Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Quindicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Am 7,12-15

Dal libro del profeta Amos

In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».
Amos rispose ad Amasìa e disse:
«Non ero profeta né figlio di profeta;
ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese,
mi chiamò mentre seguivo il gregge.
Il Signore mi disse:
Va’, profetizza al mio popolo Israele».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 84 (85)

Mostraci, Signore, la tua misericordia.

Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: 
egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme, 
perché la sua gloria abiti la nostra terra.

Amore e verità s’incontreranno, 
giustizia e pace si baceranno. 
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.

Certo, il Signore donerà il suo bene 
e la nostra terra darà il suo frutto; 
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.

Seconda Lettura Ef 1,3-14

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini

Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d'amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l'ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati - secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà -
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi,
dopo avere ascoltato la parola della verità,
il Vangelo della vostra salvezza,
e avere in esso creduto,
avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso,
il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione
di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
 
Canto al Vangelo (Cf. Ef 1,17-18)


Alleluia, alleluia.

Il Padre del Signore nostro Gesù Cristo
illumini gli occhi del nostro cuore
per farci comprendere a quale speranza ci ha chiamati.

Alleluia.

Vangelo Mc 6,7-13

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

OMELIA

«Li chiamò a sé… e prese a mandarli» (v. 7). Essere dei suoi significa essere per gli altri.
‘E dava loro potere…’. Uno solo è il ‘potere’ di cui i suoi – e quindi noi – sono investiti: quello di vincere il male col bene, ovvero mettendo in circolo l’amore. Per questo li manda ‘a due a due’ (v. 7). Il due è principio di comunione. Occorre essere almeno in due per poter incarnare l’amore.
Per amare occorre ‘non possedere nulla’, perché finché si posseggono cose si daranno queste ma non sé stessi. Il rischio sotteso al fare il bene è donare tutto tranne che l’essere. Gesù ha dato la sua vita, non le sue cose.
Al discepolo non è lecito portare-possedere neanche il pane nella sua avventura di bene (v. 8b). Il pane nel vangelo è simbolo della vita, e questa non dipende da quanto pane posseggo o mangio, ma da quello che riesco a condividere con chi ne è privo, ossia da quanta vita riesco ad elargire. Solo quando lascerò mangiare la mia vita come un pane, avrò con me il pane necessario che mi assicura la vita.
Noi viviamo di ciò che doniamo.
In egual modo, questo vangelo ci ricorda che la vita vera non dipende dal possedere una sacca e tanto meno dal denaro da riporci dentro: «Anche se uno è nell’abbondanza la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12, 15).
Solo in questa povertà, in questo ‘vuoto’ interiore, in questo nulla esistenziale i discepoli potranno scacciare demoni e guarire gli ammalati (cfr. v 13). Perché finalmente da quella ‘insufficienza’ emergerà la Presenza, l’unico Bene in grado di guarire e dare la vita.
In At 3, 1-10 Pietro e Giovanni operano ‘miracoli’ proprio perché non possiedono nulla: «Pietro disse al paralitico: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!”» (At 3, 6).
Due oggetti però sono ammessi nell’avventura del bene: il bastone e i sandali. Il bastone richiama il legno che aprì il Mar Rosso (cfr. Es 14, 16) e che fece scaturire dalla roccia l’acqua di vita indispensabile durante il cammino nel deserto (Cfr. Es 17, 5s.). È simbolo della croce, massima debolezza umana, vuoto assoluto, ma proprio per questo fonte di energia in grado di vincere la morte.
Infine è lecito avere con sé dei sandali. Nell’antichità il sandalo è la calzatura degli uomini liberi, mentre gli schiavi andavano a piedi scalzi. Se si vive la logica del bene, se ci si fa dispensatori dell’essere e non dei beni, se cominciamo a guarire le ferite degli uomini risollevandoli dalla loro indegnità, allora sapremo veramente cosa significa essere liberi, altrimenti resteremo schiavi del nostro egoismo, anche possedessimo calzature splendide, borse zeppe di denaro e dispense traboccanti di pane.
 
Paolo Scquizzato
 
Quattordicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ez 2,2-5

Dal libro del profeta Ezechiele

In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 122 (123)

I nostri occhi sono rivolti al Signore.

A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi 
alla mano dei loro padroni.

Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio, 
finché abbia pietà di noi.

Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti, 
del disprezzo dei superbi.

Seconda Lettura 2Cor 12,7-10

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
 
Canto al Vangelo (Cf. Lc 4,18)


Alleluia, alleluia.

Lo Spirito del Signore è sopra di me:
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio.

Alleluia.

Vangelo Mc 6,1-6

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d'intorno, insegnando.

OMELIA

Gesù fa ritorno tra ‘i suoi’ a Nazareth, tra quelli che presumono di saper tutto su di lui, di conoscerlo molto bene. Di possederlo. Ma proprio qui, ‘egli non poté operare alcun prodigio’ (v. 5).
Interessante. La conoscenza del Mistero impedisce di fatto al Mistero di manifestarsi.
Com’è vero che solo quando questo ‘io’ morirà saprò chi sono, allo stesso modo quando morirà la mia conoscenza di Dio, egli si farà conoscere, operando prodigi.
In fondo la grande Tradizione mistica questo l’ha sempre saputo: «L’uomo non deve accontentarsi di un Dio pensato. Perché non appena svanisce il pensiero, svanisce anche quel Dio» (Meister Eckhart).
«Si conosce meglio Dio non conoscendolo» (Agostino).
«La suprema conoscenza di Dio è conoscere Dio come sconosciuto» (Tommaso d’Aquino).
Ma noi esseri umani, artefici indomiti di religioni, abbiamo inventato ‘verità eterne’ rivelate da dio e garantite dalla Chiesa, catechismi, definizioni, dottrine… Abbiamo intentato la grande scalata al cielo, per poi scoprirlo drammaticamente vuoto.
Credo sia questo il tempo di tornare alla fede autentica, lasciando cadere tutte le credenze.
Se ‘credenza’ è convinzione solida senza fondamento verificabile, la fede è libertà da tutte le credenze. “Dio è libero da ogni dio” (Arregi). Da tutte le verità che professiamo come rivelate, da tutte le immagini che ci fabbrichiamo, da culti e riti con cui lo onoriamo.
Le credenze in un dio sono e saranno sempre passibili della cultura in cui si sono affermate, da una costruzione umana collettiva. La fede di contro è fiducia profonda in Ciò che non muta: in Sé, nel prossimo, nel Tutto o nella Fonte autentica della realtà. E questa fiducia fa sì che emerga e fiorisca ciò che vi è di più profondo e autentico, il meglio di sé, la possibilità che ci abita: gratuità, tenerezza, spirito vitale. Fiducia che ci rende liberi, audaci, buoni.
Ed è proprio laddove si coltiva questa fiducia che ci sostiene e ci anima, che Dio si darà, si manifesterà. E opererà prodigi. Perché Dio altro non è che questo. Con questo nome, con un altro nome o senza alcun nome.
 
