Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lombardini, partigiano disarmato
di Luca Maria Negro


«Ditegli che con lui credo nella realtà della nostra fratellanza cristiana internazionale, che si erge ai di sopra di tutti gli interessi e conflitti nazionali, e che la nostra vittoria è certa». Sono le ultime parole dl Dietrich Bonhoeffer, un messaggio per l'amico George Bell, vescovo dl Chichester. È significativo che l'ultimo messaggio del teologo e martire luterano prima della morte (avvenuta il 9 aprile 1945) sia rivolto a un vescovo anglicano, e abbia per oggetto il movimento ecumenico di cui Bonhoeffer fu uno dei pionieri. I sessant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale sono un'occasione preziosa per fare memoria di questo e di molti altri «martiri ecumenici» che hanno testimoniato e difeso la purezza del Vangelo negli anni della guerra. La proposta di creare un «martirologio ecumenico» è uno dei recenti contributi cattolici al movimento ecumenico: l'idea è stata cara a Giovanni Paolo II; la comunità di Bose ha compilato un voluminoso «Libro del martiri» ecumenico e a Roma la basilica di San Bartolomeo all'isola Tiberina è stata dedicata ai «Nuovi Martiri»: tra di essi cattolici e ortodossi del Ventesimo secolo, ma anche protestanti come Bonhoeffer e il pastore Paul Schneider.

Da un punto di vista protestante - e particolarmente da quello di un protestantesimo minoritario con una storia di secolare persecuzione, come quello italiano - la proposta del «martirologio ecumenico» non è esente da aspetti problematici. Vi è intanto la diversa concezione che i protestanti hanno della santità (che tuttavia non ci impedisce di fare memoria dei testimoni-martiri della fede). Vi è soprattutto la sensazione che, prima di arrivare a una memoria comune del martiri del Ventesimo secolo, occorrerebbe operare una «guarigione delle memorie» delle ferite che i cristiani si sono reciprocamente inferti nei secoli precedenti. Tale guarigione implica, in Italia, il recupero della memoria delle centinaia di nomi di martiri della persecuzione (anti-eretica prima e anti-protestante poi) che giacciono nell'oblio più totale. Qualcuno di questi comincia ad essere ricordato, come quello del pastore valdese Goffredo Varaglia da Brusca (Cuneo), a cui il Comune di Torino, il 15 novembre 2000, ha dedicato una lapide in piazza Castello, luogo in cui fu arso nel 1558. Alla cerimonia ha partecipato, fra gli altri, mons. Pietro Giachetti, vescovo emerito di Pinerolo.

In ogni caso i due «martirologi», quello del Ventesimo secolo e quello relativo ai secoli dell'inquisizione e delle guerre dl religione, non sono alternativi, ma complementari. E per contribuire alla memoria dei «nuovi martiri» vorrei ricordare, nel sessantesimo anniversario della morte, un protestante italiano: Jacopo Lombardini, predicatore laico metodista e insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. Lombardini è stato uno degli ultimi martiri della seconda guerra mondiale, perché fu ucciso in una camera a gas di Mauthausen proprio alla vigilia della liberazione, il 24 aprile 1945. Educatore, poeta, antifascista convinto, raggiunse i partigiani di Giustizia e libertà nelle Valli Valdesi del Piemonte con li doppio ruolo di «commissario politico» delle Brigate e di cappellano valdese. Ruolo, quello di cappellano, che svolse anche nei confronti dei partigiani cattolici, pur nel pieno rispetto della loro identità. Partigiano disarmato, durante tutta la Resistenza non imbracciò altra arma che la Bibbia e, come ricorda Giorgio Spini, «non odiò mai i fascisti», giungendo a «supplicare la grazia della vita per una spia catturata e destinata alla fucilazione». Arrestato in un rastrellamento, Lombardini proseguirà li suo ministero di cappellano anche nel lager, dapprima a Fossoli (Carpi) e poi a Mauthausen. In quel campo «non vi erano più preti» - ricorda un compagno di prigionia, il cattolico Nino Monelli - «ma Lombardini non esitava a rincuorare i suoi fratelli cattolici nella loro propria fede. Ripeteva loro che il sacrificio dei giusti è utile alla patria e gradevole a Dio. E in quei giorni non si domandava che di credervi! E se, nell'abbrutimento raccapricciante della disperazione dovuto alla fame e alla sensazione di catastrofe imminente, i giovani italiani non caddero in eccessi irriferibili, anche questo fu dovuto all'azione di Lombardini».

(da Mondo e Missione, giugno-luglio 2005, p 25)


Giovedì, 09 Febbraio 2006 00:02

La prova del diabolico (Marie Balmary)

La prova del diabolico
di Marie Balmary (1)

Le religioni monoteistiche riconoscono un solo spirito del male, una creatura che può entrare nell'uomo e possederlo. Il male si trova allora a essere incarnato? Lo si è creduto e per molti secoli un potere religioso ha voluto risolvere questo male bruciando posseduti e streghe…

Quando compare la medicina scientifica, essa rifiuta ogni soprannaturale. Per essa non esiste né possessione diabolica né miracolo. Tuttavia, nel secolo XIX, alcuni medici dell'anima umana che cercavano di comprendere disturbi come l'isteria, si trovano di fronte a un curioso ritorno e Freud può scrivere all'amico Fliess (17 maggio 1897) (2) : “Tu ti ricordi di avermi sempre sentito dire che la teoria medievale della possessione, sostenuta dai tribunali ecclesiastici, era identica alla nostra teoria del corpo estraneo e della dissociazione del cosciente. Perché le confessioni estorte con la tortura assomigliano tanto ai racconti dei miei pazienti durante il trattamento psicologico?”.

Freud si lancia allora nella sua autoanalisi, viaggio agli inferi in cui incontra “forze oscure venute dal fondo dell'anima” che in seguito paragonerà al diavolo (3); l'inconscio, le pulsioni sessuali rimosse, il padre seduttore… “Il rispetto degli Antichi per il sogno dimostra che essi presentivano giustamente l'importanza di quel che l'anima umana custodisce di incontrollato e di indistruttibile, il potere demoniaco che crea il desiderio del sogno che ritroviamo nel nostro inconscio”. (4) Con l'ipotesi dell'inconscio, il diavolo che i Lumi avevano fatto scomparire trova una nuova abitazione. Il “possesso” diventa malattia e non colpa.

Localizzato nella psiche umana

Si presenta allora un problema: se il diavolo è ormai localizzato nella psiche umana e non più nel mondo soprannaturale, verranno invalidate le pagine della Scrittura che lo riguardano? Oppure, per un imprevisto rovesciamento, possiamo farne una lettura nuova? Tentiamo.

Il diavolo compare principalmente in tre racconti, due nella Bibbia e uno nei vangeli. Dapprima nell'Eden (5): “Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Il serpente era la più astuta (nuda) di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio”.

