Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Trentaduesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  1Re 17,10-16

Dal primo libro dei Re

In quei giorni, il profeta Elia si alzò e andò a Sarèpta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere».
Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo».
Elia le disse: «Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”».
Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 145

Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Seconda Lettura Eb 9,24-28


Dalla lettera agli Ebrei

Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
 
Canto al Vangelo (Mt 5,3)


Alleluia, alleluia.

Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.

Alleluia.

Vangelo Mc 12,38-44

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
 

OMELIA

Nel Tempio di Gerusalemme, luogo preposto all’unione con Dio, occorreva pagare una tassa per poterci entrare, attenendosi così al ‘do ut des’ commerciale di ogni religione: ‘io ti do e tu mi dai’.
A capo della casta religiosa al tempo di Gesù – dedita a ‘cantare i salmi e contare i soldi’ – vi erano gli scribi, da Gesù definiti, senza mezzi termini, ipocriti – ossia teatranti -, guide cieche, scriteriati, sepolcri imbiancati e razza di vipere. Rappresentanti dell’establishment religioso, fungevano da ‘guardiani del tempio’, arrogandosi il diritto di stabilire chi dovesse starne fuori o dentro.
Gesù fa saltare questa logica commerciale propria di una religione malata. L’essere umano non deve pagare nulla per entrare in rapporto col Mistero: ‘La grazia è senza sforzo’ dirà Simone Weil.
Tutto è già dato. Stiamo già partecipando alla vita divina, occorre solo prenderne coscienza. Nelle cose dello Spirito non c’è un dentro o un fuori, ma piuttosto un ‘emergerne’ in quanto già partecipi di quel medesimo Spirito.
Gesù non ha mai detto di dover morire per un dio, ma solo al proprio io (cfr. Mt 16, 24). E questo significa vivere il distacco dalla propria psiche portata a dettare la mappa con cui tendiamo a leggere il territorio della vita, distacco dai propri piccoli interessi che fanno perdere di vista l’altro, distacco dalla sete di potere che conduce a servirsi delle persone piuttosto che servirle.
“Morto come qualcuno risorgo come nessuno”. In questo essere ‘nessuno’, come insegna l’Ulisse omerico, ci si scoprirà finalmente risorti a sé stessi e salvi.

 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 03 Novembre 2024 10:19

Anatomia della tristezza (Arnaldo Pangrazzi)

«La vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama. Ci lasciamo dietro una scia di dolori» (V. Hugo).

La precarietà dei legami e l'inevitabilità dei distacchi genera tristezza e la presenza accentuata di questa emozione tende a riflettersi sul corpo, abbassando le difese immunitarie – con il rischio di contrarre malattie – e spegnendo l'energia vitale, come confermano le seguenti espressioni: «Ho il cuore spezzato»; «Vedo tutto nero»; «Ho il cuore in gola»; «Non sto più in piedi».

La postura stessa di chi è triste annuncia prostrazione: corpo ricurvo, fronte corrugata, sguardo spento, voce tenue o lamentosa, respiro corto, lacrime o singhiozzi, dolori muscolari, lentezza dei movimenti. Una tristezza temporanea o passeggera è benefica e si lenisce facendo un bel pianto, confidandosi con qualcuno, ritirandosi dalla scena, facendo ricorso ad attività fisiche e/o tuffandosi nel lavoro.

Il problema si pone quando l'emozione si cristallizza e sfocia nella depressione, richiedendo psicoterapia o farmaci. Con frequenza, la persona triste è succube di sensi di colpa e palesa sbalzi di umore, atteggiamenti passivi, difficoltà sociali e relazionali, incomunicabilità e demotivazione.

La sensazione di essere inadeguato e/o incompreso si ripercuote sulla salute anche con sintomi quali: affanno respiratorio, mancanza di appetito, insonnia, diminuzione della temperatura corporea e aumento di sensibilità al freddo.

Percorsi positivi

La tristezza, in sé, non è né positiva né negativa, dipende da come è gestita: può contribuire a vivere le relazioni in maniera più profonda o sfociare in comportamenti problematici.

Esaminiamo, innanzitutto, i benefici di questa emozione, riconoscendo che il suo primo frutto è la compassione. La vocazione di molti buoni samaritani (medici, infermieri, psicologi, sacerdoti, volontari...) nasce, spesso, all'ombra della tristezza che si prova dinanzi al patire degli altri e dal bisogno di alleviarla attraverso il proprio intervento.

Un secondo frutto della tristezza è il dono dell'introspezione. Chi è triste si guarda dentro, ricorda il passato e riflette su come districarsi dalla prigione dei suoi umori.

Un terzo frutto della tristezza è il bisogno di condivisione. Quando si prova un dispiacere o ci si sente soli, si avverte il bisogno di contattare una persona amica per lenire il peso di queste emozioni.

I gruppi di auto mutuo aiuto hanno lo scopo di promuovere la condivisione e la guarigione delle persone ferite.