Paolo Scquizzato
 
Tredicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Sap 1,13-15; 2,23-24

Dal libro della Sapienza

Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c'è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l'invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 29 (30)

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.

Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera è ospite il pianto
e al mattino la gioia.

Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.

Seconda Lettura 2Cor 8,7.9.13-15

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest'opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
 
Canto al Vangelo (Cf. 2Tm 1,10)


Alleluia, alleluia.

Il salvatore nostro Cristo Gesù ha vinto la morte
e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.

Alleluia.

Vangelo Mc 5,21-43

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

OMELIA

Nella vita non ci è chiesto di diventare migliori ma solo noi stessi.

Migliorarsi per compiacere il mondo, farsi trovare sempre adeguati, corrispondere alle altrui aspettative, alla lunga si rivela un bagno di sangue (l’emorroissa in questo brano), tanto da vivere da morti (la figlia di Giàiro).

Le due figure femminili di questo brano sono due facce dell’unica realtà umana: la mia.

È fin troppo facile ritrovarsi a vivere una vita svuotata. Svuotata di senso e di tutto: amori esauriti; lavori alienanti mai scelti; recita di ruoli da commedianti sul palco dell’esistenza, e via dicendo.

Vite addormentate insomma, sempre in fieri, mai vissute. Sognate.

L’unico sogno di Dio, stando alla Scrittura, è che ciascuna creatura ‘abbia la vita e l’abbia in abbondanza’ (cfr. Gv 10, 10). Per questo ciascuno è chiamato a venire alla luce di sé, risvegliandosi alla propria pienezza, la propria verità.

Gesù entra nella stanza della ‘morta-vivente’ e prendendole la mano è come le dicesse: ‘Alzati, ora prendi in mano la tua vita, fanne un capolavoro di fecondità. Vivi in pienezza, non pagare più il prezzo ad altri per la tua felicità. Sii finalmente te stessa. Su, svegliati, intraprendi la strada che sei in grado di percorrere da te, decidi da te la direzione da imprimere alla tua vita’.

«E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì suo corpo che era guarita dal male» (v. 29).

Comincia a vivere da vivo chi intraprende con decisione il viaggio verso sé stesso, risalendo alla propria sorgente interiore. Prendendone contatto, ringraziando per avviarsi sulla propria personalissima strada, portando a compimento questa ‘mia’ vita, per quanto ferita e derelitta possa essere, ma sempre vincente perché la mia.

La domanda alla fine non sarà perciò ‘cosa ho fatto nella mia vita’, ma piuttosto ‘cosa ho fatto della mia vita’.

«Il processo di ricerca è sempre una discesa graduale alla scoperta di sentimenti sepolti, alla scoperta del proprio mondo interiore, dove è possibile riprendere in mano il filo della propria storia. L’uomo scopre così che chiunque abbia sepolto o espulso dalla sua coscienza e lasciato dietro sé nel passato (il bambino che era, i genitori come figure di dimensioni sovraumane, persone che un tempo amava o temeva) è ancora vivo dentro di lui; qualunque cosa sia stata sepolta, esiste ancora nel mondo interiore. Qualsiasi cosa sia stata smembrata, è stata come “sepolta viva” e quando la si scopre, è lì, intatta come allora» (J.S. Bolen)

 
Paolo Scquizzato
 

La risonanza della vicenda del profeta Giona e del suo insegnamento è diffusa nel contesto anticotestamentario (cf. 2Re 14,25) e nell'interpretazione rabbinica. (1) E’ interessante poter vedere come la storia parabolica del profeta Giona, la cui trama narrativa presenta una serie di indicazioni teologiche per il suo tempo, viene riletta nella prospettiva del compimento messianico. (2) La singolarità del tema sta proprio nell'uso che Gesù fa della storia di Giona come «segno» cristologico, che non trova un successivo sviluppo neotestamentario. (3) In questo contributo ci proponiamo di studiare i testi e i contesti evangelici che esplicitamente evocano il libro di Giona.

L'annuncio del «regno» e la pretesa del «segno»

Il riferimento esplicito alla storia del profeta Giona appare in tre contesti: Mt 12,38-42, il suo parallelo di Lc 11,29-32 e Mt 16,1-4. E’ interessante notare come la prospettiva entro la quale va interpretato il motivo di Giona è posta tra l'annuncio del «regno» e la richiesta del «segno». Nella sezione matteana dei miracoli (cf. Mt 8-9) si presentano personaggi che ricevono segni: il lebbroso (Mt 8,3), la suocera di Pietro (Mt 8,14-15), la tempesta sedata (Mt 8,23-27), i due indemoniati liberati (Mt 8,28-34), la bambina di Giairo e l'emorroissa (Mt 9,18-26), i due ciechi (Mt 9,27-31), l'indemoniato muto (Mt 9,32-34) e altri che credono senza il bisogno di vedere segni: il centurione (Mt 8.5-13), il paralitico (Mt 9,1-8). Di fronte alla fede del centurione che non chiede un segno, ma crede sull’autorità della parola, Gesù afferma:

In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede cosi grande! Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti (Mt 8,10-12).

Questo riferimento e collegato all'incredulità (4) intorno alla figura messianica di Gesù e all'annuncio del regno. Nel primo vangelo la concezione della fede e subordinata all'accoglienza della persona del Cristo (cf. Mt 14,53-58) e del regno, che si manifesta mediante la predicazione accompagnata da segni prodigiosi. Si schiude cosi la prospettiva che caratterizza la seconda parte del ministero pubblico di Gesù e che si collega con uno dei temi teologici del libro di Giona: l'universalismo della salvezza. Considerando il messaggio dei tre sinottici, di fronte alla richiesta di «segni» Gesù sembra dare due risposte diverse. Secondo la narrazione marciana il Signore nega risolutamente ogni segno della sua autorità divina (cf. Mc 8,11-12). Nell'economia della presentazione cristologica di Marco, la negazione del segno appare coerente con la struttura progressiva e rivelativa del vangelo, che chiama alla fede mediante la rivelazione della persona del Cristo (cf. Mc 8,27-30) e al discepolato mediante la sequela della croce (cf. Mc 8,31-38). La concessione di un segno, che non appare nella tradizione marciana, viene invece introdotta negli altri due sinottici, per bocca dello stesso Gesù, che reinterpreta la storia di Giona come enigmatico annuncio del proprio destino.

