Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Per quanto riguarda i sette grandi sacramenti, la liturgia non si accontenta di osservare le norme minimali per la loro "validità" giuridica, cioè la verità della materia e l'esatta pronuncia della formula che l'accompagna; sebbene tutto questo sia determinante per fare ciò che intende fare la Chiesa. La liturgia si preoccupa anche (ed è la sua caratteristica specifica) della validità o efficacia pastorale. Infatti, la liturgia comunica il deposito della fede «attraverso i riti e le preghiere» (cf SC 48). La partecipazione alla liturgia non solo deve essere attiva, ma anche consapevole perché sia fruttuosa (cf SC 11). Per questa ragione i riti devono splendere per nobile semplicità, essere chiari per brevità, senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano, generalmente, bisogno di molte spiegazioni (cf SC 34). Tutto questo vale anche per la cresima. Mi sembra importante richiamare queste caratteristiche della celebrazione liturgica in un momento in cui c'è chi tende a identificare il mistero cristiano semplicemente con ciò che non si capisce affatto, confondendo la realtà soprannaturale invisibile con i segni visibili che intendono comunicarla.

La crismazione con la formula che l'accompagna è il cuore del sacramento della cresima. Per questo Paolo VI, affinché fosse chiaro il significato del sacramento, sostituì la formula invalsa nel medio evo (XII sec), che non faceva alcun riferimento allo Spirito se non nella benedizione conclusiva della formula stessa con il segno di croce (= Ti segno con il segno della croce e ti confermo con il crisma della salvezza. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo).

L'attuale formula (= Accipe signaculum doni Spiritus Sancti) risale al V secolo ed è comune alla Chiesa bizantina. Non solo un segno di grande valore ecumenico attingendo all'antica e comune eredità della Chiesa indivisa, ma anche una presa di posizione dottrinale sul significato specifico della confermazione: il dono dello Spirito che conferma e porta a compimento la nascita dall'acqua e dallo Spirito Santo per essere conformati a Cristo e partecipi della sua missione.

La rubrica che precede il momento culminante della confermazione prevede come preferenziale che i cresimandi si accostino processionalmente al vescovo. Questo è certamente il gesto più significativo, come del resto si fa normalmente anche per accostarsi alla mensa eucaristica. Il movimento processionale nella liturgia esprime infatti l'identità e la missione della Chiesa: un popolo in cammino nel tempo, sulle strade del mondo, verso la pienezza della vita in Cristo.

Non è certo la celebrazione in atto il momento per fare un'articolata catechesi sulla cresima. Le opportune monizioni non sono lezioni. La dottrina dovrebbe essere oggetto degli incontri catechistici, specie nell'anno che prepara a questo evento. Se poi alla confermazione segue immediatamente, nella stessa celebrazione, la prima partecipazione all'eucaristia. tanto meglio. I due sacramenti si integrano perfettamente, non l'uno a scapito dell'altro, come qualcuno obietta, ma integrandosi reciprocamente recuperando la loro originaria sequenza. Si tratta, infatti, di quella particolare unzione che abilita il battezzato a partecipare alla mensa eucaristica, anzi, a identificarsi a quel Gesù che ha portato a compimento il suo sacerdozio offrendo se stesso (cf Eb 7,27).

Il cresimato è abilitato a unire l'offerta della propria vita all'offerta unica e irripetibile di Cristo. Non è senza ragione che fin dal 1971 «i cresimati e, secondo l'opportunità, i loro padrini, genitori, coniugi e catechisti possono ricevere la comunione sotto le due specie» (Rito della confermazione 37). Si tratta di sottolineare l'importanza del sacramento, dando alla celebrazione tutta la ricchezza possibile della sua ritualità. Il segno di pace, che conclude il rito del sacramento, sostituisce lo "schiaffetto" che, di quel gesto originario, era diventato, per così dire, un semplice organo-testimone, così da assumere lungo i secoli interpretazioni, se non del tutto improprie, certamente parziali e marginali come, ad esempio, il coraggio di professare la propria fede anche a prezzo della derisione e persecuzione. Impegno di ogni vero cristiano, ma non legato a questo gesto.

Silvano Sirboni

 

(Vita Pastorale, n. 9, 2015, p. 53)

 

Venerdì, 17 Maggio 2024 11:01

Rispettare i beni altrui (Cettina Militello)

Rilettura del decalogo: il settimo comandamento

Dietro colui che è sorpreso a rubare c'è uno società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, quelli che hanno fatto della speculazione un'arte, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.

Introducendo al VII comandamento, abbiamo fatto spazio all'utopia, anzi alla radicalità cristiana, che guarda ai beni tutti come dono e dunque li custodisce, ne ha cura, senza la prevaricazione del possesso. In verità, la radicalità di cui parliamo appartiene anche a certa tradizione ebraica che, poiché le cose tutte appartengono al creatore, legge il furto come profanazione del nome di Dio e perciò come bestemmia. Di fatto, però, cristiani e non, siamo addivenuti a un'accezione privata e/o pubblica del possesso, perciò dell'opporre gli uni agli altri diritti acquisiti circa le persone e le cose. Ci è giocoforza avventurarci nelle maglie di quest'ordinario nostro vivere e declinare il furto nella scala di peccaminosità (e reato) che esso comporta.

Rispetto delle persone e dei beni

Il Catechismo della Chiesa cattolica sotto il titolo "il rispetto delle persone e dei loro beni" distingue il rispetto dei beni altrui e a seguire il rispetto dell'integrità della creazione. Nella prima prospettiva il furto è considerato «usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario» (CCC, 2408). Non c'è furto se il consenso è "presunto", ovvero se il possesso è contrario «alla ragione e alla destinazione universale dei beni».

Dunque, dinanzi a una necessità urgente relativa a bisogni immediati ed essenziali non c'è furto che tenga. Ovvero, non si può parlare di furto. E come beni essenziali vengono indicati: nutrimento, rifugio, indumenti... Proprio i puntini di sospensione fanno capire che l'elenco non è esaustivo e che, a ben riflettere, è, all'opposto, un furto negare a qualcuno il diritto nativo a nutrirsi, ad avere un tetto, ad avere vesti adeguate a difendere il proprio pudore e la propria dignità.

Ebbene, nel mondo in cui viviamo milioni (miliardi?) di persone sono prive di questi diritti inalienabili. Il che ci apre al delitto immane collettivamente consumato verso chi non ha casa, nutrimento, vestito. Le cronache del nostro tempo di crisi, anche nell'opulento Occidente, anche a casa nostra, ci mettono dinanzi a chi per bisogno sottrae cibo dagli scaffali dei supermercati, a chi occupa immobili, disabitati vuoi per iniquità vuoi per incuria. Diventa più sottile la questione del vestirsi. Ma se ne allarghiamo la valenza, anche al riguardo la responsabilità collettiva è enorme.

Una perla del CCC al paragrafo 2409 riguarda la discrepanza tra le disposizioni della legge civile e il VII comandamento. Il furto resta tale anche quando l'azione del sottrarre a qualcuno un bene proprio non si configura come reato. E, bisogna pur dire che, nella dissoluzione dell'ethos pubblico e nell'iniquità di un legiferare a favore del privilegio, tantissime azioni riprovevoli e riconducibili al furto, alla sottrazione indebita a singoli o alla comunità, di fatto non vengono più perseguite come tali, anzi è diventato obbligato vantarsene come azione virtuosa - meglio "fruttuosa" - di chi se ne avvantaggia.

Società all'insegna della frode

L'elencazione del paragrafo citato accosta l'appropriarsi di cose avute in prestito al mantenere come proprie le cose smarrite, il commettere frode nel commercio al pagare salari ingiusti e ancora all'alzare i prezzi speculando sull'ignoranza o sul bisogno altrui. Speculazione, corruzione, uso privato dei beni sociali di un'impresa, lavori eseguiti male, frode fiscale, contraffazione di assegni e di fatture, spese eccessive, sperpero, danno arrecato alle proprietà private e pubbliche. Sembra quasi di scorrere le colonne dei nostri quotidiani. La nostra società è nel segno della frode, della speculazione, della corruzione, dello sperpero, della contraffazione.

È chiaro che a fare la differenza è il peso del bene sottratto. Personalmente trovo che l'ingiuria più grave, purtroppo impunita, è quella relativa alla bellezza. Basta entrare in una stazione, salire su un treno ordinario, entrare in un ospedale, in una scuola, in una Asl per capire come non contano nulla le persone e i loro bisogni e come ci si accanisca a rendere invivibili mezzi, ambienti, risorse di altissimo valore sociale.

Una cosa esige la morale cattolica e anche questa ce la siamo dimenticata: il risarcimento. Non basta mettere in carcere chi ha rubato. Il più delle volte non serve, anche perché i ladri che popolano le carceri, quelli che del furto hanno fatto un "mestiere", il più delle volte sono tali per "bisogno". Dietro colui che è sorpreso a rubare - quale che sia l'entità del furto - c'è una società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, i "colletti bianchi", quelli che della speculazione hanno fatto un'arte, della corruzione uno stile di vita, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.

In carcere non vanno quelli che allungano e incrementano il costo delle opere pubbliche, che frodano sulla qualità dei materiali, che "ungono" per ottenere autorizzazioni poi disastrose. In carcere non vanno quelli che hanno a disposizione congrui rimborsi spese e che se ne servono, oltre la legittimità della loro funzione, per gratificare e corrompere. Ebbene tutti costoro dovrebbero restituire il mal tolto, risarcire l'offesa arrecata ai singoli e alla collettività. Il più delle volte - nel nostro ordinamento – proprio questi reati vanno in prescrizione.

Il tragico è ancora che soggetti siffatti passano pure per buoni cristiani; li si assolve senza che abbiano restituito il mal tolto. Discorso questo che tocca tutti, laici e chierici. Per questi ultimi, poi, c'è spesso, purtroppo, la pretesa di collocarsi al di sopra della legge. Risarcire, restituire il bene sottratto, riparare all'ingiustizia compiuta. Sono cose praticamente impossibili nella misura in cui la frode, la speculazione, l'appropriazione crescono qualitativamente.

Una finanza creativa, che calpesta le persone

Nella babele dell'infinito numero di leggi è facile trovare vie d'uscita. Quelle che non ha chi non ha mezzi, non ha cultura, non ha santi protettori, non ha la possibilità di farsi valere e perciò paga anche quello che altri dovrebbero pagare al suo posto. Penso alla cosiddetta finanza creativa, all'andare in fumo di miliardi e miliardi così come all'incrementarsi di miliardi e miliardi, senza che ciò abbia un corrispondente riscontro di beni, mentre reale e concreto, è l'impoverimento di chi s'è fidato, di chi, magari, ha provato pure lui a rischiare e si ritrova alla fine privo di risorse. Penso allo scandalo dei "derivati", al debito gestito come denaro contante e pagato, tragicamente, non dalle banche, ma da singoli e incauti loro clienti.

Forse, però, l'aspetto più inquietante è quello relativo non alle cose, ma alle persone. E, ancora sulla scia del CCC 2014, lo dico non genericamente, visto che il furto nel sottrarre un bene tocca sempre comunque la persona. Lo dico delle persone ridotte in schiavitù, asservite per ragioni egoistiche, ideologiche, mercantili, totalitarie, negando loro la dignità personale. Persone acquistate, vendute e scambiate come merci. E il discorso si fa pesante relativamente all'appoggio offerto, direttamente e indirettamente, anche con una legislazione ingiusta, ai «mercanti di carne umana» - come li ha chiamati Papa Francesco. Offende il VII comandamento il mercato dell'immigrazione, lo sfruttamento dei lavoratori, clandestini e non o comunque irregolari. E di nuovo è mercato di carne umana il racket della prostituzione, del gioco d'azzardo, o anche quello che accende le guerre e recluta addirittura bambini-soldati. È mercato di carne umana quello che incrementa nuove e vecchie schiavitù, la più odiosa delle quali è quella legata all'idolatria dell'utile, con disprezzo di chi vi contribuisce e ne resta escluso.

Offende il VII comandamento la pretestuosa delocalizzazione delle imprese; la vergognosa rottamazione dei lavoratori; lo sfruttamento dell'ingegno, della creatività, dell'immaginazione; lo sfruttamento nei Paesi poveri (ma anche da noi) di quanti sono costretti a incrementare le ricchezze di pochi, avendo negati regole e diritti. Offende il VII comandamento il furto della dignità, della speranza, l'orizzonte buio di un presunto do ut des comunque utilitaristico e mercantile; l'imposizione disperante di una vita senza ideali, senza utopie, senza la bellezza e l'armonia del vivere e dell'operare "insieme". Detto altrimenti, è offesa contro il VII comandamento tutto ciò che viola l'essere umano, la sua dignità di persona fatta a immagine di Dio. Il che offende anzitutto Dio stesso, la sua signoria, il suo progetto di affidare a tutte le sue creature la "culturazione" del vivere e la "coltivazione" del creato.

