Formazione Religiosa

Domenica, 13 Novembre 2005 21:03

Magnificat. Il Dio cantato da Maria, serva del Signore - prima parte (Alberto Valentini)

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Magnificat
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(prima parte)
di Alberto Valentini



Premessa

La “verità” sul Dio dell’alleanza

Il Magnificat, al quale la riflessione - non solo esegetico-teologica - ha riservato un’attenzione particolare negli ultimi decenni, è stato oggetto di interesse ripetuto anche da parte del Magistero. Al canto della Vergine, Paolo VI, nell’Esortazione apostolica  Marialis Cultus, aveva già dedicato parole ispirate:

… il Magnificat (cf Lc 1,46-55), la preghiera per eccellenza di Maria, il canto dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza dell’antico e del nuovo Israele, poiché – come sembra suggerire sant’Ireneo – nel cantico di Maria confluì il tripudio di Abramo che presentiva il Messia (cf Gv 8,56) e risuonò, profeticamente anticipata, la voce della Chiesa…(1).

Al Magnificat, Giovanni Paolo II attribuisce notevole importanza ed ampia considerazione – oltre che in numerosi documenti e catechesi - nell’Enciclica Redemptoris Mater (nn. 35-37), in cui lo presenta come il canto, l’inno ufficiale della Chiesa in cammino sui sentieri della storia che attinge ormai il terzo millennio: “Sgorgato dal profondo della fede di Maria… non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa” (2).

Questo canto non solo traccia un programma di coraggioso impegno evangelico al servizio del mondo, ma prima ancora rivela l’autentico volto di Dio.

Dalla profondità della fede della Vergine… (la Chiesa) attinge la verità sul Dio dell’alleanza… Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il peccato posto all’inizio della storia… Contro il “sospetto” che “il padre della menzogna” ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima donna, Maria, che la tradizione usa chiamare “nuova Eva” e vera “madre dei viventi” proclama con forza la non offuscata verità su Dio… Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si attuerà pienamente mediante le opere e le parole (cf At 1,1) del suo Figlio e definitivamente mediante la sua croce e risurrezione.

La Chiesa che… non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat, “si sostiene” con la potenza della verità su Dio… e con questa verità su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie dell’esistenza terrena (3).

Le parole citate di Giovanni Paolo II sembrano rispondere al voto espresso alcuni anni prima da J. Dupont, a conclusione di un eccellente studio sul cantico della Vergine, considerato come discorso su Dio (4). Al termine del suo lavoro e dopo aver indicato feconde piste di sviluppo alla riflessione teologica, così egli si esprimeva:

Il Magnificat non definisce Dio… esso “situa” il mistero di Dio salvatore e ne offre le coordinate. Dopo aver fatto questa constatazione, l’esegeta deve fermarsi e passare la mano: noi saremmo felici se questo studio del Magnificat come discorso su Dio ispirasse a un collega dogmatico un discorso su Dio alla luce del Magnificat. Non è forse del Dio salvatore, cantato in questo brano, che noi dobbiamo essere testimoni oggi nel mondo? (5).

Abbiamo l’impressione che l’invito di Dupont sia stato raccolto, come egli stesso forse non osava sperare.

- Il Magnificat costituisce, dunque, una privilegiata riflessione sul Dio della salvezza, ma non offre una definizione astratta della sua identità. Su questo punto, noi di tradizione greca e formazione scolastica dobbiamo operare una profonda e mai del tutto compiuta metànoia.

Alla tentazione di concettualizzare l’immagine di Dio hanno ceduto illustri studiosi, in particolare gli autori di note teologie bibliche (6), legate a concetti ampi e a loro avviso onnicomprensivi, quali: salvezza, elezione, patto, rivelazione, redenzione, soteriologia, escatologia…

Con questi concetti nominali ci si allontanò dal linguaggio dell’Antico Testamento che è prevalentemente verbale e, inoltre, andò perduta la molteplicità di forme che l’Antico Testamento usa nel parlare di Dio (7).

