Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La sapienza del mondo – come la chiama l’apostolo Paolo – resta sotto lo scacco del fallimento. È una sapienza che non riesce a dire tutto sull’uomo. A dargli le risposte ultime sul senso della sua vita e della sua esistenza.

Venerdì, 04 Novembre 2005 22:20

4. La parola di Dio (Enzo Bianchi)

Per cogliere le acquisizioni e le vie aperte dalla Sacrosanctum concilium circa la parola di Dio occorrerebbe leggerla e interpretarla accanto agli altri testi conciliari, soprattutto la Dei Verbum, la cui visione abbraccia evidentemente anche l'ambito liturgico.

Venerdì, 04 Novembre 2005 22:05

La Chiesa Greco-Melkita (Lorenzo Lorusso)

La Chiesa Greco-Melkita

di Lorenzo Lorusso o.p.


Cenni storici.

La Chiesa Melkita non è una Chiesa nazionale come tutte le altre Chiese orientali, ma è una Chiesa sparsa in tutto il Vicino Oriente arabo e nella diaspora, ereditaria legittima di tre sedi apostoliche:

Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Le sue origini si confondono con la predicazione del Vangelo nel mondo greco-romano del Mediterraneo orientale e l'estensione del cristianesimo al di là dei confini dell’Impero. La formazione dei patriarcati di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, i primi al concilio di Nicea (325 d.C.), il terzo a Calcedonia (451 d.C.), l'hanno formata e ne hanno fatto una entità territoriale e giuridica.

La Chiesa Melkita deve il suo carattere di Chiesa sui iuris a due fedeltà: quella all'impero di Bisanzio e quella ai sette primi concili ecumenici. Il suo nome lo si deve ai monofisiti (ritenevano che dopo l'incarnazione ci fosse in Cristo una sola natura) per stigmatizzare la sua fedeltà all'imperatore (malka in siriano) e alla dottrina del Concilio di Calcedonia.

La conquista arabo-islamica del VII secolo portò i patriarcati melkiti sotto la dominazione non cristiana, e così Alessandria, Antiochia e Gerusalemme saranno in terra d'Islam fino alla dominazione ottomana del 1516. Salvo rare eccezioni, i cristiani non subirono persecuzioni, ma un regime di vessazioni e di soggezioni. Essi assumeranno con rassegnazione e coraggio il loro nuovo ruolo di testimoni di Cristo in Islam. Non avendo più la possibilità di svolgere un ruolo politico, i Melkiti si dedicheranno alle professioni liberali, soprattutto la medicina, e saranno gli artigiani della versione in arabo dell'eredità filosofica, medica e scientifica della Grecia antica.

La riconquista bizantina non durerà che un secolo (960-1085). Essa ebbe come conseguenza la bizantinizzazione della liturgia dei tre patriarcati.

Con le crociate, i patriarchi e i vescovi latini rimpiazzarono i gerarchi melkiti (ad eccezione di Alessandria). La Chiesa locale fu sottomessa a una Chiesa straniera. Una sorta di estraniazione si stabilì tra le due, senza che la prima, tuttavia, rompesse le sue relazioni con Roma.

Il regno dei Mamelucchi (1250-1516) non solo mise fine ai possessi franchi in Oriente, ma fu un periodo cruciale per le comunità cristiane: persecuzioni, distruzioni, massacri. Risale a questo periodo una regressione del cristianesimo. Tuttavia il "piccolo resto" continuerà la sua missione di testimonianza e di fedeltà a Cristo.

La conquista ottomana (1516-1918) non fu più clemente, almeno fino al XVII secolo. Ormai tutto l'Oriente dipendeva da una sola autorità, quella del sultano. Costantinopoli diverrà non solo capitale politica di un immenso impero, ma anche capitale religiosa dell'Oriente, come Roma lo era per l'Occidente. Il Patriarca ecumenico fu chiamato ad esercitare un'autorità sui gerarchi melkiti. La loro conferma e a volte la loro elezione dipendeva ormai da Costantinopoli. La gerarchia d'Alessandria e di Gerusalemme si ellenizzò completamente. A partire dal 1534 sino ai nostri giorni, tutte le loro sedi episcopali furono assegnate ai greci. I due patriarcati si staccarono così da Roma per abbracciare lo scisma. L'ellenismo non ebbe presa su Antiochia, i cui patriarchi erano scelti fra il clero indigeno; essi conservarono dei legami con Roma, anche se qualche gerarca restava più favorevole a Costantinopoli che a Roma.

La comunione con Roma.

Dopo l'unione formale stabilita al Concilio di Firenze, alcuni missionari gesuiti, cappuccini, carmelitani e francescani, si misero al servizio della gerarchia locale e cooperarono con essa. Gli stessi pastori che non erano in comunione con Roma indirizzarono i loro fedeli ai missionari. Il popolo sentiva la necessità di una intelligenza più profonda della fede tradizionale che professava malgrado la repressione. Una parte attirata dalla cultura occidentale prese in blocco ciò che la latinità le apportava. Fu così che dopo qualche decennio apparve una nuova maniera di concepire la fede tradizionale. Il comportamento di questi nuovi "cattolici1' fu considerato come un tradimento e una mutazione della fede ancestrale da una frazione attaccata al suo passato. Così la comunione con Roma fu messa in questione e due modi di concepirla fecero la loro apparizione. L'identità antiochena si perse. Una frazione di fedeli propendeva verso Bisanzio e divenne più costantinopolitana che antiochena, e l'altra verso Roma con una forma di relazione più romana che fedele alla fede della Chiesa locale. Così alla morte del patriarca Atanasio nel 1724, una doppia linea di patriarchi fu instaurata: una ortodossa e l'altra cattolica. Esse durano ancora ai nostri giorni.