Cettina Militello


(Vita Pastorale, n. 3, 2014, pp. 46-47)

 

 

 

 

«Siamo infatti opera sua,
creati in Cristo Gesù per le opere buone,
che Dio ha preparato perché in esse
camminassimo» (Ef 2,10)

Nel cap. IV della sua Regola, Benedetto offre una lunga lista di "strumenti delle buone opere", o "strumenti dell'arte spirituale" 1, che toccano quegli ambiti nei quali il monaco è chiamato ad impegnarsi nel suo quotidiano cammino di conformazione al Cristo.

A motivare e illuminare l'utilizzo degli "strumenti delle buone opere" che Benedetto via via elencherà, è il duplice comandamento dell' amore esplicitamente rievocato all'inizio del capitolo: «In primo luogo: Amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze", poi amare il prossimo come se stesso»2.

In queste parole del Signore, che compendiano tutto il Vangelo, è racchiusa l! essenza del "buon operare". Infatti, poiché l'amore è la natura stessa di Dio (cf. IGv 4,8.16), esso è anche ciò che meglio di qualsiasi altra cosa qualifica la ricerca di Lui e del suo Regno, ricerca che ha come suo riscontro concreto l'attuazione delle buone opere (cf. Gc 2,14ss)3. Questa motivazione, basata sul duplice comandamento dell' amore, è anche la conferma che le "buone opere" non sono semplicemente il risultato degli sforzi umani, ma soprattutto il frutto della grazia divina, il dono dell' amore che lo Spirito «ha riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) e che illumina ogni aspetto della nostra vita. Nel cammino di conformazione a Cristo - agli occhi d Benedetto - tutto è dunque avvolto dall' amore, alla luce de quale trova senso anche l'assunzione degli "strumenti delle buone opere" che il monaco è chiamato a declinare generosa mente nel suo quotidiano cammino.

È emblematico, in proposito, il fatto che Benedetto abbia introdotto il duplice comandamento dell'amore con l' avverbio "imprimis" (anzitutto/in primo luogo), mentre gli strumenti veri e propri sono preceduti dall'avverbio "deinde" (quindi/qui innanzi). Con ciò Benedetto vuol far risaltare che al cuore della vita monastica, e quindi al centro della sequela di Cristo vi è l'amore per Dio e per i fratelli. Gli "strumenti" che ne declineranno poi la forma nella trama concreta di ogni giorno non ne sono che un commento, un'applicazione o una conseguenza. È l'amore, infatti, a rendere possibile l'attuazione delle "buone opere" e a dare loro il tono, il calore e la forza della verità, anche se non bisogna dimenticare che lo stesso duplice comandamento dell' amore a Dio e ai fratelli è, a sua volta, reso possibile dall'iniziativa benevola di Dio che ci viene incontro con il suo Amore, come scrive san Basilio: «Poiché, dunque, abbiamo ricevuto il comandamento di amare Dio, abbiamo insita in noi fin dal primo momento in cui siamo stati plasmati, la capaciti di amare»4.

NIENT' ALTRO CHE CRISTIANI NEL SOLCO DEI COMANDAMENTI

È dunque sullo sfondo luminoso del duplice comandamento dell' amore che Benedetto apre l'elenco degli "strumenti delle buone opere" riproponendo alla lettera cinque comandamenti tratti dalle "Dieci parole" o "Dieci comandamenti" consegnati da Dio a Mosè, sul Sinai: Non uccidere; Non commettere adulterio; Non rubare; Non nutrire desideri illeciti; Non dire falsa testimonianza5.

Si tratta di comandamenti che mantengono la loro basilare importanza anche per la fede cristiana e che, ancora una volta, richiamano la necessità di innervare nelle relazioni interpersonali la centralità dell' amore, inteso come adempimento della legge. Lo dirà bene anche l'apostolo Paolo in quei versetti della Lettera ai Romani dai quali, forse, lo stesso Benedetto ha tratto ispirazione per la collocazione dei comandamenti subito dopo il duplice comandamento dell' amore:

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8-10).

È importante rilevare che l'inserzione di questi cinque comandamenti all'inizio .della lista degli "strumenti delle buone opere", attesta chiaramente come Benedetto considerasse il movimento monastico come parte integrante dell'unica Chiesa di Cristo, e non ad essa parallelo o addirittura contrapposto. Indicando ai suoi monaci quei precetti che stanno a fondamento della fede biblico-cristiana, egli li richiama al senso ultimo della vocazione monastica, che altro non è se non una vocazione cristiana presa e vissuta sul serio, ossia una chiamata a vivere radicalmente il Vangelo di Gesù, il Vangelo dell'amore. In altre parole, Benedetto ci tiene a chiarire che il monaco non è per nulla uno specialista della fede cristiana, un detentore di una vocazione speciale e più o meno eccezionale, ma un cristiano tout court o, come è stato scritto «un devoto laico, che si limita a scegliere i mezzi più radicali perché il suo cristianesimo sia integrale»6. Al riguardo, il cardinale benedettino Basil Hume così scriveva:

«A rigore, la vita del monaco non è organizzata in vista di un particolare lavoro o servizio nella Chiesa. Il suo scopo principale è di cercare Dio e questo egli assume come compito per tutta la vita. In un certo senso, questo compito non è diverso da quello di ogni cristiano, anzi di ogni per- sona. La vita monastica è semplicemente un modo di vivere la vita cristiana, e il monaco la vive in una comunità. Il valore di un monastero all'interno della Chiesa è principalmente il fatto che esso esiste. È un centro spirituale che deve rendere testimonianza delle cose di Dio e attrarre a sé (...). Ma i principi che guidano il monaco nella sua ricerca di Dio e i valori evangelici che egli si sforza di fare suoi sono egualmente rilevanti sia per i cristiani che per i non- cristiani» 7.

E ancora:

«Noi non consideriamo noi stessi come detentori di una missione o una funzione particolare nella Chiesa. Non ci proponiamo di cambiare il corso della storia. Da un punto di vista umano siamo lì quasi per caso. E fortunatamente continuiamo ad "essere semplicemente lì [we go on "just being there"]»8.

Non ci si stupirà allora se Benedetto abbia proposto anche ai monaci alcuni precetti tratti dai Dieci comandamenti e che, di primo acchito, potrebbero sembrare fuori posto in una regola monastica redatta allo scopo di aiutare a vivere al meglio la propria appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa. Se lo fa, è perché Benedetto è convinto che anche i monaci, come tutti i cristiani, debbono trarre ispirazione per la loro ricerca di Dio da quei fondamenti generali della vita cristiana che sono, appunto, i "dieci comandamenti".

Non uccidere9

Avendo vissuto sulla sua pelle l'esperienza amara di Vicovaro - ossia il tentativo perverso messo in atto da parte dei monaci di avvelenarlo10 -, la decisione di Benedetto di conservare nella lista degli "strumenti delle buone opere" l'ingiunzione a "non uccidere", sembra soprattutto dettata dalla sua conoscenza del cuore umano. Egli sa che anche il monaco potrebbe allontanarsi dalla via inizialmente intrapresa con ardore e abbrutirsi interiormente ed esteriormente fino ad arrivare a infierire contro i proprio fratello.

Sullo sfondo biblico-cristiano il "non uccidere" si fonda sul rispetto della dignità di ogni persona umana in quanto creata a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27). Tale rispetto conosce poi una declinazione multiforme che mira sempre a salvaguardare l'integrità spirituale e psico-fisica dell'altro. Infatti, oltre che fisicamente, si può uccidere l'altro anche verbalmente. Gesù stesso ha detto: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio» (Mt 5,21-22). Ogni mancanza di rispetto per l'altro, e ogni parola (o silenzio) che veicoli un disprezzo nei suoi confronti, tramite la maldicenza, la calunnia o l'omertà, è un attentato alla sacralità e alla preziosità della sua vita, dono dell'unico Creatore. È possibile uccidere il nostro prossimo anche spiritualmente, ad esempio rompendo ogni forma di dialogo e di amicizia con lui, togliendogli la fiducia, la comprensione, l'amore, e facendogli percepire tutta la disistima e l'astio che si provano nei suoi confronti. Quante relazioni, segnate magari da ferite ch potevano essere guarite dalla generosità e dalla lungimiranza dell'amore, sono deperite a causa dell' ostentato rifiuto a concedere spazio alla gioia del perdono, della riconciliazione, della comunione!

Si può, inoltre, attentare all'integrità dell'altro anche attraverso lo scandalo, che è «l'atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male»11, come quando, non facendo bene il proprio dovere, si provoca nei più deboli la tentazione di fare altrettanto. Lo scandalo acquista poi maggiore gravità quanto maggiore è l'autorità morale di coloro che lo causano o la debolezza di coloro che lo subiscono. A tal proposito Gesù ha parole molto dure contro chi scandalizza i "piccoli" coloro cioè che sono più deboli e più facilmente suggestionabili: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli (...), sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Lo scandalo, infine, oltre che da persone singole, «può essere procurato anche dalla legge o dalle istituzioni, dalla moda o dall'opinione pubblica»12, così come «chi usa i poteri di cui dispone in modo tale da spingere ad agire male, si rende colpevole di scandalo e responsabile del male che, direttamente o indirettamente, ha favorito»13.

In una prospettiva olistica, la sacralità e la preziosità della vita vengono rispettate non solo non attentando all'incolumità psico-fisica e spirituale dell'altro, ma anche attraverso una giusta attenzione alla dimensione corporea, purché non si scada in «una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo»14.

Benché la morale cristiana non ne faccia un valore assoluto, anche il corpo va infatti rispettato, purché, appunto, lo si faccia con quella temperanza che ci dispone ad evitare ogni sorta di eccesso. Perciò, anche se Benedetto esorterà a «sottoporre a disciplina il proprio corpo»15, è importante per l'uomo d'oggi ricercare un rapporto equilibrato e sereno con esso, convinti che il proprio corpo non è né il "frate asino" da bistrattare senza criterio, né l'oggetto di un salutismo esasperato che può facilmente degenerare in idolatria o in... ipocondria.

Il comando di "non uccidere", infine, richiama anche la difesa e la promozione della pace, a tutti i livelli, da quella che siamo chiamati a coltivare nel nostro cuore a quella che deve permeare di sé i rapporti con gli altri e con le cose. Come abbiamo già citato sopra, Gesù attesta che non solo chi uccide, ma chiunque si adira è meritevole di giudizio (cf. Mt 5,22). Perciò il precetto: "Non uccidere!" è anche un pressante invito ad essere uomini di pace, che siano "in pace" con se stessi e costruttori di pace attorno a sé. E ciò ci sarà possibile nella misura in cui volgiamo lo sguardo a Cristo «nostra pace» (Bf 2,14), Colui che ha distrutto «in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,16) con il suo sangue sparso sulla croce.

Non commettere adulterio16

È utile ricordare anche qui le parole pronunciate da Gesù come antitesi alla Legge antica: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28).

Per il monaco questo "strumento" è un richiamo a non "adulterare" il proprio cuore, barattando l'intimo abbraccio di Dio con quello degli esseri umani o delle cose. Si tratta essenzialmente di un' esortazione ad amare la castità che il monaco ha liberamente scelto e abbracciato, come Benedetto dirà più avanti con un'espressione pregnante di significato: «Castitatem amare - Amare la castità»17

Inoltre, l'esortazione a "non commettere adulterio" richiama anche a chi ha consacrato la propria vita al Signore che la componente sessuale non cessa di esercitare «un'influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell'unità del suo corpo e della sua anima»18. Di conseguenza occorre vigilare attentamente sui moti e i desideri del proprio cuore, al fine di mantenerlo "indiviso" agli occhi di Dio. Esercizio, questo della vigilanza, che vale per tutti i cristiani indistintamente.