Un discorso biblico su Dio deve privilegiare le forme verbali legate al dinamismo della Parola rivelata e delle azioni salvifiche, sempre aperte ad ulteriore riflessione ed approccio esistenziale. Non si danno forme precostituite capaci di presentare in maniera univoca ed esaustiva l’evento della parola e degli interventi divini.  

Il Dio del Magnificat non è definito secondo categorie astratte, ma narrato, cantato e celebrato sulla base di gesta salvifiche sulle quali si fondano la fede e il culto del popolo di Dio.

Esiste infatti un rapporto vitale e imprescindibile tra salmi, cantici ed eventi di salvezza. Non si danno canti senza l’esperienza di una storia che coinvolga il cantore rendendolo contemporaneo di quanti l’hanno vissuta. I salmi – nonostante la loro diversità e le molteplici classificazioni proposte in particolare da H. Gunkel (8) - si possono distinguere in due categorie fondamentali, costituite secondo C. Westermann da Flehen und Loben (9), divisione che ripropone in sostanza le classificazioni maggiori dello stesso Gunkel, gli inni e le lamentazioni.

- L’io dei salmi può essere personale o collettivo, talora generale, presentando una situazione indeterminata dell’esistenza umana, ma rivela sempre una dimensione dialettica spesso drammatica tra orante/i e il Signore, cui si grida dall’angoscia o al quale si rivolge il canto di lode per la salvezza conseguita.

Nel Magnificat l’orante parla al singolare: è una figura ben determinata, la douú,lh, che con tutto il suo essere celebra il Signore e si rallegra della salvezza. Tale figura, tuttavia, è portavoce di molti altri personaggi, di tutti coloro che come lei sono stati raggiunti da straordinari interventi salvifici. A conclusione del canto, la serva cede addirittura il posto ad Israele servo del Signore, popolo cui ella appartiene e del quale è testimone privilegiato.

Maria giunge al termine, al vertice di un’infinita schiera di oranti, di uno sterminato corteo di servi e serve del Signore, a partire dai Padri e dalle Madri d’Israele, passando per le figure di uomini e di donne celebri come Abramo, Mosè,  Davide e come Miriam, Debora e Giuditta, come tutti i profeti, soprattutto il servo di Yahwè inglobante il popolo di Dio, in particolare i poveri che nei tempi escatologici si compendiano nelle eccelse figure del Messia davidico e della vergine di Nazaret. Israele è un popolo di poveri che il Signore si è scelto, ha riscattato e riservato per sé. Nulla pertanto di più alieno dall’identità d’Israele dell’arroganza stolta che caratterizza i pagani e che si esprime in ribellione nei confronti di Dio e in oppressione dei deboli.

All’interno del popolo dell’alleanza – tentato a sua volta di autosufficienza e per questo periodicamente, quasi sistematicamente decimato e purificato – permane  sempre un piccolo resto, che costituisce l’Israele qualitativo e fedele, la porzione santa della quale la Vergine del Magnificat è il tipo ideale, ma che si estende a tutti coloro che temono il Signore, ai piccoli, oppressi ed affamati, all’Israele di Dio, vera discendenza di Abramo e popolo della promessa. 



1.    Non definizione di Dio, ma celebrazione del suo agire


 
Jahwè

Il Magnificat non offre pertanto una definizione di Dio, ma rievoca una storia, divenuta liturgia-professione di fede, che rivela il volto concreto di Dio salvatore: un volto plasmato dalle sue azioni salvifiche che costituiscono un memoriale per tutte le generazioni d’Israele.

Certo, nel Magnificat ci sono attributi fondamentali di Dio, ma tutto dipende dai verbi. Gli stessi aggettivi e sostantivi risultano fortemente dinamici: sono, in fondo,  forme e perifrasi verbali oppure intendono qualificare l’agire di Dio più che la sua astratta identità.

Ciò appare con assoluta evidenza nel titolo Dio salvatore che domina e caratterizza  tutto il canto. Esso è specificato da altri due appellativi pieni di densità:

- il potente che ha fatto grandi cose, da comprendere in particolare sullo sfondo dell’esodo e degli eventi maggiori della storia salvifica;

- il santo: titolo non astratto né statico, che rivela la motivazione profonda dell’agire di Dio, come viene esplicitamente proclamato nel canto del mare (10), che celebra la notte della grande liberazione.

