esso corrisponde a cento sulla terra; è fatto di muschio, oro e argento, i palazzi sono d'oro e pietre preziose. Quattro fiumi sgorgano da montagne di muschio, nelle vallate crescono piante dai frutti meravigliosi. Vi sono cavalli e cammelli. Tutti gli eletti hanno la statura di Adamo e gli anni di Gesù. Nell'aria si ode una melodia meravigliosa, quella più bella di tutte, è la voce di Dio

Nel Corano la parola hûr (3) indica le giovani fanciulle vergine promesse ai credenti. La radice di questa parola è collegata all'idea di “bianchezza” in particolare ai grandi occhi della gazzella e al contrasto tra il bianco dell'occhio e il nero della pupilla, hawrâ’ è una donna dai grandi occhi neri e dalla pelle molto chiara.

Quasi tutti i versetti che parlano di hûrî sono del periodo meccano, quando è particolarmente sentitoda Muhammad il tema del Giudizio Universale.

I versetti coranici ci dicono che non sono mai state toccate né dagli uomini né dai jinn, la sostanza da cui sono state create per alcuni è lo zafferano, per altri sono di zafferano, muschio, canfora e ambra. I loro muscoli sono delicati e i loro tendini paiono fatti di fili di seta. Sui loro seni sono iscritti due nomi: da una parte quello Dio, sull'altro quello del proprio marito. Vivono in castelli con 70 letti, hanno 33 anni come i loro mariti, la loro verginità viene rinnovata eternamente, il loro corpo è sempre puro, non hanno mestruazioni, bisogni umani.

Le donne che in vita sono state virtuose in Paradiso si ricongiungeranno al proprio marito e lì continueranno la loro vita insieme. Se una donna in vita ha avuto più mariti ne sceglierà uno, mentre gli uomini poligami avranno diritto a tutte le mogli legittime. I commentatori però non dicono nulla sulla sorte di quelle donne che andranno in Paradiso, ma che in vita non sono state sposate.

Su questa base coranica la tradizione ha aggiunto dettagli dando alle hûrî un carattere molto sensuale. Non tutti gli esegeti hanno accettato questa idea prettamente materialista, al-Baydâwî (4) dice che non si possono fare raffronti tra il godimento del cibo, delle hûrî, la condizione umana terrena è altra rispetto a quella del Paradiso, certo è che la mentalità popolare musulmana è permeata da questi concetti. E' solo in un hadîth che si parla delle 70 vergini che attendono tutti gli eletti, non solo i martiri.

Dal punto di vista delle scuole religiose abbiamo tre attitudine fondamentali.

a) Per i mutaziliti (5) i passaggi antropomorfi relativi a Dio e ai suoi atti devono essere interpretati metaforicamente, al contrario i piaceri del Paradiso sono reali, ma vanno escluse le esagerazioni. Negano la visione di Dio in Paradiso e pensano che sarà creato al momento della Resurrezione.

b) I primi ashariti (6) accettano l'antropomorfismo del testo coranico, la visione oculare di Dio come “la luna nel cielo”. Il Paradiso esiste da sempre, i piaceri sono reali, ma di una natura che non è comprensibile dalla condizione umana in base al principio del “bilâ kayf”, (senza come).

c) Gli ultimi ashariti, forse influenzati dalla filosofia, adottano l'interpretazione metaforica della descrizione del Paradiso e più che sui piaceri sensuali mettono l'accento sulla presenza divina che impregna le anime degli eletti.

Per i filosofi la vita futura inizia con la morte individuale, Ibn Sînâ (7) e Ibn Rušd (8) nelle loro opere non negano la realtà della Resurrezione, ma il racconto coranico è stato fatto per gli “uomini semplici” che non possono comprendere simboli e allegorie. Per gli uomini saggi il Paradiso è il luogo in cui saranno uniti tramite una sostanza intellegibile all'Intelletto Universale. I primi sufi pur prendendo alla lettera il testo coranico focalizzano la loro attenzione alla felicità della visione di Dio. Col passare del tempo, gli aspetti sensuali verranno rimossi per lasciare spazio al senso spirituale come nell'opera di Ibn ‘Arabî (9). Se pur guardati con sospetto dagli ‘ulamâ, le idee dei filosofi e dei sufi grazie, soprattutto, al diffondersi delle confraternite ebbero un'influenza reale sulle popolazioni musulmane.

Con al-Ghazâlî (10) si giunse alla sintesi più importante fra queste varie correnti. Al-Ghazâlî afferma la realtà della visione di Dio, i piaceri del Paradiso sono incomprensibili dalla mente umana per questo vengono descritti in termini terreni. Afferma la realtà della resurrezione dei corpi negata dai filosofi.

In epoca contemporanea i manuali popolari di teologia contengono pochi accenni al Paradiso, quello di al-Bâjûrî segue la linea ašarita della realtà letterale senza “chiedere come”, ammettendo però in alcuni casi una doppia lettura.

Con Muhammad ‘Abdul, riformista egiziano del diciannovesimo secolo, se da un lato si riafferma il senso letterale del testo, e il “bilâ kayf” è ripreso nel caso delle hûrî, muove però anche delle critica alle fonti tradizionali accettando solo gli hadîth con più linee di trasmissione.

Per Rashîd Ridâ (11) i piaceri spirituali promessi sono superiori a quelli sensuali, le iperbole delle descrizioni si devono alla lingua araba, ogni eletto avrà oltre alla moglie terrena una sola hûrî. La visione di Dio non è un fatto basilare della fede musulmana.

Note


(1) Corano, LVI 8-38.

(2) Corano, LXXV 22-23.

(3) Nelle lingue occidentali la parola entrata in uso è quella persiana singolare hûrî.

(4) Giurista, teologo, grammatico , morto alla fine del 1200, l'opera più conosciuta è un commentario al Corano diffusissimo nel mondo arabo.
(5) Seguaci di una delle più importanti scuole teologiche musulmane nata a Basra all'inizio dell'VIII secolo, sono considerati i “razionalisti” dell'Islam , “la ragione come criterio della Legge” è il loro principio.

(6) Scuola teologica dei seguaci dei Abû 'l-Hasan al-Aš‘arî nato a Basra nel 873 -4 morto a Bagdad nel 935-6. A partire dal XIV secolo diviene sinonimo di “ortodossia” religiosa che permane per certi aspetti tuttora.

(7) Avicenna.
(8) Averroé.
(9) Uno dei più grandi sufi nato a Murcia il 27-8-1165 morto a Damasco il 16-11-1240.
(10) Uno dei più grandi pensatori musulmani,: teologo, giurista, mistico, riformatore religioso., nato a Tus 1058 morto a Naysapur 1111.
(11) Uno dei più importanti autori musulmani (1865-1935) legato soprattutto al giornale da lui fondato nel 1898 al-Manâre diretto fino allla morte.

Risulta evidente, nel dettato seguente dei Principi e norme per l’uso del Messale Romano, la volontà di ribadire che la chiesa è presente nelle assemblee liturgiche, le quali ne costituiscono, quindi, la più trasparente epifania:

L'importanza dell'insegnamento di base
della Scrittura nella società contemporanea
e per l'educazione delle giovani generazioni

Comunicato congiunto ebraico-cattolico
da parte della Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l'ebraismo
e del Gran Rabbinato d'Israele

I. Dopo due incontri, a Gerusalemme in giugno 2002 (Tammuz 5762) e a Grottaferrata – Roma in febbraio 2003 (Shvat 5763), le delegazioni d'alto livello delle due parti hanno convenuto a Gerusalemme di discutere sul tema di "l'importanza dell' insegnamento di base della Scrittura nella società contemporanea e per l' educazione delle giovani generazioni".

2. I dibattiti si sono svolti in un clima d'amicizia e di mutuo rispetto. Constatiamo con soddisfazione che le due delegazioni hanno già stabilito delle solide basi che permettono d'intravedere in avvenire il seguito di una efficace collaborazione.

3. I partecipanti hanno molto apprezzato le dichiarazioni della Santa Sede per condannare la violenza contro degli innocenti e per denunciare le manifestazioni d' antisemitismo che regolarmente rinascono, come si è notato nelle dichiarazioni dei cardinali della delegazione vaticana partecipanti alla Commissione congiunta: cardinali Walter Kasper, Jorge Mejia e Georges Cottier. In questo spirito, il cardinale J. Mejia a scritto ai Grandi Rabbini d'Israele: "attaccare le persone nei loro luoghi di preghiera è non soltanto crudele, ma anche vile e incompatibile con i criteri umani. Per di più, al momento in cui la Commissione congiunta si è riunita, il Papa Giovanni Paolo II ha lanciato un forte appello a "tutti gli uomini e le donne di buona volontà perché aggiungano la loro voce alla mia quando ripeto che il sacro nome di Dio non deve mai essere utilizzato per incitare alla violenza o al terrorismo, per promuovere l'odio o l'esclusione".

4. Le relazioni sono state incentrate sull'insegnamento di base delle Sacre Scritture che condividiamo, le quali dichiarano la fede nel Creatore e Guida dell'universo che ha creato gli esseri umani a sua immagine e ha dato loro il libero arbitrio. Così l'umanità è un' unica famiglia di cui ciascun membro è responsabile di fronte agli altri. La presa di coscienza di questa realtà comporta doveri d'ordine morale e religioso che dovrebbero servire da autentico codice della dignità e dei diritti umani nel mondo attuale e dovrebbero dare una visione autentica di una società giusta, della pace universale e del benessere.

5. Viviamo in un villaggio globale che conosce avanzamenti tecnologici scientifici mai conosciuti prima. La nostra sfida è di fare uso di questo progresso per il bene e per rendere grazie, non per il male e per maledire – Dio ce ne guardi. In questo senso il sistema planetario di comunicazione di massa è uno strumento di ulteriore miglioramento. Tocca a noi utilizzare al positivo questa occasione. Tocca a noi utilizzare al positivo questa occasione di costruzione planetaria rimanendo fedeli alle aspirazioni morali e religiose che condividiamo, di cui abbiamo parlato più sopra.

6. Abbiamo sottolineato che per rispondere alla sfida che rappresenta la diffusione della fede nella società contemporanea, dobbiamo essere esempi viventi di giustizia, di carità, di tolleranza e d'umiltà, rispettando le parole del profeta Michea: " Uomo, ti è stato fatto sapere ciò che è bene, ciò che il Signore reclama da te: niente altro che compiere la giustizia, che amare la bontà e camminare umilmente col tuo Dio " (Mi 6,8 ).

7. Nella complessità dell'epoca in cui viviamo, l'educazione religiosa può e deve apportare la speranza e guidarci per condurre una vita positiva e armoniosa in solidarietà con gli altri esseri umani. E' soprattutto la fede in Dio che ci dà sicurezza e gioia, in obbedienza al verso del salmo 16: " Guardo senza posa il Signore davanti a me…, esulta il mio cuore" (Ps 15 (16), 8-9).

8. In particolare i responsabili religiosi e gli educatori hanno il dovere di istruire le loro comunità affinché esse si impegnino sul cammino della pace per il benessere della società nel suo insieme. Lanciamo questo appello in particolare alla famiglia di Abramo e domandiamo a tutti i credenti di mettere da parte le armi di guerra e di distruzione - "Persegui la pace e ricercala" (Ps 33 (34), 15 ).

9. In quanto responsabili religiosi partecipiamo al dolore di tutti quelli che soffrono oggi in Terra Santa, sia che si tratti di individui, di famiglie o di comunità. Esprimiamo la nostra fervida speranza e preghiamo perché cessino le prove e le tribolazioni di una Terra che noi tutti consideriamo Santa.

10. Chiediamo infine alle nostre comunità, alle nostre scuole e alle nostre famiglie, di vivere nella comprensione e nel rispetto reciproco e di immergere se stessi nello studio e nell'insegnamento delle Sacre Scritture che condividiamo, al fine di nobilitare l'umanità e nell'interesse della giustizia e della pace universale. Allora si compiranno le parole del profeta: "spezzeranno le loro spade per farne vomeri e le loro lance per farne roncole. Non si alzerà più la spada nazione contro nazione, non si imparerà più a fare la guerra" (Is.2,4 ).

