Lo straniero nell’Antico Testamento
di Paolo De Benedetti
Fra tutti gli insegnamenti biblici, quello sullo straniero è forse il più disatteso. Oggi si «crea» lo straniero quando l’altro non è assimilabile a noi. E lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo, non per accoglierlo, come ci insegnano le Scritture, ma per scacciarlo, per spingerlo oltre le frontiere.
«Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete la vita dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 23,9). Il pensiero e la normativa biblica riguardo al forestiero e allo straniero (chiariremo più avanti la differenza semantica) si compendiano in questo versetto, uno degli innumerevoli che toccano il tema. Ma, prima di illustrarne alcuni, poniamoci una domanda: perché lo straniero? Come nasce lo straniero?
L’incomunicabilità linguistica
La risposta ci porta molto indietro, a un gesto di Dio. Creando un solo uomo, Dio aveva posto una barriera alla possibilità dello straniero e alla delegittimazione del diverso: «Fu creato un solo uomo... perché nessuno dica al suo compagno: Mio padre era più grande di tuo padre» (Mishnà, Sanhedrin 4.5). Ma poi, fu Dio stesso che da questa ideale identità fece emergere il diverso, lo straniero. «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11,1). Sono gli uomini della torre di Babele che così motivano il loro progetto: «Facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (ivi, 4). Ma Dio non volle che rimanessero un solo popolo con una lingua sola, confuse la loro lingua, e «li disperse di là su tutta la terra» (ivi, 8). Proprio l’incomunicabilità linguistica è il più importante elemento dell’essere straniero (si pensi all’origine del vocabolo greco bàrbaros, cioè balbuziente, in quanto incomprensibile). Ma il mito biblico contiene un insegnamento fondamentale: non pone un centro rispetto a cui essere straniero, tutti sono reciprocamente stranieri, al centro non rimane nessuno: «Essi cessarono di costruire la città» (ivi, 8). Così come l’altro da me è un io di cui io sono l’altro, allo stesso modo lo straniero è uno (individuo, gruppo, popolo) di cui io sono straniero. Si tratta di una reciprocità che, a ben pensarci, fonda l’identità e la responsabilità dell’uomo.
Tutto questo è messo alla prova non solo a livello individuale, ma ancor più a livello sociale, quando una comunità vive sulla propria terra, e quando perciò lo straniero è – proprio etimologicamente – un extracomunitario. La preoccupazione di tutelare lo status dello straniero ha spinto i legislatori biblici a moltiplicare le norme in proposito, tanto che si potrebbe indicare in questo tema una delle linee tecnologiche fondamentali della Bibbia ebraica.
Lo straniero nella tradizione ebraica
Innanzitutto, occorre un’attenzione alla terminologia: in ebraico la nozione di straniero si «incarna» in vari vocaboli, che contengono sfumature diverse o addirittura opposte. Abbiamo così i vocaboli zar, gher, nokrì o nekhar: approssimativamente, potremmo tradurre il primo con «estraneo», il secondo con «straniero residente», il terzo con «forestiero». Zar designa la cosa o la persona con cui non esiste reciprocità di diritti e doveri, per esempio un culto «estraneo», cioè idolatrico, o una persona estranea, come il laico rispetto al sacerdote. Nokhrì o nekhar è sì lo straniero, ma non residente, di passaggio, come il mercante: non è inserito nella società, e quindi non ha i diritti e i doveri relativi; per esempio non vale verso di lui il divieto del prestito ad interesse (cf Dt 23,21), ma anch’egli può prestare ad interesse. Il vocabolo fondamentale è dunque gher, lo straniero residente (solo in tempi più vicini a noi ha assunto il significato di convertito nell’ebraismo). Secondo 2 Cron 2,16, i gherim – plurale di gher – contati nel censimento di Salomone sarebbero stati 153.600 (si veda il fondamentale articolo di Amos Luzzatto, Lo straniero nella tradizione ebraica, «Studi, Fatti, Ricerche», n. 46, 1989).
I rapporti con lo straniero residente non sono regolati da esortazioni morali, non sono affidati al buon cuore, ma fanno parte della halakhà, ossia della «via» prescritta da Dio sul Sinai a Israele come base dell’alleanza. Si tratta di diritti e doveri che costituiscono una sorta di «contratto sociale», di cui potrebbe essere considerato proemio questo testo del Levitico: «Quando un gher dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io non il Signore, vostro Dio» (Lev 19,33-34). È importante sottolineare la conclusione «Io sono il Signore, vostro Dio», perché è il suggello di tutti i grandi precetti sinaitici, vincolanti perché ispirati non da una coscienza etica umana, ma dalla immediata volontà divina.