Un Dio, dunque, salvatore-potente e santo.

Oltre questi titoli ed appellativi il Magnificat presenta anche un sostantivo, e;leoj, per caratterizzare l’azione di Dio e qualificare il suo volto. Anche qui, però, bisogna osservare che e;leoj non esprime un semplice sentimento, né solo un atteggiamento interiore, ma una caratteristica fondamentale del Dio biblico che - coniugata con la sua santità e potenza - si esprime in efficaci gesta salvifiche a favore dei suoi servi, di coloro che lo temono e  di tutto Israele, senza limiti nel tempo e nello spazio.

A parte i pochi elementi non-verbali, ma comunque dinamici, il volto di Dio-salvatore è delineato da una notevole sequenza di verbi, collocati in posizione dominante, che conferiscono al canto un aspetto unitario e fortemente strutturato. Le forme verbali, proclamando le azioni divine, come si è detto, sono decisive nella rivelazione biblica che è storia concreta, sulla quale poggia la fede d’Israele.

Da questo punto di vista, il Magnificat è un canto esemplare che celebra la salvezza presente e personale della serva del Signore sullo sfondo della storia del popolo dell’alleanza; storia ormai realizzata definitivamente in Cristo e proiettata in maniera irreversibile verso una metastoria, nella quale tutte le promesse di Dio diverranno pienamente .

- A parte l’Introduzione, in cui la serva parla in prima persona – anche se nascosta dietro perifrasi (la mia vitail mio essere), peraltro particolarmente efficaci, e nonostante la dimensione personalistica della prima parte –, il canto appare una proclamazione degli interventi salvifici di Dio, narrati in terza persona, in una comunità liturgica, come avviene per la liberazione pasquale celebrata in particolare nel grande Hallel (salmo 136), in cui il racconto-proclamazione, con cadenza litanica, fa memoria cultuale dei grandi eventi del passato, con Yahwè, soggetto e protagonista del racconto, come lo era stato dell’evento (11).

I verbi, le azioni divine, costituiscono non solo l’elemento dominante, ma la spina dorsale del cantico: essi sono tutti in aoristo – tempo storico per eccellenza – diversamente da quanto avviene nei canti coevi del giudaismo intertestamentario, che esprimono una tensione talora parossistica verso il futuro, in un contesto di grande tribolazione, in particolare nei salmi di Qumran. Le forme verbali del Magnificat sono invece al passato, a testimonianza inequivocabile di una salvezza ormai compiuta, e sono preceduti da un piuccheperfetto che rievoca una lontana promessa fatta ai Padri e ora puntualmente realizzata. Alla base degli aoristi c’è pertanto una Parola (“come aveva detto”), che la storia ha definitivamente  confermato. Protagonista di tutto è il Dio d’Israele che parla, promette ed attua con assoluta fedeltà quanto ha annunciato. La parola uscita dalla sua bocca non ritorna a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata (cf Is 55,11).

Maria, nel canto, non è mai esplicitamente nominata: Dio salvatore è il solo, vero protagonista del Magnificat. Egli è rispettivamente oggetto e soggetto di tutti i verbi, vale a dire di tutti gli eventi e gesta salvifiche proclamati dalla dou,lh.

- Com’è noto, il Magnificat è un canto imbevuto di storia biblica, intessuto di reminiscenze veterotestamentarie, tanto numerose da mettere alla prova la sensibilità e la preparazione del lettore. Al di là dei testi paralleli o imparentati, indicati solitamente dagli studiosi e presenti negli apparati critici del NT, se ne possono scorgere molti altri in filigrana, che fanno di questo canto un esempio di quel che A. Robert chiamava “stile antologico” (12). Esso costituisce un vero mosaico di allusioni, accostamenti e interpretazioni che ne rendono ardua la piena comprensione. Si può ripetere per questo canto quanto Moraldi affermava per le Hodayot di Qumran: “In molti casi l’autore aveva in mente più di un passo biblico, in altri dipende soprattutto dalla discrezione e preparazione del lettore scorgere o meno un riferimento biblico” (13). Il Magnificat è uno splendido mosaico le cui tessere sono costituite dalle vicende della storia d’Israele, la quale ha attinto senso definitivo in Cristo, ma attende pur sempre la pienezza escatologica.