La Chiesa greco-melkita-cattolica si organizzò interiormente. Nuovi Ordini monastici furono fondati. Un clero educato a Roma dispensava l'insegnamento nelle nuove scuole fondate. Un seminario fu aperto a Ain Traz (1811). Ricordiamo in modo particolare due grandi patriarchi del XIX secolo: Maximos Mazloum (1833-1855) e Grégoire Joseph (1864-1897). Mazloum perfezionò la legislazione canonica tramite i concili di Ain Traz del 1835 e di Gerusalemme del 1849; estese la sua sollecitudine al patriarcato di Alessandria, dove si erano rifugiati i cattolici di Siria e del Libano per fuggire alle persecuzioni, e al patriarcato di Gerusalemme. Nel 1838 al patriarca di Antiochia fu anche riconosciuto il titolo patriarcale di Alessandria e Gerusalemme. Ma Mazloum è soprattutto conosciuto per essere stato l'artefice del riconoscimento da parte del sultano dell'indipendenza completa della sua Chiesa, tanto dal punto di vista civile che ecclesiastico (1848).

Il patriarca Grégoire Joseph lavorò per la riforma della sua Chiesa nel senso della pura tradizione orientale. Al Concilio Vaticano I si oppose all'opportunità della proclamazione dei dogmi del primato e dell'infallibilità del Papa, così come venivano intesi dalla maggioranza dei Padri, e abbandonò i lavori del Concilio proprio in prossimità della votazione della costituzione Pastor Aeternus. L'approvazione del patriarca infine giunse, ma in un secondo momento (rispetto alla votazione del Concilio). Egli lottò contro il protestantesimo che penetrava con forza in Oriente, fondando i collegi patriarcali di Beirut (1865) e di Damasco (1875). Nel 1866 riaprì il seminario di Ain Traz, ma soprattutto fu all'origine di quello di S Anna di Gerusalemme (1882).

Ricordiamo anche il patriarca Maximos IV (1947-1967), per il suo apporto al Concilio Vaticano II. Egli era cosciente di parlare a nome dei "fratelli assenti", della Chiesa ortodossa. Egli concepiva la sua Chiesa come ponte tra Roma e l'Ortodossia. Il suo successore, Maximos V Hakim, ha seguito la linea tracciata dal suo predecessore, ma con un attenzione tutta particolare ai fedeli della diaspora.

Attualmente, la Chiesa Melkita conta circa 1.350.000 fedeli distribuiti in quattordici eparchie (diocesi) in Siria, Libano, Giordania e Israele, cinque eparchie in diaspora (USA, Brasile, Messico, Australia, Canada), due esarcati patriarcali (Iraq e Kuwait), due esarcati ortodossa. Brasile, Messico, Australia, Canada), due esarcati patriarcali (Iraq e Kuwait), due esarcati apostolici (Argentina e Venezuela). Egitto, Sudan e Gerusalemme sono considerati territori patriarcali. (...)

L'attuale Patriarca, S.B. Grégoire III Lahham, è nato a Daraya, presso Damasco, il 15 dicembre 1933. Nel 1943 entrò nel seminario dei Salvatoriani presso Saida in Libano. Dopo gli studi istituzionali fu inviato a Roma nel 1956 presso il Pontificio Istituto Orientale, dove conseguì il dottorato in Scienze Ecclesiastiche Orientali. Fu ordinato presbitero il 15 febbraio 1959 nella chiesa del monastero di Grottaferrata. Tornato in Libano, fu nominato superiore del Grande Seminario del suo Ordine a Jeita, presso Beirut, e insegnava teologia e liturgia presso l'università dello Spirito Santo di Kaslik (Beirut).

Nel 1974, dopo l'arresto dell'arcivescovo Hilarion Capucci da parte delle autorità israeliane, il patriarca Maximos V Hakim lo nominò Amministratore Patriarcale, poi Vicario patriarcale di Gerusalemme. Il 27 novembre 1981 fu consacrato vescovo a Damasco.

Quando il patriarca Maximos V rassegnò le sue dimissioni per motivi di salute, il Santo Sinodo riunito a Raboueh il 29 novembre 2000 lo elesse Patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, di Alessandria e di Gerusalemme. La sede patriarcale è Damasco (Siria).

L'anno liturgico bizantino.

Il rito della Chiesa Melkita è quello bizantino, celebrato sia in arabo come in greco, con la forma dei sacramenti, dell'Eucaristia e del tempio uguale a quello delle Chiese ortodosse. Il rito bizantino chiamato anche rito greco, si è sviluppato a Costantinopoli sulla base di elementi provenienti dalla tradizione di Antiochia, Alessandria e dalla Cappadocia. All'inizio era solamente in greco, ma a partire dal medioevo è stato tradotto nelle lingue utilizzate dalle diverse popolazioni che aderivano alla fede calcedonese, nel Medio Oriente e nelle regioni limitrofe, quindi in Europa centrale ed orientale ed in Russia. Questo è il rito proprio delle Chiese ortodosse calcedonesi e delle Chiese greco cattoliche. Oltre il patriarcato ortodosso di Costantinopoli e qualche gruppo di fedeli cattolici in Turchia, il rito bizantino è seguito in Medio Oriente dai patriarcati greco-ortodossi di Alessandria, di Antiochia e di Gerusalemme, come dalla Chiesa Melkita cattolica. I patriarcati ortodossi di Antiochia, di Gerusalemme e di Alessandria e la Chiesa Melkita utilizzano soprattutto come lingua liturgica l'arabo, mentre l'impiego del greco è stato ripreso nel patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, anche se limitato alle celebrazioni liturgiche nei luoghi santi e nei monasteri. Nel patriarcato di Costantinopoli il greco è la lingua liturgica.