Non rubarel9

Davanti ai monaci, che nulla posseggono di proprio, Benedetto voleva senza dubbio porre in risalto la libertà interiore, ossia la bellezza del non sentirsi schiavi delle cose e dei beni di questo mondo. In tale prospettiva il "non rubare" non consiste solo nel non togliere ad altri ciò che è loro, ma anche e soprattutto nel condividere quel che abbiamo con chi è nel bisogno20. C'è infatti anche un rubare che consiste nella chiusura egoisti- ca del proprio cuore e delle proprie mani di fronte alle necessità dei fratelli, e dunque un "non rubare" che, in positivo, si dispiega e si concretizza nella solidarietà. Ce lo ha insegnato lo stesso Signore Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero» per noi, perché noi diventassimo «ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

San Giovanni Crisostomo ha, al riguardo, parole molto dure: «Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri»21. Anche Benedetto mostra grande attenzione e solerzia verso i poveri22 ed esorta a confidare nella Provvidenza e a non aver paura di condividere con gli altri anche quel poco che si possiede. Eloquente, al riguardo, è l'episodio dell' ampolla d'olio, ambientato a Montecassino al tempo di Benedetto, quando una grave carestia imperversava su tutta la regione. Così ce lo racconta Gregorio Magno:

«Nel tempo in cui la carestia affliggeva la Campania, l'Uomo di Dio [Benedetto] aveva dato ai poveri ogni cosa del monastero. Nella dispensa rimaneva solo un pochino di olio in un orciolo di vetro. Arrivò un suddiacono di nome Agapito, che chiese insistentemente un po' d'olio.

L'Uomo di Dio, che aveva stabilito di dare tutto quaggiù per serbarsi tutto in Cielo, comandò di dargli quel poco olio rimasto. Ma il monaco addetto alla dispensa, udito il comando, preferì non obbedire.

L'Uomo di Dio dopo qualche tempo si informò se si fosse eseguito l'ordine. Il monaco rispose di no: se lo avesse dato - disse - non ne sarebbe rimasto affatto per i fratelli. Allora, adirato, Benedetto comandò ad un altro monaco di gettare dalla finestra quel recipiente di vetro con il poco olio rimasto, perché della disobbedienza non rimanesse nulla. L'ordine fu eseguito.

Sotto la finestra si apriva un profondo precipizio, irto di rocce enormi. Dunque, l' orciolo fu lanciato. Ma, pur cadendo sulle rocce, non si ruppe, né l'olio si versò. L'uomo di Dio comandò allora di andarlo a riprendere e, avutolo, lo diede a chi glielo aveva richiesto.

Radunati, poi i fratelli, davanti a tutti rimproverò il monaco disobbediente per la sua mancanza di fede e per il suo orgoglio. Terminato il rimprovero, Benedetto si mise in preghiera assieme ai fratelli. C'era là una giara per l'olio, vuota e con sopra un coperchio. Mentre Benedetto era in preghiera, il coperchio della giara cominciò a sollevarsi per l'olio che, crescendo, aveva superato il bordo del recipiente e aveva cominciato a colare sul pavimento. Appena se ne accorse, il Servo di Dio concluse la preghiera. In quell'istante stesso l'olio smise di scorrere sul pavimento»23.

Non nutrire desideri illeciti24

In sé il termine latino concupiscere (da cui concupiscentia) qui impiegato da Benedetto designa ogni forma veemente di brama o desiderio umano25. Infatti, già l'apostolo Paolo utilizzava il termine greco corrispondente (epithumìa) per indicare l'opposizione della "carne" allo "spirito": «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne (epithumia-concupiscentia); la carne infatti ha desideri contrari (epithumèi-concupiscit) allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda (...) Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri (epi-thumiais-concupiscentiis ») (Gal 5,16-17.24).

L'apostolo ed evangelista Giovanni, dal canto suo, distingue tre tipi di desiderio smodato o concupiscenza che, anche per il veggente di Patmos, ha una radice mondana: «Tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) della carne, la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza (epithumia-concupiscentia); ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,16-17).

Nell'esortare i suoi monaci a non nutrire desideri illeciti, Benedetto allude alla lotta o combattimento spirituale che è parte integrante della vita monastica e cristiana in generale. Si tratta, infatti, di quella tensione di fondo che vede contrapposte le esigenze dello Spirito e quelle della carne, la docile sottomissione all'azione salvifica del primo (azione che ci porta alla libertà dei figli di Dio) e la resistenza opposta dalla seconda. Non c'è altra via: la lotta contro la concupiscenza in tutte le sue forme passa attraverso la purificazione del cuore, condizione grazie alla quale è possibile scorgere la presenza di Dio nella propria vita: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

Non dire falsa testimonianza26

Nelle sue relazioni con gli altri, il cristiano è esortato a non falsare la verità né con le parole né con le azioni. Il farlo significherebbe rifiutare un cammino di rettitudine morale, nel quale deve inserirsi chiunque voglia seguire Gesù, «via, verità e vita» (Gv 14,6). Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perchè siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,23-25).

La menzogna, che - come scrive sant' Agostino - consiste «nel dire il falso con l'intenzione di ingannare»27, era stata stigmatizzata da Gesù come un'azione diabolica: «Voi (...) avete per padre il diavolo (...) non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).

Ovviamente «la gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime. Se la menzogna, in sé, non costituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità»28.

Le offese alla verità vanno dalla falsa testimonianza resa pubblicamente (la quale diventa spergiuro se fatta sotto giuramento) al disprezzo della reputazione altrui; dal giudizio temerario29 (un giudizio, cioè, che, senza un sufficiente fondamento, attribuisce al prossimo una colpa morale) alla maldicenza (=il rivelare i difetti o le mancanze altrui a terze persone che li ignorano) e alla calunnia (=il nuocere alla reputazione del prossimo con affermazioni non veritiere, che causano erronei giudizi su di lui).

Sono considerate offese alla verità, e quindi da bandire, anche la lusinga e l'adulazione o la compiacenza, che incoraggiano e confermano «altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L'adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l'amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L'adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire piacevole, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti»30.

Nel suo significato più profondo la menzogna è una profanazione della parola, la cui funzione è quella di comunicare agli altri la verità. Storpiare intenzionalmente quest'ultima e il contraffarla non solo mina alla radice il significato primo della parola - quello, appunto, di strumento per instaurare una relazione veritiera con il prossimo -, ma impedisce anche a colui col quale si entra in relazione di esercitare il suo diritto di conoscere la verità. Privato di questa conoscenza, infatti, egli è impossibilitato a formulare giudizi e decisioni rispondenti al vero. Con l'affermare cose contrarie alla verità si contravviene dunque sia alla giustizia che alla carità, e si minano le basi delle relazioni interpersonali che dovrebbero essere improntate a onestà e fiducia. Non va dimenticato, infine, che il non dire la verità non riguarda solo il modo sbagliato con cui ci si pone davanti al prossimo, ma chiama in causa anche il rapporto con Dio. Infatti, «ferendo il rapporto dell'uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamenta le dell'uomo e della sua parola con il Signore»31.

Onorare tutti gli uomini32

Benedetto modifica il IV comandamento del Decalogo, quello riguardante l'onore e il rispetto dovuti ai genitori, allargandolo a tutti gli uomini e trasformandolo così in un precetto generale. Il motivo immediato è semplice. Abbandonando il mondo, il monaco - secondo il richiamo del vangelo - lascia anche i propri genitori per servire totalmente il Signore (cf. Mt 4,22; 10,37; 19,19).

Più in profondità, il precetto di onorare tutti gli uomini nasce da quell'unità di fondo che lega gli esseri umani, creati «a immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26-27; 5,1; 9,6). Morendo "per tutti", Cristo ha riespresso nella drammaticità della croce l'amore di Dio per ogni essere umano, e ha riaffermato una volta per tutte che il Padre «non fa preferenza di persone» (Rm 2,11), ma stende il suo sguardo misericordioso su tutti gli uomini, perché «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4).

È probabile che nell' accogliere questo precetto nella lista degli "strumenti delle buone opere", Benedetto abbia anche alluso alla necessità di evitare con tutte le proprie forze qualsiasi discriminazione nei confronti degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, di coloro cioè che destano poca o nessuna considerazione agli occhi del mondo. In costoro, infatti, risplende maggior- mente il volto di Cristo, come annoterà più avanti: «Soprattutto si abbia cura di accogliere con sollecitudine i poveri e i pellegrini, perché proprio in essi maggiormente si accoglie Cristo; quanto ai ricchi infatti la soggezione stessa che essi incutono impone da sé rispetto»33. Onorare tutti gli uomini significa allora relazionarsi a tutti con la libertà interiore di chi coglie in ogni essere umano il riflesso del volto di Cristo.

Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé34

Questo strumento delle buone opere è il naturale prosieguo di quello precedente, ed è posto alla fine del breve elenco di comandamenti biblici qui riportato. E come se Benedetto desiderasse chiudere il cerchio, iniziato col riferimento al duplice comandamento dell' amore, con un ulteriore rimando a quella fonte dalla quale ogni comandamento trae luce, energia e forza.

«Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé», implica innanzi tutto la consapevolezza che ciascun essere umano è caratterizzato da "unicità". Si può essere simili, ma non identici. Anche quando due gemelli si assomigliano come due gocce d'acqua, c'è sempre qualche dettaglio che li distingue, a partire dal DNA e dalle impronte digitali, che sono sempre diverse tra l'uno e l'altro. Anche nella struttura psichica e nelle vie dello spirito ogni uomo ha una sua peculiarità. E un unicum!

Questa consapevolezza dovrebbe ulteriormente aprirci al rispetto e alla stima di ciascuna persona, tenendo presente le sue possibilità, i suoi limiti, i suoi tempi. Tutto questo Benedetto lo dice ricorrendo a un proverbio che troviamo nell' Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15), e che Gesù riprenderà con una formulazione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12; cf. anche Lc 6,31). Nell'uno come nell'altro caso, l'esortazione ci richiama a quel requisito fondamentale che dovrebbe illuminare e fecondare i rapporti interpersonali all'interno di qualsiasi forma di convivenza, sia essa di natura religiosa o sociale, nella quale si è inseriti.

Ab. Donato Ogliari osb

Abate di San Paolo fuori le Mura - Roma

Il testo è il primo capitolo del volume: Per una fede adulta. Alla scuola di san Benedetto, Noci, Edizioni "La Scala", 2010.

 

Note

1 «Instrumenta artis spiritalis» (BENEDETTO, Regola [=RB] 4,75). Per questi "strumenti", Benedetto si basa in gran parte sulla cosiddetta "Ars sancta" della Regola del Maestro (cf. Regola del Maestro 3-6).

2 RB 4,1-2 (cf. Mc 12,30-31).

3 Si veda anche la seguente esortazione: «Cinti dunque i nostri fianchi con la fede e la pratica costante delle buone azioni, procediamo per le sue vie sotto la guida del Vangelo» (RB, Prol. 21).

4 BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse l, in L. CREMASCHI (a cura di), Le Regole. Regulae fusius tractatae - Regulae brevius tractatae, Magnano/Bi 1993 p. 79.

5 Cf. Es20,12-17; Dt 5,17-20; cf. Mt 19,18-19.

6 L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri [III- VI secolo], Bologna 1986, p. 35.

7 B. HUME, Alla ricerca di Dio, Brescia 1980, pp. 11-12.

8 ID., In Praise of Benedict, Ampleforth 1996, p. 23.

9 «Non occidere» (RB 4,3)

10 GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,3.

11 Catechismo della Chiesa Cattolica (=CCC), n. 2284.

12 CCC, n. 2286.

13 CCC, n. 2287.

14 CCC, n. 2289

15 RB 4,11.

16 «Non adulterari» (RB 4,4).

17 RB 4,64.

18 CCC, n. 2332.

19 «Non facere furtum» (RB 4,5).

20 Il comandamento "non rubare" «prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano, Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo» (CCC, n. 2401).

21 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Lazarum 1,6.

22 Più avanti, tra gli "strumenti delle buone opere", si trova anche la seguente ingiunzione: «Ristorare i poveri» (RB 4,14).

23 Cf. GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,28-29

24 «Non concupiscere» (RB 4,6).

25 Sulla scia della Parola rivelata e della tradizione cristiana, la Chiesa ha sempre inteso la "concupiscenza" come un moto smodato che si oppone al buon senso e ai dettami della ragione. Conseguenza della disobbedienza del primo peccato, la concupiscenza «ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa un peccato, inclina l'uomo a commettere il peccato» (CCC, n. 2515).

26 «Non falsum testimonium dicere» (RB 4,7).

27 AGOSTINO, De mendacio 4,5

28 CCC, n. 2484.

29 Per evitare il giudizio temerario ciascuno dovrebbe sforzarsi «di interpretare, per quanto possibile, in un senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del suo prossimo" (CCC,n. 2478). Al riguardo sant'Ignazio di Loyola scrive: «Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l'affermazione del prossimo che a condannarla; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dia; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi" (IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali 22).