Un quarto frutto della tristezza è il bisogno di intimità. Inizialmente, quando si è addolorati o mortificati, si è portati a distanziarsi dal coniuge, amico o collega. Dopo un tempo di ritiro, il magone della solitudine spinge a riallacciare i rapporti, cicatrizzare le ferite e sperimentare di nuovo la vicinanza. Questo obiettivo si raggiunge con l'umiltà, lasciando cadere l'orgoglio e perdonandosi a vicenda.

Un quinto frutto della tristezza è la creatività. Molte persone trasformano la tristezza in espressioni creative, quali scrivere poesie, dipingere, comporre musica, ideare cose artistiche. Creatività intesa come capacità di generare "cose nuove" sublimando il proprio cordoglio.

Percorsi problematici

I modi controproducenti di gestire la tristezza riguardano:

L'isolamento e l'incomunicabilità: questi comportamenti possono disturbare i rapporti, acutizzare il travaglio, consumare preziose energie mentali e psichiche.

L'abbandono al pessimismo o al vittimismo: i soggetti filtrano gli eventi e le relazioni in un'ottica di catastrofismo e insoddisfazione cronica.

La tendenza a rifugiarsi nel sogno e nella fantasia, per compensare la noia o le presenze percepite banali o non rispondenti alle proprie attese.

L'inclinazione alla depressione dinanzi ai disappunti di un'esistenza orfana di speranza.

Il rischio che il crescente disagio interiore si trasformi in problemi mentali e psichici che richiedono l'assistenza sanitaria.

Un'energia umanizzante

Illudersi di eliminare la tristezza è come pretendere di eliminare la notte dal giorno. Goethe affermava che: «Se non hai mai mangiato con le lacrime agli occhi, non conosci il sapore della vita».

La tristezza ha molto a che fare con la vita, l'amore, gli eventi incresciosi, le delusioni nel rapporto con Dio, gli altri e se stessi. Dove c'è amore c'è dolore e il dolore purificato si trasforma in accresciuta capacità di amare.

Essere umani vuol dire offrire ospitalità a questo sentimento che serve a renderci più compassionevoli e sensibili alle vulnerabilità proprie e del mondo circostante.

 

Arnaldo Pangrazzi

 

(tratto da Missione Salute, n. 6/2021, pag. 64)

 

 Capitolo III

Il Crocifisso, volto teologico del Risorto

Per capire quale sia questo nuovo significato occorre prima di tutto rinsaldare il legame tra crocifissione e resurrezione, legame che spesso si è portati a sciogliere o quantomeno a non considerare. Se è vero che «senza risurrezione la morte di Gesù dimostrerebbe soltanto la non-esistenza di Dio»95 – o, peggio, la sua impotenza di fronte al male – è altrettanto vero che concentrarsi sulla resurrezione senza riflettere adeguatamente sulla crocifissione rischia di gettare nell’ombra aspetti fondamentali dell’economia della redenzione e delle modalità d’azione di Dio. Scrive al riguardo G. Rossé: «Certamente il punto di partenza della fede cristiana, e di conseguenza dell’annuncio apostolico, è la risurrezione di Gesù. [...] Ma annunciare dinanzi a Israele che Dio ha risuscitato Gesù implica necessariamente proclamare come Messia e Signore un morto in croce. Chi annuncia Gesù risorto deve affrontare lo scandalo della croce. Il Crocifisso è parte integrante del messaggio pasquale. L’attenzione della giovane Chiesa non poteva non portarsi su quel Crocifisso che la Scrittura dice “maledizione di Dio”, e che Dio ha risuscitato ponendosi totalmente dalla parte di quel maledetto. Ciò che per l’ebreo è scandalo, per la fede cristiana diventa la rivelazione suprema di chi è Dio. È nel Crocifisso, considerato come respinto da Dio, che si manifesta paradossalmente la verità ultima su Dio e sul suo agire a favore dell’umanità. Il Crocifisso è il volto teologico del Risorto»96.

Paolo concentra l’attenzione proprio sulla morte di Gesù in croce, attribuendole una funzione critica nei confronti dei sapienti e dei forti di questo mondo: la croce svela l’illusione della loro forza e sapienza; Gesù crocifisso rovescia completamente la gerarchia dei valori: Dio si rivela là dove l’uomo non lo cerca, nella debolezza e nella morte; il Cristo sulla croce stravolge l’immagine di Dio che l’uomo religioso tende a costruirsi, quella di un Dio potente, glorioso, spesso lontano e tirannico. Come dice Udo Schnelle: «Per Paolo, la croce di Cristo è il criterio teologico decisivo; egli non argomenta sulla croce, ma parla a partire dalla croce»97. Nella morte del Figlio, l’amore divino ha preso definitivamene dimora, ha stabilito la sua tenda; Gesù crocifisso è il luogo della conoscenza ultima del vero Dio. «Gesù crocifisso – scrive ancora Rossé – è la via migliore che Dio abbia potuto scegliere per raggiungere il Suo fine di salvezza: penetrare fino in fondo nella condizione umana, per rivelarsi vicino all’umanità nella sua lontananza da Dio e salvarla dal di dentro portandola in Lui, al suo compimento escatologico»98.