Ispirazione principale della liturgia è la lettura della Sacra Scrittura. Nella tradizione bizantina grande rilievo viene dato alla lettura del Nuovo Testamento, del quale si prevede la lettura integrale ogni anno. La lettura diretta dei testi dell'Antico Testamento, invece è piuttosto limitata.

Durante l'anno liturgico si legge il Vangelo secondo diverse modalità. In una prima sezione, si segue l'ordine dei quattro Vangeli: Giovanni, da Pasqua a Pentecoste; Matteo, dopo Pentecoste sino al 14 settembre (Esaltazione della Croce); Luca, sino alla quaresima; Marco, in quaresima.

Altre sezioni raccolgono i testi di tutti e quattro i Vangeli relativi alle feste o ai giorni che ricordano avvenimenti particolari della vita di Gesù: un gruppo segue il calendario lunare della Pasqua ebraica; un altro gruppo il calendario solare dei dodici mesi.

L'anno liturgico bizantino si svolge secondo due cicli ben distinti. Uno ruota attorno alla Pasqua, ed è legato al calendario lunare; l'altro celebra le altre feste attorno al calendario solare dei mesi.

A. Il ciclo lunare è centrato sulla Pasqua e comporta diversi momenti:

1. La preparazione alla Pasqua con la pre-quaresima (4 domeniche e 3 settimane) e la quaresima o 40 giorni. Durante la quaresima si celebra la Divina Liturgia soltanto di sabato e di domenica, oppure, in altri giorni e per circostanze particolari, si presenta nella forma detta dei "Presantificati".

2. La Grande Settimana inizia con il sabato e la domenica, che ricordano la risurrezione di Lazzaro e l'entrata a Gerusalemme. Dal lunedì al giovedì evoca gli ultimi insegnamenti di Gesù e gli avvenimenti che precedono immediatamente la Passione. Culmina nei tre giorni, da venerdì a domenica, ove si celebrano successivamente la Passione, la Morte e la Risurrezione.

3. Cinquanta giorni seguenti, Penticostarion, celebrano la pienezza del mistero della Risurrezione.

4. Anche il tempo dopo la Pentecoste conserva diversi legami con il calendario lunare. Dopo la Domenica di "Tutti i Santi", che chiude il Penticostarion, si ripristina l'uso del ciclo liturgico settimanale. Esso parte dalla domenica, centrata sulla Risurrezione ma al contempo inserita nell'insieme del mistero divino. Il lunedì ricorda gli angeli; il martedì Giovanni Battista; il mercoledì e il venerdì il mistero della Croce vivificante; il giovedì gli apostoli e San Nicola; il sabato i defunti e più specialmente i Santi. La Madre di Dio è inseparabilmente associata a tutte le celebrazioni, e il ricordo dei martiri viene spesso evocato.

B. Il ciclo solare segue il calendario mensile. Con inizio il primo Settembre, comprende le feste del Signore, della sua Madre, dei Santi e di avvenimenti particolarmente importanti come i concili ecumenici. Si celebra in date fisse.

L'anno liturgico bizantino è una continua celebrazione del mistero pasquale-pentecostale. questa impronta risurrezionale-escatologica della liturgia bizantina è la base per la devozione ai defunti così marcata nell'anno bizantino.

(da O Odigos - La guida, n. 3, luglio/settembre 2004, p. 15)



Mercoledì, 02 Novembre 2005 00:57

Davanti a Dio (Sr. Germana Strola o.c.s.o.)

La vita monastica invita ad assumere con coraggiosa pienezza tutto ciò che implica il permanere davanti a Dio: attraversando la complessità del vivere umano in tutte le sue dimensioni, diviene per questo, ma come in sovrappiù, un ministero di intercessione...

Mercoledì, 02 Novembre 2005 00:36

Oltre la paura (Giuseppe Scattolin)

Magdi Allam condanna un certo "pacifismo irresponsabile", che, sotto la nobile parola "pace", propone un disarmo unilaterale di fronte alle manovre di propaganda e di conquista tipiche di questi movimenti islamici militanti ed estremisti.

La comparsa del monoteismo
in Israele
prima dell'esilio
di Andrè Lemaire


La religione dell’antico Israele era veramente monoteista fin dalle sue origini? Come si è passati da una secolare monolatria all’affermazione dell’incomparabilità del Dio d’Israele e della sua assoluta esclusività? La storia del monoteismo biblico non è una storia lineare. È la storia di tradizioni e influenze diverse, patriarcali, cananee, e un lungo processo di maturazione religiosa si ricompose in uno stupefacente lavoro di memoria e di scrittura. La monarchia e il rapporto con le altre nazioni, l’esilio babilonese, la cancellazione di qualsiasi rappresentazione divina hanno contribuito all’elaborazione dell’espressione monoteista di una fede originale.