30 CCC, n. 2480. Anche la iattanza o millanteria e l'ironia irrispettosa costituiscono, in ultima istanza, un attentato alla verità.

31 CCC, n. 2483.

32 «Honorare omnes homines» (cf. 1Pt 2,17; RB 4,8).

33 RB 53,15.

33 «Et quod sibi quis fieri non vult, alio ne faciat» (RB 4,9)

 

Venerdì, 17 Maggio 2024 10:08

Il peccato di esistere (Marco Galloni)

Se identifichiamo Dio con l’Essere sussistente in se stesso del tomismo (“Ipsum esse subsistens”), allora il nostro esistere è inevitabilmente un esilio da Lui. Lo dice l’etimologia del verbo latino “exsistere”, nel quale troviamo un nucleo statico, “-sistĕre”, e un nucleo dinamico che indica il moto da luogo, “-ēx”1. Alla lettera, esistere significa “stare da…”, “essere presenti nella realtà a partire da un’origine”. Esistere vuol dire stare nel mondo provenendo da Dio, dunque essere in qualche modo lontani da Lui. È quanto afferma Paolo in 2Cor 5,6-8: «Così, dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore»; il testo greco è in realtà meno drastico della traduzione CEI, non usa il termine “esilio” e dice solo «siamo lontani (ἐκδημοῦμεν) dal Signore», ma il senso è quello. L’Apostolo delle Genti costruisce un gioco di parole utilizzando due participi molto simili ma dal significato antitetico: “endemountes” (ἐνδημοῦντες), che vuol dire “abitanti”, “residenti in patria”, ed “ekdemountes” (ἐκδημοῦντες), il cui significato è “esuli”, “assenti dal proprio paese”. In questo modo Paolo esprime il paradosso della nostra condizione esistenziale: siamo nel mondo, dimoriamo nel corpo, e nello stesso tempo siamo lontani dal Signore, che è la nostra vera e definitiva patria. Il credente è un pellegrino, un viandante in cammino verso casa: «Infatti non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14).

Gettati fuori del mondo di Dio

Durante un’appassionata omelia pronunciata il 29 maggio 2022 nella Chiesa del Gesù per la solennità dell’Ascensione, il gesuita Ottavio De Bertolis ha sottolineato il carattere metaforico della cacciata di Adamo: «Noi nasciamo fuori del mondo di Dio, e se non fosse per la sua grazia ci rimarremmo. Nasciamo gettati fuori. La metafora è il cherubino che con la spada chiude l’accesso al paradiso; il paradiso perduto, direbbe Milton. Ebbene, quel paradiso non è più perduto perché ci siamo rientrati attraverso l’umanità di Gesù Cristo, perché il Verbo si è fatto carne, ha assunto la nostra debolezza; noi, che moriremo, rientriamo nel mondo di Dio attraverso la nostra morte». Non dissimile da quello di padre De Bertolis S.J. è il pensiero del teologo redentorista Théodule Rey-Mermet: «No, l’umanità non è nata in un paradiso terrestre. Quel cielo di felicità e di divina amicizia descritto da Genesi 3 è il modello della creazione: non è passato, ma futuro; non è dietro, ma davanti a noi. È il disegno di Dio per la fine dei tempi. È posto all’inizio della Bibbia perché si comincia sempre per definire il modello. Ma, nell’esecuzione, l’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti, ma con umili abbozzi amorosamente perfezionati da Dio secondo le leggi di un lento sviluppo. Questa è proprio la verità storica: “L’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti”. Ma la Genesi ha annunciato sotto forma di una magnifica parabola sia il futuro che Dio ha concepito per essa, sia il difficile cammino che essa dovrà percorrere prima di giungere al traguardo»2.

Un’inevitabile condizione dovuta al fatto stesso di esistere

Questa condizione di esilio da Dio o lontananza che dir si voglia non può certo essere considerata un peccato nel senso proprio del termine, così come lo definisce il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il peccato è un’offesa a Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto” (Sal 51,6). […] Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare “come Dio” (Gen 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è “amore di sé fino al disprezzo di Dio”. Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all’obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza» (CCC 1850). Si tratta piuttosto di una inevitabile condizione dovuta al fatto stesso di esistere. È ciò che Heidegger chiama “Geworfenheit”, la “gettatezza”, l’essere lanciati nel mondo come dadi sul tavolo da gioco, l’essere-per-la-morte; non a caso i francesi di solito traducono “Geworfenheit” con “déréliction”, “derelizione”, “abbandono”. Veniamo gettati in un universo che non abbiamo scelto, ci è in gran parte sconosciuto, non manca talvolta di mostrarsi ostile nei nostri confronti e nel quale persino la materia inorganica, secondo una delle più accreditate teorie sulla fine del cosmo, è destinata alla morte entropica. Più che un’offesa a Dio, l’esistenza sembra un’ingiuria alla creatura e in particolare all’uomo, l’unico ente, per quanto ne sappiamo, ad avere coscienza del proprio destino di morte. Se non è un peccato nel vero senso della parola, tuttavia questa condizione produce nell’uomo una certa carenza d’essere che la rende molto simile al peccato. Come direbbero gli esistenzialisti, tale condizione determina uno sfasamento tra esistenza ed essenza: per l’esistenzialismo ateo di Sartre l’uomo è l’unico ente nel quale l’esistenza precede l’essenza, per cui egli deve darsi da fare per diventare se stesso attraverso le proprie scelte e il proprio impegno nel mondo; per l’esistenzialismo cristiano di Kierkegaard, Karl Barth, Paul Tillich e altri, invece, è l’essenza, divina e infinita, a precedere l’esistenza. Non manca chi ritiene possibile una terza posizione, come il pastore valdese Angelo Cassano: «Personalmente ritengo che non solo l’esistenza preceda l’essenza, come per Sartre, ma anche il contrario. Le due affermazioni viaggiano su binari paralleli e sono interconnesse»3. Come sia, questo sfasamento – che prendendo in prestito i concetti dell’elettrotecnica possiamo rappresentare come la mancata coincidenza tra tensione e corrente in una sinusoide applicata su un carico non puramente resistivo – esiste sempre, e secondo Tillich conduce al peccato. Per il teologo tedesco, Cristo è colui che corregge lo sfasamento tra essenza ed esistenza poiché, in virtù del suo essere pienamente Dio e pienamente uomo, le possiede entrambe in perfetto sincronismo.

Il tesoro sperperato del simbolo adamitico

Purtroppo l’interpretazione letterale di alcuni testi biblici ha fatto sì che per secoli e millenni la colpa di tutto ciò che di negativo esiste nel mondo fosse scaricata sull’uomo, con l’unica attenuante – se di attenuante si può parlare – della tentazione diabolica. Testi, per fare solo due esempi, come il racconto della caduta di Genesi 3 e il passo della Lettera ai Romani in cui Paolo scrive che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte» (Rm 5,12). Se la creazione è opera di un Dio sommamente buono ed è essa stessa buona (cfr. Gen 1,1-31), si pensava, il male e il negativo non possono che venire da creature corrotte e corruttrici, il diavolo in primis e poi l’essere umano. Oltre ad aver colpevolizzato oltremisura l’uomo, questa interpretazione ha contribuito a fuorviarlo e deresponsabilizzarlo, a fargli perdere coscienza dei suoi veri errori, limiti e peccati: «Perfino la morte era colpa nostra», ebbe a dire Raniero La Valle durante una conferenza sull’argomento tenuta tempo fa presso il monastero camaldolese di S. Gregorio al Celio in Roma. È evidente che la tradizionale interpretazione della Genesi non è più accettabile: chi può ancora sostenere che il genere umano discenda da un’unica coppia di progenitori e che il peccato originale si trasmetta, come diceva sant’Agostino, attraverso il concepimento (opinione peraltro mai fatta propria dalla Chiesa)? Paul Ricoeur ha scritto parole molto chiare, al riguardo: «Il concetto di peccato originale è un falso sapere e deve essere infranto come sapere […]»4. Per poi aggiungere: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicista”, del mito di Adamo; essa lo ha fatto cadere nella professione d’una storia assurda e in speculazioni pseudo-razionali sulla trasmissione quasi biologica d’una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato sperperato»5.

Un peccato per analogia

In effetti – faceva notare nel 1973 il gesuita Maurizio Flick – «i Padri dei primi tre secoli ammettevano che tutti gli uomini hanno ricevuto un’eredità funesta da Adamo, una corruzione, e in modo speciale la morte; ma non dicevano che questa corruzione dovesse chiamarsi “peccato”»6. Per Ireneo di Lione il vero responsabile del peccato non è Adamo ma il serpente tentatore; Adamo è più vittima che colpevole, e i suoi discendenti vivono in un regime di cattività instaurato dal diavolo così come un esercito sconfitto è tenuto prigioniero dal vincitore. Per questo Dio maledice il serpente e la terra ma non maledice Adamo, nei confronti del quale si mostra anzi misericordioso; per Ireneo, Dio permette la morte affinché il peccato non diventi immortale7. Secondo il vescovo di Lione, quindi, ciò che Cristo redime non è tanto un peccato quanto una condizione di degrado, di separazione da Dio che accomuna tutti gli uomini.

La dottrina del peccato originale trovò la sua formulazione tecnica soltanto ai tempi di sant’Agostino, nella polemica anti-pelagiana. Con questa formulazione, secondo Flick, il Doctor Gratiae «volle dire, come mostrano vari studi convergenti (de Blic, Clémence, Staffner, Sage…) che la situazione in cui l’uomo nasce è realmente simile a quella in cui egli si mette per un peccato personale, in quanto implica la morte dell’anima (cioè la privazione della grazia) e una perversità della volontà (la concupiscenza) […]»8; la dottrina agostiniana sul peccato originale sarà successivamente confermata dai concili di Cartagine del 418, di Orange (529) e di Trento (1545). Si tratterebbe insomma di un peccato per analogia. Scrive ancora Flick: «Si è dunque segnati dal peccato per il fatto stesso che si entra per la nascita a far parte dell’umanità attuale. Il dogma del peccato originale consiste quindi essenzialmente nell’affermazione che l’uomo nasce in uno stato caratterizzato da questi tre elementi: privazione della grazia (“elemento ontico”), corruzione della volontà (“elemento personalistico”), dipendenza dal peccato personale antecedente (elemento “sociale” e “storico”). Per questi tre elementi la condizione nativa dell’uomo è realmente simile a quella che segue un atto personale gravemente peccaminoso, e perciò può essere detta analogamente “peccato”»9. È ciò che sostiene anche Karl Rahner quando parla della differenza tra “peccato originale originante” e “peccato originale originato”: «Peccato originale originante significa dunque il peccato proprio di cui è personalmente responsabile Adamo, a differenza dal peccato originale originato dei discendenti di Adamo: questo si può chiamare “peccato” solo in senso analogo»10. Di peccato per analogia parla anche il Catechismo della Chiesa Cattolica edizione 1993: «[…] Adamo ed Eva commettono un peccato personale, ma questo peccato intacca la natura umana, che essi trasmettono in una condizione decaduta. Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l’umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e non “commesso”, uno stato e non un atto» (CCC 404).

Letto in questa chiave, Genesi 3 – lungi dal voler riferire «con esattezza protocollare ciò che è successo all’inizio della storia umana»11 – si configura come un racconto appartenente al genere drammatico, sapienziale ed eziologico che descrive la nostra condizione di sempre: l’uomo nasce condannato a morte, non è padrone di sé e della propria volontà, è preda della concupiscenza e di appetiti sfrenati, vive in perenne conflitto con Dio, con se stesso, con gli altri e con la creazione.

