Gesù Cristo unico Signore
nella fede dei primi cristiani
di Daniel Marguerat
(Facoltà di teologia protestante – Università di Losanna)
Come hanno confessato i primi cristiani la signoria di Gesù? Cosa esprimevano quando dicevano «Gesù Signore»? A quale vocabolario, a quali immagini, a quale immaginario collettivo hanno attinto per dire la grandezza del loro maestro?
A questa questione non è nata tutta d'un tratto, immediatamente, come se confessare Gesù Signore si fosse imposto per una necessità imperiosa. È stato necessario un lungo cammino perché scaturisse una parola davanti all'Indicibile. I primi cristiani non hanno prodotto una sola parola, ma una profusione di parole, talmente l'indicibile che avevano da dire non poteva essere racchiuso in una formula unica. Questo Indicibile, questo sovrappiù di senso da esprimere, non era ciò che la Chiesa antica ha formulato molto più tardi con i termini di «unità senza confusione di due nature in una sola persona» (come farà il concilio di Calcedonia). Il mistero da esprimere non era: «Com'è accaduto che un uomo fosse Dio?»; ma: «Com'è accaduto che nella vita di quell'uomo, Dio abbia detto la sua ultima parola?». E per tentare di avvicinarsi a questo mistero, che doveva svelare il segreto di Gesù senza mettere in pericolo il monoteismo, la fede dei primi cristiani ha prodotto una profusione di parole. Il Nuovo Testamento ci dà accesso a questa splendida fioritura di linguaggi che dicono la signoria di Gesù. Questa fioritura denota l'intensa creatività teologica di cui il primo cristianesimo fu teatro.
La creatività dei primi cristiani si era resa necessaria perché Gesù non si era preoccupato di precisare i suoi titoli, non aveva posto limiti ai tentativi di definir
e la sua identità. Il Nuovo Testamento abbonda certo di titoli cristologici (Messia, Figlio di Dio, Figlio di Davide, Signore, Figlio dell'uomo), ma per lo più nascono dalla fede post-pasquale.
In seguito, quando il maestro non era più con loro, i discepoli hanno potuto mettere in parole ciò che egli era stato per loro. Si può notare infatti che, a parte il quarto Vangelo (più tardivo), quasi mai Gesù fa dichiarazioni di questo genere: «Io sono il Figlio di Dio» o «Io sono il messia». Al contrario, è lui che interroga: «E voi, chi dite che io sia?» (MC 8,29). La fede dei primi cristiani s'inscrive nel solco aperto da questa domanda, e come un tentativo multiforme di rispondervi. Confessare Gesù Signore non implicava, all'indomani della Pasqua, un lavoro archeologico di memoria per esumare quello che il maestro aveva detto di sé; si trattava piuttosto d'esprimere ciò che egli rappresentava per loro, e di trovare le parole per dirlo. Queste parole, i primi cristiani le hanno prese in prestito dal loro ambiente religioso, dalla loro cultura, dal loro mondo.
Ma la diversità di forme nella confessione della signoria di Gesù può anche spiegarsi in altri modi. Tra Gesù e le prime comunità che si radunano nel suo nome si interpone lo stupore della Pasqua. Secondo la percezione unanime degli evangelisti, la Pasqua ha preso in contropiede gli amici di Gesù, cambiando il loro sentimento d'insuccesso in speranza, confermando che Dio era dalla parte della vittima immolata sul legno. Pasqua segna l'irruzione dello Spirito nella comunità dei credenti.
Poiché la fede dei primi cristiani è frutto del lavoro dello Spirito, non bisogna essere sorpresi della diversità dei linguaggi usati. Lo Spirito Santo non è forse la firma del lavoro di Dio nel cuore di ciascuno? La stessa convinzione attraversava tutte le diverse correnti del cristianesimo primitivo: tutto ciò che si può dire del Cristo Signore deve verificarsi nella vita dell'uomo di Nazareth. I parametri sono così posti, irreversibili: la confessione di Cristo non uscirà dai limiti che le sono stati assegnati dal gesto dell'incarnazione. Il Cristo è Signore nell'esatta misura in cui Gesù, il Galileo, lo è stato.