II contesto sinottico di Matteo

L'intenzione dell'evangelista in Mt 11-12 è quella di presentare la persona di Gesù come Messia che compie le attese d'Israele. Egli è colui che annuncia il regno nei discorsi (cf. Mt 5-7), lo rende presente nei segni miracolosi (cf. Mt 8-9) e lo affida alla missione itinerante dei discepoli (cf. Mt 10). Il modello teologico che sottosta alla figura e alla missione di Gesù è costituito dal servo sofferente di YHWH (Mt 12,15-21; cf. Is 52-53). Pertanto la domanda implicita che percorre questa sezione è tematizzata sull'identità messianica di Gesù, richiesta dall'interpellanza del Battista e rivelata nella risposta del Signore:

«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono. i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella. E beato è colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,3-6).

A partire da questa lettura messianica, in Mt 12 si registrano i diversi motivi conflittuali tra Gesù e l'autorità costituita: le dispute riguardano il lavoro in giorno di sabato (Mt 12,2-3.12) e i potere di scacciare i demoni (Mt 12,22-24). Più che nel parallelo lucano, Matteo mette in luce la funzione giudiziale del Cristo, mediante la forte requisitoria contro l'ipocrisia dei farisei. Il tono profetico del confronto assume un orientamento escatologico, a motivo dell'insistenza del giudizio finale (Mt 12,33-37). Sulla stregua di questo confronto, che segna la distanza tra Gesù e il gruppo degli scribi e dei farisei, si inserisce la richiesta di un segno. che verte esplicitamente sul destino del Figlio dell'uomo e sulle conseguenze nei riguardi della «generazione perversa» (Mt 12.39.45). Mentre lo spirito impuro tornerà a dimorare e a peggiorare la condizione dei malvagi (Mt 12,43-45), la nuova famiglia di Gesù sarà costituita da quanti compiono «la volontà del Padre» (Mt 12,50).

II contesto sinottico di Luca

Il contesto lucano riporta una serie di logia riguardanti l'insegnamento di Gesù mentre è in cammino e svolge la sua predicazione alle folle. Dopo la consegna della preghiera del Padre nostro (Lc 11,1-4) e la necessità di invocare Dio con insistenza (Lc 11,5-13), l'evangelista presenta una disputa di Gesù con «alcuni» che di fronte al miracolo della guarigione del muto indemoniato, affermavano che il Signore agiva «in nome di Beelzebù» (Lc 11,15) mentre «altri, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo» (Lc 11,16). Gesù risponde, rivelando come la sua missione liberatrice avviene con il «dito di Dio», segno della venuta del regno di Dio (Lc 11,20). A confermare questa rivelazione, segue la similitudine dell'«uomo forte che è vinto dall'arrivo di un uomo che è più forte» (cf. la definizione del Cristo pronunciata dal Battista in Lc 3,16).
La sentenza finale di Lc 11,23 pone in modo radicale la scelta di essere con Cristo, altrimenti la condizione di schiavitù e di peccato tornerà a essere peggiore di prima (cf. Lc 11,24-26). Solo l'evangelista Luca riporta la scena della donna che benedice la maternità del Signore (Lc 11,27-28) e la significativa risposta di Gesù: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!». La rilevanza della «beatitudine dell'ascolto» pone in evidenza la diversa interpretazione lucana del segno di Giona (cf. Lc 11,29-32). In definitiva, le prospettive dei due sinottici sembrano diverse, come le conseguenti sottolineature relative all'interpretazione di Giona: in Matteo è sottolineata l'esperienza del parallelismo dei tre giorni e tre notti di Giona e quelli del Figlio dell'uomo (morte-risurrezione), in Luca l'analogato è la predicazione di Giona ai niniviti; pertanto il segno consiste nella «predicazione» stessa di Gesù.

II «segno» di Giona profeta

Dopo aver indicato lo sviluppo tematico del contesto, fermiamo l'attenzione sui due testi sinottici.
Nella versione matteana il segno di Giona consiste anzitutto nel fatto che il profeta «rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce» (cf. Gio 2,1), figura del «figlio dell'uomo» che «resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40). Questa sottolineatura stabilisce un confronto tra Gesù e l'episodio specifico accaduto al profeta: mentre il profeta fu gettato in mare per salvare l'equipaggio, venne ingoiato nel ventre del pesce e fu riportato vivo sulla terra, il «figlio dell'uomo» morirà per salvare l'umanità, rimarrà nel cuore della terra e il terzo giorno risorgerà. Si stabilisce cosi una relazione tipologica tra Giona e Gesù secondo lo schema promessa/compimento: la «profezia» di Giona diventa un segno rivelatore, in quanto essa prefigura il destino pasquale del Cristo. che muore e risorge «il terzo giorno» per donare la salvezza universale.

 

 Mt 12,38-42  Lc 11,29-32
38 Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono 29 Mentre le folle si accalcavano, Gesù
«Maestro, vorremmo che tu cominciò a dire: «Questa generazione
ci facessi vedere un segno». Ed egli rispose: e una generazione malvagia; essa cerca
39«Una generazione perversa e un segno, ma non le sarà dato alcun
adultera pretende un segno! Ma nessun segno, fuorché il segno di Giona. 30 Poiché,
segno le sarà dato, se non il segno di come Giona fu un segno per quelli
Giona profeta. 40Come infatti Giona di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo
rimase tre giorni e tre notti nel ventre lo sarà per questa generazione.
del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà La regina del sud sorgerà nel giudizio
tre giorni e tre notti nel cuore della insieme con gli uomini di questa
terra. 41 Quelli di Ninive si alzeranno a generazione e li con dannerà; perché
giudicare questa generazione e la essa venne dalle estremità della terra
condanneranno, perché essi si convertirono per ascoltare la sapienza di Salomone.
Alla predicazione di Giona. Ecco, 32 Quelli di Ninive sorgeranno nel
Ora qui c’è più di Giona!42 La regina giudizio insieme con questa generazione
del sud si leverà a giudicare questa e la condanneranno; perche essi
generazione e la condannerà, perché alla predicazione di Giona si convertirono.
Essa venne dall'estremità della terra Ed ecco, ben più di Giona c'e qui.
per ascoltare la sapienza di Salomone;  
ecco, ora qui c'e più di Salomone!  