Nella Rivelazione il dato fondamentale non è il peccato

L’insieme dottrinale riferentesi al peccato originale, spiega ancora Maurizio Flick, è stato tradizionalmente concepito secondo uno schema discendente dalla causa all’effetto, deducendo l’effetto a partire da una causa identificata con la trasgressione paradisiaca. In altri termini, dal peccato originale originante si è voluto dimostrare il peccato originale originato. Ora, questo modo di presentare il messaggio cristiano inverte la prospettiva in cui la Rivelazione pone il peccato. Nella Rivelazione il dato fondamentale, il nucleo del messaggio, non è il peccato ma Cristo, colui che può salvare l’uomo dalla morte e dal fallimento esistenziale. L’origine, la causa del male è collocata solo sullo sfondo. Occorre dunque abbandonare la visione amartiocentrica che già tanti danni ha provocato e orientarsi verso un cristianesimo realmente centrato sul Redentore e sulla redenzione. Allora il testo paolino di Rm 5,11-21 non è più un discorso sul peccato e sulla morte ma sul dono di grazia e sulla vita eterna: «Esso spiega che dobbiamo gloriarci in Cristo, autore della nostra salvezza»12. Non ha quindi molto senso continuare a domandarsi di chi sia la colpa, se a peccare sia stato il “sinanthropus” di Teilhard de Chardin, l’australopiteco Lucy o il sapiens, in quale anno sia stato commesso il peccato originale e cose del genere. Il peccato, inteso in senso lato come l’eredità funesta di cui parlavano i Padri, accompagna l’uomo da sempre ed è ovunque presente, come scrive Teilhard in Nota su alcune rappresentazioni storiche possibili del peccato originale: «Occorre che allarghiamo a tal punto le nostre vedute sul peccato originale da non poterlo più collocare, attorno a noi, né qui, né là, e che sappiamo soltanto che esso è dappertutto, mescolato con l’essere del Mondo tanto quanto Dio che ci crea e il Verbo Incarnato che ci riscatta»13. Ma in questa situazione innata e desolante, che la teologia scolastica chiama peccato originale originato, opera il Creatore infinitamente buono, che fin dagli inizi della storia perdona, soccorre, dona gratuitamente la sua misericordia salvifica: «Perciò la certezza fondamentale su cui si basa la fede nella redenzione non è l’informazione storica su fatti avvenuti all’origine del mondo […] ma è la rivelazione su Cristo, Redentore necessario di tutti i membri della nostra umanità, senza alcuna eccezione»14.

La Terra, un sistema di riferimento non-inerziale e non-spirituale

Il fatto che la condizione di esilio da Dio nella quale veniamo al mondo non possa essere considerata un peccato nel senso proprio del termine, non vuol dire che il peccato personale non esista. Esiste eccome, e il credente è chiamato a continua conversione, a fare tutto ciò che è in suo potere per evitarlo: anche questo rientra nel dato fondamentale della Rivelazione. Una parte rilevante del problema è che il mondo in cui nasciamo – e qui per mondo intendiamo non tanto la società umana quanto il mondo della natura – ha una straordinaria capacità di convincerci che non siamo altro che materia, corpi destinati alla morte. Si tratta in fondo di quella che per i Vangeli di Matteo e di Luca è la prima tentazione di Cristo nel deserto, la tentazione del pane (Mt 4,1-4; Lc 4,1-4): la risposta di Gesù svela il vero obiettivo del maligno, che non è dar da mangiare a un affamato ma convincerlo di non essere che ventre, necessità biologiche da soddisfare. Questo probabilmente è vero oggi molto più che nel passato, anche a causa degli straordinari progressi della scienza e della tecnica. Discipline importantissime, beninteso, ma per loro natura incapaci di riflettere sul principio ontologico universale – l’essere che unisce diversificando – e quindi di farci intravedere un orizzonte di trascendenza. Senza questo orizzonte, però, l’uomo va alla deriva: «Lo spirito umano esige più che la scienza per comprendersi in seno al mondo»15.

L’uomo contemporaneo, preda del riduzionismo materialistico, ragiona un po’ come i pensatori del passato, che continuavano a domandarsi, senza trovare risposta, perché un corpo lanciato in aria a un certo punto cada a terra. La soluzione al problema arrivò con il principio di inerzia scoperto da Galilei ma già intuito da Giordano Bruno nel famoso esempio della nave che si trova ne La cena de le ceneri (1583)16. E fu una soluzione del tutto contro-intuitiva, alla quale si giunse cambiando la domanda, l’approccio al problema: ci si cominciò a chiedere perché il sasso non prosegua la sua corsa all’infinito. Sembra la stessa domanda di prima ma è radicalmente diversa, perché parte dal presupposto che il corpo, se non interviene nessuna forza esterna a modificarne lo stato, continui a muoversi di moto rettilineo uniforme. I corpi cadono perché la Terra è un sistema di riferimento non-inerziale, nel quale cioè prevale la forza di gravità. Per analogia possiamo dire che è anche un sistema di riferimento non-spirituale, capace di convincere l’uomo dell’assoluta impossibilità che la vita continui oltre la morte e che anzi proprio dopo la morte possa raggiungere la definitiva pienezza. Ecco allora che la condizione di esilio in cui nasciamo può diventare – e di fatto spesso diventa – un peccato nel senso proprio del termine, cioè la scelta di credere nella sola realtà materiale, di dire no all’offerta salvifica di Cristo. E forse non si tratta nemmeno di una scelta: l’uomo post-moderno, figlio del positivismo e dello scientismo, lo ritiene quasi un dovere, pensa di non poter credere diversamente. La vita eterna gli appare del tutto impossibile. L’uomo di sola ragione non può, non deve credervi.

Il peccato originale originante: un inizio assoluto

Quando l’insegnamento della Chiesa sul peccato originale venne fissato dai succitati concili di Cartagine, di Orange e di Trento, nessuno metteva in discussione il peccato originante commesso da Adamo, per cui i concili si limitavano a ripetere il racconto di Genesi 3 senza interpretarlo17. Oggi non lo si può più fare. La paleoantropologia propende per l’ipotesi poligenista piuttosto che per quella monogenista: l’umanità attuale non proverrebbe da un’unica coppia ma da un gruppo più o meno grande di progenitori. Se questo è vero, se non esiste un Adamo storicamente identificabile, come si può continuare a parlare del peccato originale originante in termini di colpa personale? Chi lo avrebbe commesso? E in cosa consisterebbe esattamente? La distinzione della teologia classica tra peccato originale originante e peccato originale originato va fatta salva, se è vero che, come sostiene Flick, il peccato originale originante «non sembra essere riducibile alla massa di tutti i peccati commessi dall’umanità». In questa serie di colpe, precisa il gesuita, «mi sembra che la prima abbia una funzione speciale, essenzialmente diversa dalle altre. Infatti, il primo in una serie di atti umani non è semplicemente primo in ordine cronologico, ma segna un inizio assoluto, che non può non avere una speciale importanza. Inoltre, in questo modo si spiega meglio il salto qualitativo avvenuto nella condizione umana, in ordine alle sue relazioni con Dio»18. A tal proposito potrebbe tornare utile far cadere la distinzione tra il primo Adamo e i suoi discendenti, tra una condizione pre e post lapsaria, tra il prima e il dopo. Non dobbiamo cercare il peccato originale originante in chissà quale antenato preistorico; siamo noi a commetterlo, siamo noi il primo Adamo che continuamente cade e, cadendo, genera una moltitudine di peccati originati.

Il peccato originale: l’interpretazione di Thomas Merton e dell’anonimo autore de La nube della non conoscenza

Ma cos’è esattamente questo peccato originale originante che «non sembra essere riducibile alla massa di tutti i peccati commessi dall’umanità» e nello stesso tempo «segna un inizio assoluto» (Flick)? Il racconto di Genesi 3 può essere interpretato in molti modi diversi, non solo come peccato di “hybris”. Ne ricordiamo qui altri due che ci sembrano particolarmente originali e interessanti. Thomas Merton, senza troppo preoccuparsi della distinzione tra peccato originante e originato, identifica il peccato originale con l’egocentrismo umano: «Anche se sono buoni, i miei atti naturali, quando sono soltanto naturali, tendono a concentrare le mie facoltà sull’uomo che non sono, su colui che non posso essere, il falso Io in me, la persona che Dio non conosce. E questo avviene perché sono nato nell’egoismo. Sono nato egocentrico. E questo è il peccato originale»19.

Le parole di Merton sulle facoltà che tendono a concentrarsi sul falso Io ci permettono di fare un parallelo con un altro grande contemplativo, l’anonimo autore de La nube della non conoscenza, con ogni probabilità un monaco certosino inglese del XIV secolo20. L’anonimo propone una singolare interpretazione del peccato originale: a suo avviso, «l’uomo ha peccato quando ha smesso di contemplare Dio, secondo quanto leggiamo nella Scrittura: “Chiunque rimane in lui non pecca” (1Gv 3,6)»21. Quelle facoltà, tutte le facoltà umane che Merton vede dirottate sul falso Io, sull’Ego, dovrebbero invece convergere su Dio. In fondo non è altro da ciò che prescrivono lo Shemà Israel di Dt 6,4-9 e il primo comandamento del Decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21). Focalizzare tutte le proprie facoltà su Dio significa centrarsi sull’Essere sussistente, e così ricevere da Lui tutto l’essere partecipato che la nostra condizione di creature (o di enti, per usare il linguaggio della metafisica) permette di accogliere. Dunque disobbedire a Dio – la disobbedienza di Adamo – vuol dire in ultima analisi smettere di ascoltare la voce dell’Essere, che – come sperimenta il profeta Elia sull’Oreb – si presenta come «qôl demamah daqqah», espressione che, tradotta alla lettera, significa «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12)22. Non è affatto facile ascoltare questa voce, lo sanno bene i mistici: occorre mettere a tacere il chiacchiericcio mentale, disciplinare l’immaginazione, resistere alle distrazioni, dominare la curiosità e il desiderio di esperienze sensazionali… Vuol dire in sostanza sviluppare le proprie capacità di attenzione e quindi di preghiera; già i primi Padri, riflettendo sull’assonanza tra le due parole greche che significano attenzione (“prosoché”) e preghiera (“proseuché”), avevano infatti compreso lo stretto legame tra queste due realtà.

La follia di Eva

Disobbedire a Dio significa insomma “dis-ascoltarlo”, cioè mancare di cogliere – per cattiva volontà, incapacità, pigrizia, instabilità, eccetera – la voce di silenzio sottile, la voce dell’Essere. È un peccato di disattenzione, più che di “hybris”; un peccato che commettiamo tutti, sempre, senza neanche rendercene conto. Nell’istante in cui smette di far convergere tutte le sue facoltà sull’Essere sussistente in se stesso, l’uomo si ritrova frammentato, alienato, carente d’essere, il che è tipico della condizione peccaminosa. Tale carenza non può essere colmata attraverso sforzi umani, come cercano di fare Adamo ed Eva: il problema non si risolve coprendo la propria ontica nudità con le maschere dell’Ego, tentando di nascondersi alla vista di Dio, scaricando la colpa sull’altro, cercando di prendere e possedere. L’unico modo è tornare a contemplare l’Essere, a indirizzare tutte le facoltà ed energie su di Lui. Riguardo all’Ego appena menzionato, si fa molta confusione tra questo e l’Io, inteso sia come pronome, sia – soprattutto – come ciò che secondo la tripartizione freudiana della mente è il mediatore tra l’Es/Id e il Super-Io. Si sente dire spesso che per unirsi a Dio è necessario «mortificare l’Io», «annullare la propria volontà», «morire a se stessi» e cose del genere. In realtà ciò che bisogna far morire non è l’Io ma l’Ego, cioè la nostra personalità falsa, idealizzata, creata da noi, egocentrica e capricciosa. Se vogliamo amare, agire nel mondo, vivere da persone sane e relazionarci correttamente con gli altri, al contrario, l’Io dev’essere ben saldo. Un Io fragile e destrutturato non conduce alla santità ma alla neurosi e alla psicosi. L’Io e l’Ego stanno tra loro in un rapporto di proporzionalità inversa: più cresce e si consolida l’uno, più diminuisce l’altro (e viceversa). Lo si vede in Gen 3,2-3, nella risposta che la donna (si chiamerà Eva solo più avanti, in Gen 3,20) dà al serpente che le chiede se è vero che Dio ha comandato di non mangiare di nessun albero del giardino: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». La donna commette un errore disastroso, fatale: scambia di posto l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male (Gen 2,9). In mezzo al giardino non c’è l’albero dai frutti proibiti, ma l’albero della vita. Nella mente della donna nasce così l’idea che Dio sia colui che si oppone alla vita, che impedisce all’essere umano di vivere pienamente, il che ovviamente è assurdo e falso. Così la donna comincia a non capire più niente, a confondere, a non discernere più – cioè, nel linguaggio giudaico, a “conoscere” – il bene e il male; allora, per usare le parole della biblista Bruna Costacurta, «Eva, da donna-saggezza, donna che dà la vita, diventa donna-follia». L’Ego di Eva, la sua personalità decaduta, peccaminosa, finisce col divorare anche l’Io razionale.