Fede in un solo Dio, in un Dio unico, il monoteismo è considerato come uno dei fondamenti della tradizione giudeo-cristiana, che si radica nella storia dell'antico Israele. In realtà, i dizionari offrono spesso come esempio concreto di monoteismo il «monoteismo ebraico», citando talora i primi Comandamenti del Decalogo:

Io sono il Signore, tuo Dio...
Non avrai altri déi...
Non ti farai idolo né immagine alcuna.
Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai...

(Es 20,2-4; Dt 5,6-9);

o anche lo Šema' Israel:
Ascolta, Israele:
il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno solo
(Dt 6,4).

La religione dell'antico Israele era veramente monoteista sin dalle origini? Certi passi antichi della Bibbia sembrano indicare di no, dato che ammettono l’esistenza di altri dèi. Da un lato, certe tradizioni patriarcali attestano una certa pluralità di nomi di divinità (teonimi): El ‘Elyon (Gn 14,18-22; cf Nm 24,16; Dt 32,8…), El Roy (Gn 16,13-14), El Šadday (Gn 21,33: 28,3; 35,11... cf Nm 24,16...), El ‘Olam (Gn 21,33), El Betel (Gn 31,13), Pah)ad (Gn 31,42), Ba’al Berit (Gdc 8,33; 9,4), EI Berit (Gdc 9,46)…

D'altra parte, parecchi testi antichi presentano Yahwè, il dio d’Israele, come facente parte di un consesso di dèi, di un «pantheon», che presuppone l'esistenza di altri dèi, dunque di un certo politeismo. Così:

Dio si alza nell'assemblea divina,
giudica in mezzo agli dei
(Sal 82,1).

I cieli cantano le tue meraviglie.
Signore, la tua fedeltà nell'assemblea dei santi.
Chi sulle nubi è uguale al Signore,
chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?
Dio è tremendo nell'assemblea dei santi,
grande e terribile tra quanti lo circondano...

(Sal 89,6-8; cf anche Gb 1,6; 2,1; 38,7).

La monolatria dell'antica religione di Israele

Monoteista o politeista? La religione dell'antico Israele non si lascia imprigionare in questa alternativa perché essa non è in origine il frutto di una riflessione filosofica, di una concezione teorica del mondo divino, ma una religione pratica che si manifesta, in particolare, nel culto e nella morale. Nel contesto generale del politeismo dell'antico Vicino Oriente, la Bibbia pone l'accento sull'unicità e l'esclusivismo della divinità nazionale del popolo d'Israele, che non doveva rendere culto a nessun altro dio. È quello che viene definito monolatria, che afferma un legame particolare ed esclusivo tra il popolo ed una sola divinità. La monolatria dell'antica religione d'Israele suppone implicitamente anche una certa concezione politeista del mondo divino e si precisa un poco alla luce di un testo poetico antico del Deuteronomio (32,8) dove si afferma che Yahwè è il Dio d'Israele, ma si riconosce che le altre nazioni hanno altri dèi:

Quando l'Altissimo (Elyon) divideva i popoli,
quando disperdeva i figli dell'uomo,
egli stabili i confini delle genti
secondo il numero dei figli degli dèi.

Un tema simile è svolto in Mic 4,5:

Tutti gli altri popoli camminino pure
ognuno nel nome del suo dio,
noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro,
in eterno, sempre.

Secondo questa concezione, ogni popolo ha il suo proprio dio, la sua propria divinità nazionale. In realtà, secondo la tradizione biblica, Yahwè è chiaramente il dio mentre Israele è il popolo di Yahwè. Questo legame particolare ed esclusivo è splendidamente espresso dalle immagini dell'alleanza tra Yahwè e Israele. Ritorna nell'aggettivo «geloso» attribuito a Yahwè e il suo carattere esclusivo è sottolineato dalle numerose proibizioni imposte a Israele di «servire» divinità straniere. Il carattere monolatrico della religione dell'antico Israele risale probabilmente alle origini dello Yahwismo e all'uscita dall'Egitto. Secondo le più antiche tradizioni bibliche è Mosè, al quale Yahwè si manifesta, che la impone come unica divinità dei clan che lasciano l'Egitto, a cui rendere culto (Es 3,18; 5,1-3). Si ritrova in seguito questo carattere monolatrico chiaramente espresso dalle diverse tradizioni bibliche a proposito dell'alleanza di Sichem secondo le quali nuovi clan, legati probabilmente alla tradizione patriarcale dei «figli di Giacobbe», si sono riuniti ai «figli d'Israele», rinunciando alle loro divinità precedenti e scegliendo Yahwè come l'unica divinità della nuova confederazione israelita (Gs 24; ef Gn 35,2-5; Gs 8,30-35...). Verso la fine del II millennio, all'epoca di Davide, questa concezione religiosa si impose anche alla popolazione del nuovo regno di Giuda: Davide era un fervente yahwista che aveva assunto al suo servizio e protetto Abiatar, il discendente dei sacerdoti del santuario yahwista di Silo legato alla tradizione mosaica (cf I Sam 22,20-23).