 

Tuttavia nel confronto tra Giona e Gesù, il segno del Figlio dell'uomo rimane pur sempre enigmatico, perché Giona resta vivo nel ventre del pesce e viene rigettato all'asciutto per compiere la sua missione e da parte sua non accetta l'idea della salvezza dei pagani. mentre il Figlio dell'uomo, dopo aver predicato la salvezza a tutti. prima verrà ucciso e nel terzo giorno Dio lo farà risorgere alla vita (cf. Os 6.2). (5) In questo sviluppo si annuncia la superiorità del Cristo, non solo rispetto alla profezia di Giona, ma anche alla sapienza di Salomone. In tal modo l'evangelista propone un ulteriore messaggio: il compimento cristologico, a cui la comunità è chiamata a credere, non è solo nella linea profetica ma anche in quella sapienziale.
II giudizio escatologico che segue nelle due sentenze contro la «generazione perversa e adultera» verte sul motivo della fede nella persona del Cristo. I niniviti si convertirono alla predicazione di Giona e la regina del sud venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, «questa generazione» invece rimane incredula e non si converte di fronte al Cristo, il cui mistero pasquale rappresenta un evento assai più importante del segno di Giona e della stessa sapienza di Salomone. Nel giorno del giudizio i niniviti si leveranno come testimoni non soltanto per accusare i contemporanei di Gesù, ma anche per affermare la sua superiorità rispetto a Giona e a Salomone.
Nella versione lucana si afferma che Giona fu «un segno per quelli di Ninive» e si omette la citazione dei tre giorni», lasciando intendere che tutta la vita di Giona «fu segno» per quelli di Ninive, soprattutto quando il profeta accetta di predicare finalmente nella grande città (cf. Gio 3). Va sottolineato come l'evangelista anticipa l'esempio positivo della figura femminile della regina del sud (Lc 11,31), a cui segue la presentazione dei niniviti pagani (Lc 11,32). II motivo determinante è dato dalla «fede nella predicazione» (Lc 11,32: kerygma) di Giona. Infatti esso è collocato alla fine della pericope, come chiave di lettura del processo di conversione dei pagani. Appare chiaro come l'evangelista, in linea con lo sviluppo narrativo e teologico del proprio racconto, intenda accentuare la necessità dell'accoglienza della predicazione da parte della «generazione malvagia» in vista della conversione, a cui tutti, giudei e pagani, uomini e donne, sono chiamati a corrispondere.
Riassumendo gli esiti delle due tradizioni sinottiche, l'impiego teologico del libro di Giona in Matteo appare più centrato sul mistero pasquale del Cristo, mentre l'attenzione di Luca verte maggiormente sul processo dell'evangelizzazione, che sottintende la prospettiva della salvezza universale e la necessità dell'accoglienza di coloro che si convertono ed entrano a far parte della comunità cristiana.

Il logion di Mt 16,1-4 e I'accenno «ironico» a Simone figlio di Giona (Mt 16,17)

Collegata con Mt 12,38-42, un'ulteriore menzione del «segno di Giona» ritorna in Mt 16,1-4:

1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2 Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perchè iL cielo rosseggia"; e al mattino: "Oggi burrasca, perche il cielo è rosso cupo". Sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? 4 Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò.

Il brano si contestualizza in Mt 16,1-12, dove si presentano due scene: la richiesta di un segno da parte dei farisei e dei sadducei, seguita dalla risposta di Gesù. (vv. 1-4) e il successivo dialogo del Signore con i suoi discepoli sulla barca (vv. 5-12). E’ nella prima scena che Gesù fa riferimento al «segno di Giona», senza ulteriori specificazioni, rispondendo ai rappresentanti del giudaismo («farisei e sadducei», cf. Mt 3,7; 15,1-20), che perseverano nel metterlo alla prova. Sebbene Gesù avesse moltiplicato i pani per la folla (cf. Mt 15.29-39), i farisei e i sadducei non sono ancora soddisfatti del segno compiuto e pretendono la stessa richiesta di Mt 12,38-42: la conferma inconfutabile dell'identità messianica di Gesù richiede «un segno dal cielo». intendendo per «cielo» la realtà trascendente di Dio. Questa volta la risposta del Signore si trasforma a sua volta in una domanda che fa leva sul contrasto tra la capacita dei suoi interlocutori di interpretare due segni atmosferici: il rossore del cielo alla sera e alla mattina (vv. 2-3).
Pertanto la similitudine della previsione del tempo meteorologico pone in questione la capacita di discernimento del «segni dei tempi» da parte degli avversaridi Gesù. Attratti da un messianismo distorto e fallace, essi si aspettano segni prodigiosi che mirano al prestigio religioso e al potere pubblico; ma la missione del Cristo rifugge proprio questo messianismo fino alle estreme conseguenze (cf. Mt 27,40). La risposta di Gesù si completa al v. 4: la generazione «malvagia e adultera», rappresentata dall'incredulità refrattaria e ostile all'azione di Dio, da parte dei responsabili del giudaismo, non merita alcun segno se non il «segno di Giona». La mancanza di ulteriore specificazione fa pensare che il testo rimandi al precedente logion di Mt 12,38-42.
Alcuni autori hanno inteso collegare il motivo di Giona all'espressione rivolta a Pietro da parte di Gesù in Mt 16,17, dove viene denominato «Simone figlio di Giona»:

E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio the e nei cieli».

L'interpretazione si basa sull'ipotesi secondo la quale Gesù, rispondendo ai farisei e ai sadducei, avrebbe rimandato con un accenno ironico all' umile fede di Pietro a cui verrà affidata la Chiesa, che qui e definito «figlio» (nel senso simbolico) di Giona. Pur lasciando aperta questa ipotesi a ulteriori verifiche, il testo sembra esulare dalla prospettiva che vorrebbe collegare la figura di Giona con quella di Simon Pietro. Infatti tale interpretazione rimane periferica rispetto alla relazione tipologica Giona-Cristo, emersa da Mt 12,38-42 e Lc 11,29-32 e collegata al motivo teologico-narrativo del «segno» messianico e della rivelazione del «Cristo, Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).

Conclusione

Il percorso proposto ha permesso di cogliere alcuni aspetti della ricchezza del libro di Giona reinterpretato nei racconti evangelici. Possiamo segnalare tre principali prospettive che emergono dall'interpretazione evangelica:

a) la prospettiva cristologica, in quanto il «segno di Giona» fa riferimento al mistero della morte e della risurrezione di Cristo;

b) la prospettiva kerigmatica perché la vita e la missione del profeta si esplica mediante la predicazione della salvezza ai pagani, i quali accolgono l'invito alla conversione e ricevono il perdono di Dio, tra le proteste del profeta (cf. Gn 4.1);

c) la prospettiva antropologica, in quanto dal libro si coglie la dimensione umana del protagonista, il suo conflitto interiore, la paradossalità dialettica della sua missione e del suo portato teologico.