Gerusalemme, 3 dicembre 2003 (Kislev 8, 5764)

(Traduzione a cura del SIDIC-Roma)

Henri Le Saux,
monaco cristiano acosmico
di Arrigo Chieregatti

Premessa

È inevitabile che di fronte all'«opera» di Henri Le Saux ognuno reagisca sull'onda delle proprie emozioni, come si fa di fronte ad un'opera d'arte. In un'opera d'arte ognuno legge quello che vive dentro di sé, perché tutti cerchiamo quello che abbiamo, e se non l'avessimo, non potremmo riconoscerlo. La stessa pagina ha un sapore diverso secondo il palato che uno possiede. La conoscenza del Cristo è per Henri Le Saux il passaggio fondamentale e insostituibile per andare nel mistero: «Per me il Cristo è il Sadguru, il Grande Maestro, ma questo non significa che lo debba essere per tutti». Poi così prosegue:

«Siamo troppo abituati a considerare il Cristo come possesso di una parte dell'umanità, cioè i cristiani, e che l'incontro con il maestro di Nazareth possa avvenire solo per la strada che noi abbiamo percorso. Abbiamo dimenticato che Gesù era un ebreo e che erano ebrei i suoi primi compagni; abbiamo dimenticato che la strada verso il Signore dalla cultura giudaica è passata a quella greca e poi a quella latina e quindi può passare attraverso altre culture, altri uomini e altre esperienze» (1).

Henri Le Saux, come tanti altri hanno fatto e ancora stanno facendo, da monaco benedettino ha lasciato la strada che aveva percorso ed è entrato in un mondo nuovo, rinunciando alla propria cultura, ai propri schemi, ai propri legami per avventurarsi, come nuovo Abramo, solo con l'essenziale in un ambiente sconosciuto, convinto che ovunque il Cristo è presente, e che con la fede il Signore è presente ovunque, e che «chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,34-35).

È vero, l'esperienza di Henri Le Saux è l'esperienza di un eremita, ma è proprio per questo che crediamo opportuno offrirla a tutti noi, cristiani d'Occidente, impegnati con tutto noi stessi nell'azione sociale e politica di liberazione dalle varie schiavitù religiose e civili, di cui forse neppure siamo coscienti.

In un mondo profondamente segnato dal materialismo, ormai gli aiuti esterni di supporto per la nostra fede non esistono più, per cui dobbiamo tutti costruirci una spiritualità eremitica, dobbiamo trovare all'interno di noi stessi la forza per la solidità della nostra fede. È dal profondo di noi che deve uscire il coraggio per la nostra adesione al Cristo, è «dall'intimo della caverna del nostro cuore che deve sgorgare una sorgente di acqua viva per la vita» (cfr. Gv 4,14).

In occasione della morte di Le Saux, avvenuta il 7 dicembre 1973, uno dei suoi più cari amici, il pastore protestante Murray Rogers ha scritto:

«Il nostro caro amico e guida Swami ha fatto l'esperienza del suo risveglio finale, si è risvegliato all'Essere, ha realizzato il suo Samadhi, è giunto alla concentrazione totale, al raccoglimento perfetto. Così facendo ha visto adempiuto il suo desiderio di molti anni: finalmente è diventato veramente a-cosmico, realizzando così in pienezza la vocazione che lo Spirito aveva deposto dentro di lui attraverso il sannyasa indù» (2).

E infatti lo stesso Le Saux, riferendosi al grave attacco cardiaco di alcuni mesi prima della morte, scriveva:

«Veramente una porta si è aperta nel cielo, mentre giacevo sul pavimento. Ma un cielo che non era l'opposto della terra: qualcosa che non era nè vita nè morte, ma semplicemente essere, risveglio, al di là di ogni mito o simbolo. Se ci incontreremo di nuovo, vi racconterò tutta quella meravigliosa storia, ma già da ora: Magnificate Dominum mecum. Nella gioia di Dio, sempre» (3).

Per non essere presuntuosi nel voler determinare un pensiero così vasto come quello di Henri Le Saux, forse può essere opportuno leggere insieme quello che Swami ci ha lasciato e che siamo riusciti a «rubare» alla sua esperienza spirituale.

Certamente io posso dire la mia esperienza di fronte alle altezze di un tale maestro, mentre altri potranno dire diversamente e forse esattamente il contrario. L'opera d'arte, come la mistica, non è possesso esclusivo di nessuno, ma tutti possono esprimere ciò che quella esperienza e quel suono ha suscitato in ognuno. Possiamo raccontare quello che abbiamo letto e quel poco che siamo riusciti a captare dalla viva voce di Henri Le Saux.

Non è certamente tutto quello che un uomo di Dio ha esperimentato, perché lo scritto e il racconto può trasmettere solo una minima parte di quello che ha vissuto. Ho voluto prendere come guida i suoi scritti, le sue lettere, e la lettera che un amico, Raimon Panikkar, nostro carissimo maestro, ha voluto indirizzargli dopo la sua morte.

Lasciar parlare un uomo di Dio, un maestro spirituale significa porsi in ascolto, lasciarsi penetrare dal suo spirito, non fare obiezioni, ma permettere che un fiume, come il Gange a Rishikesh, possa avvolgerci e rigenerarci.

Potremo così raccontare non quello che lui ha detto, ma quello che abbiamo ascoltato, non quello che ha scritto, ma quello che abbiamo letto.

L'avventura

Di fronte al messaggio di Henri Le Saux (o Abhishiktananda, secondo il nome assunto in India) si è spesso attenti a «cosa dice», cioè alle sue affermazioni che appaiono a volte dure e rigide, piuttosto che a «chi le dice». Taluni tra noi la chiamano obiettività, ma forse può essere mancanza di attenzione alla persona. Si può ridurre infatti la persona a nozioni e ad espressioni prive di vita in nome della scientificità e dell'ortodossia.

Dovremo forse imparare da Henri Le Saux che, nell'impatto con l'India, si è trovato scardinato dal suo monachesimo ossequiente e devoto, proiettato in una avventura che, come il Figlio dell'uomo, l'ha gettato su una strada dove... «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Si è discusso e si continua a discutere se era giusto o meno, ma seguendo la cultura asiatica potremmo rispondere: «Andate a vivere come lui ha vissuto, e poi ne parleremo».

La perfezione anche spirituale viene ormai confusa con la mancanza di difetti, mentre più propriamente la perfezione è la capacità di convivere con i propri limiti e con i propri difetti. Le Saux era ben cosciente delle sue debolezze: era preoccupato della ortodossia, era puntiglioso nelle formulazioni corrette delle affermazioni dottrinali, ma l'esperienza concreta lo ha portato a scoprire immediatamente che la realtà è piena di limiti e di imperfezioni. E ha sentito ed esperimentato che non è sempre possibile mettere insieme la ortodossia mentale e la spontaneità del cuore.

Il nostro perfezionismo intellettuale ci impegna spesso a voler incapsulare lo Spirito nello spazio dell'intelletto, e per comprendere Le Saux è necessario sapere che egli ha voluto sottomettere il logos (parola, pensiero, ragione) allo Spirito (aria, soffio, respiro). È stato sempre diffidente riguardo alle idee e alle parole, mentre era completamente aperto allo Spirito, dovunque spirasse.

Questa tensione tra logos e spirito si concretizzerà tra Henri Le Saux e l'abbé Monchanin, e non solo riguardo al futuro escatologico, ma anche nella realtà concreta della conduzione dell'Ashram di Shantivanam. Non erano solamente tensioni psicologiche tra due personalità forti, ma forse lo scontro tra due polarità teologiche, che portarono a due scelte diverse:

- vivere in modo radicale alla maniera hindu, in cui l'esperienza è a fondamento di ogni insegnamento, come voleva Le Saux;

- oppure decidere secondo le esigenze della ragione, del logos appunto, come voleva Monchanin.

Essere e fare

Gli scritti di Henri Le Saux difficilmente potranno essere capiti da coloro che non sono passati attraverso la sua esperienza, e lui ha accettato umilmente di non essere capito. Tanti hanno pensato che ci fossero nei suoi scritti errori teologici, confusione di fede e di ragionamento, o che non fosse possibile concentrare in un pensiero logico le sue intuizioni. Ma i suoi scritti, ormai numerosissimi, evidentemente smentiscono questa opinione, e «chi vuol capire, capisca». Rileggendoli, invece, si può certamente intuire il lavoro di cesello per farsi capire e non essere frainteso. Il Diario spirituale (4), che non è stato scritto per essere pubblicato, avrebbe bisogno di essere rivisto non già da noi ma da lui.

Si può capire la dimensione spirituale non nella dimensione del «fare e del produrre», ma in quella dell'«essere», e nella dimensione dell'essere non c’è bisogno di essere consapevoli, proprio come un neonato che esiste anche se non ne ha consapevolezza intellettuale, e l'esistere è certamente fondamentale rispetto alla coscienza. L'essere può esistere solamente «essendo», e per questo Abhishiktananda ha chiesto a se stesso di «andare oltre» il mentale: lui è andato oltre non con le parole ma con la stessa sua vita.

Henri Le Saux ha chiamato «preghiera» l'Essere dal punto di vista di Dio: «Tu, o Padre, preghi creando e mantenendo il creato in essere», mentre la sua vita è stata la convalida del suo pensiero; per lui infatti non esiste la distinzione tra documenti teologici e affermazioni spirituali isolate. Per tutti è così, ma per lui in modo particolare: la maggior parte delle sue espressioni sono grida, preghiere, urla che esprimono i suoi sentimenti.

In questo cammino sono da sottolineare i radicali cambiamenti di Henri Le Saux:

«L'insegnamento delle Upanishad non è questione di formulazioni intellettuali, che possono essere insegnate e ricevute. Esse hanno solo la funzione di portare all'esperienza» (1956).

E nel 1972, solamente un anno prima della sua morte:

«Il cristianesimo è soprattutto Upanishad, correlazione, insegnamento non diretto. L'insegnamento diretto è solo "fenomeno". La correlazione fa uscire la scintilla direttamente dall'esperienza, e questa mette la relazione in modo perfetto».

«Il mistero interiore chiama in modo lacerante: nessuno da fuori può aiutarmi a penetrare il mistero e scoprire al mio posto il segreto della mia origine e del mio destino» (1956).

«C'è sempre il rischio di scambiare i surrogati dell'esperienza con l'esperienza stessa: la strada della solitudine e dell'unità è terribile nella sua nudità. Non si può prendere l'idea della solitudine per solitudine stessa» (1956).

Il cammino spirituale di Henri Le Saux è stato l'incontro con il Nulla, ne ha toccato l'aspetto negativo, senza vederne la grandezza. È stato il vero incontro con il Nulla del proprio profondo. Troppo spesso l'incontro con il Nulla è solo superficiale. Molti, contenti della propria conoscenza, anche della propria conoscenza religiosa, colpiti dal luccichio dell'Oriente, bevono qualsiasi cosa esotica e pensano d'aver raggiunto l'esperienza suprema, quando invece hanno toccato solamente i limiti delle proprie facoltà spirituali. Raggiungere le frontiere dell'essere è fondamentale per un cammino spirituale, ma questo non è ancora l'incontro con il profondo. Fare questa esperienza significa entrare in una via senza ritorno, e non è come fare un po' di yoga, un po' di meditazione, o impegnarsi in una recita di mantra.

Sin dai primi anni della sua presenza in India H. Le Saux era preoccupato dell'impatto della cultura occidentale con l'Oriente, ne vedeva i rischi e le deformazioni. Negli anni dei «pellegrinaggi» in India dei giovani occidentali scrisse queste riflessioni che indicavano il suo amore per l'Oriente e per l'India, ma anche sottolineavano la superficialità con cui poteva essere avvicinata la spiritualità indiana da coloro che, scontenti dell'Occidente, non erano sufficientemente preparati a recepirne il valore e a confrontarsi con la fatica di una spiritualità totalmente diversa da quella a cui erano abituati:

«Lo yoga è molto in voga ai nostri giorni, soprattutto in Occidente, dove forse se ne discute di più che nella stessa India. Forse questa divulgazione può far perdere di vista il vero senso dello yoga. Lo yoga è soprattutto una tecnica per riportare e fissare lo spirito nel suo centro. Lo scopo dello yoga è fondamentalmente di ricondurre lo spirituale alla nuda coscienza della propria esistenza, al di là di tutte le manifestazioni di ordine fenomenico percettibile dai sensi e dal pensiero. Solamente in questo centro o in questa sommità l'uomo raggiunge se stesso e si realizza nella verità del proprio essere, o, più esattamente forse, del proprio atto di esistere» (5).