Mentre l'uomo e la donna non si sono ancora riconosciuti differenti, la menzione della loro nudità e l'apparizione del serpente nudo si seguono immediatamente. Il serpente, simbolo maschile quant'altri mai, si rivolge alla donna, presentandole il sesso che essa non ha. Questo sesso-serpente è una riprova che il dio non ha dato tutto agli esseri umani, poiché li ha fatti mancanti di qualche cosa e la donna è la prima ad accorgersene. In precedenza, fra la formazione dell'uomo e quella della donna, il dio aveva posto una proibizione: non mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente, parlando alla donna, presenta il dio come colui che vuole conservare per sé solo la conoscenza divina. Per diventare “come dei” il serpente incita gli esseri umani a non accettare limiti. Questo discorso del serpente è diabolico, perché la proibizione data dal dio era al contrario l'accesso alla parola, il limite che consente a due soggetti di trovarsi l'uno di fronte all'altro senza mangiarsi. Il sessuale non simbolizzato… il diabolico seduttore…, non è forse ciò che Freud, anche lui, aveva incontrato?

Nei vangeli (6) Gesù affronta il diavolo. È lo stesso? Quest'uomo che risale da un battesimo, è stato chiamato “figlio” da una “voce dal cielo”; egli è condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. “Allora il diavolo gli disse: Se tu sei figlio di Dio… ”, provalo comandando alla materia: (“…dì che questi sassi diventino pani”), alla morte: (“…dal pinnacolo del tempio… buttati giù”) e a tutti gli altri uomini: (“…tutti i regni della terra… ti darò… se ti prostri dinanzi a me”). Il diavolo fa del tutto-potere, del tutto-godere la prova della filiazione divina. E Gesù risponde con parole della sua tradizione che gli consentono di sventare le parole di Satana e di smascherarlo.

Senza continuare a lavorare su questo testo, sul quale ci sarebbero tante cose da ricercare, me ne ritorno alla Bibbia dove si trova la storia più lunga del diavolo. Giobbe (7), l'uomo integro. E tuttavia… “i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: Forse i miei figli hanno peccato e hanno benedetto - l'autore non ha osato scrivere “maledetto” - Dio nel loro cuore. Così faceva Giobbe ogni giorno.

Dei sacrifici per annullare, non una colpa reale commessa dai figli, ma una colpa immaginaria supposta da lui, Giobbe. Colui che crede di incarnare il Bene suppone negli altri il male e colpisce - qui a colpi di sacrifici preventivi e illimitati (“tutti i giorni”). Certo Giobbe non bombarda i suoi figli, ma annulla la loro parola. Ora, ecco il seguito: Satana, parlando con Dio, gli dice che Giobbe non è per niente integro, ma che lui, Dio, “ha messo una siepe intorno a lui”. Ma, aggiunge Satana, “tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”. E infatti quando Giobbe ha perduto tutto, persino la pelle, egli “aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo!”.

Ciò che esce dalla bocca di Giobbe quando infine “apre la sua bocca” è molto vicino a quel che supponeva nei suoi figli: egli maledice, non il suo dio, ma “il giorno” che da Lui ha ricevuto, e vorrebbe abolire la sua nascita. Così la voce chiamata “Satana” portava veramente in sé ciò che Giobbe rimuoveva: il desiderio di maledire la propria vita, lui l'uomo troppo perfetto che non aveva accesso a “ciò che l'anima umana custodisce di incontrollato”, come dice Freud, se non proiettandolo sugli altri. È forse una coincidenza? all'inizio del libro le tre figlie di Giobbe non avevano casa (andavano dai fratelli). Alla fine Giobbe, finalmente chiamato “loro padre”, nomina le sue tre figlie e “le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.” Aveva dunque all'inizio misconosciuto l'immagine di Dio, il maschile e il femminile.

La diabolizzazione degli altri

Il diabolico sarebbe insieme interno alla psiche e emanerebbe dalla relazione con gli altri, là dove un limite è stato misconosciuto o violentato: non soltanto i limiti dei sessi e delle generazioni, ma anche quelli che separano l'umano dall'animale e dal divino, il vivo dal morto, e tutti gli altri… Il diavolo non è forse rappresentato il più sovente come un miscuglio: un volto di uomo, dei seni, una lunga coda? Ciò che l'uomo non può intendere dalla sua anima incontrollata, un giorno o l'altro gli ritorna. O diabolizza gli altri, come Giobbe al principio. Oppure prende la strada della parola, ancora come Giobbe - parlare del proprio dolore, dire la propria collera contro l'origine… Rimane la soluzione di Gesù, ma sono pochi coloro che trovano al primo impatto nella prova del diabolico il simbolismo che ne viene a capo.



Note

1) Marie Balmary, psicanalista. Ha pubblicato diverse opere fra cui Le Sacrifice interdit, Freud et la Bible (Grasset, 1986) e Abel ou la Traversée de l'Eden (Grasset, 1999).

2) La naissance de la psychanalyse (Puf, 1973, p.165).

3) Cf. Louise de Urtubey, Freud et leDiable (Puf, 1983).

4) Sigmund Freud, L'Interprétation des rêves (Puf, 1976, p.521).

5) Genesi 2,25 e 3,1.

6) Luca 4, Matteo 4.

7) Il Libro di Giobbe.


(in Le monde des religions, 2005, 10, p. 40-41)
Domenica, 05 Febbraio 2006 17:27

Diagnosi del peccato (Vincenzo Scippa)

Diagnosi del peccato

di Vincenzo Scippa





1. AMOS: PECCATO E CASTIGO

Amos, il primo profeta scrittore dell'VIII secolo, di Tekòa, villaggio non molto distante da Gerusalemme, possidente agricolo ed allevatore di bestiame nonché incisore di sicomori (1,1; 7, 14) fu mandato da Dio a predicare nel regno del Nord (7, 15) al tempo del re di Giuda Ozia e del re d'Israele Geroboamo II. Franco ed essenziale, in conformità al suo stile di vita, Amos va direttamente al nocciolo dei problemi, stigmatizzando il male del suo tempo nei suoi molteplici aspetti. Esso derivava, come ovvia e naturale conseguenza, dal periodo di particolare benessere del regno di Geroboamo II, dovuto alle sue conquiste e diplomazia, e dal momentaneo ecclissarsi sulla scena mondiale delle superpotenze del tempo: Assiria ed Egitto.

Forte della chiamata di Dio (7,14-15) e psicologicamente condizionato da Lui come dal ruggito del leone (3,8), Amos denuncia la situazione generale di grande ingiustizia e di grande ipocrisia venutasi a creare, nonché il conseguente castigo divino. E così il libro quasi per intero (ad eccezione di 9,11-15, di mano posteriore) è pervaso dal tema del peccato e del conseguente castigo divino. Per quanto riguarda il peccato sono accusati sia gli Israeliti, sia le nazioni.