L’adesione incondizionata al disegno del Padre ha condotto Gesù a solidarizzare totalmente con l’assenza di Dio che caratterizza la condizione non escatologica e di peccato dell’umanità. Il Crocifisso rivela che ogni situazione di non-Dio può essere trasformata in comunione piena con Dio. La croce di Cristo mette in crisi tutti i sistemi religiosi costruiti dall’uomo per conoscere e raggiungere l’Essere Supremo99 in questo senso la passione di Gesù è per molti versi l’opposto del sacrificio: se i sacrifici sono un momento di incontro del fedele con Dio (cfr. Es 20,22 – 26)100, la croce di Cristo è un momento (e un luogo) in cui Dio sembra del tutto assente; se il sacrificio è una pratica cultuale con cui l’uomo offre doni alla divinità per ringraziarla o guadagnarne i favori, sul Golgota appare chiaro che pratiche di questo genere, peraltro messe in atto dall’élite religiosa del popolo eletto, non solo sono vane, ma hanno esiti disastrosi: il deicidio. Gli sforzi che i più religiosi tra gli uomini compiono per difendere Dio si traducono – paradosso dei paradossi – nell’uccisione di Dio.

Marco Galloni

 

95 G. Rossé, op. cit., p. 107.

96 Ivi, p. 17.

97 U. Schnelle, Paulus. Leben und Denken, Walter de Gruyter GmbH & Co., Berlin, 2003, p. 209.

98 G. Rossé, op. cit., p.19.

99 Ivi, pp. 19 – 21.

100 Cfr. G. Deiana, op. cit., p. 51.

 

testo precedente

 

Trentunesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dt 6,2-6

Dal Libro del Deuteronomio

Mosè parlò al popolo dicendo:
«Temi il Signore, tuo Dio, osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti do e così si prolunghino i tuoi giorni.
Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica, perché tu sia felice e diventiate molto numerosi nella terra dove scorrono latte e miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze.
Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 17

Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.

Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.

Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.

Seconda Lettura Eb 7,23-28

Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, [nella prima alleanza] in gran numero sono diventati sacerdoti, perché la morte impediva loro di durare a lungo. Cristo invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio: egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno, prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte, offrendo se stesso.
La Legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti a debolezza; ma la parola del giuramento, posteriore alla Legge, costituisce sacerdote il Figlio, reso perfetto per sempre.
 
Canto al Vangelo (Gv 14,23)


Alleluia, alleluia.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.

Alleluia.

Vangelo Mc 12,28-34

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
 

OMELIA

Si avvicina a Gesù uno scriba, un’autorità nel gotha religioso di quei tempi. Il suo insegnamento era ritenuto talmente importante da essere considerato infallibile, voce terrena della medesima volontà celeste. 

Questi pone una domanda tendenziosa all’uomo di Nazareth: “qual è il primo di tutti i comandanti lasciatici da Dio?”. Tendenziosa perché finanche un bimbo sapeva che il primo comandamento – a cui Dio stesso obbedisce essendosi riposato in quel giorno – è l’osservanza del sabato. In un passo dell’Esodo si ha Dio che ordina addirittura di mettere a morte chi avesse disatteso il precetto. 

Gesù glissa, non risponde come il mondo religioso si sarebbe atteso, e cita il grande Credo d’Israele, lo Shemà Israel, tratto dal Libro del Deuteronomio (6, 4-5). E spiazza lo scriba. 

“Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Interessante che venga anzitutto ‘comandato’ il silenzio: ‘ascolta’! Non ‘fare, o non fare’ per la divinità, ma ‘ascoltare’, dar spazio, lasciarsi raggiungere da Lui, per essere da Lui trasformati per poi agire come Lui. 

C’è ancora un aspetto interessante: Gesù cita testualmente Deuteronomio ma aggiunge: ‘con tutta la mente’, a dirci di essere ragionevoli nell’atto di fede, coltivare lo studio, l’approfondimento delle cose di Dio. Una fede senza ragione è scriteriata, fideismo, superstizione, becero devozionismo. 

Gesù però non si limita a citare lo Shemà, s’appresta a dire che vi è un secondo comandamento fondamentale. E questa volta lo recupera dal libro del Levitico: ‘amare il prossimo come se stessi’, tradotto potremmo dire: prendersi cura perché gli altri possano giungere a vivere in pienezza, alla luce di sé

Con questa aggiunta, Gesù vuole evitare che si caschi in una tentazione molto diffusa allora come oggi, ossia che vi possa essere un amore totalizzante per la divinità, fatta di culti, riti, sacrifici, preghiere fine a sé stesso. Dio va amato certo con tutto l’essere, ma la modalità è l’amore verso gli altri! Questo è il comandamento: l’amore di Dio inverato nell’amore al prossimo. 

Quelli che pensavano che l’amore verso la divinità s’esaurisse in un commercio devozionale con essa, Gesù li aveva appena scacciati dal tempio, definendoli ladri (cfr. Mc 11, 17). 

Ebbene, il Nuovo Testamento su questo è chiarissimo: la strada più breve per giungere a Dio è passare dai fratelli. 