Si tratta di raggiungere ciò che l'India chiama lo stato del kevala, cioè dell'isolamento, in cui uno pone se stesso in rapporto a tutto ciò che non è suo in maniera essenziale e permanente, in rapporto a tutto ciò che in lui è solo relativo e passeggero, cioè le vritti, che sono le complicazioni del proprio pensiero e le trasformazioni del proprio egoismo.

Per questa via lo yoga può credersi assoluto e può ritenere d'aver realizzato la perfetta libertà e la totale indipendenza della propria persona. Da questo punto centrale del proprio essere tenterà di dominare e controllare, senza che niente gli possa sfuggire, tutte le manifestazioni psicologiche e anche fisiologiche della propria vita.

Il mezzo per eccellenza per arrivare a questo stato è il controllo progressivo e sempre più stretto dell'attività mentale e, al limite, il suo arresto totale. Proprio in questo arresto la coscienza che si ha di se stessi si può illuminare di una luce non confusa, che da sola può riempire il campo intero della percezione.

Per rendere possibile questo dominio del flusso mentale sono stati progettati ed esperimentati, attraverso una lunga pratica, diversi esercizi. Il più importante è quello della meditazione, che concentra lo spirito su un punto preciso, immaginario o mentale non importa.

Non si tratta della meditazione nel senso occidentale del termine, di immaginare cioè una scena o di contemplarne successivamente le differenti parti, oppure di riflettere su una idea e di esaminarne i diversi aspetti. La meditazione yogica tenta di ridurre ad un punto indivisibile il campo della coscienza, di realizzare l'unità dell'attenzione, di vincere la dispersione e di costringere lo spirito al silenzio.

Le posizioni del corpo (asana), gli esercizi di respirazione (pranayama) hanno valore puramente preparatorio e sono tutti finalizzati a fissare lo psichico. Il loro scopo primo è quello di permettere allo yoga di controllare, di ritmare e, se possibile, di immobilizzare i suoi muscoli, soprattutto quelli che comandano i movimenti della respirazione e anche dei battiti cardiaci.

Tutto ciò dipende dalla connessione tra lo psichismo dell'uomo e il suo organismo fisiologico, e ancor più, dice la tradizione, tra il soffio vitale (prana) e il principio interiore della vita.

Essendo lo yoga una tecnica, succede ciò che capita a tutte le tecniche, sia di ordine fisico sia di ordine psicologico, sociale, o religioso, e non può succedere altrimenti. La tecnica attira sempre più l'attenzione e gli strumenti rischiano di essere valorizzati per se stessi, a scapito dello scopo primario da raggiungere. Per questo i pericoli dello yoga, soprattutto per gli occidentali, non devono essere minimizzati.

Uno dei rischi più gravi è di costituire al fondo della coscienza dello yoga una specie di super-io, ritenuto tanto potente da essere capace di controllare e dominare i movimenti muscolari, la coscienza fenomenica, e persino il pensiero.

Questo super-io sarebbe in definitiva un'esaltazione dell'io, anzi una proliferazione cancerosa dell'io, dell'ahamkara (coscienza empirica di sè), e può divenire un punto della coscienza smisuratamente ingrandito rispetto al resto.

Questa è la sorgente dell'orgoglio demoniaco di certi yogi, soprattutto in Occidente. Andando al fondo di se stessi s'impegnano nello sforzo di passare, dicono, dall'io al Sé. Ma quello a cui tendono e che chiamano il Sé, non è altro che la proiezione del proprio pensiero, il fine che hanno concettualizzato e che si sforzano di raggiungere.

Non giungono alla perdita di sé nel Sé supremo, come essi pensano, ma in conseguenza dell'atteggiamento moralistico che riempie tutta la loro ascetica, gonfiano in maniera mostruosa e promuovono al rango di assoluto il loro proprio io, con tutti i suoi particolarismi e i suoi limiti. Questo permette loro di ritenere possibile tutto ciò che pensano senza limiti o regole.

L'impegno verso l'India

L'impegno verso il Vuoto, che anche san Giovanni della Croce invita a raggiungere e chiama Nada, nada, ha avuto per Henri Le Saux una strada molto concreta.

Innanzitutto il suo non-ritorno in Occidente. Era stato più volte invitato a tornare ed egli stesso aveva pensato che sarebbe stato utile vedere l'Occidente dopo la sua esperienza indiana, e vedere anche l'India da lontano. Invece, rifiutò in modo categorico, perché a suo parere sarebbe stato un tradimento rispetto alla sua chiamata, avvertita come un cammino senza ritorno, quasi una immersione da cui non era possibile tornare, pena la perdita di una parte di se stesso. Non voleva sentire la sua missione come temporanea, rischiando di non essere né da una parte né dall'altra, condannando l'Oriente a causa delle fatiche sopportate ed esaltando l'Occidente più confacente alle sue abitudini, o viceversa. Rifiutava di essere considerato un santo (o un santone) che andava in giro per il mondo a salvare i perduti, o a sollevare i sofferenti.

Tanti amici non erano d'accordo con lui, a nome di tutti Raimon Panikkar, amico e compagno di ricerca, che, pur avendolo inizialmente contrastato, poi lo ringraziò e gli disse: «Grazie, swami, avevi ragione e pertanto ti benediciamo».

Non nascose la sua irritazione, e fu alta, quando alcuni amici rifiutarono l'esperienza indiana e decisero di tornare in Europa. Questo fu a suo parere un tradimento. La sua scelta era per lui l'unica possibile: solo la morte poteva toglierlo dall'India, e non sarebbe stato possibile nessun compromesso.

Ancor più si irritò quando alcuni monaci occidentali che vivevano in India decisero di incontrarsi e discutere la loro vita: «Non si arriverà ad una riforma con chiacchiere o con dibattiti. Antonio andò nel deserto, e così anche Benedetto, Francesco si mise sulle strade senza bisogno di convegni e di congressi di monaci».

Nel cuore di Henri Le Saux sono convissute due strade sin dall'inizio: la via cristiana e la via hindu (1949) e solamente nell'esperienza dell'attacco di cuore (10-18 luglio 1973) raggiunsero un'armonia, solamente alcuni mesi prima di morire. Sentiva forte il richiamo dell'abisso, era dentro il suo cuore la promessa della non-dualità che avrebbe un giorno dato la grande risposta, quella che elimina sia la domanda sia colui che la pone: se uno non rinuncia a tutto quello che possiede e anche a se stesso e alla propria vita, non può entrare nel Regno dei cieli.

E con questa fatica ha lasciato libero se stesso e contemporaneamente dava indicazioni ad altri. A chi temeva su questa strada di perdere la fede, rispondeva:

«Non aver mai paura di perdere la fede, perché vorrebbe dire che Dio perde te, e questo non avverrà mai. Per cui, se perdi la fede, significa che non era vera fede, e allora valeva la pena di perderla» (Lettera 1970).

Poi giunse al totale abbandono al Signore e al suo Amore:

«il cielo esiste per chi lo desidera, e l'inferno esiste per chi lo teme» (1954).

L'espressione del Salmo della Bibbia ebraica è un richiamo per tutti: «L'abisso chiama l'abisso» (Sai 42,8), e per Henri Le Saux è il richiamo ad una unione profonda tra tante esperienze. Questa unione non è il risultato di un approfondimento tecnico, sociologico, filosofico, e neppure teologico, ma di un abbraccio mistico nel fondo dell'abisso. Per lui non era in gioco la soluzione di un conflitto dialettico, ma la sua stessa esistenza:

«Ho paura di perdermi lungo il sentiero verso l'eternità» (1953).

«Ho paura, ho l'angoscia di rischiare solo per un miraggio... ma tu, o Arunachala [la montagna sacra al Sud dell'India, in Tamil Nadu], non sei un miraggio» (1956).

Henri Le Saux e la sua poesia

La poesia è l'arte di esprimere le proprie emozioni, i propri sentimenti e le proprie esperienze al di là del pensiero. Non contro il pensiero ma oltre la mente, cioè in un cambiamento di prospettiva e anche di strumenti adeguati per raggiungerla. Solamente a quel livello è possibile sentire il pensiero di Abhishiktananda (il «consacrato per la gioia»). Mentre esprime l'entusiasmo di essere colpito dal sacro monte Arunachala, professa il suo amore appassionato per il Cristo (1956).

Era entrato nella notte oscura, e solamente dopo anni di buio poté vivere nella propria carne l'esperienza della non-divisione. Scoprì in quel momento che doveva rompere con abitudini mentali e spirituali accumulate lungo i secoli, che gravavano sulla sua vita. E dovette farsi violenza.

Henri Le Saux ha vissuto l'esperienza del non-duale partendo dall'esterno del contesto indiano, con un altro tipo di materiale, con un'altra consapevolezza, con un'altra veste umana, quella dell'Occidente.

Non ha avuto paura di perdere quello che aveva acquisito, perché era essenziale, e l'essenziale non si perde mai, perché è nascosto nella caverna del cuore, nel profondo in cui nessuno può nulla rubare e che nessuno può violare.

Sembrava una sua debolezza, sembrava l'espressione di una sua superficialità, e invece era una ricchezza. Era il risultato del suo viaggio verso il profondo, verso il pozzo da cui può scaturire la fonte di acqua viva.

Per fare questo, ha dovuto abbandonare tutti i suoi «mariti», ha dovuto bruciare tutte le aderenze del suo essere occidentale, senza però rifiutare la sua appartenenza all'Occidente. Non si tratta di unificare, ma di avvicinare perché la vicinanza amorosa possa essere l'occasione di una mutua fecondazione e questo significa scoprirsi amanti e amati. Per essere capaci di un reciproco amore, per potersi reciprocamente fecondare, è necessario che ognuno rimanga se stesso:

«Non si tratta di fare sintesi, ma di andare aldila', di superarsi, ma permettendo ad ognuno di rimanere se stesso» (1956).

«Andare oltre» non significa negare il punto di partenza, ma anzi conservarlo e andare al profondo di esso. Meta-fisica non è la negazione della fisica, né un'altra fisica, ma andare al suo perché, al profondo nascosto della fisica. Così anche meta-noia non significa negare la mente o il pensiero né elaborare un altro pensiero, ma andare al perché del pensiero stesso, al profondo di esso. Questo è la spiegazione dell'andare oltre di Henri Le Saux e di molti mistici. È stato un cammino faticoso, ed esigente: ha seguito le pratiche cultuali cristiane in modo scrupoloso, e ad un certo momento le ha sorpassate, non per negarle, ma per andare in una dimensione che le comprende senza condannarle o rifiutarle.

«L'Eucaristia non è per me una forma di culto, ma mette a mia disposizione l'Incarnazione totale» (1952).

«Il Cristo è l'espressione cosmica e sociale di ciò che ciascun uomo porta dentro di sé» (1956).

«L'Incarnazione è certamente un mito (cioè il misterioso atto in cui ognuno può essere coinvolto e che può comprendere nella misura in cui accetta di essere immerso). È il Sacramento supremo, si può dire di magia, nel quale l'uomo raggiunge la profondità di se stesso» (1956).

Fu angosciante per lui andare oltre, avere la sensazione di perdere tutto ed è per questo che è giunto a formulare la sua dichiarazione di fede:

«Esistono due volti del Cristo: storico e meta-storico (mistico). I cristiani celebrano il volto storico, l'India e tutte le religioni cosmiche quello meta-storico. Sono necessarie ambedue, perché sia completa la conoscenza del Cristo. Non sono in opposizione, ma si completano e la nudità (Kevala) non divisa è la pienezza del culto cristiano» (1956).

«Certamente il cristianesimo sente di ribellarsi e dire che l'advaita (uno e molteplice insieme) non possono coesistere. L'advaita farà esplodere la chiesa istituzionale vaticana. È necessario che io rimanga in questa angoscia, quella che non mi permette la serenità di una sintesi... Non è possibile bere contemporaneamente da due coppe e questo è il prezzo della pace e della gioia» (1956).

«Finché è presente il desiderio di lasciare la Chiesa, non è ancor giunto il momento di farlo» (1956).

Un uomo libero: un monaco

Era ben presente in Henri Le Saux la concezione orientale di libertà e continuamente la descrive. Non è una libertà morale, né una libertà psicologica o di scelta: libertà è il raggiungimento, da parte di ogni essere, del profondo di se stesso, è l'adeguamento al motivo profondo del proprio esistere (Dharma). La purezza è la solitudine perfetta, cioè il silenzio che si raggiunge nell'incontro tra essenza ed esistenza. Solamente allora si può agire in modo naturale e spontaneo, cioè in perfetta libertà.