Esaminando il canto dall’inizio, ci troviamo subito di fronte a una solenne dossologia e ad una gioiosa confessione della salvezza. Se è vero che l’Introduzione dà il tono a tutta la composizione, è non meno vero che essa è spiegata e giustificata dal corpo del canto, in cui si esprimono i motivi per i quali viene esaltato il Signore e si gioisce in Lui. Il Magnificat, lo ripetiamo, non offre una definizione razionale ed astratta di Dio, ma una testimonianza storico-esperienziale. Egli è grande perché ha operato grandi cose; è salvatore perché tale si è dimostrato con le sue gesta. A celebrarlo sono coloro che ne hanno constatato la magnificenza divina e la potente salvezza. L’esperienza salvifica è alla base del canto e della gioia che ne deriva.

I verbi dell’Introduzione sono coniugati in terza persona, ma il soggetto non è un personaggio anonimo e indeterminato: è la dou,lh che dal profondo del suo essere  esalta il Signore, ne riconosce e proclama la grandezza, ed esprime la festa della sua esistenza rinnovata dall’intervento divino.

L’Introduzione, dunque, rivela subito il volto di un Dio grande, del tutto trascendente, specialmente se messo in rapporto-contrasto con la tapei,nwsij della serva. D’altra parte, egli non è distaccato o assente dal mondo: è un Dio che interviene tempestivamente e con efficacia nelle situazioni della storia, manifestandosi come salvatore. Un Dio lontano e vicino al tempo stesso, misterioso nella sua assoluta trascendenza, ma ben riconoscibile da coloro che da lui sono stati liberati. Un Dio che provoca il gioioso canto dei redenti.

Non è tuttavia sufficiente un’affermazione di principio, per quanto densa e concreta, per celebrare il Signore: chi canta una prodigiosa liberazione non può tacere i particolari, i fatti concreti della propria esperienza, della sua storia nella quale è intervenuto con potenza il Signore. E’ proprio di tali interventi che si compone la trama del Magnificat.

Si passa così dall’Introduzione al corpo del canto, nel quale il soggetto dei verbi – tutti di azione e tutti in aoristo – è  Dio-Salvatore. La dou,lh è memoria e portavoce di una storia che viene rivissuta e interiorizzata nel culto, all’interno di una comunità di fede.

Il v. 48 comincia significativamente con un poiché, che ricorre parallelamente all’inizio del v. 49: congiunzione causale che regge non solo questi due versi, ma tutto il canto, tanto che potrebbe essere ripetuta all’inizio di ogni versetto, formando una sequenza litanica sull’esempio di numerosi salmi innici o di “ringraziamento”. 

La prima manifestazione dell’agire di Dio è di particolare densità e riassume in qualche modo tutti i successivi suoi interventi:

poiché guardò dall’alto alla povertà della sua serva.

Non a caso sono queste le prime parole con le quali il Signore si presenta a Mosè, al momento di affidargli l’incarico di liberare il suo popolo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…” (Es 3,7). Esse rivelano l’atteggiamento di viva partecipazione di Dio che precede ogni suo intervento salvifico.