Marco riguardo i due comandamenti afferma un primo e un secondo, ma alla fine dice: «non c’è comandamento (uno solo) più grande di questi», a dire che il comandamento è unico. 

Matteo (22, 39) dirà ‘il secondo è simile a quello (lo Shemà); Luca addirittura fonda insieme i due precetti (10, 27). 

In Giovanni Gesù va ancora oltre: «Vi do un (uno solo) – comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (13, 34). E Paolo: «Pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13, 8-10). 

Alla fine lo scriba cede, e si complimenta con Gesù, compiendo un passaggio formidabile rispetto la religione comune: “L’amore verso i fratelli vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (v. 33), considerati allora fondamento della religione, quella esteriore e commerciale, intenta solo ad estorcere alla divinità un ritorno personale con pratiche devozionali. 

La religione non si risolve in un rapporto verso l’Alto, occorre l’uscita verso l’altro, la cura dei fratelli. In fondo lo Scriba conosce molto bene la Scrittura, infatti ne cita due passaggi: 

“Praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio” (Pro 21, 3) 

Voglio l’amore – dice Dio – e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6, 6; cfr. Mt 9, 13; 12, 7). 


 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 03 Novembre 2024 09:50

Trentesima domenica del tempo ordinario. Anno B

Trentesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Ger 31,7-9

Dal Libro del profeta Geremia

Così dice il Signore:
«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,
esultate per la prima delle nazioni,
fate udire la vostra lode e dite:
“Il Signore ha salvato il suo popolo,
il resto d’Israele”.
Ecco, li riconduco dalla terra del settentrione
e li raduno dalle estremità della terra;
fra loro sono il cieco e lo zoppo,
la donna incinta e la partoriente:
ritorneranno qui in gran folla.
Erano partiti nel pianto,
io li riporterò tra le consolazioni;
li ricondurrò a fiumi ricchi d’acqua
per una strada dritta in cui non inciamperanno,
perché io sono un padre per Israele,
Èfraim è il mio primogenito».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 125

Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.

Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni.

Seconda Lettura Eb 5,1-6

Dalla lettera agli Ebrei

Ogni sommo sacerdote è scelto fra gli uomini e per gli uomini viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati.
Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo.
Nessuno attribuisce a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non attribuì a se stesso la gloria di sommo sacerdote, ma colui che gli disse: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», gliela conferì come è detto in un altro passo:
«Tu sei sacerdote per sempre,
secondo l’ordine di Melchìsedek».
 
Canto al Vangelo (Cf 2Tm 1,10)


Alleluia, alleluia.

Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

Alleluia.

Vangelo Mc 10,46-52

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
 

OMELIA

Siamo ciechi, perché presumiamo di vederci benissimo. 

Presumiamo che ciò che i nostri occhi sensibili attestano, sia tutta la realtà. 

Ma non è così. Ce lo ricorda il famoso aforisma di Saint-Exupérie: ‘L’essenziale – ciò che veramente conta – è invisibile agli occhi’. Sta da un’altra parte. La vita sta da un’altra parte. 

Ecco perché le grandi tradizioni spirituali parlano di un ‘terzo occhio’, ossia di una possibilità altra di rapportarsi col mondo, con la realtà, con gli altri. Per il Taoismo esistono addirittura ottantuno livelli diversi di sguardi sulla realtà. E paradossalmente, i veri saggi, gli illuminati e i lungimiranti nell’antichità erano spesso ciechi. 

Occorre chiudere gli occhi sul mondo per cominciare a percepirlo nella sua verità. 

Chiudere con i nostri sensi superficiali, le nostre sensazioni, i nostri giudizi egoici: mi piace-non mi piace, mi è favorevole-mi è contro, giusto-sbagliato, bene-male… 

Il primo passo da fare non sarà dunque quello d’imporsi di ‘cambiare’ la realtà a tutti i costi, ma guardarla piuttosto con occhi diversi per giungere a viverla con un atteggiamento altro. 

Qui potrà cominciare un autentico cammino di fede. Vivere la vita con fede vuol dire infatti sapere che il male di cui si è spettatori e vittime non è l’ultima parola ma solo la penultima; che non occorre opporsi al malvagio, ma piuttosto rispondergli facendo il bene (cfr. Mt 5, 39); che alla tenebra – il male – non va fatta violenza per disintegrarla, ma è sufficiente avvolgerla col bene, con la luce e quella si dissolverà. Vivere con fede significa guardare il mondo come sotto il segno della croce, ossia amato da Dio e quindi già salvato, destinato a un porto di bene. 

Cominceremo un cammino di illuminazione quando riconosceremo di essere ciechi, quando prenderemo coscienza di essere ammorbati da una mentalità omicida e suicida, incentrata cioè sul potere, sull’avere e sul successo. 

Saremo illuminati quando anche noi come Bartimeo cominceremo a gridare la nostra malattia esistenziale, quella che ci ha relegati paralizzati ai bordi della strada dell’esistenza. Quando scopriamo che solo nella nostra povertà e nel nostro peccato possiamo fare esperienza della salvezza, e che solo perché tenebra possiamo essere raggiunti dalla Luce scoprendoci finalmente figli amati e donne e uomini illuminati. 