Il peccato degli Israeliti

A parte l' accusa generale contro tutta la stirpe che Dio ha fatto uscire dall'Egitto (cf 3,1-2), Amos scaglia le frecce più pungenti in particolar modo contro i notabili del popolo, chiamati «spensierati di Sion» (6,1), contro i commercianti (8,4-8), contro le donne ricche di Samaria, chiamate in senso dispregiativo «vacche di Basan» (4,1) e contro altri, di cui si denuncia il peccato anche senza individuarli secondo la loro categoria (3, 10.12; 5,7.10-11.18; 8,13-14).

Scendendo più nel concreto possiamo riassumere la situazione di ingiustizia denunciata da Amos sotto due aspetti: contro il prossimo e contro Dio.

Ingiustizia contro il prossimo

Si denuncia, da una parte, l'oppressione e l'esosità dei ricchi nei riguardi dei più poveri e più deboli e, dall'altra, la ricchezza illecita ingiustamente acquisita da un 'avidità che non si fa scrupoli di calpestare gli altri (3,9-10; 5,11; 8,5-6) e che sfocia nel lusso sfrenato, portando all'indifferenza per il destino del popolo (6,1-2.6.13) e alla licenziosità dei costumi (3,12-15; 4,1; 5,11; 6,4-6). Si parla di disordini, violenze e rapine (3,9-10). Le donne di Samaria sono accusate di opprimere i poveri; sulla loro pelle, esse prendono l'iniziativa, rivolgendosi ai loro mariti o amanti, di incominciare la gozzoviglia che sfocia poi nella lussuria (4,1).

Amos denuncia i ricchi di schiacciare l'indigente estorcendogli ingiustamente una parte di grano, con il cui disonesto profitto vengono costruite case lussuose con pietre squadrate e vigneti deliziosi (5, 11 ); rimprovera i commercianti di calpestare gli umili del paese, esercitando un'attività truffaldina e fraudolenta diminuendo le misure (di capacità), aumentando il siclo (misura di peso) e usando bilance false (8,4-8); comprando inoltre per denaro gli indigenti ed il povero per un paio di sandali, bisognosi cui si riesce a vendere anche lo scarto del grano (cf 2,6-8).

Questo stato di cose è sfacciatamente messo in mostra dal possesso di beni che non sono alla portata di tutti, e dalla vita lussuosa che i ricchi conducono. Amos denuncia infatti il possesso di divani e coperte preziose, della doppia casa: quella d'inverno e quella d'estate, delle case d'avorio, dei grandi palazzi (3,12.15), delle case fatte con pietre squadrate, delle vigne deliziose (5, 11), dei letti d'avorio (6,4), tutte cose che i poveri non si potevano permettere. La mollezza e la sfrenatezza della vita è mostrata ancora dalle gozzoviglie (4,1; 5,11) al suono dell'arpa e degli strumenti musicali, dell'uso di unguenti raffinati (4,4-6), dall'immoralità e dalla prostituzione (2,7-8).

Ingiustizia contro Dio

L 'ingiustizia contro il prossimo non è che una delle facce della medaglia. L 'ingiustizia contro Dio consiste nel tentativo di camuffare la grave ingiustizia sociale con il culto esteriore formalistico, che si macchia anche di impurità, per che sincretistico e idolatrico. Infatti le stesse visite-pellegrinaggi ai santuari (Betel, Galgala. ..) sono inquinate. Esse servono a far peccare ancora di più (4,4-5) e provocano l'ira di Dio che infierisce contro gli altari di Betel «i cui corni saranno spezzati e cadranno a terra» (3,14). Il Signore non vuole tale culto falso ed ipocrita. È impressionante, per la forte presa di posizione contro le feste e contro il culto formalistico in genere, la seguente profezia:

« lo detesto, respingo le vostre feste
e non gradisco le vostre riunioni,
anche se voi mi offrite olocausti
io non gradisco i vostri doni
e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei tuoi canti:
il suono delle tue arpe non posso sentirlo!
Piuttosto scorra come acqua il diritto (mishpat)
e la giustizia (sedaqah) come un torrente perenne.
Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto
per quarant'anni, o Israeliti?
Voi avete innalzato Siccùt vostro re
e Chiiòn vostro idolo,
la stella dei vostri dèi che vi siete fatti.
Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco,
dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti»
(5,21-27).

Con una sequenza di espressioni molto forti il Signore afferma decisamente che «odia» (sāne’tî) e «rigetta» (mā’astî) offerte ed olocausti e cerimonie liturgiche, ma che vuole giustizia e che si cerchi sinceramente lui (5,4.6). Il culto genuino è perciò subordinato a questo, altrimenti è solo segno di ipocrisia e di vanità.

A causa di questi peccati, sia di Israele, sia di Giuda (2,4-5), che sono numerosi ed enormi, il Signore deve necessariamente comminare il castigo. Tali peccati infatti comportano anche l’incapacità di emendarsi, data l'assuefazione ad essi, per cui non si ascolta più «chi ammonisce alla porta» e «chi parla secondo verità» (5, 10), si resta incalliti nel male e insensibili a tanti avvertimenti (4,6-12). Il castigo ha, sì, il carattere di punizione (cf 3,11; 4,2-3; 6,7), ma è principalmente un estremo tentativo per indurre i peccatori a penitenza. È interessante a proposito la profezia di 4,6-12 ove il profeta, sulla falsariga delle dieci piaghe dell'Esodo (Es 7,8-12,34), ricorda la mancanza di pane, il rifiuto della pioggia, l'invio della ruggine e del carbonchio e delle cavallette che hanno mangiato il raccolto, della peste e la conseguente moria degli animali, e l'uccisione di spada dei giovani. E dopo queste reminiscenze, come un intercalare si ripete ben cinque volte, a mo' di ritornello, l'amara seguente constatazione: «e non siete ritornati a me (we lo'-shavtem 'aday), dice il Signore ».

Il castigo è caratterizzato sia da affermazioni generali (2,13; 5,17) sia da punizioni più circostanziate quali: invasione nemica (3,11; 6,14), rovina e devastazione (5,9; 6,11), esilio (5,27; 6,7), morte e lutto conseguente (5,16-17) e deportazione (4,2-3; 6,6; 9,4.9).

Il peccato delle nazioni

Anche gli altri popoli sono accusati di peccato, anche se per lo più non si tratta di azioni contro lo stesso Israele. Ciò vuol dire che Amos crede alla validità universale di alcune regole morali garantite da Dio, sebbene non in riferimento al patto di alleanza. Si può affermare perciò che in Amos I 'universalismo teologico sfocia nell'universalismo morale.