E’ da notare che il verbo ble,épw, il quale originariamente indica la semplice funzione fisico-ricettiva del vedere, acquista - già prima del Nuovo Testamento - un connotato “intuitivo-conoscitivo-critico, nel senso di “guardare dentro, scrutare, rendersi conto” (14). Tale significato di attenta e partecipe osservazione viene approfondito dalla formula ebraica di Es 3,7: ra’ôh ra’îtî..., seguita da fondamentali verbi di percezione e di azione: šama‘tî… iada‘tî…wa’ered lehassîlô. Testo reso fedelmente dai LXX, i quali riproducono materialmente la formula idiomatica ebraica ra’oh ra’îtî con ivdw.n ei=don e iada‘tî con oi=da  (15). Come si vede, tutti i sensi di contatto sono direttamente e concordemente impegnati in Dio che veglia sulle vicende del mondo. Yahwè – in questa circostanza egli rivela il suo nome, non volendo essere identificato con i muti e inerti dei delle nazioni – chiaramente vigila e si dà pensiero del suo popolo. Il verbo evpible,pw non esprime solo un guardare sopra, vale a dire dall’alto – si noti la ripetizione di evpi., – ma un curvarsi su, prendersi cura, (16) come un padre e una madre nei confronti del figlio in difficoltà. E a sottolineare ulteriormente la densità del testo – ben evidente in Es 3,7 in cui si parla di miseria, grido, sofferenze, che il Signore ha veduto, ascoltato e conosciuto -  si dà il netto contrasto tra la posizione elevata dalla quale Dio guarda e la tapei,nwsij, la bassezza della dou,lh, la quale non è genericamente una serva, ma “la sua serva”, con un esplicito articolo determinativo che ne sottolinea la totale appartenenza. In termini ancor più chiari, il Signore si era espresso riguardo ad Israele, sempre nel contesto dell’Esodo e della missione affidata a Mosè: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito: Io ti avevo detto lascia partire il mio figlio perché mi serva! (Es 4,22s)”. Si noti questo intreccio tra figliolanza e servizio che esprime appartenenza e dipendenza incondizionata. In Lc 1,48 ricorre il termine dou,lh (cf anche 1,38), ma vi è implicito il senso di proprietà, come si può arguire dal v. 54 in cui si parla di Israele paido.j auvtou, evocante la figura del servo del Deuteroisaia. Questo titolo indica che

… il popolo è entrato… non solo alle dipendenze del Signore, ma nella sua intimità e nella sua fiducia, al punto di essere messo a conoscenza del suo disegno e di poter collaborare alla sua realizzazione. (17)

Già in questo primo emistichio del corpo del cantico si può scorgere una sintesi straordinaria della storia della salvezza ed un’immagine icastica del Dio d’Israele - già proclamato sinteticamente salvatore nel v. 47, prima che altri tratti dei versi seguenti ne sviluppino ulteriormente la fisionomia -: un Dio grande, che domina sul mondo e sulle sue vicende, che veglia con premura sul suo popolo e interviene con efficacia per liberarlo.

L’esperienza cantata dalla Vergine di Nazaret si colloca al vertice di una lunga tradizione di interventi liberatori di Dio nei confronti di singoli personaggi o della comunità in situazione di tapei,nwsij, come si legge in Gen 29,32, in riferimento a Lia, e nel sal 30 (LXX), in cui l’orante afferma di rallegrarsi - con lo stesso verbo avgallia,w presente nel nostro canto – a motivo dell’ e;leoj divino; c’è pure, ovviamente, il riferimento alla situazione di Anna, che nella sua preghiera così si rivolge al Signore: “’im ra’oh tir’eh, se davvero guarderai – col verbo ble,épw al futuro e con l’infinito costrutto (evpible,pwn evpible,yh|j) – alla tapei,nwsij della tua serva” (1Sam 1,11). Come si diceva, non si tratta di semplici interventi isolati, riguardanti questo o quel personaggio, ma di una costante dell’agire di Dio e di salvezza concernente tutto il popolo.