Si può accettare come commento a questo pensiero di libertà la frase di san Tommaso d'Aquino: «L'uomo libero è colui che opera non per un comando, ma perché vuole compiere il suo desiderio. Colui che opera per un comando, è uno schiavo, non è un uomo libero» (Commento alla prima lettera ai Corinzi).

È questa la libertà che discende dalla consapevolezza di avere qualcuno al di sopra di noi che condivide l'esperienza di vita, di avere Dio come Padre; e così non cadono sopra di noi tutte le responsabilità individuali, né tanto meno quelle dell'intera umanità: Dio, l'umanità, il creato non sono concorrenti, ma partners di vita di ognuno di noi:

«Finché posso chiamare qualcuno fratello qui sulla terra, ho anche il diritto di chiamare Padre il profondo estremo della guba [grotta] del mio esistere» (1972).

«L'esperienza cristiana è l'esperienza advaitica, vissuta nella comunità umana» (8 marzo 1972).

Per questo ritenne di non doversi impegnare più di tanto in ambito sociale e politico, non ne era interessato, come non accettò di soccombere ad alcuna tentazione teologica o filosofica.

La sua libertà si è espressa anche nelle lotte che evidentemente ha dovuto sostenere e affrontare sia dentro che fuori l'ambito della Chiesa. Anche le sue lotte, di qualsiasi tipo, non sono mai stata vissute sul piano mentale, non sono mai state interessate ad alcun conflitto intellettuale: «Voglio vivere il Vangelo senza teologizzare» (8 marzo 1972).

E quando qualcuno gli ribatteva: «Ma anche questo è filosofare», allargando le braccia diceva in francese: «Que je dois repondre?» («Cosa devo dire?»). «Non ho paura di andare di là dei colpi di mannaia del Denzinger [la raccolta delle definizioni e dei dogmi della dottrina cattolica; ndr.], perché non dobbiamo essere troppo legati alle apparenze».

La sua libertà è sempre stata di tipo monastico. La sua esperienza monastica, però, era dettata dalla conquista di una libertà vissuta a tutto campo. La libertà monastica come lui desiderava viverla l'ha ben descritta nel libretto che è quasi una cronaca del suo viaggio verso le fonti: Una Messa alle sorgenti del Gange (6).

Le Saux tende ad un monachesimo acosmico, che in un certo senso può trovarsi in conflitto con l'esperienza cristiana, che è fondata sulla Incarnazione. Il monaco acosmico rinuncia ad ogni supporto; la sua esperienza va oltre il «non avere un sasso dove appoggiare il capo». Il suo monachesimo aspira a trascendere la situazione umana, tende alla divinizzazione, come il cristianesimo, ma anche alla illuminazione proposta dal buddhismo e al nirvana proposto dall'induismo.

Certamente Le Saux non si è mai occupato molto della dimensione umana, non ha mai proposto un intervento in vista di cambiamenti qui sulla terra, ma metteva l'attenzione «oltre», superando ogni limite e ogni incertezza. Non è riuscito a realizzare il suo ideale; i limiti umani del suo carattere e delle sue forze fisiche per la concretizzazione dei suoi sogni sono evidenti. Spesso non ha saputo accettare i suoi limiti, non erano dentro la sua dimensione di vita, non erano nel cammino che si era proposto. I limiti, nella concezione monastica che si era costruito, non erano stati presi in considerazione, ed era infelice di doverli invece riscontrare.

«Andare di là di tutto» era la sua lotta tra l'uomo vecchio e l'uomo nuovo, tra l'ahamkara e l'aham:

«Avevo sentito sulla Arunachala la gioia della pace, che poi era scomparsa nel momento in cui mi ero scoperto cristiano, nella scoperta dei limiti della storia (Chiesa, Vaticano, organizzazione, rubriche...)» (26 agosto 1955).

La tensione più importante di Abhishiktananda era quella di poter raggiungere l'Assoluto con l'abbandono totale del relativo, l'annullamento di tutto ciò che uno è e può essere, forse l'abbandono della sua condizione di creatura:

«Colui che possiede diversi linguaggi religiosi, mentali o spirituali non importa, non potrà mai assolutizzare un qualsiasi concetto, ma potrà solo testimoniare un'esperienza, di cui però può parlare solo balbettando» (1973).

Per questi motivi si è rivolto all'India dove l'esperienza dell'Assoluto è stata sviluppata più fortemente che altrove. Il richiamo dell'India è giunto a Henri Le Saux perché era monaco e voleva essere monaco sino in fondo.

In Oriente l'unica strada spirituale comprensibile è quella monastica: non quella della carità, non quella dei riti, non quella della teologia, ma l'esperienza del profondo, incarnato nella vita concreta di un monaco.

Per essere testimone Swami non ha minimamente dubitato della necessità per lui di giungere alla completa spoliazione di ogni cosa, di ogni esperienza, anche quella religiosa, anche quella cristiana.

«Dovremo ringraziare l'ateismo moderno di tanti nostri fratelli, che ha smascherato tante false fedi che abbiamo contrabbandato come fede vera e unica» (Lettera 1970).

Abhishiktananda è stato un asceta, ma l'ascesi non è un nirvana più o meno pacifico, non è un paradiso in anteprima, bensì lotta, campo di battaglia. La sua lotta non è stata una lotta morale per la perfezione, né una lotta teologica per cercare la verità, ma una lotta dell'essere, una lotta dell'intera esistenza, una lotta per esistere.

È stata una lotta tremenda, che ha vissuto dentro di sé per tutta l'umanità, per noi occidentali, per noi cristiani, per noi monaci, per noi preti. Siamo tutti in debito verso di lui. La vita non può essere identificata con la coscienza che ne abbiamo e tanto meno con la riflessione intellettuale o spirituale che di essa facciamo. La domanda e la risposta riguardo alla vita si trova su un piano più profondo. Tutto questo ci permette di considerare l'esperienza di Henri Le Saux unica e certamente irripetibile. È sua la ricerca di combinare incarnazione e trascendenza, storia e acosmismo (tempo, spazio, materia, corporeità giungono ad essere evanescenti). Forse questo è stato il motivo per cui ciò che ha voluto concretizzare, si è di fatto annullato. Voleva fare un monastero, un ashram, avere discepoli... Ma niente si è realizzato.

Solo alla fine «un» discepolo, Marc, si è concretizzato, ma anch'egli ha impersonato l'ideale del monaco acosmico, sparendo totalmente dalla vita comune e distruggendo, a mio parere coerentemente, tanti documenti, come forse Swami gli aveva detto di fare. Già negli anni Sessanta, quando uno gli aveva chiesto di pubblicare note e riflessioni perché il suo messaggio potesse espandersi, Le Saux gli rispose:

«Attraverso lo Spirito è giunto a te il messaggio, e attraverso lo Spirito potrà giungere ad altri» (Lettera 1969).

Nell'anno stesso della sua morte (1973) Abhishiktananda rifiutò di partecipare alla Convention monastica asiatica a Bangalore e la stigmatizzò con commenti sarcastici, dichiarando che non era certo quello il luogo di un sannyasin (un monaco acosmico), perché i teologi cercano ciò che è da completare, mentre la perfezione è il vuoto, anzi il vuoto totale (7).

Ha praticamente sconfessato tutto: non si è rivolto al proprio sé, ma, al contrario, ha rivolto il proprio sé all'Assoluto, all'Unico, e praticamente tutto gli si è rivoltato contro, anche la sua stessa partenza per l'India:

«Ero venuto per farti conoscere ai miei fratelli hindu. E invece sei stato Tu che ti sei rivelato a me attraverso la loro mediazione, sotto l'aspetto inquietante di Aruna (aurora) Achala (immobile)» (8).

Henri Le Saux giunse in India come monaco, ma trovò in India l'ideale del monaco.

È bene notare che non lui, ma gli altri hanno scoperto l'esperienza acosmica del «sadhu cristiano», ed esattamente un compagno di ricerca di Henri Le Saux, Harilal (Sri Hari Wench Lal Poonja; vedi sopra pp. 22-26), durante un incontro che sembra toccare l'al-di-là, ha scoperto l'esperienza del monaco silenzioso. Lo stesso Abhishiktananda lo racconta:

«La prima volta che incontrai Harilal fu nella grotta di Arutpal Tirtham, un venerdì 13 marzo. Erano circa le quattro del pomeriggio. Ero seduto sul mio sedile di roccia fuori dalla grotta, quando vidi due uomini che venivano verso di me lungo lo stretto passaggio che stava tra la mia grotta e la casetta di Lakshmi Devi. Si presentarono e si sedettero accanto a me...» (9).

Chi è il monaco?

È opportuno forse non fare confronti e tanto meno graduatorie tra monachesimo cristiano (vedi Regola di san Benedetto) e monachesimo hindu.

La Regola di san Benedetto inizia con la caricatura del monaco girovago, e poi delinea la figura del monaco come uomo perfetto, realizzato, che ha raggiunto la pace, la dolcezza e la libertà. E' l'incarnazione dell'humanum, che si trova anche nella proposta cinese del saggio: il gentiluomo, l'uomo superiore, il nobile... e questo modello viene poi trasferito al prete e quindi all'ideale cristiano per ogni uomo e ogni donna che vuole essere discepolo di Gesù: è la proposta della via media tra angelismo e umanesimo.

In India la proposta monastica è anch'essa una via verso la perfezione, ma non nel compimento della virtù, ma nel raggiungimento del vuoto, possibilmente totale. È proposto il superamento e la trascendenza della condizione umana. Il monaco è colui che non è più di questo mondo, ma vive già altrove. È l'indifferente, perché ha già superato la dualità: «Non desidera vivere, non desidera morire. Attende che avvenga il suo tempo» (Mundaka Upanishad I, 2-12; Brhadharanyaka Upanishad III, 5).

E c'è un altro modello: il monaco ribelle, cioè il folle, il non conformista, colui che infrange le regole e aspira alla totale libertà.

Il monaco è colui che i benpensanti chiamano pazzo, ed è una follia vera, non finta, ed egli sa di esserlo e lo vuole. È colui che scende in piazza e gesticola, insulta, maledice, denuncia la follia della ragione, l'ipocrisia dei grandi, dei potenti, dei ricchi, dei forti e porta scompiglio nei giochi degli uomini importanti (vedi san Francesco, Gesù di Nazareth. Geremia, Buddha, i sufi dell'Islam..., e in genere tutti i profeti di ogni religione e di ogni cultura). San Paolo stesso parla della pazzia della croce, perché in essa sono state spezzate tutte le convenzioni.

Il monaco è colui che ha liberato la propria anima, anzi è colui che non ha più anima. Il monaco della tradizione hindu è colui che ha abbandonato tutti i riti, e nel mondo hindu la caduta di tutti i riti significa che il mondo crolla, e il monaco lascia che il mondo crolli: «Se un giorno non si potrà celebrare l'offerta del fuoco, come ogni giorno si celebra sul Gange a Rishikesh, il giorno dopo non sorgerà più il sole» (10).

Il rito è essenziale per la vita dell'universo, ma il monaco se ne ride. Ed è questa una delle tragedie del monachesimo hindu: la necessità dell'acosmismo e la sua effettiva impossibilità.

Il sannyasin (monaco hindu) è colui che si lascia cadere, che rinuncia a se stesso, e lascia cadere anche il mondo, perché... ha scoperto qualcosa di più, la verità delle verità, chiamata Nulla, o Vuoto, Nada, come dicono tutti i mistici. Il Vangelo esprime tutto questo in una parabola: «Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo: un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13, 44).

Il tesoro non è il risultato della vendita dei suoi averi, ma qualcosa che scopre quasi per caso, e la rinuncia non è un sacrificio, ma un motivo di gioia e di nuova vita, poiché scopre che quello a cui rinuncia è ben più piccolo di quello che acquista.

Il sannyasin è l'uomo dai lunghi capelli, il muni, cioè il silenzioso, che chiede senza parlare. Un giorno ne abbiamo incontrato uno a Tiruvannamalai, davanti al tempio, dove centinaia di poveri chiedevano l'elemosina, e lui (il monaco dai lunghicapelli) chiedeva solo con gli occhi, senza parlare, senza alzare la mano, ed era comprensibile solo da coloro che avevano capito il silenzio e affinato gli strumenti di relazione senza l'uso della parola.