Oltre alla persistenza di tradizioni religiose cananee, lo yahwismo monolatrico dell'epoca monarchica si scontrò più volte con forti influenze straniere. Così, sotto il regno di Acab (874-853 circa), il carattere esclusivo del culto di Yahwè in Israele fu particolarmente minacciato dalla diffusione del culto di Ba'al introdotto dalla moglie di Acab: Gezabele. figlia del re di Sidone (I Re 16,31-32). La dura reazione del profeta Elia si manifesta nello scontro del monte Carmelo: il popolo deve, di nuovo, scegliere il proprio Dio: Yahwè o Ba'al (2 Re 18,21). Il culto esclusivo ufficiale dì Yahwè sarà finalmente ristabilito in seguito al colpo di stato di Ieu nell'841 che eliminò Ba'al da Israele (2 Re 10,27). Nell'835, mettendo fine alla reggenza di Atalia, il colpo di stato del sacerdote Yehoyada ottenne lo stesso risultato a Gerusalemme. Si noterà che, in quest’epoca, una religione monolatrica abbastanza similare era apparentemente praticata da certi vicini di Israele, in particolare nel regno di Moab: Kamoš era riconosciuto come il dio di Moab (I Re 11,33) e Moab come il popolo di Kamoš (Nm 21,29; Ger 48,46). Secondo la stele di Meša, re di Moab (nel IX sec. a.C.), appartenere a Kamoš e appartenere a Moab è tutt'uno (linea 12) e l'espansione del territorio moabita si traduce nella sistetitatica distruzione dei santuari yahwisti, sostituiti da Santuari dedicati a Kamoš: essendo queste religioni entrambe monolatriche, il culto di Yahwè, citato più volte sulla stele, non può sussistere nel regno di Moab! L’importanza del culto di Kamoš è confermata dalle numerose citazioni di questo nome nell'onomastica moabita, attestata essenzialmente da sigilli o stampigliature.

La difficile affermazione di un'unica divinità

Nel secolo VII e in particolare durante il regno di Manasse (699-645 circa), la dominazione politica assiro-aramaica si manifesta attraverso la diffusione del culto degli astri, ben attestato grazie allo studio dei sigilli di quest’epoca e della Bibbia: il re Manasse in persona si prostrò davanti a tutta la milizia del cielo e la servì... Costruì altari a tutta la milizia del cielo nei due cortili del tempio (2 Re 21,3.5), Nonostante questo, con la decadenza del dominio assiro, in riforma di Giosia reagì con vigore contro l'espansione di questi culti e destituì i sacerdoti... che offrivano incenso a Ba’al, al sole e alla luna, alle stelle e a tutta la milizia del cielo (2 Re 23,5; cf Dt 4,19).

Così, la monolatria della religione israelita fu più volte messa in pericolo dalle influenze esterne legate all'evolversi del contesto internazionale. Il pericolo poteva venire anche da Israele stesso: due tendenze, legate allo sviluppo dei santuari tradizionali yahwisti. minacciarono il carattere esclusivo e unico del culto di Yahwè all'interno stesso del popolo d'Israele: l'eccessiva sacralizzazione di certi aspetti dei santuari tradizionali e la diversità stessa di questi santuari.

Le tradizioni israelitiche più antiche descrivono i santuari israeliti come costituiti fondamentalmente da un altare, da una stele e da un albero sacro. Le leggende patriarcali di fondazione di questi santuari mettono bene in luce questi tre aspetti: mentre Giacobbe alza una pietra come stele a Betel (Gn 28,19-22), Abramo piantò un tamerice in Bersabea (Gn 21,33) dove Isacco costruì in seguito un altare (Gn 26,25). Per riprendere l'esempio dell'alleanza in Sichem, il testo precisa, nella parte finale, che poi Giosuè... prese una grande pietra e la rizzò là, sotto il terebinto (cf Gn 12,6; 35,4; Gdc 9,6.36) che è nel santuario del Signore (Gs 24,26).

In modo abbastanza ovvio la stele e l'albero sacro si sono trovati a partecipare della potenza divina di Yahwè, ad essere tanto sacralizzati da diventare quasi di sostanza divina. Questo è ben dimostrato dalle iscrizioni paleoebraiche della prima metà dell'VIII sec. a.C. in cui l'ašerah, cioè l'albero sacro del santuario, è citata accanto a Yahwè nelle formule di benedizione:

Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Samaria e attraverso la sua Ašerah (Kuntillet 'Ajrud, Pithos 1);

Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Teman e la sua Ašerah (Pithos 2);

Sia benedetto Uriyahu attraverso Yahwè e la sua Ašerah (Khirbet el Qom 3).

Queste formule indicano che l'albero sacro (Ašerah) dei santuari yahwisti stava diventando, per gli Israeliti, una potenza sacra indipendente, di sostanza divina, uguale e rivale di Yahwè. Questa evoluzione provocò presto una vivace reazione da parte dei profeti (Am 3,14; Os 3,4; 4,12; 10,1-2; Mic 5,12-13) che sfociò nelle riforme religiose di Ezechia (2 Re 18,4) e di Giosia (2 Re 23,6), codificate nel Deuteronomio (16,21);

Non pianterai alcun palo sacro (Ašerah),
di qualunque specie di legno,
accanto all'altare del Signore tuo Dio,
che tu hai costruito;
non erigerai alcuna stele [masseba]
che il Signore tuo Dio ha in odio.