 E’ da tener presente – vi insistiamo - che i verbi con Dio soggetto sono all’aoristo, vale a dire al passato storico. Ancora una volta - come ha fatto per la liberazione dall’Egitto e in tante altre circostanze - il Signore si è chinato dall’alto, in vista di un intervento salvifico. Nel nostro caso, tuttavia, il Signore ha guardato alla sua serva, non in prospettiva di una liberazione futura, come in Es 3,7s (sono sceso per liberarlo): nel Magnificat la liberazione è già avvenuta, è un evento compiuto, celebrato nel canto, nell’esperienza liturgica della comunità. L’escatologia ha fatto ormai irruzione nella storia del mondo, compiendo le attese d’Israele proiettate – all’epoca del Nuovo Testamento -  in un futuro nel quale Yahwè avrebbe realizzato finalmente le promesse con un grandioso intervento dall’alto. Nel canto della Vergine tale speranza-tensione escatologica è chiaramente appagata, anche se con linguaggio e simbolismo ben diversi da quelli della tradizione apocalittica. Nei confronti dell’attesa veterotestamentaria e giudaica, l’evento cristiano – nonostante il genere letterario diverso - si presenta sotto il segno degli ultimi tempi e dunque di una salvezza realizzata.

Su questo sfondo, il v. 49 può proclamare: poiché il Potente ha fatto a me grandi cose…

Il Potente è il secondo titolo di Dio dopo quello di Salvatore, ma come quello è un appellativo eminentemente dinamico. I due titoli non si possono scindere: Dio salvatore è il potente, in quanto realizza efficacemente la salvezza: la sua forza è tutta al servizio della liberazione. Il significato, la portata di quell’aver guardato alla tapei,nwsij della sua serva, appare con evidenza nelle gesta compiute in suo favore. Le grandi cose, che si contrappongono alla tapei,nwsij, alla situazione di povertà esistenziale della serva, qualificano con efficacia il volto di Dio: un Dio forte, potente, capace di trasformare in esperienza di salvezza e di vittoria le condizioni di umiliazione del suo popolo.

Le grandi cose – le mega,la - sono importanti nella struttura e nel significato del canto, il quale si apre con il verbo megalu,nei che richiama appunto le mega,la compiute da Dio. Di fronte alle grandi cose che hanno trasformato radicalmente la sua esistenza, la serva riconosce e proclama la grandezza e la forza di Dio.

I due emistichi 48a e 49a (48b richiede un discorso a parte) sono dunque strettamente congiunti: lo sguardo del Signore è premessa e condizione del suo intervento: egli si lascia coinvolgere nelle vicende umane ed entra in azione dispiegando tutta la sua forza. Solo di fronte ad essa, allo strapotere del braccio divino i violenti recedono dalla loro tirannia sul mondo.

Si afferma spesso, e a ragione, che la prima parte del Magnificat si occupa quasi esclusivamente di misericordia, che in essa l’intervento di Dio riguarda solo i giusti ed i poveri, ma sullo sfondo è già evidente la lotta che si svolgerà contro gli oppressori, e ciò risalta non solo dal termine tapei,nwsij – che anticipa l’aggettivo tapeinou,j - dalla quale la serva viene liberata, ma in maniera ancora più netta dalla forza messa in atto dal Potente e dalle grandi cose da lui compiute a vantaggio della dou,lh.

Il termine dunato,j (in ebr. gibbôr), esprime l’eroe-guerriero; presenta pertanto una connotazione tipicamente militare e bellica, come è confermato da diversi testi veterotestamentari, in particolare dal Sal 24,8.10: “Yahwè forte e gibbôr, Yahwè gibbôr in battaglia… il Signore degli eserciti”.

Tale potenza divina si manifesta anzitutto nei fatti dell’esodo e nel passaggio del mare: “Quando i testi biblici ricordano al pio israelita la potenza di Dio alludono sempre al prodigio del Mar Rosso che coronò l’esodo dall’Egitto”. (18) E ciò viene confermato anche da diverse testimonianze del giudaismo postbiblico. (19)

E’ da notare che la potenza e forza di Dio è motivo biblico frequente, ma il titolo o` dunato,j applicato a Dio è eccezionale; con l’articolo si trova solo nel nostro testo e in Sof 3,17, che usa l’espressione particolarmente significativa gibbôr jôšîa‘. (20) Ciò significa che il nostro versetto è particolarmente importante per qualificare il volto di Dio come forte guerriero. E’ una conferma ulteriore del fatto generalmente acquisito che la collocazione di questo canto nell’attuale contesto non è originaria; è conferma anche che il contesto lucano intende presentare la venuta del Messia davidico Figlio di Dio come l’intervento supremo dalla potenza di Dio: “Egli sarà grande, sarà chiamato figlio dell’Altissimo… la potenza dell’Altissimo verrà su di te…” (Lc 1,32s.35).