 
Paolo Scquizzato
 
Ventinovesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Is 53,10-11

Dal Libro del profeta Isaia

Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 32

Donaci, Signore, il tuo amore: in te speriamo.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell’amore del Signore è piena la terra.

Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Seconda Lettura Eb 4,14-16

Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
 
Canto al Vangelo (Mc 10,45)


Alleluia, alleluia.

Il Figlio dell’uomo è venuto per servire
e dare la propria vita in riscatto per molti.

Alleluia.

Vangelo Mc 10,35-45

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
 

OMELIA

«Cosa volete che io faccia per voi?» (v. 36), chiede Gesù ai suoi discepoli. 

«Vogliamo la gloria», rispondono loro. (v. 37). 

«Voi non sapete quello che chiedete», ribatte loro Gesù (v. 38)

Mentre noi chiediamo la gloria per diventare grandi, Gesù indica la via del farsi piccoli prendendosi cura di qualcuno. 

Alla nostra ‘vana-gloria’ Gesù indica l’unica gloria possibile, quella della croce: stazione ultima dell’amore. 

Dirsi cristiani significa acquisire una postura esistenziale altra rispetto a quella del mondo. 

«Tra voi però non è così» (v. 43). Tra voi deve affermarsi un altro stile di vita, quello fondato sul bene, sulla luce, unica possibilità perché le tenebre possano dissolversi. Uno stile incentrato sulla giustizia sociale e l’equità. Sul perdono e su una cultura di pace. 

Gesù indica un capovolgimento da vertigine: più si esce dal proprio ego più si è grandi. Più si è grandi più ci si mette a servizio. 

“Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (v. 44). Viene usato qui il termine ‘schiavo’: il servo è colui che “lavora” per l’altro; lo schiavo “appartiene” all’altro. L’amore è appartenenza al cuore dell’altro, non vita da mestierante. 

Dare la vita’ significherà dunque sia morire che dare alla luce, far nascere. Perché l’amore alla fine consiste in questo: essere disposti a morire perché l’altro possa cominciare finalmente a vivere.

 
Paolo Scquizzato
 
Ventottesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Sap 7,7-11

Dal Libro della Sapienza

Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile.

 

Salmo Responsoriale Dal Salmo 89

Saziaci, Signore, con il tuo amore: gioiremo per sempre.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!

Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.

Si manifesti ai tuoi servi la tua opera
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda.

Seconda Lettura Eb 4,12-13

Dalla lettera agli Ebrei

La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore.
Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto.
 
Canto al Vangelo (Mt 5,3)


Alleluia, alleluia.

Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.

Alleluia.

Vangelo Mc 10,17-30

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
 

OMELIA

«Gesù è il maestro del desiderio, colui che insegna ad ‘amare quelle assenze che ci fanno vivere’» (Rainer Maria Rilke).
Il personaggio del nostro brano pare avere tutto: è ricco (v. 22b), è giovane (secondo il parallelo di Matteo), è nobile (secondo quello di Luca), è un pio osservante… ma vive nell’angoscia.
Si può essere anche molto religiosi ma vivere da tristi. Perché una religiosità che non intacca la vita perché solo precettistica, da una parte non ha nulla a che fare con Dio, dall’altra produce frustrazione.
Questo tale – potremmo dire – è tutto ‘casa e chiesa’, ma la vita sta da un’altra parte. Ecco, Gesù è l’uomo che fa incontrare strade parallele. A questo tale Gesù dice: ‘guarda che se non metti in relazione la tua vita concreta con le esigenze del Vangelo, ossia con la vita dell’altro, non potrai mai giungere alla pienezza di te, non saprai mai chi sei veramente’.
Il possesso dei beni e il dirsi cristiani, o peggio ancora ‘religiosi’, non è polizza per la felicità.
«Vendi quello che hai e dallo ai poveri…» (v. 21). Gesù qui non invita alla povertà – che sarà sempre una disgrazia oppure scelta personale – ma alla condivisione: quello che possiedi trasformalo in relazione per il bene dell’altro e comincerai a vivere anche tu. La figura tipologica del ‘giovane ricco’ evangelico può dirsi tutt’al più un uomo felice ma ancora lontano dalla salvezza, ossia dall’esperire il cuore compiuto, realizzato.
Credo che questo brano ci domandi in modo radicale: cosa stai cercando? La felicità che in ultima analisi coincide con tutto ciò che non porta in sé l’ombra della paura, della sofferenza, del conflitto, o piuttosto l’esperienza della salvezza, ovvero trovare la risposta definitiva al senso della tua vita?

 
Paolo Scquizzato
 
Ventisettesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Gen 2,18-24

Dal Libro della Genesi

Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda».
Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse.
Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.
Allora l’uomo disse:
«Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta».
Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne.

 

Salmo Responsoriale Dal Salmo 127

Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.

Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.

La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.

Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.

Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!

 
Seconda Lettura Eb 2,9-11

Dalla lettera agli Ebrei

Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!
Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente.
Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage.
Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
 
Canto al Vangelo (1Gv 4,12)


Alleluia, alleluia.

Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi
e l’amore di lui è perfetto in noi.

Alleluia.

Vangelo Mc 10,2-16

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.
 

OMELIA

«Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa» (Dt 24, 1).
Questa è la Legge di Mosè come è riportata nell’Antico Testamento. E Gesù la conosce bene. Gesù sa cosa vuol dire ‘trovare in lei qualcosa di vergognoso’. Può essere anche solo un pane lasciato bruciare nel forno, una sciocchezza qualsiasi, ossia un qualsiasi pretesto per allontanarla e unirsi ad un altra più giovane e avvenente. E Gesù sa ancor meglio cosa significhi ‘una donna mandata via di casa’ dal proprio marito-padrone: trasformarsi in selvaggina, ovvero una donna morta.
Ecco perché per Gesù non c’è Legge di Mosè che tenga, non c’è Legge divina che possa rimanere in piedi di fronte l’offesa ufficializzata ai danni dell’anello più debole e inerme di una società patriarcale, maschilista e brutale. Gesù non può permettere che una mentalità malata – seppur di diritto ‘divino’ – possa distruggere una vita indifesa.
È solo con questo background che si possono comprendere le parole di Gesù: «dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (v. 9). Gesù non è contro lo statuto del divorzio! Egli si pone semplicemente dalla parte debole della società, di chi non conta, di chi è considerato abito da usare e corpo da abusare. Non è un caso che nei versetti successivi Gesù ribadisca tutto questo invitando e abbracciando proprio i bambini, secondo anello debole e ‘inutile’ di ogni società.
«L’uomo non divida…». Gesù invita a non dividere, a non scartare e allontanare mai una vita solo per il proprio egoistico e basso tornaconto. L’altro non può mai essere ridotto a strumento per realizzare i propri sogni e tanto meno a soddisfare i propri bisogni. Per questo Gesù invita a non dividere, perché dividere è il verbo della morte. Il diavolo – dia-ballo / colui che separa – è il divisore per antonomasia. L’amore di contro accoglie, congiunge e fa progredire.
Poi la storia di ogni giorno ci narra che possono verificarsi delle separazioni, delle divisioni, che vanno a sancire la fine anche di amori grandi e importanti. A quel punto, di fronte all’abisso del cuore umano, bisogna fermarsi con infinito rispetto, sapendo che ogni amore per quanto eterno è pur sempre frangibile.

 
Paolo Scquizzato
 

Le esperienze religiose e spirituali più profonde sono accomunate dalla consapevolezza che il divino si manifesta in maniera sfuggente e resta irriducibile a qualsiasi tentativo di circoscriverlo nelle categorie del pensiero umano. Le fasi iniziali di ogni religione si giocano intorno al binomio rivelazione-nascondimento: il rivelarsi di Dio è sempre ri-velarsi, nascondersi nuovamente allo sguardo. Ci sono religioni che restano, del tutto o in parte, segrete; persone costrette a professare la propria fede nell’ombra o a scegliere tra l’abiura e il martirio; credenti che, nella ricerca dell’Assoluto, scelgono di abbracciare una vita nascosta, lontana dal mondo. Tracciando un percorso tra le religioni orientali, i testi biblici e il cristianesimo, il volume indaga le diverse declinazioni della spiritualità del nascondimento. In particolare, l’esempio di Jean Claude Colin, fondatore dei Padri Maristi, svela la fecondità attuale della vita nascosta, che non significa rifugiarsi nella solitudine e rifiutare l’azione, ma vivere la propria condizione, qualunque essa sia, in piena consapevolezza e abbandono fiducioso alla volontà di Dio.

Autore: Faustino Ferrari

Titolo: Il nascondimento nell'esperienza religiosa

Editrice: Morcelliana (Brescia)

anno: 2024

pagine: 368

prezzo: € 29,00

 

Mi ricordo un’immagine quasi commovente che ho trovato sulla pagina FB di un sacerdote ortodosso italiano: una pia vecchietta al momento del voto per lo zar-presidente fa il segno della croce benedicendo l’urna elettorale. Credo che l’autore dellafotografia non abbia sospettato che in questo modo ci offre un ritratto perfetto della dittatura. Non quella di una tirannia primitiva e violenta, ma quella della padronanza vera e onnipresente che agisce nelle anime. Sotto l’apparenza di una “sancta simplicitas” il televisore-Putin con le mani del manipolatore-Putin vota per il dittatore-Putin. Non a caso il sistema totalitario preferisce chiamarsi democrazia popolare, perché il capo (oppure il partito) unico e il suo popolo fanno la stessa cosa. Almeno nel mondo virtuale. Nel mondo reale il padrone non chiede a nessuno il permesso di gettare il proprio popolo nelle fiamme della guerra, ma la guerra si fa sempre nel nome della patria, con un coinvolgimento della sua popolazione non tanto sul piano politico (dove la gente non è mai ammessa), ma su quello prima di tutto verbale, dottrinale, appassionato e anche religioso. Proprio l’omogeneità ideologica della società costituisce il nucleo del regime totalitario, sia sovietico, sia attuale, basato sull’identità comune dell’Uno e degli altri. Chi non vuole iscriversi in questa personalità collettiva va defenestrato, emarginato, esiliato, eliminato in un modo o nell’altro.