Le formule di benedizione di Kuntillet 'Ajrud che citano «Yahwè di Samaria» e «Yahwè di Teman» rivelano un'altra evoluzione che rischiava di portare ad una pluralità divina all'interno stesso di Israele: il legame della persona di Yahwè con i suoi diversi santuari e la sottolineatura di caratteri divini particolari in ciascuno di questi, col rischio di mettere a poco a poco in ombra il fatto che si trattava pur sempre della stessa persona divina. È un fenomeno abbastanza simile a quello che avviene nella tradizione cattolica nel culto della vergine Maria con i diversi appellativi «Madonna di Chartres», «Madonna di Lourdes», «Madonna di Fatima»… che, nella religiosità popolare, hanno talora la tendenza a diventare altrettante personalità distinte. Come per l'eccessiva importanza attribuita agli alberi sacri, questa evoluzione della religiosità popolare comportò una vivace reazione dei profeti che criticava l'eccessiva rivalutazione dei santuari locali (cf, per esempio, Am 4,4; 5,5) e portarono alla soppressione ufficiale di questi santuari al momento delle riforme di Ezechia (2 Re 18,4.22)e di Giosia (2 Re 23,8.15), soppressione nuovamente riaffermata nel Deuteronomio (12,2-5). Probabilmente è il proprio questa opposizione al culto yahwista dei diversi santuari che spiega l'insistenza del Deuteronomio sull'unicità della divinità nazionale: Yahwè è uno solo (6,4).

Il rifiuto delle immagini

Il ricordo di queste tendenze, di queste lotte e di queste riforme mostra con chiarezza che la monolatria dell’antico Israele non fu un’acquisizione antica, più o meno dimenticata, ma un principio ben vivo che porta, in un contesto del vicino Oriente spesso politeista, a una certa purificazione del concetto del Dio d'Israele. Questo approfondimento del concerto della divinità fu anche fortemente segnato da un altro aspetto dello yahwismo che sembra risalire alle sue origini: il suo aniconismo, cioè la proibizione, espressa nel Decalogo, di rappresentare la divinità nazionale con un'immagine o una rappresentazione scultorea. La ricerca contemporanea ha rivelato che questa caratteristica va collocata probabilmente in origine nel più generale contesto del culto delle stele, ben attestato nel culto semitico occidentale. Tuttavia, paradossalmente, nell'antico Israele, questo aniconismo fu teorizzato e sistematicizzato, conducendo alla fine persino al rifiuto del culto delle stele (Dt 16,21). Quest'ultimo aspetto della monolatria israelita ha potuto rivestire un ruolo importante nell'approfondimento verso la concezione di un Dio unico, universale trascendente. In realtà l'aniconismo ha, almeno in parte, alimentato la polemica contro gli dèi stranieri. Ciò appare già nel racconto della sosta dell'arca di Yahwè nel tempio di Dagon ad Ašdod (I Sam 5,2-5): la statua di Dagon è dapprima trovata in terra davanti all’arca, poi senza la testa e le mani. Attraverso questo racconto, Dagon non è solo messo in discussione in quanto dio straniero, inferiore a Yahwè. ma anche perché è rappresentato da una statua la cui mutilazione rivela l'impotenza.

L'impotenza degli dèi stranieri è spesso sottolineata dai profeti: sul monte Carmelo, Ba'al non è contestato solo perché è un dio straniero, fenicio, ma anche a causa della sua impotenza, come sottolinea Elia alludendo alla sua mitologia:

... egli è un dio! Forse è soprappensiero
oppure indaffarato o in viaggio;
caso mai fosse addormentato...
(1 Re 18,27).

Analogamente, una critica implicita dell'impotenza degli dèi stranieri è posta in bocca a Rabšaqeh, un inviato di Sennacherib presso Ezechia: Forse gli dèi delle nazioni hanno liberato ognuno il proprio paese dalla mano del re d'Assiria? Dove sono gli dèi di Amat e di Arpad? Dove sono gli dèi di Sefarvaim, di Ena e di Ivva?... Quali, mai, fra tutti gli dèi di quelle nazioni, hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Potrà forse il Signore liberare Gerusalemme dalla mia mano? (2 Re 18,33-35; cf 19,12-13).

Al contrario, la tradizione biblica sottolinea la potenza di Yahwè, capace di opporsi agli attacchi dei nemici (cf oltre, sotto Ezechia), o di usarli come strumento per punire Israele (Is 10,5-19). La potenza di Yahwè non si arresta dunque ai confini dell’antico Israele: Yahwè può esercitare la sua potenza anche sugli stranieri, e persino su re stranieri. È già in parte la storia della guarigione del generale arameo Naaman (IX sec.) che riconosce la straordinaria potenza del Dio d'Israele:

Ebbene, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele... Almeno sia concesso al mo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore... (2 Re 5, 15- 17). Si vede qui sorgere una tendenza verso l'espressione di un monoteismo universalistico.

Certi passaggi biblici del Deuteronomio (4,35.39; 32,39), della storia deuteronomista (2 Sam 7,22: 22,32) e di Geremia (2,11; 16,19-21) si spingono oltre in questa direzione, criticando le altre divinità ed affermando esplicitamente che Yahwè è il solo Dio, che domina l'universo. Tuttavia, con la maggior parte dei commentatori, si nota che tutti i passaggi sembrano appartenere ad uno strato redazionale tardivo, probabilmente esilico. Ricordiamo, ad esempio, Ger 2,11:

Ha mai un popolo cambiato dèi?
Eppure quelli non sono dèi!

in cui la sottolineatura che gli dèi delle altre nazioni non sono veramente dèi sembra una glossa aggiunta al testo originario.

In realtà, le prime chiare affermazioni del monoteismo israelita sembrano quelle del Deutero-Isaia, che risalgono probabilmente alla fine dell'Esilio, al 550-539 circa:

Prima di me non fu formato alcun dio,
né dopo ce ne sarà
(Is 43,10-11).