In definitiva una «storia» dall'esito imprevedibile, come imprevedibile è la misericordia di Dio per noi.

 

Giuseppe De Virgilio

Note

1) Alcuni rabbini sostenevano che «Giona figlio di Amittai» fosse quel figlio della vedova di Sarepta risuscitato da Elia e tra i midrashim esegetici vi è il Midrash Giona. In alcune leggende ebraiche su Giona si descrivono storie romanzate sulle vicende narrate nel libro del profeta, a indicare l'importanza che il libro ricoprì nello sviluppo della riflessione teologica successiva (cf. A. UNTERMAN, Dizionario di usi e leggende ebraiche, Laterza, Bari 1994. 122).
2) Per l'approfondimento cf. H.W. WOLFF, Studi sul libro di Giona, Paideia, Brescia 1982; G. LIMENTANI, Giona e il Leviatano, Paoline, Milano 1998; E. WIESEL, Cinque figure bibliche, Giuntina, Firenze 1988.
3) A differenza di altre tipologie anticotestamentarie riprese e applicate al Cristo nel Nuovo Testamento (Noè, Abramo, Davide, Salomone, Isaia, Geremia, Daniele, ecc.), la figura di Giona ritorna solo in Matteo e Luca. Per un approfondimento, cf. V. MORA, Le signe de Jonas, Cerf, Paris 1983; R. FARRIS, Matteo, Borla, Roma 1982, 281-283; S. GRASSO, Il Vangelo di Matteo, Deboniane, Roma 1995, 322-325.
4) Per uno sviluppo del tema. cf. M. CAIROLI, La «poca fede» nel Vangelo secondo Matteo. Uno studio esegetico-teologico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2005; V. FUSCO, «L'"incredulità del credente”: un aspetto dell'ecclesiologia di Matteo», in Parole Spirito e Vita 17 (1988) 118-142.
5) Commenta a proposito A. Mello: «Quanto alla predicazione profetica di Giona, il suo valore prefigurativo è piuttosto quello dell'anti-tipo, ossia del contrario. Giona aveva un messaggio di sventura a cui i niniviti cedettero, facendo penitenza; Gesù porta un evangelo di salvezza in faccia alla quale "questa generazione" rimane incredula. "Ho inviato un profeta a Ninive, che la indusse a convertirsi facendo penitenza. Ma questi figli di Israele che sono a Gerusalemme, quanti profeti ho inviato loro!” (Eikha Rabba, Peticha 31)» (A. MELLO, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Qiqajon, Magnano 1995, 229-230).

 

(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)

 

 

 

 Capitolo II (continua)

§3. Il sacrificio convertito

Questa rassegna, per quanto breve, rivela quale diffusione e importanza avesse il sacrificio nell’Antico Testamento e quanto sia inaccettabile la proposta di eliminarlo dalla storia della salvezza: «L’abbondanza con cui la categoria del sacrificio è attestata nella Scrittura ne fa un polo essenziale della soteriologia cristiana. Né essa è meno attestata nella tradizione», scrive B. Sesboüé[86]. Ma la rassegna appena vista mostra anche un’altra cosa: che la passione di Cristo non rientra in nessuna delle categorie sacrificali dell’Antico Testamento. Niente fa pensare che una simile morte potesse avere una dimensione sacrificale, dal momento che non ebbe luogo nel tempio e neppure per mano dei sacerdoti; fu anzi perpetrata da empi (cfr. At 2,23). Del resto la morte di un uomo non fu mai considerata un sacrificio dalla tradizione veterotestamentaria; nei sacrifici dell’Antico Testamento si offrivano agnelli, capretti, tori, tortore, colombe o, in modo incruento, prodotti della terra, mai uomini. A tal proposito può essere illuminante il parallelo tra la morte di Gesù e quella di Giovanni Battista: tutti e due sono vittime dell’odio dei loro nemici (Lc 3,19; Mt 14,1 – 12), ma solo la morte di Gesù sarà inquadrata nella categoria del sacrificio; il supplizio del Battista sarà classificato come martirio[87].


La morte di Gesù, anzi, ha tutte le carte in regola per essere considerata l’esatto contrario del sacrificio, dell’atto gradito a Dio: se è vero che «i sacrifici sono anzitutto un momento di incontro del fedele con Dio, durante il quale il Signore concede la sua benedizione, ossia la fertilità e il benessere»[88], allora la crocifissione di Cristo è un antisacrificio, il momento non dell’incontro con l’Altissimo ma del suo rifiuto e della sua maledizione. Secondo Gérard Rossé, infatti, con ogni probabilità Gesù è caduto sotto la sanzione della Legge espressa in Dt 21,22 – 23: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità»[89].


È opinione diffusa che Gesù sia morto sulla croce perché questa era la pena che i romani comminavano a schiavi ribelli, banditi famigerati e criminali particolarmente pericolosi; se Roma non fosse stata solita togliere lo ius gladii ai popoli sottomessi, Gesù sarebbe probabilmente morto per lapidazione, la pena di morte ebraica più praticata. In realtà, fa notare Rossé, il supplizio della crocifissione era conosciuto e praticato in Israele anche prima che i romani ne facessero uso sistematico; esisteva una crocifissione come punizione giudaica, eseguita nel nome della Legge e in riferimento alla sentenza di Dt 21,22 – 23. La LXX, coordinando i verbi dei versetti in questione («se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e sia messo a morte e che lo appendiate a un legno...»), suggerisce il seguente svolgimento: il condannato è prima ucciso per lapidazione (influenza probabile di Dt 21,18 – 21), poi il suo cadavere è appeso a un legno (albero, palo). Tuttavia l’interpretazione più primitiva e più comune leggeva Dt 21,22 nel modo seguente: «Se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte, tu l’appenderai al legno»; in questo caso la condanna riguarda una morte per crocifissione, non una lapidazione seguita dall’impiccagione del cadavere. La testimonianza più diretta e importante di tale pena capitale si trova nel Rotolo del Tempio, scoperto nelle grotte di Qumran. A differenza di Dt 21,22, che parla in modo generico di delitto degno di morte, il manoscritto del Mar Morto menziona due crimini specifici: il caso di un traditore che consegna il suo popolo a una nazione straniera; il caso di un condannato a morte che, riuscendo a fuggire, si rifugia in altre nazioni dalle quali maledice il suo popolo. Per tali delitti il rotolo prescrive: «Lo appenderete al legno, e morirà (...). E non lascerai il loro (sic) cadavere sul legno durante la notte, ma li dovete seppellire il giorno stesso, perché sono maledetti da Dio e dagli uomini coloro che sono appesi al legno e tu non contaminerai la terra che ti ho dato in eredità» (11 Q 19 LXIV 6 – 13). Il Rotolo del Tempio, insomma, confermerebbe che, attorno all’era cristiana, il testo di Dt 21,22 – 23 era applicato alla crocifissione di criminali, pena sentenziata nel nome della Legge e compresa come punizione giudaica. Non si può quindi escludere, prosegue Rossé, che il Sinedrio stesso abbia condannato Gesù alla crocifissione con l’accusa di essere un bestemmiatore o un falso profeta, anche se il potere esecutivo era in mano a Pilato[90]. Come sia, è plausibile ritenere che Gesù, condannato in nome della Legge e crocifisso, fosse considerato da molti, in Israele, un maledetto da Dio, sulla base di Dt 21,23. Paolo è il primo ad affermarlo in modo esplicito in Gal 3,13: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno». Va precisato, fa ancora notare Rossé, che l’apostolo attribuisce la maledizione non a Dio ma alla Legge: Gesù crocifisso subisce la maledizione della Legge e si trova così in piena solidarietà con l’uomo sotto la Legge, per riscattarlo; nondimeno la citazione di Dt 21,23 in Gal 3,13 testimonia che Paolo conosce il legame tra il supplizio della croce e la maledizione a esso legata[91].


