“Qualcuno lottò con lui fino all’aurora” – leggiamo nella Genesi. Questo libro ci introduce nella liturgia cosmica della creazione, dove Dio, fino a quel momento, era l’unico celebrante. Disse: “«Sia la luce» e la luce fu” (Gen 1,3). È in questa luce che modella l’uomo – per poterlo vedere meglio o per poter essere visto egli stesso? - in seguito lo caccia dal paradiso, quando la sua creatura lo tradisce, manda il diluvio, stringe alleanza con Noè, chiama Abramo, manifesta predilezione per Giacobbe…, rivelandosi ogni volta in tutta la sua gloria temibile, ineffabile. Dopo la caduta, la luce si ritira, ma non sparisce completamente e le stesse tenebre raccolgono talvolta l’abito notturno della luce. Ma improvvisamente la catena delle teofanie si interrompe. Dio abbandona la sua potenza, la sua luce ed entra, per una notte sola, nell’anonimato. Diventa “Qualcuno”, uno Sconosciuto che si lancia in un combattimento enigmatico con colui che egli stesso aveva scelto e sul quale aveva riposto il suo sguardo paterno…
Lotta alla pari e sembra che non voglia prendere il sopravvento sull’essere mortale, infinitamente più debole. Sembra che non riesca nemmeno a uscire dal combattimento. Vuole che la traccia di questa lotta corpo a corpo rimanga per sempre. “Quando vide che non poteva vincerlo, gli toccò la giuntura dell'anca, e la giuntura dell'anca di Giacobbe fu slogata, mentre quello lottava con lui. E l’uomo disse: lasciami andare perché spunta l’alba”. (Gen 32, 25-26).
La Bibbia ci interpella dapprima con immagini che entrano nel cuore e nella memoria e vi piantano profonde radici. Fissiamo lo sguardo nell’oscurità e indoviniamo l’avvinghiarsi di due corpi, la lotta di due sagome sotto il tremore degli alberi… Attraverso il loro rumore spaventato ci giunge la domanda: perché il Signore ha rinunciato ad usare la sua forza, ad “incarnarsi” prima dell’Incarnazione, di abbassarsi al ruolo di aggressore che viene dalla notte? Su quale verità ha voluto ammaestrare il futuro patriarca, al cui nome assocerà la propria rivelazione, presentandosi a Mosè come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe (Es 4,5)? Quale lezione dà con questo estenuante combattimento nel sonno?
Il sonno (perché credo che questa lotta sia avvenuta quando la ragione di Giacobbe era addormentata) ci disarma, mette a nudo la nostra anima, libera tutte le forze nascoste in essa. Si pensa subito al subconscio, a questo “fondo” dell’uomo con il suo patrimonio melmoso, “appannaggio” della psicanalisi. Ma la parte “alta” dell’Io, quella che sfugge al controllo della ragione, è forse molto più ricca e voluminosa. La notte non apre solo ai demoni il nostro cuore, ma lo rende più accogliente, più ricettivo anche a Dio. Durante il giorno, il pensiero vigile cerca spesso di nascondere il male che abbiamo commesso, di convincerci che “quella cosa non può essere grave, non c’è da preoccuparsi”. Ma quando s’addormenta, il pensiero è troppo debole per muovere a sua difesa argomenti pesanti e logici: diventa infantile, leggero, volatile, ingenuo. Il nostro sistema di protezione è disinserito, e un altro sapere spunta da chissà dove, come un ladro nella notte. Questo sapere è pugnace e attivo, non ci dà tregua. Diventiamo così co-scienti che abbiamo un testimone che ci osserva, un accusatore che ci giudica e che non esiste protezione contro la sua verità… Questo germe del sapere è come un’ancora gettata nel subconscio che si aggrappa alla radice dell’immortalità…
“Quando Dio ha creato l’uomo, ha seminato in lui qualcosa di divino, una sorta di pensiero che contiene in sé la luce e il calore, il pensiero che illumina l’intelletto mostrandogli ciò che è buono e ciò che è cattivo: si chiama coscienza ed è la legge naturale” (Abbà Doroteo). La coscienza è propria della natura umana, sia credente che pagana. In fondo a questa natura, essa rivela una forza straniera che agisce in noi, nella maggior parte dei casi contro di noi… “Anche di notte mi istruisce il mio cuore”, esclama Davide (Sal 16,7).Questo “ammaestramento notturno” è più che intimo, ma ci viene dal fuori; è più che personale, ma preferisce rimanere anonimo. Non può dissociarsi da noi, come d’altronde noi non possiamo liberarci di lui perché ne abbiamo un bisogno infinito.
“Non ti lascerò andare, prima che tu mi abbia benedetto” (Gen 32, 26), dice Giacobbe. E nemmeno noi, se non vogliamo battere colui che ci ferisce alla “giuntura dell’anca” per impedirci di fuggire da lui. Non è così? Ora, noi non vogliamo fuggire, benché la parte razionale del nostro essere resista e non si lasci sopraffare tanto facilmente dall’aggressione di “qualcuno”. Il nostro sistema di difesa regge… “Sei stato forte contro Dio…” Questa forza è anche la nostra debolezza, laddove “si compie la potenza di Dio” (2Cor 12, 9); abbiamo bisogno di chi ci fa male, perché questo male porta alla grazia e alla benedizione.