La guerra di Putin, dunque? Sì e no. Certo, solo Putin ha dato l’ordine per cominciare l’Operazione militare speciale che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto essere breve. Tre giorni per prendere Kiev. Tre settimane per schiacciare tutta l’Ucraina. Poi l’osanna della Russia intera, come fu dopo la presa della Crimea, e l’umiliazione dell’Occidente che si morderà le mani nel suo rancore impotente. Poi il restauro graduale dell’impero russo, detto storico, di cui l’Unione Sovietica era solo una tappa provvisoria. Moldova, Georgia, preparatevi! Paesi Baltici, perché no? Se l’Occidente lascia l’Ucraina, lascerà anche la Finlandia che fino al 1918 faceva parte dell’impero russo. L’Europa avrà paura di opporsi alla superpotenza nucleare. Tutti si ricordano la dichiarazione di Putin che la caduta dell’URSS rappresentassela tragedia più grande del XX secolo. Non la Seconda guerra Mondiale con l’Olocausto, non il Gulag. Chi riesce a capovolgere questa tragedia riceverà il premio dalla storia.

L’operazione, però, non è andata secondo i progetti iniziali. Essa è diventata la guerra senza fine che ha coinvolto nel suo corso tutto il paese. Non soltanto militarmente, ma prima di tutto ideologicamente. Nella Federazione Russa attuale non c’è più un’ideologia di Stato di tipo sovietico (proibita tra l’altro anche dalla Costituzione, ancora eltsiniana) ma c’è un’ideologia in atto, il cui pilastro più importante è la vittoria. La vittoria sovietica nella Guerra patriotica è festeggiata il 9 maggio ogni anno con una solennità liturgica crescente mentre la partecipazione degli Alleati è sempre più oscurata. Questa festa non fa accennoalle vittime incalcolabili (nessuno sa la cifra esatta, ma non meno di 30 milioni), ma si basa sempre sulla gloria, sull’invincibilità della Russia. La vittoria è ormai la parte principale di una religione di Stato; tanti bambini nell’età della scuola materna portano con orgoglio l’uniforme militare, mentre mamme sorridenti fanno spesso la gitausando carrozzelle costruite come piccoli carri armati. Nelle strade si possono vedere automobili con sopra l’iscrizione “A Berlino!”. Certo, non tutta la popolazione è tentata da quest’ossessione (di una vittoria indemoniata, secondo l’espressione di un sacerdote ortodosso), ma il vento impetuoso che soffia sulle acque russe è così.

Quel vento soffia anche sulla Chiesa ortodossa perché la guerra in corso ha anche una sua dimensione ecclesiale. Secondo una formula famosa, la guerra, è la continuazione della politica con altri mezzi. Tra questi mezzi il primo posto è occupatodalla demonizzazione del nemico, anche se inventato. Non eravamo noi ad aver attaccato il paese vicino, ma l’Occidente l’ha fatto con le mani ucraine. Noi difendiamo la nostra patria dall’aggressione occidentale, come abbiamo fatto da sempre. Ci difendiamo dai missili che nel futuro, forse, sarebbero stati messi ai nostri confini. Difendiamo la nostra gente dalla corruzione morale, dall’omosessualità totale e infernale, dalla loro democrazia falsa e ipocrita. Se le nostre bombe cadono sugli ospedali, sui teatri, le chiese ed i sistemi energetici in Ucraina (soprattutto sulle città russofone Kharkiv, Odessa, ma anche Kiev) e se lasciamo le città rase al suolo, le bambine stuprate, le tracce delle torture, lo facciamo di nascosto solo per difendere la Santa Rus’ dall’Anticristo.

Di più: difendiamo gli ucraini stessi dal loro ucrainismo, perché la difesa della patria in un caso si chiama patriottismo, nell’altro - nazismo. Come se gli ucraini fossero soltanto dei russi smarriti che vanno puniti per aver ceduto all’appello delle sirene occidentali. Il nome stesso Ucraina è sbagliato, il vero nome suo è Novorossia, la vecchia Russia Nuova. Tutto questo è stato apertamente scritto e proclamato dal Concilio Mondiale Popolare Russo che non è un organo ecclesiale, ma il cui presidente è il patriarca Kirill. Per chi ha un po’ di chiarezza cartesiana nel cervello, si tratta di una pura leggenda politica che comunque funziona. Le guerre non si fanno con le chiarezze, ma con i miti.

Si può capire che sotto un regime dittatoriale la posizione pubblica del capo della confessione più grande del paese non possa essere completamente indipendente. Poca gente è pronta al martirio, come il metropolita di Mosca Filippo, nel XVI secolo, che si è ribellato contro le atrocità di Ivan il Terribile ed è stato perciò ucciso. Ma leggendo i numerosissimi interventi pubblici del patriarca si vede come egli davvero creda alla giusta causa di questo massacro. Nessun dittatore ha affermato quella recente novità teologica secondo cui i caduti russi di questa guerra siano già liberati da tutti i loro peccati e vadano subito nel Regno dei Cieli. Ciò è molto simile all’assoluzione dei peccati garantita ai crociati. La logica dei dittatori, però, è estranea ad argomenti del genere. Nello stesso tempo Sua Santità non ha pronunciato nemmeno una parola di compassione nei confronti delle vittime ucraine della guerra che rimangono ancora, almeno dal suo punto di vista, nel suo ovile ecclesiale.