Il profeta rimprovera a Damasco (Siria) di aver annientato i vinti di Galaad passando sui loro cadaveri come si passa con la trebbiatrice sui campi (scena di freddo sadismo e brutalità che raccapriccia) (1,3). Rimprovera i Filistei, gli Edomiti e i Fenici di Tiro di aver praticato il commercio degli schiavi («hanno deportato popolazioni intere») (1,6-10). Rimprovera gli Ammoniti per aver compiuto in guerra misfatti atroci, come sventrare le donne incinte (1,13). Rimprovera i Moabiti per aver bruciato le ossa del re di Edom. La cremazione infatti era ritenuta un crimine abominevole perché rendeva infelice il defunto nell'oltretomba (2,1). Rimprovera gli Edomiti per aver lottato contro il loro «fratello» (Israele), discendendo essi da Esaù fratello di Giacobbe capo stipite degli Israeliti (cf Gn 25,21-24.29-30). Essi hanno mantenuto viva la loro inimicizia e ostilità verso gli Israeliti con «un'ira senza fine» (1,11) e conservando «lo sdegno per sempre » (1, 12). Rimprovera infine i Fenici di Tiro perché non hanno rispettato l'alleanza fraterna con Israele, alleanza di antica data (cf 1 Re 5,26; 9,10-14) sancita anche con matrimonio (1 Re 16,31) (1,9).

Come per i peccati d'Israele, anche per quelli dei popoli sono preparati i castighi. Essi sono per lo più di tre tipi: la distruzione con il fuoco (1,4.7.10.12.14; 2,2.5), la deportazione in esilio (1,5.15), la guerra (1,8.14; 2,2). I peccati infatti violano l'ordine divino delle relazioni tra i popoli, ordine voluto da Dio come uno scudo di salvezza per tutti gli uomini. Perciò Dio non può restare indifferente a tale violazione, che è anche fondamentalmente ingiustizia.

Dall'analisi precedente si deduce che in Amos prevale la tematica del peccato e del castigo, ma non è assente quella della salvezza, sebbene in prospettiva, quasi in sottofondo e in tono sfumato. A parte i due oracoli di salvezza tardivi (9,11-12.13-15), si può scorgere tale speranza nel tema del «resto» d'Israele (3,12; 5,1-3.15) a patto che esso ritorni a Dio: «Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto (mishpat); forse il Signore, Dio degli eserciti avrà pietà del «resto» (she'erît) di Giuseppe» (5,15).


2. OSEA: PECCA TO E PERDONO

Osea ha predicato nel Regno del Nord fra il 750 ed il 752 circa, nello stesso quadro storico mondiale in cui si è elevata la protesta ferma di Amos contro l'ingiustizia e l'ipocrisia. L 'epoca di Geroboamo Il è alla fine (7,8) e la prosperità del suo regno sta volgendo al termine. Il messaggio di Osea quindi coincide in parte con quello di Amos per la denuncia delle ingiustizie, della corruzione (4, 1-2) e del falso culto (6,4-6; 5,6; 8, 11.13).

Il profeta è simbolo vivente del messaggio di Dio al popolo: in se stesso, nella persona della moglie e in quella dei suoi tre figli, i cui nomi stessi (Lo' -rûhamah «Non-amata», Lo'- 'am-m î«Non popolo mio», Jizre'el «Dio semina»; cf Os 1,4.6.9) suonano come un atto di denuncia dell'infedeltà d'Israele nei confronti dell'alleanza.

Ma Osea rispetto ad Amos sottolinea fortemente la condanna dell'idolatria che, stando al suo vocabolario sponsale diffuso in tutto il libro, chiama prostituzione (zenût). Essa si può considerare sotto due aspetti: idolatria cultuale e idolatria politica. Questo è dovuto in particolar modo alla crisi religiosa che imperversa nel paese (cf 2 Re 14,24; 15,9.18.24.28; 17,2) (favorita dalla situazione politica, specialmente dopo la morte di Geroboamo Il) e all'influsso assiro, che causa la spaccatura dell'unità politica e il formarsi di diverse fazioni.

L 'idolatria cultuale

In un quadro molto realistico Osea descrive la situazione religiosa della Samaria.

Il culto jahvista nei santuari nazionali è solo formale ed esteriore (7,14a; 8,11-13) e, in più, fortemente contaminato (6,10). Gli altari stessi sono diventati occasione di peccato (8,11-13). Si adora Baal e si praticano i suoi riti di fertilità (4,12-13; 7,14b; 9,1); si adora il vitello d'oro, che il popolo equivocando ha identificato con Iahvè stesso (8,5-6), mentre al principio quando fu istallato da Geroboamo I (1 Re 12,28-30) era solo simbolo della presenza di Dio in mezzo al popolo senza fare alcuna difficoltà (il suo culto non è stato mai osteggiato da Elia ed Eliseo!).

Si viene così meno al I e Il comandamento; come se ciò non bastasse, tale culto portò di conseguenza alle pratiche immorali, proprie delle religioni cananee.

Le stesse classi dirigenti, civili e religiose, non ne furono esenti e, prese dalla violenza della contaminazione, dimenticarono anche i loro doveri e obbligazioni.

Così si scaglia Osea contro i sacerdoti ed i profeti del tempo, accusandoli:

« Ma nessuno accusi. nessuno contesti..
contro di te, sacerdote, muovo l'accusa.
Tu inciampi di giorno
ed il profeta con te inciampa di notte
e fai perire tua madre,
Perisce il mio popolo
per mancanza di conoscenza.
Poiché tu rifiuti la conoscenza,
rifiuterò te come mio sacerdote;
hai dimenticato la legge del tuo Dio,
io dimenticherò i tuoi figli.
Tutti hanno peccato contro di me;
cambierò la loro gloria in vituperio.
Essi si nutrono del peccato del mio popolo
e sono avidi della sua iniquità.
Il popolo e il sacerdote avranno la stessa sorte;
li punirò per la loro condotta,
e li retribuirò dei loro misfatti.
Mangeranno. ma non si sazieranno,
si prostituiranno, ma non avranno prole,
perché hanno abbandonato il Signore
per darsi alla prostituzione»
(: culto idolatrico) (4,4-10)

E così rimprovera le autorità civili e religiose:

« Ascoltate questo, o sacerdoti,
state attenti, gente d’Israele,
o casa del re, porgete l'orecchio.
poiché contro di voi si fa il giudizio...
Io conosco Efraim
e non mi è ignoto Israele.
Ti sei prostituito, Efraim!
Si è contaminato Israele.
Non dispongono le loro opere
per far ritorno al loro Dio,
poiché uno spirito di prostituzione è fra loro
e non conoscono il Signore.
L’arroganza d’Israele testimonia contro di lui,
Israele ed Efraim cadranno per le loro colpe
e Giuda soccomberà con loro.
Con i loro greggi e i loro armenti
andranno in cerca del Signore,
ma non lo troveranno:
egli si è allontanato da loro.
Sono stati sleali verso il Signore,
generando figli bastardi:
un conquistatore li divorerà
insieme con i loro campi»
(5,1-7).