Come cogliere la confessione di Gesù Signore nel Nuovo Testamento? Quattro vie d'accesso sono possibili; io elaborerò l'ultima.
Sino al 1950, si è creduto di poter parlare di «una» cristologia nel Nuovo Testamento. Uno sguardo più attento ha fatto concludere che riunire in uno stesso sistema dottrinale il modo differente con cui Paolo, Matteo, Giovanni e gli altri parlavano di Cristo, mutilava la particolarità di ciascuno.
Le teologie del Nuovo Testamento scritte negli anni Sessanta-Ottanta hanno eliminato questo sogno unitario; si parlerà così delle cristologie di Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Paolo, ecc.; al limite, si può dire che ci sono offerti 27 piccoli trattati cristologici, quanti sono gli scritti del Nuovo Testamento. La coerenza dell'insieme sparisce a profitto di un quadro frantumato. Come mantenere la tensione tra unità e pluralità?
Nè i differenti autori neotestamentari danno allo stesso titolo il medesimo significato nei loro diversi scritti. Risultato: le stesse definizioni cambiano di senso seguendo gli autori biblici, e la signoria di Gesù non viene detta solamente attraverso il titolo di Signore.
È stata proposta una quarta via: seguire le «traiettorie». Esisterebbe una continuità teologica reperibile nei diversi scritti del cristianesimo primitivo, che può essere ricostruita; è identificabile quando diversi scritti attestano dall'uno all'altro un fenomeno di continuità e di ripresa. Si può parlare di una traiettoria giovannea o d'una traiettoria paolina.
Io m'interesso al concetto di traiettoria, ma per applicarla differentemente ai grandi orientamenti della fede dei primi cristiani. Seguendo quali linee di forza questi hanno confessato Gesù Signore? Si tratta, in qualche modo, di utilizzare uno scanner storico per tentare di identificare le linee di fondo che corrono sotto gli scritti del Nuovo Testamento. Si eviterebbe così una lettura frammentaria del primo cristianesimo ritrovando, dietro gli scritti, le convinzioni che hanno prevalso all'origine.
Le traiettorie sono quattro. La prima celebra in Gesù Colui che verrà. La seconda vede in lui l'uomo dai poteri soprannaturali. La terza proclama il Giusto rivelato tra i morti. La quarta si interessa al Gesù sapiente. Si tratta di quattro linee di forza che, a monte della redazione degli scritti del Nuovo Testamento, contribuiscono a costituire all'origine la fede cristologica dei primi cristiani. Queste quattro linee si sono costruite con l'aiuto di categorie religiose disponibili nell'ambiente culturale in cui vivevano i cristiani. Prima di depositarsi negli scritti (Vangeli e lettere), esse si sono articolate l'una all'altra, sovente legate, talvolta fuse.
Questa traiettoria è la più antica; ha avuto per effetto di spingere a raccogliere le parole di Gesù per farne memoria. Le rappresentazioni che sono all'origine di questa traiettoria sono da ricercarsi nell'attesa dei circoli apocalittici nel tardo giudaismo dell'era cristiana: è l’attesa intensa di un intervento liberatore che assicurerà la fine della dominazione degli empi sulla terra d'Israele, e secondo scenari vari, che installerà la sovranità d'Israele sulle nazioni del mondo.
La cristianità primitiva non ha solamente visto in Gesù la prefigurazione di colui che verrà ad animare la scena della fine dei tempi; essa ha identificato in Gesù l'atteso. L'attesa giudaica s'è dunque trovata modificata; la fine dei tempi non vedrà apparire una figura immaginata, supposta, ma vedrà venire colui che si è fatto conoscere nei tratti del Nazareno. È per questo che nella liturgia appare molto presto l'invocazione «Signore, vieni! » (Marana tha: I Cor 16,22; Ap 22,20).
La tradizione evangelica ci trasmette l'immagine di uno scenario della fine dei tempi, con sconvolgimenti cosmici, come i giudeo-cristiani se li rappresentavano. Le parabole della venuta del Regno richiamano alla vigilanza davanti all'ultima scadenza, specie nel libro dell'Apocalisse. Il titolo cristologico decisivo è quello di «Figlio dell'uomo».