Tutto questo è il simbolo del paradigma monacale, che ci descrive forse a verità della vita e della ricerca di Swami Abhishiktananada. In un inno dei Veda forse troviamo la descrizione del suo sogno:

«In lui c' è il fuoco, in lui l'acqua;
la terra e il cielo sono in lui.
Egli è il sole che il mondo intero contempla,
la luce stessa, l'asceta dai lunghi capelli.

Cinti di vento, fango d'ocra è il loro vestito.
da quando gli dèi sono in loro penetrati
vanno seguendo le ali del vento
gli asceti del silenzio.

Inebriati, essi dicono, dalle nostre austerità,
i venti abbiamo soggiogato come destrieri.
E voi, comuni mortali, quaggiù,
non potete vedere oltre i nostri corpi.

Fra cielo e terra, librandosi nell'aria,
dall'alto egli mira la forma di ogni cosa
Si è fatto, l'asceta silenzioso,
amico e collaboratore di tutti gli dèi.

Cavalca i venti, compagno del loro soffio
dagli dèi inspirato.
Sta nei due mari
a Oriente e a Occidente, il silenzioso asceta.

L'orma segue di tutti gli spiriti,
delle ninfe e degli animali della foresta.
I pensieri loro conosce e, con l'estasi innalzato,
ne diviene dolce amico, l'asceta dai lunghi capelli.

Il vento ha preparato e mescolato per lui
una bevanda spremuta da Kunamnama (energia degli dèi)
Con Rundra (dea della morte) ha bevuto alla coppa del veleno,
l'asceta dal lunghi capelli».

In questo modello, ben chiaro e ben presente ancor oggi in India (come anche tra gli aborigeni dell'Australia, dell'America latina e in molte culture africane) è da collocare il posto di Henri Le Saux, ricercatore dell'Assoluto. A questo modello si collegano molte pratiche sciamaniche, come anche l'uso delle droghe di tanti asceti orientali. «Chi ne abusa, tradisce le piante sacre», diceva Aurobindo in un opuscolo, L’abuso delle droghe chimiche per una esperienza spirituale, tradotto anche in italiano dall'ashram di Pondicherry: «Chi usa le droghe chimiche per giungere alla esperienza spirituale, non farà esperienza spirituale e tradirà il motivo per cui il Creatore le ha messe nel mondo».

Di fronte a queste esperienze noi rischiamo di peccare per un eccesso di razionalità, e non possiamo così comprendere coloro che hanno spezzato il legame con il razionale.

Conclusione

Non si tratta di demonizzare né tanto meno di annullare una delle proposte o uno dei modelli di monachesimo, ma di accettare che Le Saux sia una sfida cosciente alla cultura storica del nostro tempo. Occorre ricuperare l'entusiasmo di una perfezione umana staccata dal cielo e dalla terra. Dovunque esistano tempeste, tragedie e angosce, il monaco hindu non le nega, ma non ne fa una teoria per tutti, e la sua vita lancia una sfida senza speculare, senza razionalizzare, senza voler tutto spiegare. Ciò che egli nega è la storia, l'evoluzione, la razionalità come motivazione ultima delle cose.

Raimon Panikkar, grande amico e studioso di Henri Le Saux, avrebbe dovuto ricordarlo al mio posto qui a Camaldoli, ma nella sua lettera ad Abhisiktananda ha lasciato il commento a questa vita e a questa esperienza tanto ricca quanto problematica. In questo modo Raimon Panikkar conclude la sua lettera, descrivendo il monaco acosmico, il monaco in ricerca dell'Assoluto, tutti i sadhu dell'India e quindi anche il monaco Henri Le Saux:

«Egli ama, beve, danza, mette in pericolo la propria vita, è l'amico di tutto e di tutti; non si cura dei discorsi, non si mette a scrivere libri, non si difende. È il silenzioso, colui che non ha nulla da dire. Non vuole essere imitato da nessuno, perché lui stesso non ha modello.
È spontaneità pura, pura libertà. La sua vita non è camminare su una via. Per Lui il mondo è l'esplosione della libertà, che i mortali ragionevoli vogliono sottomettere e dirigere verso un punto omega, verso un Dio, verso un eschaton o una fine entropica.
Però questo monaco non è nemmeno l'anarchico che provoca rivoluzioni e distrugge gli altri. Al contrario, si fa collaboratore del divino: è sauktrya, fautore di bene (cfr. ergon agathon della scrittura cristiana); egli ha scoperto di vivere nella antariksa, la regione intermedia tra cielo e terra, il mondo mediatore da dove procede l'energia universale e che è il legame di tutta la realtà. Questa antariksa, che come dice l'Atharva Veda (1, 32), ci ricorda che “l'universo è ogni giorno fresco, come le correnti del mare”» (12).

In ultima istanza, è lui che beve la coppa del veleno, il calice della croce, e che perde la sua vita, forse. Ma nessun utilitarista, anche se si proclama «realista spirituale», potrà mai comprenderlo. E qui appare la differenza tra la cultura occidentale, soprattutto quella moderna, e la cultura indiana tradizionale, che gli apre uno spazio ben più vasto di quello accordato un tempo in Occidente al matto del villaggio. Il monaco si trova allora in una sorta di simbiosi soprattutto con il popolo, ma anche con i potenti, che vedono in lui ciò che loro stessi non sono stati in grado di realizzare. Forse l'inno dei Veda ha saputo riconoscere che vi è anche un monaco in ogni uomo, cioè un essere unico (monachos) e dunque incomparabile, irriducibile a qualunque schema? Non sarà forse che la cultura tecnocratica temporanea, invece, dietro una facciata di una democrazia egualitaria e di un ordine suscettibile di essere dettato dai computer (gli «ordinatori», quelli che classificano), vuole ridurci ad un comune denominatore, considerandoci semplici numeri? Non sarà piuttosto che questo archetipo monastico di cui stiamo parlando è il seme dell'unico «eroismo» che è ancora presente in ciascuno di noi? Qualunque sia la risposta che si dà a queste domande, è certo che la forza di questi monaci, di questi kesinah, di questi muni, di questi sannyasin, è una sfida costante e un esempio che continua ad ispirare «i pochi saggi che il mondo ha annoverato» (fra Luis de Leon). «La rinuncia ha oltrepassato gli ardori» (Mahanarayana Upanishad, 568).

Si può tracciare una sintesi, da una parte, tra i due modelli di monaco e, dall'altra, tra il paradigma monacale e la vita cosiddetta moderna? La forza della Bhagavad-Gita contiene, mi sembra, lo sforzo per giungere alla prima sintesi: essere in comunione con l'universo, avere coscienza di dover mantenere l'ordine cosmico, non restare attaccati ad alcunché e compiere la propria opera senza volerla giustificare attraverso i risultati.

Per quanto riguarda la seconda sintesi, quella che dovrebbe cioè realizzarsi tra la spiritualità tradizionale, che potremmo chiamare la «santa semplicità», e l'ideale moderno della «complessità armoniosa», essa si rivela essere il compito e la sfida della nostra epoca.

NOTE

1. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.

2. MURRAY ROGERS, Testimonianza, riportata nell'opuscolo citato alla nota precedente.

3. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Lettera del settembre 1973 in Lettere e scritti, cit.

4. HENRI LE SAUX, Diario spirituale di un monaco cristiano-sannyasin-hindou 1948-1973, a cura di Raimon Panikkar, Mondadori, Milano 2002.

5. ABRISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, a cura di Arrigo Chieregatti, Pro manuscripto, Officine Grafiche Gioia, Cantù 1976.

6. HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994.

7. Cfr. Diario spirituale..., Op. cit., pp. 255-263 (28 novembre 1956).

8. ABHISHIKTANANDA SWAMI (HENRI LE SAUX), Esperienza indù, esperienza cristiana, in Lettere e scritti, cit.

9. Il racconto dell'incontro si può leggere in HENRI LE SAUX, Ricordi di Arunachala, Messaggero, Padova 2004, pp. 197-208.

10. Cfr. RAIMON PANIKKAR, I Veda. Mantramanjari (Testi fondamentali della tradizione vedica), Rizzoli, Milano 2001.

11. Ivi, pp. 588-589.

12. RAIMON PANIKKAR, Lettera ad Abhishiktananda in HENRI LE SAUX, Alle sorgenti del Gange, CENS-Servitium, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG) 1994, p. 165.

(da Vita monastica, n. 231, pp.32-55)

Venerdì, 02 Dicembre 2005 20:42

“Il codice Da Vinci” (Filippo Morlacchi)

“Il codice Da Vinci”

di Filippo Morlacchi



Occorre cercare di capire, per poter giudicare. Come mai il romanzo Il codice Da Vinci ha trasformato in breve tempo Dan Brown – uno sconosciuto docente di letteratura inglese con il pallino per la storia dell’arte e per il simbolismo esoterico – in un acclamato e ricchissimo autore di best seller? La risposta non è facile. La trama del thriller risulta complessivamente avvincente, ma non tale da giustificare gli oltre diciassette milioni di copie vendute in tutto il mondo. Si potrebbe anzi rilevare un certo calo di tensione verso la fine del racconto, quando il succedersi dei colpi di scena diventa così ripetitivo da risultare prevedibile o perfino esasperante. C’è un elemento però che caratterizza il romanzo dall’inizio alla fine: il voluto, inestricabile intreccio di elementi evidentemente fantastici con altri più credibili, in modo tale che il piano della fiction e quello della realtà non siano ben distinguibili. Questo, probabilmente, è stato lo stratagemma vincente. La versione originale (1) del romanzo, dopo una pagina di ringraziamenti riporta il seguente testo: «Fatto: Il Priorato di Sion – una società segreta europea fondata nel 1099 – è un’organizzazione reale. Nel 1975 la Biblioteca Nazionale di Parigi scoprì alcune pergamene conosciute come I dossiers segreti, che identificano numerosi membri del Priorato di Sion, inclusi sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo e Leonardo da Vinci. La prelatura vaticana conosciuta come Opus Dei è una setta cattolica profondamente religiosa che è stata l’argomento di una recente controversia dovuta ad accuse di lavaggio del cervello, coercizione e una pericolosa pratica nota come mortificazione corporale. L’Opus Dei ha appena completato la costruzione di un Quartier Generale Nazionale da 47 milioni di dollari al 243 di Lexington Avenue a New York City. Tutte le descrizioni di manufatti, architetture, documenti e rituali segreti in questo romanzo sono accurate» (2). Come si vede, l’autore avanza esplicitamente la pretesa di dire cose “accuratamente vere”, almeno rispetto ad alcuni elementi del romanzo. L’editore italiano (Mondadori) ha riportato la traduzione di questa pagina fino alla sesta ristampa; poi si è invece cautelato, mettendo in guardia il lettore con il classico avviso: «Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi o persone, vive o defunte, è assolutamente casuale» (p. 4 della traduzione italiana) (3). Tuttavia è evidente che le numerose affermazioni formulate dai personaggi del romanzo in relazione a numerosi argomenti di storia, religione, simbologia, crittografia, ecc., vogliono rivendicare validità scientifica. Il lettore viene così costantemente e deliberatamente indotto in errore, dal momento che svarioni grossolani e imperdonabili, imprecisioni veniali e comprensibili, deformazioni storiografiche fantasiosamente capziose ed affermazioni scientificamente accettabili si susseguono senza distinzione, presentate tutte su uno stesso livello. Il valore scientifico della maggior parte delle presunte verità affermate dai protagonisti del romanzo però non ha maggior consistenza storica della loro fantasiosa vicenda. Quanto afferma uno dei personaggi, la crittologa Sophe Neveu, a proposito della sua Smart rossa fiammante («Cento chilometri con un litro (4) », p.164) ha lo stesso valore di quanto afferma – ad esempio – il ricco sir Leigh Teabing a proposito del Concilio di Nicea (p. 272ss). Con la differenza che per scoprire la falsità della prima affermazione basta chiedere ad un possessore di Smart quanto fa con un pieno, mentre l’accertamento di complesse verità storiche relative ad un concilio svoltosi nel 325 d.C. richiede una verifica decisamente più laboriosa, che ben pochi hanno voglia di attuare, finendo così con l’accettare per buone le presunte rivelazioni del romanzo. Rivelazioni che però – come giustamente osservava l’editore italiano – sono pura «opera di fantasia».