Così la mitologia della guerra va avanti e si riveste della teologia. Oggi la Russia si proclama il Katechon (2 Ts. 2,6-7), colui che tiene. La Russia si tiene contro l’Occidente come l’Anticristo collettivo e non si contano le vittime di questa battaglia cosmica. A tutti paesi belligeranti mancano i soldati. La Russia chiede che i carcerati - con qualsiasi crimine sulle spalle - prendano le armi, più uno stipendio oltre le stelle, in cambio di un servizio di sei mesi al fronte, per poi essere liberi. La metà di loro ha già perso la vita. Un’altra metà torna in libertà e uccide di nuovo. Qualsiasi protesta in Russia, anche un semplice “no alla guerra” pronunciato pubblicamente può costare qualche anno di galera. Per cosa? Per calunnia alle forze armate o addirittura per terrorismo. La violenza statale ha infettato anche la Chiesa; il patriarca personalmente ha composto la preghiera per la vittoria e l’ha imposta come obbligatoria a tutti i chierici della Chiesa Russa. Chi si rifiuta di leggerla è sospeso o anche ridotto allo stato laicale. La maggior parte dei sacerdoti la legge in buona fede, ma altri - non si sa quanti - col cuore spezzato. Essi sono messi di fronte ad una scelta insopportabile: andare contro la propria coscienza o perdere tutto, condannando la propria famiglia alla miseria. A tutti i crimini della guerra se ne aggiunge un altro: la confusione totale dei cervelli e la violenza sulla coscienza, l’asservimento della verità.

La verità da sempre è la prima vittima della guerra, come anche la nostra capacità di compassione, di empatia, di partecipazione al dolore di un altro essere umano si trovano paralizzate. Un’altra vittima è la nostra facoltà di guardare le cose come sono: un male demografico. Le perdite russe sono davvero terribili (e i cadaveri dei soldati russi sono spesso abbandonati sui campi di battaglia), una rovina economica imminente, una macchia di sangue sullo stesso nome “Russia” nel mondo. Gli sforzi enormi che la guerra chiede alla Federazione Russa minacciano la sua esistenza stessa come paese unito e multinazionale; bisogna essere ciechi per non accorgersi di questo pericolo.

Immaginiamo: dopo aver sacrificato un milione dei suoi soldati, che ormai non daranno figli, dopo aver provocato un’immigrazione di massa dei migliori specialisti e scienziati, dopo aver mandato migliaia e migliaia di giovani che non volevano uccidere in prigione, dopo aver speso mille miliardi di euro per la vittoria militare, dopo aver imposto al paese conquistato un governo fantoccio e la bandiera russa sventolare a Kiev e dappertutto, la Russia finalmente avrà vinto. Con quale guadagno? La conquista di uno spazio completamente rovinato e imbevuto d’odio fino alla gola verso gli invasori che durerà per secoli? Questa guerra non si fa per il guadagno, ma per sconfiggere un nemico inventato. La sagoma di questo nemico cresce, chiude ogni nostra facoltà di riflettere. Una capacità di giudizio sobrio, però, è la virtù più apprezzata nell’Ortodossia.

Qui sta il punto: l’infezione della fede in Cristo con la follia dell’ideologia statale. La confusione della fede ortodossa con la menzogna e gli orrori del regime. Non si tratta di una semplice collaborazione o obbedienza alle circostanze che non si possono cambiare, ma proprio del danno portato all’Ortodossia stessa, del miscuglio del Vangelo con la macchina della propaganda putiniana, ben ingrassata con i soldi dello Stato e che lavora senza sosta. La trasformazione della fede ortodossa in una sorta di religione civile con la sua Santa Rus’, un concetto inventato nel XIX secolo, contro il mondo anglosassone, come nemico eterno e così via?... Con questi fantasmi, con i droni che cadono sui civili in Ucraina e i soldati russi che tornano a migliaia a casa nelle bare di zinco?

Questa guerra si fa non per i soldi, ma per l’orgoglio nazionale. Per il territorio imperiale che resta sempre nostro. Per provare al mondo che siamo i più forti, i più veri, i più perfetti. Quest’orgoglio si può superare solo con l’impegno spirituale che si trova proprio nel patrimonio della fede ortodossa: il pentimento. Perché la spiritualità adatta per una singola persona non è compatibile con una comunità, con la Chiesa di Cristo? L’unico vantaggio che possiamo avere in questo disastro è il risveglio, una nuova spiritualità che crede nell’uomo – il quale è secondo le parole di Sant’Ireneo “la gloria di Dio” – e che ogni essere umano è più prezioso per il Signore di qualsiasi impero.

Vladimir Zelinsky

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