Un'importanza cruciale è qui accordata alle parole di Gesù. Si comprende il perché: sono le parole pronunciate da colui che, alla fine dei tempi, interverrà come giudice del mondo. Si tratta sin da ora di custodire con cura le parole di colui che, al momento della sentenza finale, giocherà un ruolo determinante. «Io vi dico: chiunque si dichiarerà per me davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo si dichiarerà per lui davanti agli angeli di Dio; ma colui che mi avrà rinnegato davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio» (Lc 12,8-9)
Una tale speranza non sorge a caso. Ci si può fare un'idea del luogo sociologico dove è stata coltivata? Lo spazio privilegiato di questa confessione del Signore dell'avvenire mi parrebbe essere il circolo millenarista, il gruppo di credenti che coltiva l'attesa del cambiamento dei tempi. La sua speranza nel futuro gli permette di sopportare la durezza del presente, in una società che nega gli ideali cristiani e sostiene il trionfo del male. I cristiani attendono qui, con terrore e speranza, il crollo di un mondo che nega Dio e la vittoria di colui che detiene la promessa di pace.
La società antica dava molta importanza e prestigio a coloro che si chiamavano «uomini divini»: guaritori, maghi, astrologi. In un modo o in un altro, dicono, i loro poteri soprannaturali testimoniano un legame particolarmente stretto con il divino. Parlare di un Gesù guaritore, d'un Gesù esorcista, d'un Gesù dai poteri meravigliosi, era per i primi cristiani partecipare al flusso dei racconti di miracoli attribuiti agli uomini divini.
Nei primi secoli dell'era cristiana, il mercato religioso si faceva molto concorrenziale, e quindi ogni gruppo sviluppava una propaganda missionaria in cui erano al primo posto i miracoli del suo eroe. La narrazione del miracolo era raccontata seguendo una forma stereotipata che si ritrova anche nel Nuovo Testamento. Ognuno si sforzava di vantare e di ingrandire gli atti di potenza del guaritore nel quale credeva, come nel culto degli dei guaritori, nella rilettura della vita di Mosè, nella biografia dei saggi che fanno miracoli o nei racconti dei rabbini guaritori.
Senza dubbio Gesù di Nazareth fu un grande guaritore. La tradizione evangelica abbonda dì narrazioni di guarigioni che gli sono attribuite. L'insistenza che gli evangelisti mettono nel raccontarle (in primo luogo Marco), provano a quale punto importava loro di mostrare come Gesù prendeva a carico la situazione precaria degli altri. Essi hanno raccontato anche dei piccoli miracoli, perché quello che li interessava non era la spettacolarità1 ma il modo con cui Gesù aveva rimesso in piedi gli esseri abbattuti per la malattia: «Andarono... nella casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone era coricata, aveva la febbre, e subito parlarono di lei a Gesù. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendole la mano: la febbre la lasciò ed ella si mise a servirli» (Mc 1,29-31).
Non è la dimensione del futuro che qui interessa, come nella precedente traiettoria. Al contrario, la sofferenza è percepita e alleviata nel presente. Ma perché richiamarlo, visto che Gesù non c'è più? In effetti, ripetere i racconti dei miracoli non mirava a commemorare un passato glorioso ma compiuto, dove il Figlio dell'uomo alleviava la sofferenza dei corpi ammalati. È invece una forma di protesta contro il male. La comunità credente proclama così che la sofferenza non è una fatalità per l'individuo; essa sfata il mondo richiamando che Dio si mette dalla parte di colui che soffre, e non dalla parte della sofferenza contro l'umanità.
Il luogo della confessione di fede di Gesù guaritore? È il gruppo terapeutico, dove i credenti vivono la convinzione che la forza di guarigione di Cristo è a tutt'oggi operante quando il Signore è invocato. La prima Lettera ai Corinti (12, 9-10) iscrive il dono di guarire tra i doni concessi dallo Spirito alla Chiesa; questa forza non era riservata a dei personaggi carismatici straordinari, ma rimessa alla comunità, come una delle caratteristiche dell'agire di Dio nel suo seno. In ogni caso ciò che si celebra è una signoria di Gesù che rinuncia al linguaggio del potere per manifestare la sua autorità nell'amore offerto gratuitamente ai sofferenti.