Le conseguenze di questa irreligiosità e immoralità si fanno sentire nella vita sociale. Infatti dice amareggiato il profeta: «Non c'è sincerità, ne amore del prossimo, ne conoscenza di Dio nel paese. Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue» (4,1-2); «come banditi in agguato una ciurma di sacerdoti assale sulla strada di Sichem, commette scelleratezze» (6,9); «...si pratica la menzogna: il ladro entra nella casa e fuori saccheggia il brigante» (7, 1).

L 'idolatria politica

Il tentativo della monarchia di cercare la salvezza al di fuori del vero Dio (12,1-2) alleandosi con altri popoli come l' Assiria e l'Egitto, le due superpotenze più in auge del momento (5,13; 7, II; 8,9) rivela in fondo la perdita della fiducia in Dio Salvatore. La monarchia si è allontanata da Dio (8,4; 9,15) e ha perso il senso religioso della sua origine considerandosi alla pari di quella di altri popoli (7,8; 8,8.14). L'istituzione monarchica secondo Osea, è «frutto della collera di Dio» (13,11), quasi una concessione strappata a forza e concessa malvolentieri (cf 1 Sam 8-12, ove si fondono insieme la col1cezione a favore dell'istituzione monarchica e quella contraria ad essa).

Per questo Osea annuncia il castigo, che seguirà la legge del contrappasso :

« Non darti alla gioia, Israele,
non far festa con gli altri popoli,
perché hai praticato la prostituzione,
abbandonando il tuo Dio,
hai amato il prezzo della prostituzione
su tutte le aie da grano.
L'aia e il tino non li nutriranno
e il vino nuovo verrà loro a mancare.
Non potranno restare nella terra del Signore,
ma Efraim ritornerà in Egitto
in Assiria mangeranno cibi immondi»
(9,1-3).

Il perdono

L 'atteggiamento di Dio davanti al peccato del popolo e dei suoi governanti è delineato dal poema di 2,4-25, ove si enumerano tre possibilità di atteggiamento davanti alla sposa infedele ed adultera: a) porle davanti degli ostacoli per impedirle di andare dagli amanti (idoli) e quindi costringerla a ritornare (vv. 8-9); b) castigarla in pubblico duramente (vv. 10-15); c) concederle il perdono solo per puro amore, fare un nuovo viaggio di nozze ed un nuovo regalo nuziale per restaurare l'intimità coniugale come in un nuovo matrimonio. Prevale infine questa terza ipotesi: quella dell'amore gratuito di Dio.

Si ha, quindi, in Osea, una logica nuova rispetto a quella che ci saremmo aspettato. Anziché la sequenza «peccato-conversione-perdono», si ha «peccato-perdono-conversione». Il perdono precede la conversione (è la novità che apre al Nuovo Testamento! ; cf Rm 5,8). Dio perdona prima che il popolo si converta e sebbene non si sia ancora convertito! La conversione è risposta all'amore di Dio, più che una condizione previa allo stesso perdono (cf 1 Gv 4,10). Si ha così il passaggio dall'immagine di Dio «sposo» a quella di Dio «padre» (11, 1-9; 14,2-9). Questa consolante rivelazione diventa più esplicita e attuale con Cristo che incarna e manifesta la misericordia del Padre!

(da Parole di Vita)

Venerdì, 03 Febbraio 2006 21:41

La salvaguardia del creato (Faustino Ferrari)

Si potrebbe ritenere che sia ben poca cosa l’abbattimento di qualche albero, di fronte allo scempio cui quotidianamente alcune potenti multinazionali sottopongono vaste zone delle foreste tropicali.

Il tema della formazione liturgica di pastori e laici appare indispensabile alla luce dell'icona additata da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte.

Venerdì, 03 Febbraio 2006 21:19

Lezioni di storia (Marcelo Barros)

Lezioni di storia
di Marcelo Barros


Proviamo a sognare! Vi invito a immaginare un'umanità che è riuscita a porre fine a progresso della natura, a mettere da parte il dogma neo-liberalista, che sacrifica tutto al dio-mercato, e a eliminare per sempre l'industria delle armi. Immaginiamo ancora che, nel secolo XXII, i giovani leggeranno soltanto sui libri di storia i tristi capitoli scritti dalle sofferenze attraverso cui gli esseri umani sono passati, per poi uscire finalmente dalle barbarie della competizione e entrare nella civiltà della collaborazione e della pace.

Non ho mai creduto nella linearità della storia, né che esista un modello di cultura più avanzato degli altri. Sto solo servendomi di una "parabola" che ha il solo scopo (forse anche il vantaggio) di consentirci, almeno con l'immaginazione, di collocarci nel futuro per parlare del presente. Si tratta, dopo tutto, di una tecnica cui fecero ricorso i profeti di un tempo e Gesù Cristo, L'hanno definita "apocalittica", nel senso di "svelamento", "sottrazione del mistero".

Se avete la bontà di ascoltare il mio sogno, allora ve lo racconto in poche battute. Sogno un'Organizzazione dei Popoli Uniti (Opu), che avrà sostituito quella delle Nazioni Unite (Onu, oggi già "vecchia" e decrepita a soli 60 anni!) e che, tra le altre cose, avrà il compito di gestire musei specializzati per ricordare alle generazioni future come le società evolvono, fino alla possibilità che ogni popolo si organizzi sul proprio territorio come meglio crede, abbia la necessaria autonomia, senza, per questo, vivere isolato dal resto dell'umanità. La immagino come Assemblea generale di popoli, che avrà come primo scopo quello di valorizzare le diverse culture e sviluppare il riconoscimento della Terra come Madre comune di tutti gli esseri umani, senza barriere di circolazione, e senza alcuna discriminazione razziale, sociale ed economica.

Questo "balzo in avanti" mi aiuta a sorridere di me stesso e del mondo di oggi. Come si farà nel 2250, ad esempio, a spiegare la bontà, la logicità di alcune scelte fatte dall'umanità alla fine del XX secolo? Come si racconterà l'incontro dei G8, avvenuto nel lontano luglio 2005, in una sperduta località della Scozia, chiamata Gleneagles, in cui i capi delle nazioni più ricche del mondo si riunirono per garantire che il sistema economico dominante (e che beneficiava esclusivamente loro stessi) si perpetuasse il più a lungo possibile? Nei libri di storia di nostri pro-pro-nipoti, ci potrà essere un riquadro, intitolato: "Mostruosità di altri tempi", in cui si leggerà: «All'inizio del XXI secolo, il reddito annuo delle 70 famiglie più ricche dell'emisfero nord superava quello annuo complessivo di l.455.000.000 di persone che abitavano nell'emisfero sud».