Si può dunque sostenere che il romanzo, pur essendo nella sua confezione esterna un thriller, è un vero e proprio “romanzo di idee”. La vicenda intende offrire al lettore suggestioni e spunti per riflettere, e non il puro divertimento di un racconto giallo. Dan Brown ha scritto il romanzo come strumento per diffondere alcune sue convinzioni, basate – a suo dire – su certi fatti. Peccato però che molti di questi presunti fatti non siano tali. Quali sono queste idee e questi fatti, e perché possiamo dire che si tratta di una bufala? Dobbiamo andare per gradi.

La tesi di fondo del romanzo si può riassumere così: la Chiesa cattolica, la cui gerarchia è composta da soli uomini, ha funzionalmente costruito una cultura misogina nascondendo una terribile e scomoda verità: Gesù Cristo amava Maria Maddalena, desiderava affidare a lei la guida della sua comunità e generò con lei una discendenza “di sangue reale”, che attraverso i Merovingi, è giunta fino a noi. A causa degli interessi della gerarchia ecclesiastica e con la complicità dell’imperatore Costantino, tutta la cultura ebraico-cristiana si è invece fondata sul pregiudizio maschilista e sul nascondimento di ogni testimonianza a favore del “sacro femminino”. Ma una setta denominata Priorato di Sion, da sempre custode di questo terribile segreto, sarebbe oggi pronta a rivelare questo segreto al mondo intero. Questa teoria sarebbe suffragata, secondo l’autore, da alcuni presunti fatti, relativi in particolare al Priorato di Sion e all’Opus Dei. Ora, l’intera costruzione dimostra la sua fragilità, se si considera che tutto ciò che viene affermato a proposito del Priorato di Sion è invece assolutamente falso.

Non voglio fornire un resoconto dettagliato della trama (è l’unica cosa che merita la lettura del libro, e non vorrei togliere ai possibili lettori il gusto di scoprire come va a finire l’intreccio), né di tanti elementi storiografici inseriti nel romanzo, relativi alle leggende del Santo Graal, al Priorato di Sion, all’ordine dei Templari, ecc. (5) Mi limiterò a esaminare, riportando alcune citazioni, le tesi “ideologiche” più avventate e, a mio giudizio, più pericolose del volume.

Ecco perciò una raccolta antologica delle affermazioni che il lettore ingenuo potrebbe accogliere come verità finalmente svelate, se dimenticasse che non solo luoghi e persone – come l’autore dichiara – ma anche le tesi proposte dai protagonisti del romanzo non vanno prese per oro colato, ma sono frutto di pura invenzione.

1) La lunga presentazione di Costantino imperatore come pagano impenitente che si sarebbe servito del cristianesimo per vantaggio politico («un ottimo uomo d’affari [che] vedendo che il cristianesimo era in ascesa si è limitato a puntare sul cavallo favorito», p. 272), redattore della Bibbia tramite la distruzione dei vangeli da lui ritenuti pericolosi («commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Gesù», p. 275), primo assertore della divinità di Cristo al Concilio di Nicea («fino a quel momento storico, Gesù era visto dai suoi seguaci come un profeta mortale: un uomo grande e potente, ma pur sempre un uomo», p. 273) è infarcita di errori. Nella discussione si leggono alcuni ridicoli anacronismi; ad esempio, l’affermazione che «stabilire la divinità di Cristo fu un passo cruciale per l’ulteriore unificazione tra l’Impero Romano e il nuovo potere con sede nel Vaticano» (p. 274): l’errore sarebbe imperdonabile anche per un alunno di scuola media, considerando che la sede del papato non fu il Vaticano, ma il colle Laterano, e questo fin dopo la cattività Avignonese, mille anni dopo Costantino. Oppure l’affermazione che «quando Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù [da umana a divina], erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso» (p. 275): tra la morte di Cristo (avvenuta circa nell’anno 30 dell’Era Volgare) e il concilio niceno (tenutosi nel 325) passano meno di trecento anni, e non quasi quattro secoli (e bisogna aggiungere che affermazioni della filiazione divina di Gesù di Nazareth erano formulate in maniera chiara già nella tradizione cristiana del primo secolo!). Vi sono poi numerose affermazioni non documentate (e non documentabili); ad esempio, che «più di ottanta vangeli sono stati presi in considerazione per il Nuovo Testamento» (p. 272: il numero è di pura fantasia, assolutamente non ricostruibile); che «naturalmente, il Vaticano, per non smentire la sua tradizione di disinformazione, ha cercato di impedire la diffusione di questi testi [cioè i papiri di Qumran e di Nag Hammadi]» (p. 275: tra gli studiosi più qualificati di questi testi ci sono numerosi cattolici); la tesi che la Chiesa costantiniana abbia voluto cancellare i tratti umani di Gesù facendone un essere divino («la Chiesa delle origini doveva convincere il mondo che il profeta mortale Gesù era un essere divino», p. 286: chiunque abbia sfogliato un manuale di storia dei dogmi, o anche solo il catechismo, sa bene che la dottrina cristiana insiste sulla duplice natura, umana e divina, nell’unica persona di Gesù: nessuna cancellazione, dunque, della natura umana); e tante altre presuntuose sciocchezze, reperibili alle pp. 271-77 (6). È sufficiente leggere un’aggiornata introduzione al testo biblico o un testo documentato di storia della chiesa antica per smentire una ad una simili pretestuose affermazioni.

2) La Chiesa è trattata da Brown in modo contraddittorio: da un lato è considerata attrice perversa di una consapevole mistificazione (vuol nascondere al mondo la verità su Cristo), dall’altro sembra invece ingenuamente succube dei propri errori («la Chiesa moderna … è convinta della tradizionale visione di Cristo. Nel Vaticano ci sono molti uomini di profonda fede religiosa, certi che questi documenti (cioè i vangeli gnostici) siano testimonianze false»: pag. 275).

L’aspetto più insidioso e subdolo dell’insieme è dato però dal fatto che, sparse qua e là, si trovano anche alcune affermazioni corrette, che confondono le acque al lettore inesperto, rendendogli difficile tracciare il confine tra verità e menzogna, fantasia e ricostruzione storica.

Ad esempio, è innegabile che «la Bibbia non ci è arrivata per fax dal cielo» (p. 271), come invece sostengono le teorie fondamentaliste, o che «le sopravvivenze della religione pagana nella simbologia cristiana sono innegabili» (p. 272). Allo stesso modo, stili di vita e di pensiero che a buon diritto possono essere attribuiti all’Opus Dei – una delle lobbies che giocano un ruolo determinante nel racconto – si intrecciano con mistificazioni ed esagerazioni infamanti.
Solo una lettura attenta del romanzo, da parte di persone competenti e avvedute, consente di separare la verità dall’errore, così intimamente intrecciati a bella posta nel racconto.

3) Le spiegazioni sulle opere di Leonardo, in particolare La vergine delle Rocce e L’ultima cena mescolano interpretazioni assolutamente stravaganti e insostenibili (a titolo di esempio segnalo la teoria che identifica il discepolo che sta alla destra di Gesù ne L’ultima cena con Maria Maddalena) ed elementi veritieri (come ad esempio il riferimento ai pessimi restauri del diciottesimo secolo, p. 286). Sull’argomento, rimando alla letteratura specifica di critica d’arte.

4) La leggenda sul rapporto tra Gesù e Maria Maddalena, ampiamente diffusa nelle tradizioni gnostiche fin dall’antichità e poi in ambienti catari, percorre il romanzo come un fil rouge.
«Come ho detto, il matrimonio di Gesù e Maria Maddalena è storicamente documentato… Non l’annoierò con gli infiniti riferimenti all’unione tra Gesù e Maria Maddalena. È stata esplorata fino alla nausea dagli storici moderni» (p. 287-8; 290). Ebbene, perché questa documentazione non viene mai prodotta, e neppure indicata? L’argomento che «se Gesù non fosse stato sposato, almeno uno dei vangeli della Bibbia avrebbe accennato alla cosa e avrebbe fornito una spiegazione di quella innaturale condizione di celibato» (p. 288) può essere facilmente rivoltato: non solo i vangeli canonici, ma neppure i vangeli apocrifi a noi conosciuti parlano mai di un matrimonio di Gesù con Maria Maddalena, come giustamente la bella Sophie obietta al Maestro. Non sarà che tale matrimonio è solo un parto della fantasia? Il testo del Vangelo di Filippo che viene citato nel romanzo (7) poi non è scritto in aramaico, come sembra potersi evincere dalle parole del dotto (o presuntuoso) Teabing (p. 288), ma in copto, e probabilmente l’originale perduto era in greco.

5) Ben più complesso si fa il discorso a proposito dell’“oblio del femminile” all’interno della Chiesa e della dottrina ecclesiale. Qui, senza cadere in unilateralità femministe, la Chiesa può e deve fare ammenda delle proprie colpe; in parte è già stato fatto in opportuna sede nel corso dell’ultimo anno giubilare. Ma una valutazione onesta deve tener conto anche della dottrina cristiana sulla Vergine Maria, della riflessione biblico-patristica sulla Sapienza (Sophia), di quella biblico-rabbinica sulla Shekinah (ricordata, ma totalmente fraintesa a p. 364) fino alla recente sofiologia dei teologi russi del secolo scorso (V. Soloviev, ecc.). Evidentemente l’autore, in «un romanzo così pesantemente basato sul sacro femminino» («a novel drawing so heavily on the sacred feminine»: Ringraziamenti della v. o.), è interessato più a descrivere le idee gnosticheggianti da lui scoperte con stupore di rivelazione, che a discutere onestamente la dottrina cattolica e la sua tradizione.

6) A pag. 316 il riferimento alle dottrine New Age e all’avvento dell’era astrologica dell’acquario si fa esplicito. Ciò che fa sorridere è il collegamento tra l’era dei Pesci, conclusa con il cambio di millennio, e caratterizzata dal fatto che «l’uomo debba ricevere ordini dai poteri superiori perché è incapace di pensare da solo» (p. 314), con la persona di Cristo, indicato con il simbolo del pesce. L’antichissima identificazione di Gesù con il pesce, come neppure uno studentello può permettersi di ignorare, si deve al fatto che la parola greca ichtýs (pesce) è acronimo di Iesous Christos Theou Yios Sotèr (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore), e non a considerazioni astrologico-zodiacali. La libertà interiore insegnata da Gesù sembrerebbe poi adattarsi meglio alla spiritualità dell’Acquario, «il cui ideale afferma che l’uomo è capace di apprendere la verità e di pensare per sé» (p. 314); e, soprattutto, il simbolo del pesce rivela l’antichità della fede in Gesù Figlio di Dio, contro quanto affermato nelle pagine precedenti.

7) Il pentametro giambico e la sua simbolica. Ancora una volta, si mescolano un insieme di mezze verità e di seducenti affinità simboliche. È vero che il giambo è un piede formato da «due sillabe con enfasi opposte. Lunga e breve» (p. 356; in realtà il giambo è composto da una breve e una lunga; ma evitiamo la pedanteria…); però da qui a dire che si tratti di «Yin e yang. Una coppia equilibrata. In fila di cinque. Cinque come il pentacolo di Venere e del femminino sacro» (ivi) mi pare che ne corra. Si tratta del vezzo (che sembra risuscitato di sana pianta dal gusto medioevale) di cercare una selva di simboli nascosti in tutto. Non escludo che si possano trovare elementi simbolici in ogni cosa; mi pare però onesto chiedersi se ciò sia frutto della realtà stessa o non piuttosto della lente con cui la realtà viene letta.

8) La spiegazione dello hieros gamos (nozze sacre) fornita alle pagg. 362ss è un’accozzaglia confusa di elementi provenienti da religioni di epoche storiche e aree geografiche assolutamente eterogenee, frutto di letture storico-religiose affrettate e mal digerite. Impossibile negare il valore sacrale universalmente attribuito alla sfera della sessualità, presso ogni cultura; ma confondere culto della dea madre, prostituzione sacra, misteri dionisiaci, tantrismo e quant’altro in un unico calderone è segno di ignoranza, non di eclettismo. Che poi nel tempio di Gerusalemme si praticasse la prostituzione sacra è un’accusa infamante a cui i fratelli maggiori ebrei dovrebbero rispondere energicamente, se non ci fosse motivo di dubitare dell’utilità di ogni contenzioso, data l’ottusità della controparte. Infine sostenere che «il tetragramma ebraico YHWH – il nome sacro di Dio – derivava da Yahweh ovvero Geova, androgina unione fisica tra il maschile “Jah” e il nome preebraico di Eva, “Hawa” o “Havah”» (p. 364) è affermazione degna di nota solo perché non era facile dire tante sciocchezze in una frase sola. Per smentirle tutte dovrei scrivere troppo a lungo, e mi astengo dal farlo.