Io sono il primo e io l'ultimo;
fuori di me non vi sono dèi
(Is 44,6-8; cf 45,5-7.18.21-22).

Come l'autore di questi testi ha potuto operare il salto dalla secolare monolatria dell'antico Israele alla chiara affermazione del monoteismo? Se si presta fede al resto degli scritti di questo profeta dell'Esilio (cf in particolare Is 44,9-20; 45,20; 46,6-7...), questo sviluppo teologico si afferma a partire da una riflessione sull'impotenza degli altri dèi, specialmente di quelli rappresentati da immagini o statue. In realtà, posto a confronto con un contesto in cui le divinità dei signori dell'Impero neobabilonese erano rappresentati abitualmente da statue, il profeta le rifiuta d'istinto, partendo dalla tradizione aniconica israelitica.

Così, la riflessione sull'unicità di Yahwè è maturata nel corso di parecchi secoli e i profeti hanno dovuto all’inizio combattere per difendere il carattere monolatrico della religione israelita contro diversi influssi esterni e alcune tendenze della religione popolare. Anche se si scorgono alcuni annunci precedenti, è soprattutto l'approfondimento della tradizione aniconica nel contesto storico dell'Esilio babilonese che sembra aver reso possibile il passaggio dalla religione monolatrica delle origini mosaiche, che proclamava Yahwè come l'unico Dio d'Israele, ma che poco si curava dello statuto degli dèi di altri paesi, alla chiara affermazione del monoteismo ebraico secondo il quale Yahwè è il solo vero Dio, Signore dell’universo.

* Direttore del Dipartimento alla École Pratique des Hautes Études, sezione scienze storiche e filologiche

(da Il mondo della Bibbia n. 47)

L’etica è qualcosa di vissuto e non soltanto frutto di una deduzione di principi. Non si può attuare eticamente costruendo sillogismi e traendone conseguenze. L’etica è una spinta personale, che viene più dal cuore che dalla mente.

Domenica, 23 Ottobre 2005 22:26

6. Come leggere la Bibbia (Rinaldo Fabris)

Il “genere letterario” è un modo specifico di parlare di una esperienza o di raccontare un evento che corrisponde alla mentalità, agli usi e costumi di una determinata epoca e cultura.

Dal primato dello "Spirito"
alla perfezione della carità
di Cipriano Carini, osb


Un documento che non si applica tanto alle opere dei consacrati, ma piuttosto alla loro vita spirituale. È un ritorno al Monachesimo.

Richiede quindi una conversione interiore ben più difficile che una preparazione professionale allo svolgere determinate attività.

A mio parere mette in evidenza due principi molto semplici, ma riassuntivi di tutta la teologia e spiritualità della vita consacrata.

1. Il primato dello "Spirito"

Già nei documenti precedenti ci era stato richiesto di tornare al Vangelo (PC 2), poiché «i religiosi sanno di essere coinvolti in un quotidiano cammino di conversione verso il regno di Dio, che li rende, nella Chiesa e di fronte al mondo, segno capace di attirare, provocando a profonde revisioni di vita e di valori. È questo, senza dubbio, il più atteso e fecondo impegno al quale essi sono chiamati, anche nei campi in cui la comunità cristiana opera per la promozione umana (Promozione umana 18).

E i Lineamenta insistono; basta rileggere il n. 11 che elenca i valori essenziali della nostra vita e richiede come impegno spirituale: la rinuncia al mondo e la scelta radicale di Dio solo, il senso cristocentrico della consacrazione, la dimensione pasquale della consacrazione, la dedicazione totale al servizio del Signore, l'unità di vita nella contemplazione e nell'azione. Aspetti che vengono ripresi più avanti (n. 26.29.44) con proposte molto luminose per superare le ambiguità e le sfide della società moderna, presentando con la nostra vita la libertà vera, l'amore vero, la preghiera vera, la donna vera. «Si deve affermare con realismo la necessità della presenza dei consacrati nella società stessa, come cittadini in questo mondo eppure pellegrini verso la patria. Con i loro carismi e servizi vogliono rendere operante il Vangelo delle beatitudini e delle opere di misericordia», cori attenzione ai giovani, ai poveri, alla cultura, all'umanità intera.

Una presenza che ha le opere, ma al di sotto ha una mentalità evangelica, un'adesione totale a Cristo; non siamo dei professionisti ma degli afferrati da Cristo.

Per questo non si insiste tanto sulle opere da svolgere, bensì sulla vita spirituale da coltivare, esercitandoci nel primato della carità, rinnovandoci quotidianamente alle sorgenti genuine della spiritualità cristiana, nell'assidua lettura, meditazione, contemplazione ed esperienza vissuta della parola di Dio, in un impegno di continua conversione, guardando a Maria come al modello esemplare (cf n. 12).

La consacrazione e la professione pubblica dei voti di castità, povertà e obbedienza, esigono un adeguato stile di vita, autentico nelle sue motivazioni soprannaturali, vero nelle sue esigenze ascetiche, ricco nei diversi aspetti complementari, vissuto all'interno della comunità in una doverosa comunione ed emulazione (cf n. 31b)-

Nient'altro che il primo comandamento preso sul serio.

2. La perfezione della carità

Da qualche decina di anni la richiesta ai religiosi di essere "esperti in comunione" viene ripetuta, anche se in modo diverso, in tutti i documenti ecclesiali.