La nozione d'esaltazione escatologica del giusto, è una delle prime categorie alle quali hanno fatto ricorso i primi cristiani per trasmettere il mistero di Pasqua. In seno al giudaismo, in effetti, la speranza della resurrezione dai morti alla fine dei tempi non rispondeva a una preoccupazione di vita post mortem. La questione in gioco non era di sperare un supplemento di vita per i morti, ma d'essere certi che sarebbe stata loro resa giustizia da Dio. Nel libro di Daniele e in Maccabei, la resurrezione dei morti permette la riabilitazione dei martiri morti per fedeltà a Dio. Ugualmente, i salmi del giusto sofferente (in primo luogo il Salmo 2) esprimono la certezza che Dio non abbandona i suoi alla vergogna e all'aggressione dei cattivi.
La croce è così vista come l'abbassamento supremo del giusto, e la Pasqua rende noto che Dio lo ha accolto. La resurrezione di Gesù manifesta, già da ora, che Dio è solidale con la vittima appesa al legno. Una tale comprensione va evidentemente a mettere l'accento sulla sofferenza del giusto e sul suo valore espiatorio; la morte di Gesù è compresa come una morte «per noi», una morte liberatrice, una morte da cui scaturisce una parola di perdono. «Se dalla tua bocca, tu confessi che Gesù è Signore e se nel tuo cuore tu credi che Dio l'ha risuscitato dai morti, tu sarai salvato» (Rm 10,9). Il primo posto nella memoria cristiana non è accordato alle parole del giudice degli ultimi tempi, nè al ricordo degli atti di compassione; la memoria si concentra sulla fragilità di quest'uomo e la sua accettazione della sofferenza futura.
I luogo dove si fissa la memoria del giusto riabilitato da Dio non è il rapporto maestro-allievo, nè il rapporto malato-terapeuta, ma la comunità di riconciliazione. Il «per voi» della croce è ritualizzato nel corso della celebrazione della Cena, dove ciascuno è chiamato ad accogliere il dono della grazia e a confermare il suo posto nell'alleanza. Paolo ha magnificamente formulato l'importanza di questo spazio di riconciliazione parlando della Chiesa come «corpo» del Signore: essa diviene il luogo dove, per i legami che si tessono gli uni con gli altri, Cristo prende forma nel mondo. La traiettoria del giusto esaltato non coincide immediatamente con quella dell'uomo dotato di poteri soprannaturali: d'un lato un itinerario della sofferenza dove la fragilità fa senso, dall'altro il potere carismatico di realizzare grandi fatti. Una delle più grandi sfide lanciate alla riflessione teologica nella Chiesa delle origini fu precisamente d'articolare queste due traiettorie, a prima vista contraddittorie. Questa sintesi fu opera della seconda generazione cristiana.
Paolo afferma che la potenza di Dio non si mostra che nella miseria di un Crocefisso: «I giudei domandano dei segni, i greci ricercano la sapienza; ma noi, noi predichiamo un messia crocifisso, scandalo per i giudei, follia per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, tanto giudei che greci, egli è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,22-23). Marco, creando il genere letterario del Vangelo, reinterpreta una forte tradizione di miracoli in supporto ad una teologia della croce. Giovanni mostra come il più grande dei miracoli, rendere la vita a Lazzaro, conduca Gesù a perdere la sua.
Paolo dice di Cristo che è «la sapienza di Dio». La formula non è scelta a caso. Tutti i cristiani di origine giudaica, cresciuti in seno al giudaismo di lingua greca, conoscono l'importanza data alla sapienza nella riflessione della sinagoga. Ne possiamo oggi cogliere sempre più l'importanza. Affermare che Gesù è «sapienza di Dio» vuol dire entrare in pieno in un dibattito dove si cerca chi possa essere colui che detiene la sapienza che fa vivere. Da una parte la sinagoga vive della convinzione che la saggezza umana è emanazione della sapienza divina. D'altra parte, la sophia (sapienza) è divenuta una figura mistica, celeste che media l'agire di Dio. L'inno di Giovanni 1,1-18 è impregnato di questa meditazione giudaica sulla sapienza: vi si vede bene sia chi crea il mondo («tutto è fatto per mezzo di. lui») sia l'ispiratore della Torah, la legge.