Anche il processo intentato a Gesù, non solo la sua passione, sfugge alle tradizionali categorie ebraiche e romane: la morte del Messia è stata decisa non dal Sinedrio al completo, riunito in modo regolare, ma durante una seduta notturna di alcuni sinedriti. Gesù fu ritenuto pericoloso al punto da essere consegnato a Pilato. E il prefetto romano, la cui crudeltà era conosciuta, ne sentenziò la morte per crocifissione in maniera del tutto ingiustificata[92]. Scrive Rossé: «Con ogni probabilità il motivo dell’arresto e della condanna sono stati il gesto e la profezia contro il tempio; ruolo attivo hanno avuto i Sadducei; motivo nascosto: Gesù metteva in discussione l’ordine stabilito; motivo politico da portare a Pilato: una pretesa regalità (vedi il titulus della croce). Ma se Pilato avesse ritenuto Gesù politicamente o socialmente pericoloso, avrebbe anche fatto ricercare e arrestare i suoi complici, cioè i discepoli, ma non lo fece»[93].


Quanto fin qui esposto rende facile condividere ciò che Joseph Moingt dice sulla passione di Cristo: «La croce è un sacrificio sotto il modo di non esserlo, sacrificio unico nel suo genere, che non entra nel genere sacrificale, un sacrificio che si compie consumando in sé la ragion d’essere e il senso sacrificale degli altri sacrifici religiosi, i quali sono inefficaci e non sono graditi a Dio, un sacrificio che trasforma radicalmente l’atteggiamento religioso degli uomini per renderli degni della rivelazione e del culto del Dio nuovo rivelato sulla croce»[94]. Possiamo in un certo senso dire – riprendendo il pensiero di Sesboüé, che parla di «senso convertito assunto dal termine sacrificio» (cfr. op. cit., n. 79) – che la morte di Gesù redima anche il sacrificio. Non elimina il sacrificio dalla storia della salvezza, non lo rinnega, anzi abbraccia un po’ tutte le pratiche sacrificali della storia di Israele e di alcune riprende il linguaggio (il pasto sacro, l’effusione di sangue), ma nello stesso tempo – secondo quella logica di tradizione e novità, di continuità e compimento/superamento che lega in modo indissolubile Antico e Nuovo Testamento – le trascende, va oltre, dà loro un significato del tutto nuovo.

 

Marco Galloni

 

[86] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 291.

[87] Cfr. G. DEIANA, op. cit., p. 73.

[88] Ivi, p. 51.

[89] G. ROSSÉ, Maledetto l’appeso al legno. Lo scandalo della croce in Paolo e in Marco, Città Nuova Editrice, Roma, 2006, pp. 8 – 9.

[90] Ivi, pp. 9-11.

[91] Ivi, pp. 11-12.

[92] Ivi, p. 8.

[93] Ivi, p. 8, n. 1.

[94] J. MOINGT in Mort pour nos péchés. Recherche pluridisciplinaire sur la signification rédemptrice de la mort du Christ, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, p. 167.

testo precedente

 

Dodicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Gb 38,1.8-11

Dal libro di Giobbe

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:
«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
e gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 106 (107)

Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.

Coloro che scendevano in mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore
e le sue meraviglie nel mare profondo.
 
Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,
che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;
si sentivano venir meno nel pericolo.
 
Nell’angustia gridarono al Signore,
ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio,
tacquero le onde del mare.
 
Al vedere la bonaccia essi gioirono,
ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore,
per le sue meraviglie a favore degli uomini.

Seconda Lettura 2Cor 5,14-17

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
 
Canto al Vangelo (Lc 7,16)


Alleluia, alleluia.

Un grande profeta è sorto tra noi,
e Dio ha visitato il suo popolo.

Alleluia.

Vangelo Mc 4,35-41

Dal vangelo secondo Marco

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all'altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

OMELIA

Siamo tempesta. “Siamo solitudine” (Rilke).
L’unica cosa veramente umana che possiamo fare è ‘mantenere la calma’.
Scendere al centro di noi e scoprirvi il luogo, la dimensione dove è possibile riposare nella pace, come nell’occhio del ciclone, ove tutto è incandescenza. E lì patire la trasformazione.
Si tratta di ancorarci profondamente sul ‘fondo’ della nostra anima. Nella tempesta, ‘stare’ in perfetta quiete al Centro di noi stessi. Dove niente e nessuno potrà entrare, o recar danno.
Noi siamo. Siamo il nostro Essere, al di là di ciò che abbiamo, i nomi, le cose cui ci ancoriamo.
Disarcionati, cadiamo nel Vuoto: stato dell’infinità possibilità.
I miti antichi, e la saggezza dei grandi ci suggeriscono che c’è un solo modo per non lasciarsi vincere dal sentimento della paura: abitarla. Fino in fondo. Là si compirà l’autentico miracolo della nostra esistenza: costatare che l’angoscia è solo un errore di prospettiva. Non siamo cosa che può essere perduta. Ma uno con l’Uno. Epifania dell’incommensurabile.
Siamo l’altro nome di Dio.
 