Negli stessi testi figureranno altre "bruttezze estreme": «In quei tempi, in una sola mezza giornata, l'esercito nordamericano spendeva l'equivalente di quanto l'allora Onu aveva a sua disposizione in un intero anno per combattere in Africa l'Aids (sigla formata con le iniziali dell’espressione inglese Acquired Immune Deficency Syndrome, con cui si indicava, fino al 2025, una malattia che colpiva prevalentemente tossicodipendenti e omosessuali nel nord del mondo, e tutti indistintamente nel sud, caratterizzata da una riduzione delle difese cellulari dell'organismo e da manifestazioni cliniche spesso mortali) e malaria (una malattia parassitaria, oggi sconosciuta ma allora mortale, causata da plasmodi che, introdotti nell'organismo umana da zanzare [sic!] del tipo anofele, si riproducevano in seno ai globuli rossi provocando tipici accessi febbrili, con distruzione dei globuli rossi e conseguente anemia)».

E ancora: «Disumanità passate - In un incontro dei leader delle nazioni più ricche del mondo, avvenuto agli inizi del XXI secolo, si declinò l'invito a mettere a disposizione delle agenzie umanitarie di quel tempo la cifra irrisoria di 13 milioni di dollari (moneta usata allora negli Stati Uniti ma adottata da tutti come valuta di scambio, ndr) perchè si potesse eliminare la fame nel mondo. La crudeltà di quel rifiuto stava nel fatto che gli abitanti di una sola di quelle nazioni, gli Stati Uniti, consumavano ogni anno 17 milioni di dollari in cibo per cani e gatti. Anche gli Europei di quel tempo amavano molto i propri animali: erano, infatti, pronti a sovvenzionare ogni loro mucca con 913 dollari l'anno, destinando 8 dollari l'anno agli affamati abitanti del continente africano».

I futuri scolari e studenti ci considereranno "autentici barbari". E costateranno - come si è sempre costatato durante secoli di storia - che non sono i ricchi e i potenti a liberare o sviluppare i poveri. Studieranno che la liberazione dalle varie schiavitù, il superamento del razzismo e la fine di ogni tipo di discriminazione sono sempre state conquiste fatte dalle vittime (anche se non è da sottovalutare il sostegno ricevuto da intellettuali onesti e persone di buona volontà).

Questo sogno, ovviamente, appartiene al futuro. Se dovrà realizzarsi, sarà necessario che la storia di oggi conosca radicali svolte. Svolte che saranno - manco a dirlo! - soprattutto sforzo di africani, latino-americani e asiatici, decisi a diventare protagonisti della propria vita e fautori di trasformazioni.

Ha detto un capo indio: «La tua azione di oggi sarà buona, se penserai al risultato concreto che potrà produrre. Sarà ancora migliore, se saprai anche prevedere le sue conseguenze per le generazioni future. Oggi dobbiamo agire, estendendo il nostro pensiero fino all'ottava generazione a venire».

(da Nigrizia, settembre, 2005)

Venerdì, 20 Gennaio 2006 00:40

Chi semina vento... (Giuseppe Scattolin)

Chi semina vento...

di Giuseppe Scattolin


Fare i profeti è sempre stato un mestiere rischioso. Oggi che il termine "profeta" è stato banalizzato e ridotto a "futurologo", è addirittura temerario. Eppure, la futurologia va molto di moda nel nostro mondo così secolarizzato e così pieno di banali superstizioni. (Quale interessante materia di studio per gli antropologi!).

Se però "profeta" sta ad indicare uno che cerca di leggere in profondità la realtà presente, per indicare quali potrebbero essere le conseguenze di alcune premesse, allora siamo in piena tradizione biblica. In tal caso, la mia risposta è la seguente: «Il futuro dipenderà dalle premesse che insieme creiamo».

Come ho già più volte detto da queste pagine, il mondo islamico odierno ha bisogno di una seria riflessione per uscire da un atteggiamento puramente apologetico (per lo più rivolto al passato) e per assumere più seriamente le sfide che la convivenza nel "villaggio globale" umano impone a tutti. Mi riferisco, in particolare, al tema dei diritti umani fondamentali, quali una vera libertà di coscienza, l'esigenza di un'autentica giustizia sociale, e l'apertura alle altre religioni e culture. A questo riguardo, non mi stancherò mai di ripetere che non tutti i musulmani sono estremisti. Esistono pensatori musulmani che affrontano tali tematiche con serietà ed impegno, ma sono per lo più isolati, se non addirittura perseguitati ed eliminati dalle società islamiche. Ed è la prima "premessa" negativa.

Se però questi pensatori trovassero maggior sostegno, sia dentro che fuori i loro paesi di origine, allora si potrebbe cominciare a respirare un’aria più pluralista all’interno delle società islamiche. Da qui, la fondata speranza che a prevalere non sarà l’islam del tradizionale "imperialismo religioso islamico" (come personalmente preferisco chiamarlo) o dell’"islam politico" (come viene definito più correttamente), ma l’islam dei valori umani di libertà e giustizia, cioè quell’islam che dà una ragione d’essere ad un "umanesimi islamico".

Nelle società occidentali, invece, bisognerà vedere se a fare la parte del leone sarà la politica dell'"imperialismo liberista (o libertinista) finanziario" americano, tragicamente caratterizzato dall'arroganza e dalla più totale ignoranza della situazione culturale dei popoli islamici. Se sarà così, allora si sarà posta una premessa tragicamente negativa, che avrà, come conseguenza, una sempre più violenta reazione da parte dei popoli islamici, dominati da correnti estremiste e violente, che soffocheranno sul nascere ogni tentativo di rinnovamento interno. L'Iran dal post-Khomeini è lì a dimostrare ciò.

Se, invece, come ci si augura, prevarrà una politica illuminata dal rispetto dell'altro e dal sincero impegno per un apertura verso un pluralismo culturale e religioso, sostenendo persone e movimenti che si muovono in tal senso (anche se non potranno contraccambiare con i pertrodollari), allora non è da escludere la speranza che anche i popoli del mondo islamico potranno aprirsi agli altri "quartieri" del villaggio globale in spirito di fraterna collaborazione ed amicizia.

Non vorrei apparire pessimista. Ma ritengo che i recenti sviluppi della situazione mondiale abbiano avuto un segno più negativo che positivo, sia dentro che fuori i paesi islamici. Ma siamo sempre in tempo. Anzi, è necessario cambiare la nostra politica ed il nostro indirizzo culturale. Non si tratta più di domandarci se sia o meno possibile il dialogo, ma di convincerci che non esiste alternativa ad un dialogo serio ed impegnato. L’altra alternativa, infatti, sarà una terza guerra mondiale. Che, in parte, è già cominciata con la guerra scatenata dalle bande "terroriste", e che noi occidentali abbiamo alimentato con la nostra miope politica dei petrodollari.