L’“esperienza zero” della mistica

Il peccato originale originante spezza uno dopo l’altro tutti gli anelli che compongono la catena delle relazioni umane (cfr. Gen 3). Il primo a rompersi è l’anello tra Dio e l’uomo, poi quello tra l’uomo e se stesso, quindi si spezza l’anello tra l’uomo e il suo prossimo, infine quello tra l’uomo e il creato. Questi anelli vanno ricomposti esattamente nell’ordine in cui sono stati spezzati. Cercare di ricostruirli diversamente, cominciando per esempio dalla relazione tra l’uomo e il suo prossimo, è impresa destinata al fallimento. Secondo l’autore de La nube, la via migliore per farlo è la contemplazione: esercitarsi costantemente, indefessamente, senza scoraggiarsi, nella difficile arte di focalizzare tutte le proprie facoltà ed energie su Dio. Questa è la contemplazione, che Thomas Merton descrive come qualcosa di simile allo stato dell’anima di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre: «Tutto è tuo, ma a una condizione infinitamente importante: che sia tutto dato»23. La contemplazione è come il sonno: deve venire da sola, non può essere afferrata, pretesa, ottenuta con uno sforzo dell’umana volontà. È un dono di Dio, ma esige che l’uomo impari a vivere in uno stato di fiduciosa ricettività e silenzio. La contemplazione coincide con l’esperienza mistica, che non consiste affatto nell’avere visioni spettacolari, nello sprofondare in stati di trance o nel godere di ineffabili delizie spirituali. L’autore de La nube, anzi, considera tutto questo un serio pericolo per l’autentica contemplazione, una tentazione diabolica: «Alcuni di questi uomini, il diavolo li inganna in modo del tutto meraviglioso. Infatti, manda loro una specie di rugiada – cibo degli angeli, essi pensano – che discende come dal cielo e cade dolcemente e deliziosamente nella loro bocca. […] Ma per quanto a loro possa sembrare santo, tutto questo non è che una mera illusione […]. Ed ecco che spesso il diavolo inganna le loro orecchie con suoni inusitati, i loro occhi con luci folgoranti, il loro naso con profumi gradevolissimi: nonostante tutto, questi sono fenomeni fasulli»24. Gli fa eco Thomas Merton: «L’ambizione spirituale è un ostacolo all’unione mistica. […] La nube, non diversamente dai grandi testi della tradizione apofatica, ci avverte che l’appetite for experiences – o, più crudamente, il desiderio di stati di trance – costituisce il danno più grave allo sviluppo di un’autentica vita mistica»25. L’esperienza mistica, propriamente parlando, non è neanche un’esperienza, o almeno non rientra tra ciò che comunemente viene considerato “esperienza”: secondo Swami Agehananda Bharati, al secolo Leopold Fischer, per oltre trent’anni docente di antropologia alla Syracuse University, essa è «esperienza zero» (“zero experience”)26. L’esperienza, infatti, viene normalmente definita come conoscenza: «conoscenza pratica della vita o di una determinata sfera della realtà» (Garzanti), «conoscenza diretta di qualcosa per osservazione, per prova o per percezione» (De Mauro), eccetera. Ma l’unione mistica, come abbiamo visto, avviene nella non-conoscenza, nella nube, nella notte oscura. Lo stesso Rahner, quando parla dell’esperienza trascendentale di Dio e della grazia, non si riferisce a un’esperienza particolare, categoriale, quanto piuttosto al fondamento di tutte le esperienze, all’orizzonte entro il quale esse hanno luogo, all’atmosfera in cui siamo immersi27.

L’uscita dal flusso esperienziale dell’esistenza terrena

La (non)esperienza mistica è proprio ciò che consente di uscire dal flusso esperienziale e accidentale dell’esistenza terrena, che il buddhismo e altre religioni orientali chiamano saṃsāra e considerano insostanziale e carico di dolore e sofferenza. A questo punto, visto che abbiamo chiamato in causa l’esperienza zero della mistica, possiamo usarla – un po’ come si fa nell’analisi matematica con i cosiddetti “annichilatori” – per eliminare, azzerare l’elemento in comune ai sostantivi “esistenza” ed “esperienza”, vale a dire la preposizione “ex”. Così l’esistere non è più uno “stare da…”, un “essere presenti nella realtà a partire da un’origine”, ma soltanto un essere presenti, un “esserci”. Grazie all’esperienza mistica non c’è più il moto da luogo, la distanza da Dio. Lo sfasamento tra essenza ed esistenza che caratterizza la nostra condizione e la carenza d’essere causata dal peccato sono sanati, risolti. E l’uomo, semplicemente, è. L’esilio è terminato. Siamo tornati in patria.

Marco Galloni

 

Note

1 Cfr. R. Radice, Esistenza e identità. Il punto di vista del pensiero antico, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1-2 (2015), pp. 79-81.

2 In J. Delumeau, Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani, Edizioni Messaggero Padova (EMP), Padova, 2003, p. 81.

3 A. Cassano, Prima l’esistenza o prima l’essenza?, Riforma.it, 30 novembre 2021.

4 P. Ricoeur, «Il peccato originale»: studio di significato, in ID., Il conflitto delle interpretazioni (titolo originale: «Le péché originel»: étude de signification, in ID, Le conflict des interprétations. Essais d’hermenetique, Seuil, Paris, 1969, pp. 266-267), trad. it., Jaca Book, Milano, 1977, pp. 286-287.

5 Ivi, p. 280.

6 M. Flick S.J., Il dogma del peccato originale nell’attuale riflessione teologica, nota redatta per incarico della Commissione per la Dottrina della Fede e la Catechesi, 30 dicembre 1973, p. 3.

7 Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti (titolo originale: Adversus haereses, Libro terzo, 23,3-23,7), a cura di E. Bellini (nuova edizione a cura di G. Maschio), Jaca Book, Milano, 1997, pp. 290-294.

8 M. Flick S.J., op. cit., p. 3.

9 Ivi, pp. 5-6.

10 K. Rahner – H. Vorgrimler, Dizionario di teologia, trad. it., TEA, Milano, 1994, p. 482.

11 M. Flick, op. cit., p. 2.

12 Ibidem.

13 P. Teilhard de Chardin, Note sur quelques Représentations historique possibles du Peché originel, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 61-70.

14 M. Flick, op. cit., p. 5.

15 P. Gilbert, La pazienza d’essere. Metafisica. L’analogia e i trascendentali, Pontificio Istituto Biblico, collana Philosophia, 2015, p. 10.

16 G. Bruno, La cena de le ceneri, Dialogo terzo.

17 Cfr. M. Flick, op. cit., p. 4.

18 Ivi, pp. 6-7.

19 T. Merton, Semi di contemplazione, trad. it., Garzanti Editore, Milano, 1991, p. 42.

20 Come scrive A. Gentili in Premessa alla nuova edizione de La nube della non-conoscenza e gli altri scritti (Àncora Editrice, Milano, 1997, p. VI), l’identificazione dell’ignoto autore rimane a tutt’oggi problematica, anche se accurate ricerche credono di poterlo identificare in Adam Horsley, sacerdote in cura d’anime presso prestigiose università inglesi poi passato alla certosa di Beauvale.

21 Cfr. A. Gentili, op. cit., p. 55.

22 Cfr. Dicastero per la Cultura e l’Educazione – Sezione Cultura, La voce del silenzio.

23 T. Merton, op. cit., p. 173.

24 Anonimo del XIV secolo, La nube della non-conoscenza e gli altri scritti, Àncora Editrice, Milano, 1997, cap. 57, p. 224.

25 T. Merton, Preface, in W. Johnston, The Mysticism of the Cloud of Unknowing. A modern interpretation, St. Meinrad, 1975, pp. IX-XI.

26 Cfr. H.D. Egan, Christian Apophatic and Kataphatic Mysticism, in «Theological Studies» 39 (1978) 400.

27 Cfr. G. Sambonet, L’orizzonte teorico in cui è inscritto “Ai piedi del Maestro”, www.guiasambonet.com/blog/2018.

 

Venerdì, 17 Maggio 2024 10:07

Domenica di Pentecoste. Anno B

Domenica di Pentecoste. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 2,1-11

Dagli Atti degli Apostoli

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all'improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 46 (47)

R. Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.
Oppure: 
R. Alleluia, alleluia, alleluia.

Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.

Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.

Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.

Seconda Lettura Gal 5,16-25

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Galati

Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è Legge.
Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.

Sequenza

Veni, Sancte Spíritus, 
et emítte caélitus
lucis tuae rádium.
Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.
   
Veni, pater páuperum, 
veni, dator múnerum, 
veni, lumen córdium.
Vieni, padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.
   
Consolátor óptime, 
dulcis hospes ánimae, 
dulce refrigérium.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell'anima,
dolcissimo sollievo.
   
In labóre réquies, 
in aestu tempéries, 
in fletu solácium.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.
   
O lux beatíssima, 
reple cordis íntima 
tuórum fidélium.
O luce beatissima,
invadi nell'intimo
il cuore dei tuoi fedeli.
   
Sine tuo númine, 
nihil est in hómine, 
nihil est innóxium.
Senza la tua forza,
nulla è nell'uomo,
nulla senza colpa.
   
Lava quod est sórdidum, 
riga quod est áridum, 
sana quod est sáucium.
Lava ciò che è sórdido,
bagna ciò che è árido,
sana ciò che sánguina.
   
Flecte quod est rígidum, 
fove quod est frígidum,
rege quod est dévium.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
drizza ciò che è sviato.
   
Da tuis fidélibus,
in te confidéntibus, 
sacrum septenárium.
Dona ai tuoi fedeli,
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.
   
Da virtútis méritum, 
da salútis éxitum,
da perénne gáudium.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.

 

Canto al Vangelo

Alleluia, alleluia.

Vieni, Santo Spirito,
riempi i cuori dei tuoi fedeli
e accendi in essi il fuoco del tuo amore.

Alleluia.

Vangelo Gv 15,26-27;16,12-15

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

OMELIA

Padre, Figlio e Spirito Santo. Le tre persone della Trinità cristiana, son tutte maschili.
Anche se sappiamo che Dio (ancora maschile) non ha genere, non è cioè né maschio né femmina, da sempre (o meglio da quando si è passati dalla venerazione della dea-madre al dio degli eserciti, circa 10 mila anni fa) l’immaginario collettivo lo pensa al maschile, con tutte le conseguenze del caso, non ultima quella sottolineata dalla teologa americana Judith van Osdol: ‘L’aver concepito un dio maschio ha dato di fatto il potere al maschio di sentirsi dio’.
Nella festa di Pentecoste, sulla scorta di un pensiero di Willigis Jäger, mi domando cosa sarebbe successo avessimo immaginato, pensato, pregato lo ‘Spirito Santo’ al femminile, invocandola magari come ‘Spirita Santa’.
D’altra parte nella sua lingua Gesù di Nazareth per indicare lo Spirito usa ‘ruach’, femminile. E femminili son tutti i più profondi moti dell’animo di Gesù mossi proprio da questo soffio vitale: compassione, senso materno, intimità, calore, sensibilità, bellezza, ascolto, accoglienza, fecondità, dono.
Aver mascolinizzato il Mistero ha reso tutto più concettuale e distaccato, cerebrale e in ultima analisi indifferente.
Recuperare la dimensione femminile del divino, e in particolare dello Spirito ci aiuterebbe a riscoprire il potere dell’energia femminile che ci abita, di cui siamo tempio, come dice Paolo (1Cor 6, 19), come quell’azione/archetipo che ha mosso Gesù, con tutte le caratteristiche espresse sopra. E di tale energia femminile oggi ne abbiamo immensamente bisogno a tutti i livelli, da diffondersi come un balsamo sulle ferite provocate per lo più dall’archetipo maschile del guerriero.
Jäger ricorda che in una cappellina gotica a Urschalling, alta Baviera, c’è un affresco che rappresenta lo Spirito Santo in sembianze femminili mentre esce dalle pieghe delle vesti del Padre e del Figlio. Molto bello.
E sempre il nostro autore tedesco ha provato a mettere al femminile l’Inno di Pentecoste. Eccolo:
Scendi su di noi, o Santa Spirita che squarci la notte buia,
manda luce in questo mondo.
Vieni, tu che sei colei che ama tutti i poveri, colei che porta buoni doni,
vieni, tu che sei colei che illumina ogni cuore.
Massima consolatrice nella sofferenza, colei che rallegra il nostro cuore e i nostri sensi,
dolce ristoro nel pericolo.
Nell’agitazione doni quiete, nelle fiamme soffi freschezza,
consoli nella sofferenza e nella morte.
Vieni, tu, luce gioiosa, riempi il cuore ed il volto, penetra fino al fondo dell’anima.
Senza il tuo soffio di vita nell’uomo nulla può sopravvivere,
nulla può essere vivo e sano.
Purifica ciò che è macchiato, infondi vita a ciò che è secco,
guarisci dove fa soffrire la malattia.
Riscalda ciò che è freddo e rigido, sciogli ciò che si è irrigidito,
guida colui che ha smarrito la strada.
Dona al popolo che a te si affida, che conta sul tuo aiuto,
i tuoi doni che lo accompagnano.
Lascialo continuare nel tempo, sperando nel compimento della tua salvezza e nelle gioie dell’eternità. Amen, Alleluia.
 