Paolo Scquizzato
 
Undicesima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Ez 17,22-24

Dal libro del profeta Ezechiele

Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 91 (92)

È bello rendere grazie al Signore.

È bello rendere grazie al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.

Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.

Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità.

Seconda Lettura 2Cor 5,6-10

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

Canto al Vangelo


Alleluia, alleluia.

Il seme è la parola di Dio,
il seminatore è Cristo:
chiunque trova lui, ha la vita eterna.

Alleluia.

Vangelo Mc 4,26-34

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

OMELIA

“Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga” (vv. 26-28)

Esiste una realtà, in cui siamo immersi e che ci pervade, che fa sì che tutto emerga, cresca e si compia. E questo ‘spontaneamente’, senza forzature, senza il nostro intervento, o di qualcosa d’esterno. Anzi, meno ci si pone di traverso, più questa forza farà il suo corso, conducendo tutto in porto.

«Coloro che fluiscono come scorre la vita, sanno di non aver bisogno di altra forza» (Lao Tse).

Il non fare è ciò che di più grande e produttivo si possa compiere. Nella vita spirituale – come nell’arte – quanto meno si opera maggiormente si crea.
Compiremo l’opera più alta quando l’ego e i nostri sforzi consapevoli s’arrenderanno a questa forza che non è la nostra.
Non esiste ‘un noi’ a cui accadono le cose diverso da quanto sta accadendo, e di conseguenza le cose non accadono ‘a noi’. Noi siamo (nel)le cose che accadono. Le cose accadono e insieme ci accadono e basta.
Il ‘noi’ fa parte di ciò che accade, perché facciamo parte dell’universo. E l’Universo non ha parti. È Uno.

“Che cosa cerchi?
La sorpresa suprema”.

Ciò che cerchiamo alla fine è solo la ‘sorpresa suprema’, e nella misura in cui abbiamo dei preconcetti su di essa, la guasteremo.
Il principio che regola l’Universo è la sorpresa, e la spontaneità. Significa compiere un miracolo senza compiere miracoli, senza far nulla, senza programmarlo.
Quando smetti di desiderare il miracolo, il miracolo si compie.
 
Paolo Scquizzato
 
Decima domenica del Tempo Ordinario. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura Gen 3,9-15

Dal libro della Genesi

[Dopo che l'uomo ebbe mangiato del frutto dell'albero,] il Signore Dio lo chiamò e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l'uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».
Allora il Signore Dio disse al serpente:
«Poiché hai fatto questo,
maledetto tu fra tutto il bestiame
e fra tutti gli animali selvatici!
Sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
Io porrò inimicizia fra te e la donna,
fra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 129 (130)

Il Signore è bontà e misericordia.

Dal profondo a te grido, o Signore;
Signore, ascolta la mia voce.
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica.

Se consideri le colpe, Signore,
Signore, chi ti può resistere?
Ma con te è il perdono:
così avremo il tuo timore.

Io spero, Signore;
spera l'anima mia,
attendo la sua parola.
L'anima mia è rivolta al Signore
più che le sentinelle all'aurora.

Più che le sentinelle l'aurora,
Israele attenda il Signore,
perché con il Signore è la misericordia
e grande è con lui la redenzione.
Egli redimerà Israele
da tutte le sue colpe.

Seconda Lettura 2Cor 4,13-5,1

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi

Fratelli, animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.
Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.
Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.

Canto al Vangelo Gv 12,31b-32


Alleluia, alleluia.

Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me.

Alleluia.

Vangelo Mc 3,20-35

Dal vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni».
Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa.
In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

OMELIA

Gesù non s’allinea alla tradizione religiosa dei suoi padri, a quel ‘s’è sempre fatto così’ in bocca a chi ha trasformato la tradizione in mero culto delle ceneri quando è invece sacra custodia del fuoco. E per questo proprio i suoi, sua madre e i suoi fratelli lo vanno a prendere, credendolo impazzito: ‘È fuori di sé’ (v. 21). Un indemoniato (v. 30).
Bellissimo! Per stare dentro la logica evangelica occorre essere ‘fuori di sé’. E fuori da una religione fondata su tradizioni e dottrine che son semplici precetti di uomini: «Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione» (cfr. Mc 7, 7s.). Quella medesima tradizione che in nome del suo piccolo dio afferma che un essere umano può essere discriminato in base al suo stato di purità, alla colpa commessa, al popolo d’appartenenza o alle sue scelte alimentari.
Per questo Gesù non ci sta, e ne prende le distanze. Per lui la persona è sempre di più che un’affermazione di principio – religiosa o politica che sia. Neanche un dio può essere sopra l’umano. Averlo creduto ha fatto sì che si perpetuassero crimini orrendi nei confronti delle persone in nome del medesimo dio.
Per questo Gesù è ‘fuori di sé’. Perché ha finalmente compreso che il suo Dio coincide con l’umano portato alle estreme conseguenze. E quindi alla luce. Ed è per questo che ha guarito i lebbrosi che la Legge divina considerava maledetti; ha rialzato l’adultera che la Legge di Dio reputava meritevole di morte; ha violato il sabato – il più alto comandamento divino – a favore del bene dell’uomo; ha dichiarato puri tutti gli alimenti quando la Legge di Dio proibiva l’uso di una miriade di cibi; ha toccato una donna mestruata quando la Legge divina la considerava un paria, inavvicinabile, e semplicemente perché convinto appunto che il ‘suo’ Dio non può reputare impuro o profano nessuno (cfr. At 10, 28). E se ha accolto pagani e stranieri – contro il Dio nazionalista ebraico – è solo perché il ‘suo’ Dio non fa preferenza di persona, indipendentemente dalla nazione di appartenenza (cfr. At 10, 35).
Non si entrerà dunque nel ‘regno di Dio’ perché ci si riconosce dalla parte di Dio – o credenti – ma perché si crederà fermamente e finalmente nell’umano (cfr. Mt 25, 31ss.) impegnandosi a compiere la volontà del Padre (v. 35), vivendo con lo stile di Gesù il pazzo, il sovversivo.
 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 02 Giugno 2024 18:53

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Anno B

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Es 24,3-8

Dal libro dell'Esodo

In quei giorni, Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 115 (116)

R. Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore.

Che cosa renderò al Signore,
per tutti i benefici che mi ha fatto?
Alzerò il calice della salvezza
e invocherò il nome del Signore.

Agli occhi del Signore è preziosa
la morte dei suoi fedeli.
Io sono tuo servo, figlio della tua schiava:
tu hai spezzato le mie catene.