In altri termini, quanto si verifica in Maria – che nella teologia di Lc 1-2 suppone l’evento pasquale di Cristo e la sua ricezione a livello di fede e di liturgia - viene descritto con i termini della grande liberazione dell’esodo, ma non è ad essa inferiore, anzi costituisce il compimento di quella salvezza iniziale che in Cristo attinge pienezza e nella parusia si manifesterà in tutta la sua efficacia. Il Dio cantato nel Magnificat è dotato di straordinaria potenza salvifica, come tutta la tradizione d’Israele ripete e come la personale esperienza della dou,lh conferma. 

Posto enfaticamente, in fine di riga e in posizione chiastica rispetto al soggetto sottinteso di evpe,bleyen, a conclusione di una sezione racchiusa entro i termini megalúu,nei- mega,ála, il titolo o` dunato,j acquista un rilievo notevole.

Esso appare in posizione strategica anche perché da una parte conclude la serie dei titoli divini (Ku,rioj, Qeo,j, Swth,r) e dall’altra introduce la descrizione dei tratti divini della santità e della misericordia. Inoltre o` dunato,j con evpoi,hse,n mega,la prepara la seconda parte del canto (vv. 51-55), la quale inizia con una formula quasi parallela: evpoi,hse,n kra,átoj.

La forza e potenza di Dio, già presente nel v. 49a, esplode infatti con eccezionale violenza nella seconda parte del cantico. Il Magnificat celebra anzitutto e direttamente l’intervento salvifico a favore della dou,lh e di Israele servo di Dio, ma l’azione divina si deve confrontare, in un caso come nell’altro, con forze ostili di oppressione e di morte.

Su questo sfondo si colloca, la frase quasi descrittiva e santo è il suo nome (v. 49b). Contrariamente a quanto potrebbe apparire, neppure questa è un’espressione astratta, né una definizione razionale di Dio. E’ noto infatti che il nome sta per la persona, e sappiamo ormai di quale potente personalità si tratta. La santità, per conseguenza - nel nostro contesto, come anche altrove –, è la radice profonda dello zelo che presiede alle azioni salvifiche di Dio. Il parallelismo più diretto per il nostro testo, rimane il canto del mare, ove troviamo un’esplicita associazione tra santità e intervento liberatore: “Chi è come te…, Signore? / chi è come te, / maestoso in santità,  tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? (Es 15,11).

Nel Deuteroisaia il titolo caratteristico qedôš jisra’el è accompagnato da termini salvifici come go’el (21) e môšîa‘ (cf Is 43,3). Ciò rivela la stretta connessione tra la santità di Dio e la redenzione d’Israele che sono, per così dire, in rapporto di causa ed effetto.

Anche l’e;leoj che segue nel v. 50 – a conclusione della prima parte del cantico (22) - non è un semplice sentimento o atteggiamento interiore, ma una componente dinamica del Dio d’Israele, che sta alla base del rapporto con il suo popolo: per la misericordia nei suoi confronti – legata all’elezione e alla promessa – Dio interviene a salvarlo. Possiamo dire che tutti i comportamenti di Dio salvatore: il guardare alla povertà della serva, l’operare grandi cose sotto l’impulso della sua santità, dipendono dal suo atteggiamento di hesed verso Abramo e la sua discendenza (cf vv. 54-55). (23)

“Nel linguaggio religioso lo hesed di Dio indica sempre più il suo aiuto misericordioso, e una tale accezione… si esprime nella traduzione e;leoj”. (24) 

Trattandosi di un termine che ricorre con grande frequenza nei LXX, per lo più con Dio come autore, (25) non si può dire che e;leoj sia un vocabolo caratteristico dell’esodo. E’ vero, tuttavia, che tra l’e;leoj e i prodigi di Dio esiste un legame particolare. (26)

La salvezza è opera della sua misericordia, del suo amore e della  fedeltà verso Israele, nel ricordo del giuramento fatto ai Padri.