Diversità e uguaglianza, lontananza e prossimità
Il primo e più importante diritto del gher è l’uguaglianza giuridica: «Ci sarà per voi una sola legge per il gher e per il cittadino del paese» (Lev 24,22). Perciò il gher condivide con l’orfano e la vedova da un lato, con il sacerdote dall’altra – ossia con coloro che non hanno proprietà terriere – alcuni diritti: come la straniera Rut può spigolare e cogliere ciò che cresce all’ «angolo» del campo, e ha parte alle primizie, alle decime e ai frutti dell’anno sabbatico. Può offrire un olocausto allo stesso titolo di un figlio d’Israele (cf Lev 17,8), e ha il diritto-dovere di osservare il sabato e le feste. E qui si apre la tavola dei suoi doveri: come l’ebreo, non deve cibarsi di cibi lievitati a Pasqua, di sangue, forse (ma la cosa è incerta) di animali non uccisi ritualmente. In sostanza, i divieti imposti al gher mirano a includerlo senza discriminazione alcuna nella società: lasciando però a lui la scelta di farsi pienamente ebreo mediante la circoncisione, e potendo così partecipare alla pienezza del culto, compresa la cena pasquale con l’agnello, oppure rimanere un «timorato di Dio», come si dirà molto più tardi, o, in greco, sebòmenos ton theòn. Tra i proseliti più famosi sono da ricordare la dinastia idumea di Erode e quella, sotto Claudio, del re di Adiabene.
Tutto questo mostra come il popolo ebraico abbia sempre rifiutato una concezione etnico-razziale della propria comunità: è simbolico il caso di Davide, genealogicamente discendente dalla moabita Rut (secondo il diritto rabbinico l’ebraicità si trasmette per via matrilineare, e Rut «entra» nell’ebraismo, non «nasce» nell’ebraismo).ma è altrettanto simbolico che i diritti dello straniero siano indipendenti dalla conversione. In fondo, quando il Levitico comanda: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19,18), non pone condizioni di scelta religiosa; e il gher è prossimo, reá, cioè vicino. Si potrebbe dire perciò dello straniero quello che i maestri dicono di Dio: egli è lontano e vicino, viene da lontano ed è vicino. Questo rapporto con la lontananza che diventa vicina, con lo straniero che diventa prossimo, in realtà è un elemento essenziale della mia identità. Il versetto sopra citato «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella esegesi rabbinica offre anche un’altra lettura, alternativa: «Ama il prossimo tuo perché è te stesso».
Del resto, l’identità di straniero è iscritta fin da principio, ben prima della permanenza in Egitto, nell’ebreo. Il primo a essere chiamato «ebreo», Abramo, incontrò Dio diventando straniero: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”» (Gen 12,1).
Abramo, o Abram come allora si chiamava, era così straniero da non sapere neppure dove Dio lo avrebbe condotto. E di suo nipote Giacobbe, così si recita nella formula di offerta delle primizie, il cosiddetto «piccolo credo storico»: «Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto, vi sette come un gher con poca gente...» (Dt 26,5). E alcuni popoli stranieri escono proprio dalla famiglia patriarcale: gli ismaeliti da Ismaele, gli edomiti da Esaù, gli ammoniti e i moabiti da Lot. Sono genealogie leggendarie, ma che suggeriscono come la diversità, l’alterità non è mai assoluta. E tuttavia – ricordiamo ancora una volta la torre di Babele – è un aspetto del genere umano disegnato da Dio. Scrive il rabbino Riccardo Di Segni: «La strada ebraica della convivenza dei popoli passa attraverso questa coscienza della diversità, dell’impossibilità dell’imposizione e della coercizione, nella presunzione comunque che vi sia uno spirito che parli e chiami tutti, ciascuno nella sua strada...La particolarità non è ostacolo all’universalità» (L’ebreo: straniero e residente, «Rocca», 15 ottobre – 1° novembre 1986).
Un insegnamento alto e disatteso
Forse, tra tutti gli insegnamenti della Bibbia, questo sullo straniero è oggi il più disatteso: non solo, ma oggi si crea lo straniero appena l’altro non è assimilabile a me, a noi, e lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo e se è possibile per scacciarlo. Come accade a Dio, a cui un grande maestro chassidico, rabbi Parukh, riferiva le parole del salmo 119,19: «io sono straniero sulla terra».
Diceva rabbi Parukh: «Chi è sbattuto lontano in terre straniere e finisce in un paese sconosciuto, costui non ha commercio con alcun uomo e non può intrattenersi con alcuno. Ma se allora appare un altro forestiero, anche se la sua patria è un’altra, i due possono diventare amici... E se non fossero stati ambedue stranieri non sarebbero diventati così intimi. Questo intende il salmista: “Tu sei come straniero sulla terra e non hai dove posarti: dunque non sottrarti a me, ma svelami i tuoi comandamenti, perché io possa diventare il tuo amico”» (M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma 1992, p.57).
E, aggiungiamo noi, perché io possa riconoscere lo straniero che è in me.