A te offrirò un sacrificio di ringraziamento
e invocherò il nome del Signore.
Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo.

Seconda Lettura Eb 9,11-15

Dalla lettera agli Ebrei

Fratelli, Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d'uomo, cioè non appartenente a questa creazione. Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna.
Infatti, se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo - il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio - purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
Per questo egli è mediatore di un'alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna che era stata promessa.

Canto al Vangelo Gv 6,51


Alleluia, alleluia.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo, dice il Signore.
Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno.

Alleluia.

Vangelo Mc 14,12,16.22-26

Dal vangelo secondo Marco

Il primo giorno degli àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: "Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?". Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

OMELIA

«Prendete, questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue».
L’amore si spezza e si versa. Vuoto a perdere.
Si fa dono senza ‘se’ e senza ‘ma’. Non domanda ‘carta d’identità’, e ‘fedina penale’ a chi si dà.
In Giovanni, l’unico discepolo che si ‘comunica’ al pane spezzato è Giuda, il traditore. (cfr. Gv 13, 26).
La comunione eucaristica non è il premio dei buoni, la ricompensa dei puri, la palma per i vincitori. È il farmaco per i malati, il balsamo dei feriti.
“Signore non son degno di partecipare alla tua mensa….” si recita prima di ricevere il pane: appunto perché non degni possiamo accostarci a quel dono. Ci reputassimo tali non dovremmo neanche alzarci in piedi e incamminarci verso il ‘medico’, dato che lui è venuto solo per malati e non per i sani (cfr. Mt 9, 12).
Gesù dice che il pane e vino sono ‘segno’ dell’Alleanza, ossia di un’unione speciale tra lui e i suoi. Nutrirsi del pane eucaristico significa impegnarci a vivere con uno stile di vita ‘altro’, improntato a quello di Gesù di Nazareth. È in fondo un atto di responsabilità. ‘Fare eucaristia’ significa ‘spezzarsi’ e ‘versarsi’ ogni giorno, nelle comuni circostanze della vita.
«La celebrazione eucaristica realizza sé stessa quando fa in modo che i credenti donino “corpo e sangue” come Cristo per i fratelli» (Carlo Maria Martini).
«L’eucaristia sancisce questo vincolo di sangue: tu non disprezzerei nessuno. Tu non farai del male a nessuno. Tu non ti arricchirai calpestando i diritti dei tuoi fratelli. Tu non usurperai la terra che non è tua. Tutto questo è contro la fraternità, è contro l’Alleanza. Se una persona non ha questa disposizione è meglio che non venga ad alimentarsi del corpo e sangue di Cristo, perché mangia la sua morte» (Arturo Paoli).
 
Paolo Scquizzato
 
Domenica, 26 Maggio 2024 10:35

Santissima Trinità. Anno B

Santissima Trinità. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Dt 4,32-34.39-40

Dal libro del Deuteronomio

Mosè parlò al popolo dicendo:
«Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da un'estremità all'altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu, e che rimanesse vivo?
O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi?
Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n'è altro.
Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 33

Beato il popolo scelto dal Signore.

Retta è la parola del Signore
e fedele ogni sua opera.
Egli ama la giustizia e il diritto;
dell'amore del Signore è piena la terra. 

Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
Perché egli parlò e tutto fu creato,
comandò e tutto fu compiuto.

Ecco, l'occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.

L'anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.

Seconda Lettura Rom 8,14-17

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.

 
Canto al Vangelo

Alleluia, alleluia.

Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo,
a Dio, che è, che era e che viene. (Cf. Ap 1,8)

Alleluia.

Vangelo Mt 28,16-20

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

OMELIA

«Quando sappiamo di non conoscerlo e siamo in attesa di lui per poterlo conoscere, allora sappiamo realmente qualcosa di lui ed egli ci ha afferrati e conosciuti e ci possiede. Allora siamo credenti pur nella nostra incredulità ed egli ci accoglie nonostante la nostra separazione da lui» (Paul Tillich).
Di ciò che denominiamo con la parola Dio o se ne fa esperienza o rimarrà puro significante privo di significato, mero concetto elaborato della mente, e in ultima analisi indifferente. E l’esperienza nasce da un atto di donazione e quindi uno di ricezione. Vi è prima un ‘tender l’orecchio’, una postura ‘attenta’ a ciò che potrebbe raggiungermi, e poi l’esperienza appunto di ciò che m’ha raggiunto, che dev’essere però totalmente altro da ciò che m’attendevo.
Dio non è un ‘ente tra gli enti’, e tantomeno un ente conoscibile, oggetto di comprensione.
«Si conosce meglio Dio non conoscendolo» (Agostino) e «La suprema conoscenza di Dio è conoscere Dio come sconosciuto» (Tommaso).
È Mistero, indefinibile e inconoscibile. Però possiamo al contempo esperirlo e venire da lui (o da esso?) conosciuti. E questo accadrà nel momento in cui rinunceremo ad agire in ‘qualche modo’ nei suoi confronti; quando vivremo finalmente il Distacco, e ‘rinunceremo a fare di noi stessi dei santi’ (Dietrich Bonhoeffer).
La festa che oggi la Chiesa celebra, la Santissima Trinità, è metafora fondamentale. Il Mistero è paragonabile all’Amore, la più alta e feconda esperienza che può fare l’essere umano. Per cui Dio-Trinità lo si può esperire come l’amore degli amanti, l’energia che muove l’Essere, «che mi chiede di esprimermi appieno e di afferrare la sacralità di tutto ciò che esiste» (John Spong).
Per questo motivo dire di credere in Dio – e nel Dio Trinità – non potrà risolversi in una sterile professione di fede, ma piuttosto in un atto di accoglimento, un ascolto attento e silenzioso, scevro da immagini, pregiudizi aspettative sino a sentirsene parte ed espressione: ‘In lui viviamo, ci muoviamo e siamo’ (At 17, 28), e conseguentemente nell’impegnarsi a vivere secondo la versione migliore di noi stessi, sedendoci accanto alle donne e agli uomini che la storia ci fa incontrare, per asciugare loro – secondo il bisogno – le lacrime e aprirgli strade di futuro.
Crederà nel Dio Amore (Trinità) solo colui che crederà fermamente nell’uomo, nella sua profonda bontà, nella sua inalienabile dignità, nella sua totale irriducibilità.
«La conoscenza di Dio, secondo la Bibbia, è per equivalenza, genesi dell’uomo. Diventare davvero uomo e conoscere Dio sono una sola e medesima operazione. Conoscere Dio e vivere la vita umana perciò coincidono» (Pierre Ganne).
 
Paolo Scquizzato
 

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