Si tratta, quindi, d'impegnarci seriamente a creare premesse positive, certi che l'albero buono darà frutti buoni.

(da Nigrizia, gennaio 2004)

Venerdì, 20 Gennaio 2006 00:21

8. La caduta. Gen 2,4b-3,24 (Rinaldo Fabris)

Sull'origine del male umano, culminante nella morte, la Bibbia offre una riflessione di tipo sapienzale. “In principio” non c'è il male, ma solo l'azione di Dio che fa esistere il mondo e lo chiama “buono” o “bello-splendido”.

Venerdì, 20 Gennaio 2006 00:10

Approfondimenti (2) (Franco Gioannetti)

Approfondimenti (2)
di Franco Gioannetti



Ma che cosa è la dimensione mistica della vita spirituale?

La vita spirituale è quella realizzata nello Spirito del Risorto, è rapporto di comunione trinitaria con il Dio vivente incontrato definitivamente ed in pienezza mediante Gesù nel suo Spirito.

È questa l’accezione generale del termine “mistica”, che esprime la realtà della santità possibile ad ogni vita cristiana.

Un’altra accezione tecnica designa la mistica come le fasi alte, elitarie della vita cristiana. Si chiama allora mistico uno stato particolare di unione con Dio al quale si è elevati dalla grazia di una misteriosa elezione o scelta. Per “mistica” si intende anche il campo dei fenomeni sperimentati dal mistico nel loro svolgersi nella sua anima.

Alcuni considerano la vita mistica come un dono divino completamente gratuito, altri come il coronamento formale di un processo evolutivo della vita cristiana asceticamente educata.

In ogni caso la vita cristiana è vita mistica perchè è partecipazione alla vita divina nella quotidianità e molte sono le persone che vivono il senso della presenza di Dio nella loro giornata, senza per questo allontanarsi dai propri doveri temporali.

Dunque fondamentalmente si tratta di un forte e sereno senso delle presenza di Dio e di un agire della vita quotidiana rivolti sempre all’Ospite invisibile.

Ciò che caratterizza la mistica cristiana è l’amore personale, un atteggiamento che abbraccia l’altro, lasciandolo nello stesso tempo nella sua libertà, un atteggiamento che nella sua esperienza interiore va al di là di sè per aprirsi all’altro.

Se la mistica è soprattutto amore, risulta comprensibile perchè il “cuore” come profondo dell’essere e come organo dell’esperienza mistica svolga un ruolo così rilevante nel cristianesimo. Un teologo moderno della Chiesa Orientale descrive la tradizione mistica dell’encasmo così come viene coltivata sul monte Athos, come “spirito del cuore”:

L’attenzione si concentra sul cuore, come su una torre di guardia, dalla quale lo spirito controlla quei pensieri e sentimenti che cercano di introdursi nel cuore, il santuario della preghiera...

concentrato sul cuore, il pensiero raggiunge una unità totale, sostenuto com’è da una disposizione unitaria di grande intensità umana...”

Fonti di rinnovamento.
Monasteri in Egitto
di Luciano Ardesi


Già culla del monachesimo cristiano, negli ultimi 50 anni il deserto egiziano è stato testimone di un grande risveglio spirituale e materiale degli antichi monasteri copto-ortodossi che lo punteggiano. Restaurati, questi luoghi sono oggi resi vivi dalla presenza di numerosi monaci. Anche le agenzie di viaggio li inseriscono nei loro programmi.

La rinascita del monachesimo nella chiesa copto-ortodossa ha inizio dopo la Seconda guerra mondiale, grazie soprattutto all'impulso degli ultimi due patriarchi: Cirillo VI (1959-71) e Shenuda III, ambedue provenienti da intense esperienze monastiche.

La tradizione dei primi Padri del deserto si rifà sostanzialmente a due modelli; quello di Sant’Antonio (251-356), il più celebre anacoreta (eremita), e quello di San Pacomio, di poco posteriore, fondatore del modello cenobita (comunitario). Oggi i due modelli coesistono nella maggior parte delle esperienze in corso.

Centro di questo rinnovamento spirituale è il monastero di San Macario, dove vive Matta el-Meskin ("Matteo, il povero"), conosciuto anche all'estero grazie alla traduzione delle sue opere. La sua esperienza aiuta a comprendere quella della stragrande maggioranza degli odierni monaci egiziani.

Nel 1948, Iuseff ha28 anni. Ha una laurea in farmacologia e gestisce una farmacia, che gli garantisce una vita relativamente agiata. Come il ricco Antonio 16 secoli e mezzo prima, però, sente forte il richiamo di Cristo: «Va', vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi» (Mc 10:21). Sceglie allora di ritirarsi nel deir Amba Samuel (monastero di San Samuele), il più povero e più isolato di tutto l'Egitto presso el-Fayum, da poco restaurato da Mena el-Motawahid ("l'eremita"), il futuro patriarca Cirillo VI. Il nome che si dà, Matta el-Meskin, è tutto un programma. Qui trascorre tre anni come padre spirituale del monastero, poi viene trasferito al deir el-Suryan (monastero dei Siriani), a Wadi el-Natrun, una zona conosciuta nella tradizione dei Padri dei primi secoli come deserto di Scete.

Nel 1959, in compagnia di alcuni compagni, Matta va a Wadi el-Rayan, dove vivono in grotte simili a quelle in cui erano vissuti i primi Padri del deserto. Vi rimane fino al 1969, quando Cirillo VI lo invita a raggiungere il monastero di San Macario (deir Abu Maqar), in procinto di essere chiuso. Qui, raggiunto da altri monaci, Matta diventa l'anima del rinnovamento spirituale e materiale del monastero, pur rifiutando di diventarne il superiore. In pochi anni, il cenobio moltiplica per sei la proprietà e giunge a ospitare un centinaio di monaci. Egli però continua a vivere in una grotta non lontana, visitando la comunità solo quando i monaci chiedono di lui come padre spirituale.



Ospitalità

Il deserto di Wadi el-Natrun è oggi raggiungibile con l'autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria. Delle decine di monasteri costruiti nel corso dei secoli ne rimangono solo quattro: deir Amba Bishoy, deir el-Suryan, deir el-Baramos e deir Abu Maqar. Quest'ultimo è il più noto e il più aperto ai cristiani di altre confessioni.

È abba Ireneo ad accompagnarmi nel corso della visita. Mi ha accolto con pane, olive e tè, a testimonianza della proverbiale ospitalità del luogo. Indossa l'abito tradizionale di lana nera, sormontato da un cappuccio ornato di croci ricamate. Mi dice che anche lui era stato un farmacista prima di farsi monaco. Aggiunge: «Quasi tutti in questo monastero siamo laureati nelle più diverse discipline, anche tecnologiche. Questo spiega perché siamo dotati di un computer e curiamo un nostro sito web. Molto visitato, del resto».