È un sottofondo costante anche dei Lineamenta che, direttamente o indirettamente, richiamano il titolo del documento conciliare Perfectae caritatis. Siamo quelli che tendono alla perfezione della carità tra gli uomini, sia nei riguardi dell'apertura che questa richiede, sia nella qualità di un dono gratuito che deve avere, e non solo all'interno delle comunità. religiose, ma anche nell'inserimento nella vita della Chiesa, nella storia dell'umanità.

Il primato della carità (n. 12a) parte dalla vita interna degli istituti con «la valorizzazione delle persone più che delle strutture, l'attenzione ai bisogni dei singoli membri della comunità, il senso dell'impegno personale e della corresponsabilità, la comunione reciproca fatta di relazioni interpersonali più mature, semplici, autentiche» (cf n. 266).

Ma la comunione si apre alla vita ecclesiale, anzi all'umanità intera (cf n. 43). «Non si può infatti scegliere Cristo, senza scegliere tutto quello che è suo, la Chiesa e il Regno» (n. 11d). Perfino «i monasteri sono invitati ad offrire, pur conservando la fedeltà al proprio spirito, opportuni aiuti per la preghiera e la vita spirituale agli uomini e alle donne del nostro tempo, specialmente mediante un'appropriata partecipazione alla preghiera liturgica» (n. 20). I richiami sono continui e pressanti. «Una maggiore ecclesialità della vita consacrata, [...] con lo sviluppo di nuovi rapporti di comunione e collaborazione con i chierici e i laici» sembra essere la richiesta più grande che ci viene fatta (n. 26e); «con l'emergere della teologia della Chiesa locale, con la consapevolezza dell'appartenenza della vita consacrata al mistero della Chiesa universale, che si rende presente nella Chiesa locale, sta maturando un nuovo rapporto di presenza e di comunione dei membri, ottenendo una maggiore partecipazione e coscienza di appartenenza alla famiglia diocesana, un inserimento più attivo e specifico nella pastorale» (n. 27a). «Il rinnovamento della vita consacrata si attua con un'intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale, secondo il proprio carisma e le nuove necessità della Chiesa e del mondo» (n. 31d).

È un leit motiv che raggiunge nei nn. 38-40 la sua manifestazione più esigente.

Comunione anche con l'umanità, a servizio della promozione dell'uomo, con nuova sensibilità sociale verso gli oppressi e gli emarginati (n. 27d), per andare incontro alle vecchie e nuove povertà (n. 29g), con degli ambiti di lavoro preferenziali (cf n. 44).

È il secondo comandamento che viene messo in risalto.

Non vengono prese in considerazione quindi le attività in se stesse, le opere degli istituti, nemmeno quelle derivanti dalla vita sacerdotale, bensì lo spirito che deve permeare la vita dei consacrati.

Le opere le possono svolgere normalmente anche gli altri: sacerdoti diocesani, laici; lo spirito invece deve essere proprio dei consacrati. Possono fare qualsiasi opera, ma il loro fare sarà fruttuoso se proverrà dallo Spirito.

A mio avviso viene fatta la scelta giusta più esigente e interiore; una scelta che tocca l'anima della consacrazione, più che le derivazioni esterne, le opere che ne derivano.

Alcuni desideri personali nei riguardi dei Lineamenta sono i seguenti:

1. Mettere maggiormente in evidenza l'aspetto profetico della vita consacrata, non solo come segno della vita futura, ma anche nella sua libertà di continuare il profetismo nella Chiesa; lasciamogli la libertà sufficiente di poter dire pane al pane e vino al vino. Sono stati i profeti che hanno annunciato la Parola alla politica e alla gerarchia ecclesiastica. Non tentiamo di ridurre tutto ai numeri del Codice canonico; non possiamo imbrigliare lo Spirito. Libertà profetica non solo per "rinnovare" (nn. 26d.31c), ma anche per creare ex novo (nn. 18f.24).

2. Mettere maggiormente in evidenza (e lavorare perché diventi vita vissuta) tutto quello che unisce piuttosto che quello che divide i vari istituti di vita consacrata; ogni istituto ha un carisma, ma nell’insieme tutti partecipano al carisma della vita consacrata, alla scelta radicale di Dio.

3. Veramente ogni istituto ha un carisma? Mi sembra che occorrerebbe svolgere un’attività di ecumenismo all’interno della vita consacrata: questo porterebbe ad avvicinare (e forse ad unire) molte famiglie religiose, con minor dispendio di energie, persone, economia nello svolgere gli stessi servizi all’umanità; la crisi di vocazioni vuole forse portarci a questo? Se fossimo uniti potremmo rispondere meglio alle necessità, ai problemi, alle urgenze della storia.

Al momento attuale mi sembra che ci sia da aspettarsi dall’assemblea CEI e dal Sinodo dei vescovi una crescita di equilibrio tra difesa del carisma della vita consacrata e un suo inserimento armonico nella vita della Chiesa comunione.


(da Vita Consacrata, 29, 1993/5, 605-608)

Papa Ratzinger e chiese ortodosse:prove tecniche di unità

 

Una forte affermazione del "servizio petrino", senza menzionare esplicitamente la possibilità del cambiamento delle sue "forme di esercizio" attraverso una effettiva "collegialità episcopale": è il filo conduttore di alcuni recenti discorsi del papa, di particolare importanza ecumenica, dato che avevano come sfondo i rapporti con la Chiesa ortodossa russa e con il patriarcato di Costantinopoli.