Paolo Scquizzato
 
Venerdì, 17 Maggio 2024 09:58

Ascensione del Signore. Anno B

Ascensione del Signore. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 1,1-11

Dagli Atti degli Apostoli

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l'adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand'ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 46 (47)

R. Ascende il Signore tra canti di gioia.
Oppure:
R. Alleluia, alleluia, alleluia.

Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l'Altissimo,
grande re su tutta la terra.

Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.

Perché Dio è re di tutta la terra,
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo.

Seconda Lettura Ef 4,1-13

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni

Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell'amore, avendo a cuore di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all'uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.

Canto al Vangelo (Mt 28,19a.20b)

Alleluia, alleluia.

Andate e fate discepoli tutti i popoli, dice il Signore.
Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo.

Alleluia.

Vangelo Mc 16,15-20

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

OMELIA

Siamo manifestazione del divino di cui siamo impastati. Da ciò la possibilità di attribuirci un valore infinito e di pensarci con sufficiente fiducia. Ma difficilmente ne siamo consapevoli. Ogni volta che l’angoscia s’affaccia nella nostra vita, abbiamo la necessità di spingerci ‘più in alto’ per essere un poco di più, quasi a voler bilanciare un innato senso d’inferiorità.
«Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare (ed alzare) anche di poco la propria vita?» (Mt 6, 27).
Più cresce la paura di precipitare nell’abisso più s’innescano strategie di grandezza.
Gesù è venuto a dirci che possiamo farne a meno, ricordandoci che siamo già grandi abbastanza: valiamo a sufficienza e andiamo benissimo così.
‘L’ascensione al cielo’ di Gesù fa rinunciare a noi l’improba fatica di conquistarlo. Il suo sedersi alla destra del padre ha fatto in modo che noi potessimo stare come in paradiso su questa terra. Il suo essere nell’ambiente divino ci dice che la divinità non è conquista ma godimento perché ne facciamo già parte. E per questo non siamo più tenuti ad adattarci alle circostanze per prevenire l’infelicità o per evitare il disonore, e soprattutto non siamo più soggetti agli oggetti e agli altri per assaporare il diritto all’esistenza.
Gesù ci ricorda che una vita in balìa dell’ambiente, il dovere di adeguarvisi e di corrispondere alle attese altrui si chiama ‘possessione demoniaca’, concetto che per la moderna psicanalisi prende il nome di angoscia: «Distruzione progressiva dell’io nel folle sforzo di poter raggiungere in questo modo la propria felicità; un defatigante girare in tondo senza concludere nulla, senza direzione, senza stabilità» (Eugen Drewermann).
L’ascensione è certezza di una salvezza già data, e non da conquistarsi e tanto meno da meritare: io sono nell’Uno. Sono l’Uno, la Luce, la medesima Energia che tutto crea e ricrea. Sono già a Casa. Quando ne prenderò consapevolezza mi risveglierò come da un incubo, non avendo più necessità d’essere angosciato nel trovare casa ‘altrove’, con la serena certezza che le situazioni, anche le più drammatiche non avranno l’ultima parola su di me.
 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 04 Maggio 2024 12:04

Sesta Domenica di Pasqua. Anno B

Sesta Domenica di Pasqua. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 10,25-27.34-35.44-48

Dagli Atti degli Apostoli

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 97

Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

Seconda Lettura 1Gv 4,7-10

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.


Canto al Vangelo (Gv 14,23)

Alleluia, alleluia.

Se uno mi ama, osserverà la mia parola, dice il Signore,
e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui.

Alleluia.

Vangelo Gv 15,9-17

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

OMELIA

«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (v.11).
Gesù parla qui di gioia, non di piacere o felicità.
Gioia è la parola più “alta” del nostro vocabolario esistenziale.
Se il piacere riguarda i sensi: una volta appagati il piacere svanisce, la felicità dipende dalle fortuite circostanze della vita. Si sarà felici nella misura andranno a verificarsi quelle circostanze immaginate benevoli per sé stessi. Il problema è che la vita non va quasi mai come l’abbiamo preventivata.
Piacere e felicità sono sentimenti sotto condizione.
E poi c’è la gioia, che altrove nel vangelo viene chiamata anche beatitudine. Essa è incondizionata, ossia non soggetta né ai sensi e tanto meno alle circostanze.
Si tratta piuttosto di ‘uno-stato-dell’essere’. Non deve giungere, accadere. È già data, come l’anima informa il corpo. Il problema è che non ne siamo consapevoli. La gioia è la sorella povera del piacere e della felicità, di continuo agognati come se una manciata di bigiotteria – procacciata a volte a costi altissimi – potesse valere quanto l’oro di cui siamo già costituiti.
San Francesco la definì ‘perfetta letizia’. E abita nei fondali esistenziali, a profondità abissali, che frequentiamo troppo poco, perché impegnati a stare sulla vivacità della superficie.
Etty Hillesum la chiamò sorgente e corrente interiore, e pian piano divenne consapevole di doversene occupare, con cura, in una costante ‘igiene interiore’.
Per Francesco, Etty, Gesù di Nazareth… una cosa è chiara, che questa gioia, questo ‘stato dell’essere’, questo sapersi radicati nel Tutto non potrà essere toccato da nulla e da nessuno. Niente nella vita potrà accedere a tali profondità: «nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16, 23).
Va da sé che questa gioia perfetta, ‘assoluta’ ossia sciolta da prestazioni e legami, non risiede nella positività della vita. Non ci deriva dal costatare che le cose vanno bene, o dall’assenza di prove, malattie, sofferenze, ma piuttosto dalla negatività ‘assunta’ e accolta. È solo questione di integrazione delle proprie ombre e al contempo di disidentificazione con le medesime: io-non-sono-tutto-ciò che la vita mi riserva. Il mio centro, il mio vero Sé – Dio – sorgente interiore – fuoco (ognuno lo chiami come vuole) – rimane, nei miei abissi interiore, fortezza inattaccabile e inespugnabile.
Poco prima di morire ad Auschwitz, Etty in una lettera scrive: ‘Io non mi sento affatto derubata della mia libertà, e in fondo nessuno può farmi veramente del male. Sì, ragazzi miei, è così, ospito in me una curiosa specie di triste letizia. […] si può ben soffrire senza per questo cadere nella disperazione. […] Sai, qui se non hai una forza così grande dentro di te da poter vedere il mondo esterno come nient’altro che una serie di pittoreschi accidenti incapaci di rivaleggiare con la più grande beatitudine, che può costituire la parte inalienabile della nostra interiorità – allora qui è proprio una disperazione’. (Lettere 44 e 45, dal Campo di smistamento di Westerbork, 29 giugno e 11 agosto 1943).
 
Paolo Scquizzato
 

Le canon pascal orthodoxe revient sur les paroles des anges dites aux femmes myrrhophores qui vinrent à la tombe de Jésus en portant les aromates: « Pourquoi chercher parmi les morts le Vivant ? Pourquoi pleurer l'Incorruptible ? Allez porter la Bonne Nouvelle à ses disciples ...»

C'est juste d'ici que le christianisme commence son cheminement sur la terre. Il n'existait pas avant, car la Vie était annoncée par le Vivant même, Jésus de Nazareth, le Verbe incarné. Mais, Jésus a été crucifié et mis en tombeau et les femmes qui L'ont accompagné pendant la vie, ont voulu - dans une bonne tradition biblique -embaumer Son corps avec les substances précieuses. Les aromates symbolisaient leur offrande au Seigneur martyrisé, un geste d'amour, une vénération de leurs souvenirs et peut-être... un espoir vague qu'on n'osait même pas revêtir de paroles. Or, c'est la Parole qui s'est annoncée elle-même, le Tombeau vide a proclamé que la mort n'habite plus dans ses entrailles. La Bonne Nouvelle se révèle inouïe, belle et stupéfiante : Jésus est ressuscité ! Et pourtant, personne ne pouvait obliger ces femmes à l'obéir. Elles auraient pu prendre pour un tentateur l'ange à coté de la tombe et s'échapper saisies de frayeur. Pour « prêter » son âme à l'annonce, pour l'accueillir, il a fallu le courage de croire à ce qui parait impossible, déraisonnable, insensé. Et quelle résolution faut-il avoir pour porter l'annonce aux autres ?

Nous sommes à un moment crucial et fragile dans histoire de l'Evangile : elle est confiée aux femmes et celles-ci en prennent toute la responsabilité. Le message qu'elles devaient porter aux disciples était exigeant, il ne parlait pas du Dieu lointain et obscur, mais de Celui qui a vaincu la mort. La Bonne Nouvelle se traduit désormais comme espérance et promesse. La lumière qui illumine tout homme force la pierre de la tombe du Vivant. On affirme souvent que la peur de la mort se trouve au fond de la foi, mais c'est faux. Sa source la plus profonde et intime est l'espérance d'une rencontre ineffable, celle qui a fait exclamer à Job : « Une fois qu'il auront arraché cette peau qui est mienne, hors de ma chair je verrai Dieu.. .et mes rems en moi se consument» (Jobl9, 26-27). Dans l'abîme du cœur chacun de nous ne veut rencontrer que son Dieu, et Dieu le sait. Il se hâte à notre rencontre, Il devient comme l'un des mortels, Il partage notre existence, Il meurt, Il ressuscite. Et la promesse s'allume. La vision de Dieu dont parle Job est déjà anticipée sur cette terre. Que chaque personne pouvant entendre, écoute le Règne s'approchant d'elle. La foi est l'art d'entendre que Dieu nous parle, la confiance en Ses signes, l'obéissance à Ses paroles. « L'âme est chrétienne par sa nature », dit Tertullien, car notre nature est orientée vers l'espérance, dont la racine est la Résurrection.

Ce n'est pas par hasard que j'ai évoqué le christianisme au début. Car cette année, nous, les orthodoxes, les catholiques et les protestants redevenons de nouveau chrétiens en célébrant la Pâque le même jour. Et je crois, l'année prochaine aussi...

 

Vladimir Zielinsky

 

Venerdì, 03 Maggio 2024 11:54

La tristezza (Arnaldo Pangrazzi)

Lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung scriveva che: «La parola felicità perderebbe il suo significato se non fosse bilanciata dalla parola tristezza», mentre Charlie Chaplin suggeriva che: «La vera felicità è qualcosa di molto vicino alla tristezza».

La tristezza ricopre un ruolo significativo nell'esistenza personale e nel vissuto sociale. Anche Gesù l'ha provata per la morte dell'amico Lazzaro: «Scoppiò in pianto» (Gv 11,35).
In alcune culture e famiglie, però, questo sentimento non ha ricevuto una buona accoglienza, è considerato un qualcosa di negativo, quasi una manifestazione indesiderabile della persona.
Alcuni adolescenti che provano momenti di sconforto sono stati redarguiti dagli adulti con frasi del tipo: «Non fare la donnicciola»; «Gli uomini non piangono», complicando la percezione e gestione di questo stato d'animo.
Pedagogie dettate dall'ignoranza hanno indotto a ritenere che provare tristezza sia segno di immaturità, debolezza e fragilità, per cui questa energia è rimasta, spesso, orfana di accoglienza o segregata agli arresti domiciliari.