Nella memoria cristiana, Gesù prende la figura del sapiente. Il suo insegnamento abbonda di forme letterarie di tipo sapienziale: sentenze, proverbi, parabole, paradossi escatologici, ecc. Non c'è che da citare il paradosso «i primi saranno gli ultimi» oppure «chi si esalta sarà abbassato» per convincersene. Formule simili si trovano presso i rabbini.
Ma più ancora, è tutto il destino di Gesù che è visto come la sapienza che viene dal mondo di Dio, che condivide la condizione umana e poi torna alla sua dimora celeste. Si riconosce questo movimento di discesa/salita nel sottofondo dell'antico inno citato da Paolo nella Lettera ai Filippesi (2,6-1): «Lui che è di condizione divina non ha considerato come tesoro geloso l'essere uguale a Dio...». Si ammira una volta di più l'estrema audacia dei cristiani di quel tempo, che non esitavano a usare una struttura di pensiero forgiata dalla riflessione giudaica della sapienza per fare comprendere l'inaudito dell'incarnazione. Stessa constatazione per l'inno di Colossesi 1,12-20. Il luogo di questa riflessione è la scuola, dove si preserva l'insegnamento della sapienza del maestro, ma anche la comunità mistica, dove si esalta la comunione con colui che è l'incarnazione della sapienza eterna di Dio.
Le quattro traiettorie che ho delineato valorizzano, ciascuna, una dimensione di Gesù Signore. Esse non utilizzano lo stesso linguaggio. Il distinguerle permette di ben misurare le differenti sfaccettature della signoria riconosciuta al maestro dai primi cristiani.
Messe a confronto per esempio con la questione della sofferenza, hanno un'eco differente. Seguendo la prima traiettoria, si confessa la signoria di colui la cui venuta permetterà alla fine di fuggire ai mali del presente. La seconda permette di supplicare il guaritore compassionevole di prendere in carico la tristezza umana come ha fatto altre volte. Seguendo la terza si celebra il giusto la cui morte ci immette in una comunità di riconciliazione. La quarta traiettoria infine ci richiama il passaggio nel nostro mondo di colui nel quale Dio ha abitato la nostra condizione umana sin nella sua precarietà estrema. Gli scritti della seconda e terza generazione di cristiani hanno operato tra queste diverse traiettorie degli incroci e delle sintesi. Paolo mette in evidenza la croce come luogo della giustificazione del peccatore e come rivelazione dell'insondabile sapienza di Dio. Marco rilegge i miracoli a partire da una teologia della croce. Matteo dipinge Gesù come l'uomo dai poteri soprannaturali e come giudice della fine dei tempi. Giovanni tira tutte le conseguenze possibili di una cristologia della sapienza.
Le lettere ai Colossesi e agli Efesini rileggono il «mistero nascosto fin dal principio» (che è il radunarsi nella Chiesa dei giudei e dei pagani) nell'esaltazione di Cristo nel mondo. Solo l'Apocalisse di Giovanni sembra navigare in un'unica direzione, ma la lettura dell'avvenire ingloba la fragilità del Crocifisso (Ap 5,5-6): è all'«agnello immolato», dice il veggente dell'Apocalisse, che è stata rimessa l'autorità suprema. Per noi, oggi, chiarire le linee di forza che sottendono gli scritti del Nuovo Testamento ci permette di ritrovare le dimensioni nascoste della signoria di Gesù. Questo ci conduce così a costatare come le traiettorie si incrocino in composizioni ogni volta originali. I primi cristiani hanno adottato il contrario di una lingua fissa, di una espressione rigida. Un esempio da seguire.
(da Mondo e Missione, aprile, 1999)