La coscienza agisce quando i due avversari, le due parti della nostra esistenza, sono in lotta tra loro. La loro stretta è tale che non possono sciogliersi. L’uomo prende il sopravvento, allontana le frontiere del possibile che diventano più “larghe”, più adeguate, più moderne. Ma improvvisamente cede e la sua coscienza diventa la sua accusatrice, “il giudice incorruttibile” (S. Giovanni Crisostomo) o “il giudice penitente” (Albert Camus). A questo punto l’uomo è tormentato da una domanda: Chi sei tu che combatti contro di me? E perché, nonostante la ferita che hai lasciato sul mio corpo, non voglio lasciarti andare? Perché non posso vivere senza la tua benedizione? “Ti prego, svelami il tuo nome” (Gen 32, 29).
Questa domanda ne nasconde forse un’altra, che Giacobbe non osa pronunciare: “Rivelami la tua faccia”. Questa faccia l’ha già vista quando ha sognato la scala che arrivava fino al cielo (vedi Gen 28,12). Questo nome un tempo lo ha conosciuto, in paradiso. E combattendo cerca di ricordarsi di lui. Ma dopo la caduta che ha offuscato le nostre facoltà mentali, la conoscenza di Dio è diventata difficile e oscura, si è trasformata in una forza esteriore e lontana che si “coagula” in prescrizioni dure e irrevocabili. “Non avrai altro dio all’infuori di me…”, “Non ucciderai…” Eppure la legge, naturale o calata gratuitamente dall’alto, è solo una conchiglia che porta o precede la Parola e, dal momento della creazione, questa Parola non ha mai smesso di parlare al profondo dell’uomo. Ora, nell’economia della rivelazione, inizialmente Dio si è rifugiato nell’anonimato della natura umana, creata, occorre ricordarlo, “a sua immagine e somiglianza”: cioè con la Parola dentro il cuore, ma anche con la libertà sovrana di ascoltarla o no, di obbedirle o di combatterla. Siamo noi infatti a decidere dove porre le frontiere della nostra responsabilità di fronte a Dio e al nostro prossimo. Ma la legge - o la Parola che agisce nel nostro cuore – ha anche la libertà di varcare tali frontiere, di venire a lottare contro di noi, come l’Ospite notturno di Giacobbe. Vi si riconosce la stessa lotta, ma interiorizzata; rivissuta “in Spirito e verità” nell’affermazione di San Paolo: “Infatti quando degli stranieri, che non hanno legge, adempiono per natura le cose richieste dalla legge, essi, che non hanno legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge comanda è scritto nei loro cuori, perché la loro coscienza ne rende testimonianza…” (Rom 2, 14-15).
La legge non è semplicemente il “cratere bruciato” dove Dio ha parlato una volta o “il canale arido” riempito nei giorni antichi (Karl Barth) perché dove passa, il Signore rimane. La legge è piuttosto il suo primo soggiorno dentro l’uomo, il suo santuario che ha sempre bisogno dei nostri sacrifici. La legge si maschera quando si rivela e si manifesta quando si ritira nell’ombra. Ecco perché l’uomo non vuol guarire da questa ferita che il Visitatore inatteso ha lasciato sul suo corpo. È per lei che siamo quello che siamo. È la nostra “spina nella carne” (2Cor 12, 7), il dolore al cuore illuminato dalla luce escatologica, l’angoscia davanti al tribunale del secolo che verrà, ma anche fonte di purificazione e di santità.
San Giovanni Crisostomo assimila la coscienza al sentimento di vergogna provato dall’uomo nudo davanti al Signore in paradiso. Ma questo sentimento non crea forse anche un legame tra di loro? Il Regno di Dio è forse aperto solo agli uomini ben vestiti, sicuri di sé, che non hanno lottato contro Dio perché non l’hanno mai incontrato, né sentito il suo richiamo faccia a faccia? L’uomo, davanti a Dio, è un uomo ferito dalla vergogna, colpito dal dolore, straziato dal suo peccato e guarito dal miracolo della benedizione.
«Qual è il tuo nome?» Ed egli rispose: «Giacobbe». Quello disse: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto». (Gen 32, 27-28). « Israele », cioè colui a cui sarà data la legge, dal quale verrà il Messia, che avrà la Parola che era al principio della legge e della stessa vita… L’opera della coscienza cambia la “sostanza” umana che è simbolizzata dal nome, nello stesso modo in cui la Parola trasforma Israele in Chiesa. “Quelli che sono sotto la legge” (1 Cor 9, 20), quelli che scontano una pena della coscienza l’avranno espiata, saranno liberi, trasfigurati in questo Nome, l’unico necessario alla nostra salvezza…
Sant’Agostino ha detto: “benedetta sia la colpa che ci ha dato un tal Redentore!” Non potremmo aggiungervi: “benedetta sia la ferita che ci ha dato la coscienza”? È come una scintilla che vuol diventare fiamma, il pozzo da cui sgorga acqua viva, benché quest’acqua sia piuttosto amara… Ora, quest’amarezza fa parte del nostro “gusto” di uomini e ci pare che quelli che ne sono privi, che sono “segnati da un marchio nella propria coscienza” come dice San Paolo (1Tim 4, 2), non appartengano più alla famiglia umana.
Ma in fondo si può definire la coscienza? Essa è nei ricordi che bruciano, nei pensieri nemici che si perseguitano, nella Voce che chiama, nella verità che faticosamente si fa strada nella nostra anima, ma anche nella gioiosa preparazione a questo confronto impensabile: “Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata” (Gen 32, 30)…
Quando la sua faccia sarà rivelata a tutti.
Vladimir Zelinskij
(pubblicato in Vladimir Zelinskij, Rivelami il tuo volto, Cantalupa (To) 2010, p. 27)