Il "dolore dell'anima"

Lo psicologo tedesco Erich Fromm riteneva che «non si può essere profondamente sensibili in questo mondo senza essere molto spesso tristi».
Ognuno sperimenta tristezza in diversi momenti e per tante ragioni: un giorno piovoso, problemi famigliari, critiche ingiuste, tradimenti affettivi, torti subiti. Si può provare tristezza quando nessuno ti ascolta, o quando non c'è chi si ricordi del tuo compleanno o ti mostri affetto.
Talvolta, questo stato d'animo nasce dal non saper comunicare con gli altri. Alcuni sono in pena per opportunità perdute, quali: fare un viaggio, accettare un'offerta lavorativa, esplorare un legame affettivo. Altri si rattristano per fallimenti scolastici o sportivi, disastri finanziari o affettivi. Spesso, la tristezza viene a galla per notizie riguardanti le vittime di un terremoto, il suicidio di un giovane, la scomparsa di una famiglia per incidente stradale, il congedo dalla vita di anziani senza il conforto dei propri cari.
In sintesi, non si può vivere senza sperimentare momenti o eventi che producono tristezza. San Tommaso la definiva: Il dolore dell'anima.
La famiglia della tristezza abbraccia tante voci, alcune più tenui, altre più intense. Tra le espressioni più tenui si registrano: la malinconia, il dispiacere, lo scoraggiamento, la nostalgia, la noia, il senso di abbandono, lo sconforto, la mestizia, lo struggimento.
Le espressioni più intense includono il senso di vuoto, la prostrazione, la desolazione, l'amarezza, lo strazio, la depressione, la disperazione.
Ovviamente, man mano che si intensifica il sentimento e si trasforma in depressione e/o disperazione diventa più tortuoso il cammino per superarla o mitigarla.
La tristezza è un'emozione che si avverte, in particolare, per la mancanza o perdita di qualcuno e rivela il valore degli attaccamenti e il prezzo inevitabile dei distacchi. A volte, sullo sfondo di questo sentimento predominante si annidano abusi sessuali, una madre depressa, un padre dipendente dall'alcol, litigi di coppia o vissuti di separazione che hanno segnato la biografia dell'individuo.

Il vissuto del cordoglio

In generale, gli eventi luttuosi producono tristezza, solitudine e sconforto; molto dipende dall'intensità del rapporto con il defunto. Non si è tristi perché si è deboli, ma perché l'investimento emotivo produce ferite.
Nel vissuto del cordoglio, ci si sente tristi quando si guarda la sedia vuota o si ascolta il rumore assordante del silenzio. Talvolta, basta udire una canzone amata dal proprio caro per far sgorgare le lacrime, o rivedere i suoi amici, per avvertire un vuoto straziante, o passare accanto ad un luogo da lui frequentato, per sentirsi invasi dalla nostalgia.
L'assenza acutizza la differenza con altri; per questo i genitori che hanno perso un figlio non sopportano di incontrare altre coppie che godono la compagnia dei loro figli, così come una vedova prova disagio nel ritrovarsi con gli amici sposati, o una donna che ha perso la propria creatura in gravidanza evita il contatto con chi ha realizzato il sogno di maternità.
La tristezza è come l'olio che viene versato sulle ferite per elaborare il lutto: permette di ricordare e affermare il legame profondo e, allo stesso tempo, allena a un cruciale viaggio nella solitudine prima di reinvestire le proprie capacità affettive verso altre persone e determinati scopi.

Arnaldo Pangrazzi

(tratto da Missione Salute, n. 5/2021, pag. 64)

 

Il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» è un Dio capace di «pentirsi», ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo.

Il testo di Giona 4

1 Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. 2Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. 3Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». 4Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».
5Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. 6Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.
7Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. 8Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».
9Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». 10Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! 11E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

L'ira di Giona (4,1-4)

In questo capitolo conclusivo il narratore ci presenta due soli personaggi, Giona e il Signore, posti a confronto tra loro. Una parola chiave per capire l'intero capitolo è certamente la parola «male»,. All’inizio del racconto è stato il «male» commesso dai Niniviti (1,2) che ha provocato l'intervento del Signore; in 3,8 il re di Ninive invita i suoi sudditi ad allontanarsi dal male; Dio se ne accorge e si pente del «male» che avrebbe voluto fare a Ninive (3,10). Ma tutto questo diventa un «male» per Giona. Il v. 1 suona alla lettera cosi, nel testo ebraico: «Ma fu male per Giona di un male grande ed egli ne fu adirato». L'ira di Giona nasce perche Dio non ha commesso il male che aveva promesso di fare! II male non fatto da Dio è un male per il profeta, e ne provoca la collera.
La preghiera del profeta, riportata ai vv. 2-3, è ancora più sorprendente; strana preghiera, ancor più strana di quella fatta dal ventre del pesce! Soltanto adesso troviamo la risposta alla fuga di Giona, nei primi versetti del libro. Giona non era fuggito certo per paura dei niniviti, né per timore di non riuscire a portare a termine la propria missione. Era fuggito perché, sapendo bene che Dio è buono, era sicuro che Dio avrebbe perdonato gli abitanti di Ninive.
Il v. 3 ripete una formula tradizionale della fede di Israele, il modo in cui Dio si rivela a Mose sul Sinai (Es 34,6-7; cf. anche Sal 103,8; 145,8; GI 2,13). Il Dio di Israele è un Dio pietoso, pieno di amore, lento all' ira; un Dio che arriva a pentirsi, come si è visto nel c. 3, del male che egli stesso ha minacciato di fare. E allora, a che serve andare a predicare in suo nome, se tanto poi lui fa come vuole e, contro le attese del profeta, perdona le persone più cattive che esistano al mondo?
Comprendiamo che il profeta era andato sì a Ninive, ma con le gambe, non con il cuore; o se volete: Dio perdona, ma Giona no. La reazione del profeta, che si ripeterà poco dopo al v. 8, è radicale; non solo si adira, ma annuncia che per lui e meglio morire che vivere. Questa frase è sorprendentemente simile a quella pronunciata da Elia in 1Re 19,4. Il profeta, in fuga dalla regina Gezabele che vuole ucciderlo, si siede sotto un ginepro nel deserto invocando la morte. Ne uscirà soltanto grazie al cibo e all'acqua che un messaggero divino gli offre.
II narratore di Giona riprende consapevolmente la tradizione sulla fuga di Elia e la applica a Giona. Ma mentre Elia ha qualche motivo valido per fuggire (Gezabele lo vuole morto), Giona è animato solo da motivi egoistici. Inoltre, mentre la fuga di Elia diviene incontro con Dio sull’Oreb, la fuga di Giona si trasforma in uno scacco per il profeta. Ponendo in parallelo Giona con Elia il narratore vuole mostrarci la piccolezza di Giona. una sorta di profeta fallito.
Giona appare quasi come un uomo malato. preoccupato soltanto di se stesso, come si nota dall'ossessiva ripetizione dei pronomi personali di prima persona all'interno della sua preghiera: «Non era questo che io dicevo... quando ero nel mio paese?» (cf. 4.2 ) e di nuovo al v. 4. che alla lettera suona cosi: «Prendi la mia vita da me perché è meglio il mio morire che il mio vivere». Giona è del tutto ripiegato su se stesso e non riesce a comprendere la logica di Dio. Giona diviene immagine di un credente chiuso nel proprio modo ristretto di vedere, preoccupato soltanto della propria salvezza, convinto della verità delle proprie asserzioni e adirato con il mondo intero e anche con Dio, che non vuole dargli ragione. Immagine per noi di quello che rischia oggi di diventare la Chiesa, se non si apre alla logica sconvolgente dell'agire di Dio.
Ma Dio ha misericordia anche di Giona e al v. 4 inizia a dispiegare tutta la sua pedagogia nei confronti del profeta recalcitrante; non accusa direttamente Giona, ma lo pone di fronte alla propria responsabilità.

La pedagogia di Dio (4,5-8)

Dio dunque non accusa, ma si serve di fatti per educare Giona. Per tre volte risuona il verbo «provvedere» a proposito dell'agire divino, che educa Giona con mezzi molto semplici: il ricino (v. 6), un verme (v. 7), il vento che si aggiunge al sole (v. 8).
Al v. 5 si vede come Giona si sottrae alla domanda divina relativa alla sua ira. Il narratore non lo dice esplicitamente, ma sembra chiaro il motivo per cui Giona si sofferma nella capanna che ha costruito, osservando la città. Egli non crede ai suoi occhi: Ninive si èconvertita! Ma lo ha fatto davvero? Oppure ritornerà a peccare e Dio dunque potrà finalmente distruggerla? E in questo caso Giona sarà lì, in prima fila, a godersi lo spettacolo.
La crescita della pianta di ricino e il suo successivo seccarsi a causa del verme,il sole e il vento bruciante che adesso colpiscono la testa di Giona, sono piccoli segni che non educano il profeta, ma che rivelano ancora di più come egli sia preoccupato soltanto di se stesso: meglio morire che vivere! (cf. il v. 8). E’ bastata la crescita della pianta per renderlo felice («Una grande gioia»!); è sufficiente che essa secchi per renderlo di nuovo desideroso di morire e adirato più di prima (cf. la nuova risposta di Giona a Dio al v. 9).
Il segno del ricino è ancora più importante: è Dio che lo ha fatto crescere, ed è lui che lo ha seccato. E’ meglio vivere in un mondo nel quale ci sono rifugi efficaci, ma provvisori, come il ricino, oppure abbandonarsi alla misericordia di Dio che tollera anche l'esistenza di Ninive, perdonandola come se non avesse in precedenza commesso colpe orribili? Il ricino e il verme che lo secca richiamano il lettore, insieme alla permanenza di Ninive, al cuore del libro: la misericordia di Dio.

II confronto finale (4,9-11)

La nuova domanda di Dio (v. 9) mette Giona alle strette; vale davvero la pena di adirarsi per una pianta di ricino? Ma tale domanda serve soltanto a mettere in luce il vero cuore del libro, espresso dall'ultima domanda di Dio nei due versetti finali. Come tu ti sei preoccupato di una pianta, non devo io preoccuparmi di uomini e di animali?
L'espressione del v. 11: «Non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra» e di difficile interpretazione; chi ha pensato al fatto che i niniviti sono come bambini privi dell'uso di ragione, chi invece al fatto che essi sono incapaci di distinguere il bene dal male. In questo caso, il motivo per cui Dio salva i niniviti ancora più chiaro. Non perché essi se lo meritino — perché cioè si sono convertiti! — ma perché egli è misericordioso! Questa interpretazione rafforza l'idea che sia proprio la scoperta di una cosi grande misericordia di Dio che scatena l' ira del profeta.
Notiamo, di passaggio. l'interesse del testo nei confronti degli animali (cf. in precedenza il testo di Gio 3.7-8); essi non hanno alcuna autonomia, ma la loro sorte è la stessa degli uomini. Dio pertanto si interessa anche di loro.
Il libro si chiude così con una domanda, caso unico nella Scrittura, una domanda rivolta prima di tutto a coloro che si credono buoni, come Giona. Ma la domanda posta dal Signore a Giona resta nel testo senza risposta; ci troviamo di fronte a una tecnica narrativa interessante, quella della finale aperta. La risposta di Giona non ci viene offerta, perché il narratore invita ogni ascoltatore della storia a dare la propria risposta: Giona avrà fiducia nella bontà di Dio, oppure la rifiuterà? Non lo sappiamo, né lo sapremo mai. Sappiamo soltanto ciò che potrà essere la nostra personale risposta.

La misericordia di Dio nel libro di Giona

Occorre fare attenzione a non dare del libro di Giona una lettura anti-ebraica, favorita, nel passato, da una lettura tipologica che faceva di Giona l'araldo dell'ingresso dei pagani nella Chiesa, a scapito di Israele.
Il problema posto dal libro di Giona, evidente nella domanda conclusiva rivolta da Dio al suo profeta, si può meglio capire sullo sfondo storico nel quale il libro è stato composto. Ci troviamo in un periodo, verso la fine dell'epoca persiana (IV sec. a.C.) nel quale la figura profetica è ormai in crisi. Autori come Giobbe e lo stesso autore del libro di Giona mettono in dubbio che il Dio d'Israele possa essere legato a regole prefissate. Per Giobbe, la giustizia di Dio non dipende dal comportamento dell'uomo; Giobbe non soffre a causa dei suoi presunti peccati. Giona va oltre: neppure la misericordia di Dio può essere legata a comportamenti umani; essa dipende esclusivamente da lui. E questo per il profeta fedele, il «figlio di Amittai», è semplicemente intollerabile. tanto da portarlo a invocare la morte. Meglio morire piuttosto che vivere. in un mondo dove Israele non è più in grado di sperimentare la giustizia di Dio!
Il problema è grave: dove va a finire la giustizia di Dio, già messa in crisi dal libro di Giobbe. di fronte alla sua misericordia? Più radicalmente: che fare di un Dio che sembra smentire anche la sua stessa parola, pur di salvare le sue creature?
Ma il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» (1,9) è un Dio capace di «pentirsi» (3,9-10; 4,2), ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo (4,10-11). Il Dio dell'esodo, che svela adesso i suoi attributi di misericordia (4,2). Un popolo che il profeta Nahum stimola all' odio verso i propri nemici, nel libro di Giona impara che anche il peggior nemico è capace di conversione ed è comunque oggetto dell'amore di Dio.

Luca Mazzenghi

(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)

 

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