In conclusione, la tesi di fondo del libro, oltre al recupero del femminile divino (di cui ho già segnalato gli aspetti positivi, che pur ci sono), mi sembra la seguente: «tutte le religioni del mondo sono basate su falsificazioni. È la definizione di “fede”: accettare quello che riteniamo vero, ma che non siamo in grado di dimostrare. Ogni religione descrive Dio attraverso metafore, allegorie e deformazioni della verità, dagli antichi egizi fino agli attuali insegnamenti di catechismo. Le metafore sono un modo per aiutare la nostra mente a spiegare l’inspiegabile. I problemi sorgono quando cominciamo a credere alla lettera alle nostre metafore… Dovremmo proclamare che Gesù non è nato da un parto letteralmente verginale? Coloro che comprendono veramente la loro fede sanno che queste storie sono metafore» (p. 401-2; v. o. p. 369-370). Ebbene, questa è l’essenza del docetismo e dello gnosticismo, eresie contro cui già alla fine del primo secolo la Chiesa si è dovuta scontrare: «ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (1Gv 4,2).

Insomma, nulla di nuovo; a parte il fatto che l’ignoranza della fede è il miglior pascolo per alimentare la confusione. Come ha recentemente segnalato il già citato M. Introvigne (8), un libro che parla del divino ma sparla della Chiesa viene felicemente incontro ai desideri dell’uomo religioso di oggi. In un tempo in cui sembra diffondersi sempre più il fenomeno del believing without belonging («credere senza appartenere», ossia senza sentirsi parte di una chiesa, perché “appartenere” è più impegnativo), un romanzo del genere – che tratta di apertura religiosa all’invisibile, ma senza alcun vincolo dogmatico, complotti e società segrete, critica della Chiesa cattolica e rivelazioni di presunte verità nascoste – non poteva non incontrarsi con le “richieste del mercato”. Con buona pace dell’onestà intellettuale.

Note

(1) The Da Vinci Code. A novel, Doubleday, New York – London – Toronto – Sydney – Auckland 2003; d’ora in poi abbreviato con: v. o. Per facilità di consultazione, quando non indicato altrimenti, le pagine del testo citate nell’articolo si riferiscono invece alla traduzione italiana di R. Valla.

(2) «FACT: // The Priory of Sion––a European secret society founded in 1099––is a real organization. In 1975 Paris’s Bibliothèque Nationale discovered parchments known as Les Dossiers Secrets, identifying numerous members of the Priory of Sion, including Sir Isaac Newton, Botticelli, Victor Hugo, and Leonardo da Vinci. // The Vatican Prelature known as Opus Dei is a deeply devout Catholic sect that has been the topic of recent controversy due to reports of brainwashing, coercion, and a dangerous practice known as “corporal mortification.” Opus Dei has just completed construction of a $47 million National Headquarters at 243 Lexington Avenue in New York City. // All description of artwork, architecture, documents, and secret rituals in this novel are accurate» (pag. 1).

(3) Dopo che questo anomalo fatto è stato pubblicamente segnalato da M. Introvigne (insigne esperto italiano di nuovi movimenti religiosi, sette ed esoterismo) la pagina è “miracolosamente” ricomparsa nelle più recenti edizioni e ristampe. Chissà, forse dietro il libro c’è davvero qualche potere occulto e magico!…

(4) Si dice proprio “al litro” (“to the liter”: v. o. pag. 147) e non “per gallone”, come si poteva benevolmente supporre: non è dunque una svista del traduttore italiano, ma proprio uno sfondone dell’autore.

(5) Se ne può trovare un dettagliato resoconto critico nel documentato articolo di Massimo Introvigne “Il Codice Da Vinci”: ma la storia è un’altra cosa, disponibile on-line sul sito www.cesnur.it. Dello stesso autore è prevista la pubblicazione per settembre 2005 del volume Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità dietro Angeli e Demoni e Il Codice da Vinci (ediz. Piemme): la competenza dell’autore è una garanzia di affidabilità rispetto alle decine di testi già usciti sul Codice. Per riassumere la questione, si può dire che un’associazione denominata “Priorato di Sion” esiste, ma non risale al 1099, e non vi hanno preso parte Botticelli, Leonardo, Newton o Hugo, come afferma Il codice Da Vinci. È stata infatti fondata il 7 maggio 1956 da Pierre Plantard (1920-2000), un ex collaboratore del governo filo-nazista di Vichy; i documenti detti dossiers segreti che narrerebbero la sua millenaria fondazione sono invece dei falsi, composti nel 1967, come ha ammesso alcuni anni dopo uno dei falsari che li ha prodotti su richiesta di Plantard, tal Philippe de Chérisey. Ma i manoscritti furono ritenuti autentici da Gérard de Sède, il quale li pubblicò nel suo volume L’Or de Rennes (1967); tre giornalisti anglosassoni – Henry Lincoln, Michael Baigent e Richard Leigh – credettero alla verità di questi falsi, e riscrissero la storia arricchendola di nuovi elementi e adattandola al pubblico inglese nel volume The Holy Blood and the Holy Graal (1982). Infine Dan Brown ha letto quest’ultimo volume, credendo alla verità di quanto vi era contenuto, e lo ha preso come spunto per il suo The Da Vinci Code (2003). Recentemente Baigent e Leigh hanno intentato causa a Brown, accusandolo di aver copiato il loro libro senza citarli esplicitamente; infatti l’unico riferimento al loro volume è il fatto che uno dei protagonisti del romanzo – e guarda caso proprio il “cattivo” – si chiama Leigh di nome e Teabing (anagramma di Baigent) di cognome. Cfr l’intervista di R. POLESE a R. Leigh: Dan Brown ci ha saccheggiati, Corriere della Sera, 9 maggio 2005, p. 23. Ma a noi interessa rilevare che la prima e fondamentale delle “fonti sicure” di Brown è un volume assolutamente inaffidabile, poiché basato su un falso storico.

(6) V. o., pp. 250-256 (cap. 55).

(7) «La consorte di Cristo è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e la baciava spesso sulla bocca. Gli altri discepoli allora gli dissero: – Perché ami lei più di tutti noi? – Il Salvatore rispose e disse loro: – Perché non amo voi tutti come lei?» (Vangelo di Filippo, 55, ad es. in: I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Einaudi, Torino 1969, p. 521). Il testo va messo in parallelo con la dottrina gnostica della generazione spirituale per mezzo del bacio, perché dalla bocca scaturisce il Verbo, ossia la Parola: «il perfetto diventa fecondo per mezzo di un bacio, e genera» (ivi, 31, p. 516). La matrice gnosticheggiante del pensiero di Brown si manifesta con chiarezza nella scelta del nome di Sophie, “Sofia, Sapienza”, per la protagonista femminile del romanzo: la coppia “Gesù – Maddalena” nel pensiero gnostico è riflesso di quella “Salvatore – Sapienza”. E guarda caso, l’ultima discendente di Maria Maddalena si chiama proprio Sophie!... Come spiega il curatore della citata edizione dei vangeli apocrifi, facendo riferimento alla dottrina gnostica delle coppie di eoni o syzugìai, «l’unione perfetta dei due eoni Sotèr/Sophia è il motivo del maggior affetto dimostrato da Gesù a Maria Maddalena» (nota 3, p. 521). Difficile stabilire un confine tra l’ingenua ignoranza e la voluta malizia di Brown.

(8) “Il Codice da Vinci”: tutta la verità, in Vita pastorale, 5 (2005) 86-91.

Con lo sguardo fisso al mistero dell’incarnazione di Cristo Gesù entriamo liturgicamente nel tempo dell’Avvento, tempo di speranza e di attesa, nel quale siamo invitati a preparare la via del Signore che viene nella debolezza della nostra carne, con la mente ed il cuore rivolti al suo ultimo e definitivo avvento.

Fasi della cultura europea d'oltralpe

Galeazzo Caracciolo (1517 - 1586)

di Renzo Bertalot


Premessa

Paolo III aveva sollevato gli spiriti europei ai più alti livelli di attesa per una riforma della chiesa. Imperatori, principi e teologi si erano rimboccate le maniche per correggere quelli che allora erano detti alcuni abusi.

A Ratisbona nel 1541 vi fu in proposito una gran festa Se l'incontro non raggiunse i risultati sperati si trattò soltanto di un rinvio imperiale al prossimo concilio.

Nel 1542 tutto cambiò. Le motivazioni sono, come sempre, nelle mani di storici scrupolosi, in grado di investigare innumerevoli archivi e biblioteche. Da loro (1) si rimane in continua attesa, quando si è lontani dalle cattedre specialistiche, di una buona soggettività visto che l'oggettività non mai al nostro orizzonte. Tuttavia diventa difficile trattenere nella penna dell'osservatore, che non è storico di professione, qualche supposizione.

Intanto con l'inquisizione di tipo spagnolo instaurata molti fuggono dall'Italia. Teologi italiani, esuli famosi, sono accolti presso le cattedre più prestigiose d'Europa. Non è senza significato che ad Oxford la lingua ufficiale dell'università sia appunto l'italiano (2).

A Ginevra si costituisce una chiesa italiana che raccoglie i rifugiati sfuggiti all'inquisizione. La comunità raggiungerà dalle quattromila alle cinquemila unità. V'erano valdesi, veneti, lucchesi, napoletani e anche valdesi fuggiti dalla strage di Calabria. L’istituzione resse per due secoli e la sua borsa per il soccorso agli esuli durò fino al 1870 (3).

Erano tempi molto difficili. Ogni ombra di riforma venne eliminata dalla penisola. I divulgatissimi libri di origine protestante vennero un po' ovunque ammucchiati nella piazze e dati alle fiamme. Si considerava una grazia la decapitazione al posto del rogo!

Per la Riforma in Italia fu un'eclissi totale. Bisognerà arrivare fino alla seconda metà del secolo scorso per veder tornare il sole alle sue prime luci di un'era nuova. Si è iniziato un cammino in cui nessuno può fermarsi pretenden­do che soltanto l'altro si muova. Per gli uni una perennis reformatio, per gli altri una ecclesia semper reformanda.

Dei tanti nomi ne ricorderemo uno solo: Galeazzo Caracciolo, quasi un simbolo dell'epoca.

La vita

Galeazzo Caracciolo nasce a Napoli da Colantonio Caracciolo (fatto marchese di Vico da Carlo V) e da madre della famiglia Carafa. Sposa Donna Vittoria figlia del duca di Nocera dalla quale ebbe quattro figli maschi e due femmine (4).

Galeazzo Caracciolo non è un dotto né un teologo; è un nobile addetto ai vari incarichi di corte sia all'interno che all'estero. Era giunto a conoscenza delle idee di Juan Valdes che da otto anni teneva una scuola in città (5) e predicava la giustificazione per fede contro la propria giustizia, i meriti delle opere e le superstizioni.

Un suo congiunto, Gian Francesco Alois, lo porta ad assistere ad una lezione di Pietro Martire Vermigli, allora canonico regolare. Fu il " colpo di fulmine" (6). Il predicatore nel commentare la Sacra Scrittura si soffermò a lungo sull'immagine del ballo. Quando si osserva da lontano la gente che balla, ma non si sente il suono della musica si è convinti che si tratta di pazzi, ma avvicinandosi al gruppo e lasciandosi coinvolgere dalle note si comincia volentieri a ballare. Così è dello Spirito di Dio. Era il 1541. Marcantonio Flaminio gli scrisse una lunga lettera, conservataci integralmente, esortandolo a perseverare (7).

Galeazzo Caracciolo cambiò radicalmente vita. Vi fu gran festa tra i valdesiani e anche per Vittoria Colonna che allora abitava a Viterbo e gli mandò i saluti di Reginald Pole (8). Fu determinante l'influenza di Pietro Martire Vermigli (9).

Per il padre Colantonio e la moglie Vittoria la conversione di Galeazzo non fu soltanto un pericolo da scongiurare, ma soprattutto un disonore e un'infamia per tutto il casato e per tutti.