L’immagine divina emergente da questa prima parte del Magnificat è dunque tradizionale ed eminentemente positiva. Il canto della Vergine si pone sulla scia della grande storia e spiritualità d’Israele che celebra la salvezza di un Dio potente, santo e misericordioso.

Il Magnificat è stato diviso in molti modi. La struttura bipartita sembra la più logica, non a caso è quella oggi maggiormente condivisa. Qualunque divisione, tuttavia, deve prendere atto della forte unità del cantico e della sua continuità tematica. Tra la prima e la seconda parte si danno dunque accentuazioni più o meno marcate, ma nessuna frattura. Il Dio della prima parte, misericordioso e salvatore, è anche il Potente che non esita a compiere grandi cose sotto la spinta del suo zelo e della sua santità.

Nella seconda parte si sottolinea in maniera esplicita l’azione divina contro superbi ed oppressori, ma l’interesse principale verte – come nella prima parte – sui piccoli e gli affamati; e il canto si conclude con un riferimento ad Israele servo del Signore, oggetto della misericordia divina. Non si può quindi affermare in maniera riduttiva che la prima parte tratta della misericordia di Dio verso i poveri e la seconda della sua forza devastante contro i potenti. Sia la prima sia la seconda celebrano l’azione di Dio salvatore e liberatore, il quale indirettamente deve prendere posizione risoluta nei confronti degli oppressori del suo popolo.

Il v. 51 è da intendere in collegamento con il v. 49, e ciò conferma la continuità tra le due parti del cantico, dal punto di vista formale e del contenuto.

Ma tra i due versetti c’è anche opposizione: la medesima forza di Dio che compie  mega,ála, vale a dire prodigi di salvezza per la dou,lh, causa distruzione nei confronti degli operatori di ingiustizia. Ovviamente la salvezza non è mai un’operazione indolore: essa si confronta di necessità con la violenza degli oppressori. Per strappare le vittime dalle loro mani si richiede un’esplosione della forza di Dio. L’azione liberatrice comporta pertanto un aspetto drammatico e tragico, testimoniato da tutta la storia della salvezza, a partire dalla liberazione dall’Egitto, come appare fin dall’inizio della missione di Mosè:

Allora tu dirai al faraone: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio… Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire: Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!” (Es 4,22s).

L’ostinazione del faraone è irriducibile: resiste di fronte a nove spaventosi prodigi, e cede infine – temporaneamente (cf Es 14,5ss) - di fronte alla piaga della morte dei primogeniti (Es 12,29s). Solo allora (v. 31), costretto dall’immane tragedia, egli concede agli israeliti di abbandonare la sua terra e la condizione di schiavitù.

Ma la presentazione più efficace della liberazione d’Israele ad opera del braccio potente di Dio è contenuta nel c. 14 dell’Esodo. Neppure la morte dei primogeniti aveva fiaccato definitivamente la durezza del re d’Egitto. Egli insegue con un potente esercito e raggiunge i figli d’Israele accampati in riva al mare, non lasciando loro alcuna via di scampo. Di fronte a tanta ostinazione e a tale estrema minaccia, il Signore interviene direttamente per tutta una notte, operando mega,ála, cose portentose. Al termine del racconto di quella fatidica notte di salvezza per i figli d’Israele e di annientamento per l’esercito del faraone, il testo biblico annota:

In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani… Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l’Egitto… Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al Signore…

e segue il celebre canto del mare di Es 15,1-18. (27) Il motivo di questo inno di vittoria è ripreso ininterrottamente nella tradizione d’Israele, in particolare nei salmi che celebrano la liberazione dei poveri dalle mani dei loro oppressori. Esso costituisce  il tema dominante della fede e della pietà d’Israele che ad ogni Pasqua celebra i prodigiosi eventi del passato e rinnova la speranza di una salvezza futura ad opera dello stesso Signore operatore di cose grandiose.

(continua)

Letto 4124 volte Ultima modifica il Martedì, 28 Febbraio 2006 11:42
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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