Il monastero oggi vanta 700 operai e vive dei prodotti della terra, che gli stessi monaci coltivano, dell'allevamento e delle pubblicazioni in proprio.

Molti, anche se non sollecitati, i doni e le offerte.

Anche se entrati nella modernità, i monaci non guardano la tivù né ascoltano la radio. La loro attività principale, oltre al lavoro manuale, è la preghiera. Due i momenti vissuti in comune: la recita delle lodi, dalle 4.00 alle 6.00 del mattino, e il pasto di mezzogiorno. La cena, sempre molto frugale, è consumata da ciascun monaco nella propria cella.

Poco lontano dal convento, vivono anche alcuni monaci anacoreti o eremiti, ai quali i monaci della comunità portano acqua e viveri una volta la settimana. «Hanno bisogno di molto poco» spiega abba Ireneo: «Pregano molto e non parlano con nessuno».

Come tutti i monasteri della regione, anche quello di San Macario ha subito nella sua lunga storia numerosi assalti e saccheggi. Conserva ancora le reliquie di 49 martiri, uccisi nel V secolo. Al centro del complesso c'è ancora lo qsar, la fortezza autosufficiente e isolata dal resto del complesso dove i monaci si rifugiavano in casi di aggressioni da parte dei nomadi.


Grande apertura

Oggi, l'aggressione esterna è di tutt'altra natura ed è rappresentata da migliaia di pellegrini e curiosi che vengono a visitare il luogo. I monaci mostrano di saper amministrare con equilibrio il loro desiderio di isolamento e il sano interesse che molti mostrano nei confronti del loro stile di vita.

Nei monasteri del deserto di Scete non esiste - né è mai esistita - una “Regola”. Ogni cosa viene governata dalla direzione spirituale del monaco più anziano, cui i discepoli devono obbedienza. A San Macario libertà spirituale e semplicità senza artifizi sembrano regnare più che altrove. Ed è proprio questa atmosfera a facilitare la grande apertura e l'intenso scambio spirituale tra il monastero e il resto della grande famiglia cristiana.

Dal punto di vista storico, fu la parte orientale del deserto, non distante dalla costa del Mar Rosso, a essere il primo centro d'irradiamento dei Padri del deserto. Qui si trova il monastero di San Paolo. Eretto forse nel VI secolo da Giustiniano e, secondo la tradizione, attorno alla cella-grotta di Paolo di Tebe, il primo anacoreta in assoluto, fu fatto bersaglio di ripetuti attacchi e quindi abbandonato per lungo tempo. Oggi, nonostante i restauri - alcuni anche recenti-, l'insieme degli edifici conserva un aspetto più tradizionale e arcaico degli altri. Esiste ancora, ad esempio, una porta con l'antico sistema usato per far entrare i monaci o gli approvvigionamenti, sollevandoli con corde attraverso un sistema di carrucole.

Il monastero di Sant'Antonio è situato ai piedi della montagna dove il grande eremita ebbe la sua ultima dimora. Costruito dai discepoli nel IV secolo ospita in una delle sue chiese la tomba del santo, tuttora meta di un continuo e affollate pellegrinaggio. Di recente, il patriarca Shenuda III l'ha voluto restaurare per farne un centro di impulso spirituale. Le sue alte mura racchiudono ben 10 ettari di terreno, facendone il più vasto dei monasteri copti. Dietro il complesso si snoda la lunga scalinata – un’ora di fatica! - che porta alla caverna di sant'Antonio, oggi trasformata in cappella.

Forse il monastero copto più noto agli occidentali e quello di Santa Caterina, nella penisola del Sinai. Per arrivarci, si deve attraversare il Canale di Suez e scendere lungo il Mar Rosso, le cui coste settentrionali si stanno ricoprendo di nuovi centri turistici che contrastano con la struggente bellezza del deserto. Incassato in una vallata ai piedi del Monte Sinai (Gebel Musa), meta anch'esso del turismo di massa, il monastero ha l'aspetto di una fortezza. Anche

qui, lungo i secoli, i monaci hanno dovuto difendersi da molti attacchi.

Oggi, invece, questo luogo spirituale è letteralmente "aggredito" dai turisti, di gran lunga più numerosi dei pellegrini veri e propri. È stato costruito un ostello per i visitatori, che assomiglia più a un vero e proprio hotel. Dall'altra parte della vallata, di rimpetto al monastero, una impressionante colata di cemento è venuta a rafforzare la capacità ricettiva della zona.


Fedeltà

Questo essere presi d'assalto proprio da quel mondo da cui si è cercato di allontanarsi non è una novità nella vita dei conventi egiziani. Basta leggere le storie degli antichi Padri del deserto per rendersi conto di quanta gente corresse da loro in cerca di consigli o con richieste di preghiera. Oggi come allora, comunque, i monaci sono maestri nell'arte di adattarsi e di rinnovarsi, pur riuscendo a rimanere del tutto fedeli alla tradizione, grazie soprattutto alla direzione spirituale di figure eccezionali.

La tradizione della chiesa copto-ortodossa vuole che i patriarchi e i vescovi siano scelti tra i monaci. Non sorprende quindi, che il monachesimo abbia mantenuto una centralità che invece, ha perso nella chiesa cattolica o comunque occidentale.

Non va dimenticata la dimensione femminile dell'odierno risveglio spirituale operato dal monachesimo. Oggi sono diversi i monasteri femminili riabilitati e ripopolati da monache. È però vero che, come le Madri del deserto (il primo monastero femminile fu diretto da Maria, sorella di Pacomio) furono oscurate dai Padri ieri, le comunità monastiche femminili sono surclassate da quelle maschili oggi.

Tra le varie ragioni del rinnovamento del monachesimo egiziano alcuni citano la reazione alle molte discriminazioni cui i copti sono oggi sottoposti nel paese, soprattutto con l'avanzare del fondamentalismo islamico. C'è chi si spinge oltre e parlerebbe addirittura di una sorta di “nazionalismo copto”

Dagli anni Ottanta, le vocazioni monastiche sono notevolmente aumentate e il loro rifiorire contrasta vistosamente con il languire di molti monasteri in Europa. Non sorprende, pertanto, che alcuni monaci occidentali vengano proprio qui ad attingere alla sorgente della vita monastica, dando così vita a una nuova interessante esperienza di spiritualità e di conoscenza. Consapevoli di questo nuovo ruolo e delle loro attuali potenzialità, i monaci copti hanno intrapreso l'attività missionaria, anche per assumersi la cura pastorale della diaspora copta nel mondo. Un monastero è stato fondato anche nel deserto della California, e porta naturalmente il nome di Sant'Antonio.

(da Nigrizia, dicembre 2004)

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