L’8 giugno 1551 il Caracciolo arrivò a Ginevra sconosciuto e forse anche sospettato. Fu accolto come uno qualsiasi. Prestò giuramento ed elesse come suo maestro Calvino che lo accettò come amico e consulente. Il riformatore gli dedicò il commentario alla Prima Lettera ai Corinti e più tardi l'intera traduzione italiana Istituzione della religione cristiana (10). In suo onore fu coniata una grossa medaglia che rimane l'unica effigie di Galeazzo Caracciolo.

La famiglia

Galeazzo Caracciolo era pronipote di Gianpietro Carafa futuro Paolo IV. A Napoli venne stabilita la confisca dei beni e dei titoli nobiliari. Il padre supplicò l'imperatore di risparmiare l'infamia per la famiglia. Ottenne la grazia, ma non convinse Galeazzo. Chi aveva tentato la fuga, ma esitò a passare la frontiera, venne catturato, decapitato o condannato al rogo (11).

Galeazzo non era insensibile ai legami familiari ma non era disposto a cedere in materia di fede. Accettò di incontrare il padre prima a Verona, poi a Mantova e ancora nell'isola dì Lesina, dove avrebbe dovuto rivedere anche la moglie (sempre innamorata del marito) che invece mancò all'appuntamento. Galeazzo fu contento di rivedere i suoi, ma fu irremovibile. L'ultima volta decise di andare direttamente a Vice rischiando anche di essere imprigionato (12). Le suppliche di ritornare sui suoi passi non lo fecero retrocedere, neppure quelle della sua figlia dodicenne. Partì con il cuore spezzato, ma la moglie, sotto la minaccia di scomunica del confessore, rifiutò di seguirlo. Il padre giunse quasi a maledirlo.

Sulla via del ritorno visitò i riformati della Valtellina e dei Grigioni. Nel 1558 ritornò a Ginevra e diede inizio alle pratiche del divorzio.

Il divorzio

Sulla questione del divorzio ci fu una lunga consultazione. Calvino chiese il parere di molti, tra cui Pietro Martire Vermigli, Bullinger e Ochino. Tutti si mostrarono favorevoli. Calvino, a nome del sindaco e del concistoro, scrisse direttamente a Vittoria che non accettò di seguire il marito. Il Piccolo Consiglio diede allora il parere favorevole al divorzio e al permesso di risposarsi (13).

Sposerà Anna Framèry vedova e anch'essa rifugiata (14).

La comunità

Intanto nel 1552 a Ginevra si era costituita la chiesa italiana. Massimo Martinengo da Brescia, già collaboratore di Pietro Martire Vermigli, viene eletto pastore e approvato dalla Compagnia dei pastori. La reggenza della chiesa è sostenuta da quattro anziani e da quattro diaconi.

Galeazzo Caracciolo frequentava la predicazione e leggeva la Sacra Scrittura, aveva l'incarico di sorvegliare gli italiani per evitare scandali, spionaggio (15) con i dissidenti anabattisti e antitrinitari.

La comunità italiana fornì anche pastori all'Italia tra cui Giovanni Luigi Pascale che morì martire.

Giordano Bruno soggiornò due mesi a Ginevra esercitando l'arte del correttore in una stamperia. Non aderì alla Riforma e partì per Venezia dove l'inquisizione lo braccò e nel 1600 finì sul rogo a Roma.

L'epilogo

Un religioso cattolico fu ancora inviato a Ginevra per convincere Galeazzo a tornare sui suoi passi per non impedire il proseguimento della carriera ecclesiastica del figlio Carlo, ma la sua insistenza aveva un carattere provocatorio e fu allontanato (16). Il padre Colantonio era morto nel 1562 a settantasette anni. Il figlio di Galeazzo, anche lui di nome Colantonio, fu sospettato di eresia e morì a Venezia nel 1577. Vittoria muore il 18 settembre del 1584 e Anna Frambèrv l'anno successivo (17).

Galeazzo Caracciolo muore il 7 maggio del 1586 a settantanove anni. Così si arriva alla fine dei marchesi di Vico.

NOTE

1. Il testo segue in particolare: E. Comba (a cura), Nicolao Balbani, Historia della vita di Galeazzo Caracciolo, Claudiana, Firenze, 1875 e B. Croce, Un calvinista italiano. Il marchese di Vico, Laterza, Bari, 1973.

2. R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993, p. 78.

3. Croce, Un calvinista, p, 48.

4. Comba, Nicolao Balbani, Historia, pp. 11-13.

5. Croce, Un calvinista, p. 12.

6. Croce, Un calvinista, p. 13.

7. Comba, Nicolao Balbani, Historia, pp 17-24.

8. Comba, Nicolao Balbani, Historia, p. 14.

9. Ricordiamo il De fuga in persecutione. Cf Croce, Un calvinista, p. 17.

10. S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1997, p. 265.

11. Pietro Carnesecchi è uno dei tanti. Cf. Croce, Un calvinista, p. 30.

12. Comba, Nicolao Balbani, Historia, p. 39.

13. Croce, Un calvinista, pp. 41-44.

14. Croce, Un calvinista, p. 50.

15. Comba, Nicolao Balbani, Historia, p. 68; Croce, Un calvinista, p. 51.

16. Croce, Un calvinista, p. 71.

17. Croce, Un calvinista, pp. 67-73.

(Tratto da: Renzo Bertalot, Fasi della cultura europea d’oltralpe, Venezia, 2003, I.S.E., Quaderni di Studi ecumenici 7, p. 23).

Russia:
il problema delle diocesi cattoliche
di
Vladimir Zelinskij



Per capire la sostanza del conflitto attuale cattolico-ortodosso in Russia prima di tutto non bisogna diminuirlo. Non si tratta del litigio di famiglia fra i grandi capi delle due Chiese ex-sorelle, ma di cose più serie, più profonde. Basta fare una passeggiata per le parrocchie ortodosse di Mosca o di Pietroburgo; fra le centinaia sarà difficile trovarne almeno una decina dove non siano esposti gli opuscoli polemici, non direi solo contro la nuova “Ostpolitik” del Vaticano, ma contro la fede cattolica come tale. Il filioque, le eresie, il papismo, ma soprattutto il papa in persona. “Questo vecchio che non è neanche più capace di piegarsi per baciare un pezzo di terra, pretende di prendere tutta la terra russa, oggetto della bramosia dei papi di Roma” – leggiamo sulla rivista ‘nazional-religiosa’ La casa russa. Nello stesso tempo la mano secolare dello Stato, che non legge le riviste, ma che ha bisogno di una nuova ideologia dell’unità nazionale, toglie dai passaporti dei sacerdoti cattolici i visti d’ingresso permanente in Russia.

L’ecumenismo, già nato molto debole, è come svenuto in Russia e la notizia dell’istituzione in loco di alcune diocesi cattoliche fu, in pratica, la constatazione del suo coma. E tutto questo si poteva prevedere facilmente. Perché ciò che sembrava essere una cosa normalissima per la Chiesa Cattolica, che da secoli coabita senza problemi con le altre religioni e confessioni e che si organizza in modo suo su tutto il pianeta, è diventata una ferita aperta nella sensibilità, nella fede e nell’ecclesiologia della Chiesa Ortodossa, che vive secondo il principio antico ed apostolico: la Chiesa locale sul territorio di un popolo. San Paolo scrisse “alla Chiesa di Dio che è in Corinto” (1 Cor.1,2), che vuol dire che tutta la pienezza dei doni di Dio sia data al suo popolo che abita in Corinto e si trova in comunione con le altre Chiese locali. La comunione fra di loro nelle preghiere e nei sacramenti, nella Tradizione e nei riti, nel passato apostolico vissuto insieme e nei santi comuni, fa il principio della cattolicità ecclesiale dal punto di vista ortodosso. Un vescovo che presiede la Chiesa locale non può interferire nella vita di un’altra Chiesa e l’Ortodossia rigetta il principio della “giurisdizione immediata” del primo vescovo (sia di Roma, sia di Costantinopoli sia di qualsiasi altro vescovo) sui fedeli delle altre diocesi. La Chiesa Cattolica si è comportata come se la Chiesa Ortodossa locale (nel nostro caso: Russa) non ci fosse.

Nella storia, tutti i dogmi che dividono oggi l’Oriente cristiano dall’Occidente furono adottati come “il polmone orientale” che non respira più. Anche oggi nessun dialogo sull’argomento delle diocesi, nessuna consultazione con la Chiesa locale prima della decisione presa: per la Chiesa Cattolica è chiaro che si tratta del suo problema interno.

Invece per la Chiesa Ortodossa non è così. Per questo motivo, quando sente dire da parte della sua “Grande Sorella” dell’Occidente: “siamo amiche, siamo sorelle (o quasi), cerchiamo la comunione e la testimonianza comune davanti al mondo secolarizzato”, la Chiesa Ortodossa dice: “no”. Sembra strano, ma questo “no” in fondo può essere più ecumenico dell’appello permanente e sorridente al dialogo. Perché il “no” ortodosso, da la sua testimonianza anche se negativa della visione della Chiesa unita, della riconoscenza della Chiesa Cattolica come la “Chiesa locale dell’Occidente”. Nel nostro caso, una Chiesa locale fa l’interferenza nel “territorio canonico” di un’altra Chiesa locale e questo atto suscita la sua protesta.

Si pone la domanda: perché la Chiesa Ortodossa non protesta in modo così forte contro la presenza sul suo territorio delle altre “chiesette” che vengono dall’estero o dall’interno? Protesta, ma in modo diverso, perché non vede alcun elemento di ecclesialità in questi movimenti. Loro sono fuori “dall’ovile”, fuori dalla Tradizione apostolica (dal punto di vista ortodosso) e con loro non c’è un vero e proprio dialogo ecclesiale, dunque non c’è neanche il senso doloroso di offesa e di rammarico. Paradossalmente, in fondo a questo senso di offesa nei confronti dei cattolici, si può trovare una traccia di memoria della Chiesa indivisa. Certo, nella reazione così violenta da parte della Chiesa Russa e del suo gregge, vi sono tanti fattori che hanno poco in comune con la vita ecclesiale. Lo shock della libertà che è caduta addosso senza nessuna preparazione, l’ondata della secolarizzazione che tanti credono sia stata inviata dall’Occidente, (ma, in realtà, l’Occidente ha semplicemente portato la merce che la Russia stessa ha ordinato), la ricerca dell’anima nazionale come difesa contro questa ondata di porcheria (che a l’Est dell’Europa è più caotica e disordinata che all’Ovest), ma soprattutto la sensibilità tipicamente russa a qualsiasi invasione dall’estero, sia puramente culturale che “spirituale”.

L’argomento comune: che voi, ortodossi, avete aperto o state per aprire tante vostre chiese qui, da noi, in Occidente, non funziona nel nostro caso. Il discorso logico e giuridico cede il terreno alla sensazione della minaccia e del complotto.

La soluzione? Prima di tutto ascoltare e capire. Capire il ragionamento di un altro e sentire il suo cuore. Ciò che l’Ortodossia non può capire è che il vescovo di Roma per i cattolici è molto di più di un vescovo. Infallibile o meno, il Papa viene percepito come un canale della Rivelazione che continua nella Chiesa, come un’icona vivente e parlante. Anche i cattolici devono sforzarsi di capire che la terra per i popoli ortodossi può divenire un’icona, silenziosa e piena di mistero, come tutte le altre icone, che raccolgono in sé la luce del regno e la memoria sacra. Non guardare gli abusi, le debolezze e gli errori di un altro (ce ne sono abbastanza da ambedue le parti), ma contemplare le icone di ciascuno, entrare nella sostanza della sua fede e cercare la corrispondenza del suo agire con questa sostanza.

Sul piano pratico: perché non cerchiamo di riunire i vescovi locali, ortodossi e cattolici, per risolvere alcuni problemi insieme? È chiaro che l’inizio non sarà facile. Perché non cercare di avviare alcune iniziative comuni in campo umanitario o altro? Senza dubbio, subito non andrà tutto liscio. Perché senza imporre il dialogo, non chiedere, cosa abbiamo in comune nella sostanza, nel mistero di Cristo incarnato e risorto? Forse non si potrà evitare la polemica, o peggio, il silenzio dell’indifferenza o della poca fiducia. Però bisogna insistere, non perdere la speranza. “Bussate e vi sarà aperto” (Mt.7, 7).



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