Formazione Religiosa

Mercoledì, 18 Ottobre 2006 01:26

Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II (Erio Castellucci)

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Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II
di Erio Castellucci

Dire «ecclesiologia del Vatica­no II» è dire, semplicemente «Vaticano II»: come è noto, infat­ti, l'ultimo concilio ecumenico ha scelto un unico grande tema di fon­do, sul quale ha modulato tutte le sue note: la Chiesa. Ma trattare della Chiesa non ha voluto dire, per i padri e i periti conciliari, fermarsi a un'autocontemplazione compia­ciuta, bensì individuare le sorgen­ti della sua vita e attività, precisar­ne modalità, relazioni, fini.

Le quattro Costituzioni conci­liari costituiscono i grandi punti cardinali che orientano il cammino della Chiesa: la Sacrosantum con­cilium ne approfondisce la dimen­sione liturgica ed eucaristica; la Dei Verbum mette in rilievo la centra­lità della Parola di Dio (Scrittura e Tradizione); e la Gaudium et spes articola il rapporto con il mondo nelle svariate e complesse dinami­che in esso implicate, all'insegna dell'unico grande criterio della condivisione e della carità. Queste tre costituzioni articolano così i tre grandi pilastri sui quali l'edificio ecclesiali si regge e cresce: la Li­turgia, la Parola e la Carità.

La Lumen gentium, in questo quadro, emerge come la «magna charta» del Vaticano Il, e in quanto tale ne raccoglie ed esprime tut­ti gli elementi ecclesiologici es­senziali. Se in essa convergono lo­gicamente le altre tre costituzioni conciliari, da essa si diramano i de­creti e le dichiarazioni: i decreti Unitatis redintegratio sull'ecume­nismo e Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche so­no quasi l'espansione di LG 15, co­sì come la dichiarazione Nostra ae­tate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane lo è di LG 16; il decreto Ad gentes sull'attività missionaria della Chiesa riprende e approfondisce il tema già abbozza­to in LG 17; il decreto Christus Do­minus sull'ufficio pastorale dei ve­scovi articola e traduce gran parte del terzo capitolo di LG (18-27); i decreti Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri e Optatam totius sulla formazione sa­cerdotale approfondiscono la teo­logia e spiritualità dei presbiteri, an­che in chiave formativa, concen­trata in LG 28; il decreto Apostoli­cam actuositatem sull'apostolato dei laici è quasi una traduzione ope­rativa del quarto capitolo di LG (30-38), così come il decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vi­ta religiosa del sesto (43-47). I tre documenti non compresi in questa ramificazione mettono in luce altri aspetti della vita ecclesiale non direttamente tematizzati da LG: l'im­portanza dei mezzi di comunica­zione sociale per l'annuncio del Vangelo (decreto Inter mirifica), la natura e gli scopi dell'educazione cristiana nel mondo attuale (di­chiarazione Gravissimum educa­tionis) e la libertà religiosa in rap­porto alla missione ecclesiale (dichiarazione Dignitatis humanae).

La molteplicità e complessità dei documenti rende impensabile offrire un quadro anche solo ap­prossimativo dell'ecclesiologia del Vaticano II in poche pagine. Indichiamo piuttosto alcune idee-gui­da di LG - quasi degli slogan bre­vemente commentati - di cui oggi appare particolarmente urgente il recupero: anche perché in buona parte disattesi. Data l'indole del presente contributo e lo spazio a di­sposizione non riportiamo indica­zioni bibliografiche, con l'ecce­zione dell'ultimo «manuale» di ec­clesiologia in lingua italiana, dove si potrà reperire una bibliografia pressoché completa in merito al no­stro argomento. (1)

1. La Chiesa non è semplice­mente società e Corpo mistico di Cristo, ma anche e primariamente sacramento e mistero tri­nitario. Nel primo capitolo di LG (1-8) sono poste le basi teologiche per l'inserimento della Chiesa nel­la storia salvifica, cioè per una ecclesiologia misterica.

La cosiddetta concezione «so­cietaria» e visibilista di Chiesa, ac­centuata dalla reazione dei contro­riformisti nei confronti dell'«invi­sibilismo» protestante e arricchita nell'Ottocento dal motivo della «societas perfecta, inaegualis, hie­rarchica», in polemica contro le in­gerenze degli stati verso la Chiesa, venne ridimensionata e fu integra­ta già dalla Mystici Corporis di Pio XII (1943) nella concezione teolo­gicamente più profonda della Chie­sa come «corpo mistico di Cristo», dove ritornava in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimen­sionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teolo­giche della Chiesa all'intera storia della salvezza. La Chiesa, per il concilio, non è solo una società (cf. quanto resta di questa ecclesiolo­gia, riveduta e corretta, soprattutto in LG 8, 9 e 14) e neppure sempli­cemente il corpo mistico di Cristo (cf. l'assunzione di questa imma­gine in LG 7): è, più ampiamente, opera trinitaria (cf. LG 2-4).

Da questo squarcio di orizzon­ti derivano alcune importanti im­plicazioni. Il Vaticano Il, prima di tutto, ha evitato di legare a tal pun­to l'origine della Chiesa alla vo­lontà esplicita di Gesù prima della Pasqua, da farne un elemento de­cisivo di legittimazione ecclesiale. Nell'impostazione precedente di­ventava irrinunciabile la dimostra­zione della «storicità» di certe pa­role di Gesù in ordine alla Chiesa (che sostanzialmente si concentravano nel brano di Mt 16,16-19), per difenderne l'istituzione divina. Il concilio, conoscendo la questione e le innumerevoli dispute svoltesi in merito dall'inizio del XX seco­lo, nell'aggancio cristologico di LG 3 da una parte si attiene ai dati più sicuri della critica storica («Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero») e dall'altra presenta chiaramente il mistero pasquale come punto d'in­nesto «pieno» della Chiesa nel mi­stero di Cristo: l'inizio e la cresci­ta della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che usci­rono dal costato aperto di Gesù crocifisso»...

Ma LG non si ferma a questo primo allargamento di orizzonti e ne opera, come accennato, un se­condo: la Chiesa affonda le sue ra­dici non sul solo mistero cristolo­gico bensì sull'intero mistero trini­tario. La storia teologica della Chie­sa, come illustra LG 2, inizia, in­fatti, nell'atto stesso della creazio­ne dell'universo, continua nella vo­lontà di Dio di radunare gli uomi­ni non singolarmente ma come po­polo e nell'elezione di Israele. Que­sta medesima storia, poi, procede dopo la Pasqua: LG 4, intarsio di citazioni bibliche, ricorda gli innu­merevoli risvolti dell'azione dello Spirito nella vita della Chiesa. Il tutto si può riassumere con le af­fermazioni che la Chiesa «già pre­figurata sino dal principio del mon­do, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica alleanza e istituita “negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli» (LG 2); essa è, come affer­ma Cipriano, «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cit. in LG 4).

La coestensione della Chiesa al­la storia salvifica si può esprimere con i concetti di mistero (cf. il ti­tolo dell'intero primo capitolo di LG) e sacramento (cf. LG 1). Il pri­mo concetto fa risaltare le dimen­sioni inimmaginabili della Chiesa, che non è semplice aggregazione umana ma opera trinitaria; il se­condo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nel­la Chiesa di umano e divino (cf. LG 8), trascendente e storico: per cui la Chiesa conciliare non è né un'en­tità spirituale che sorvola la storia né, inversamente, una società uma­na tra le altre. Dal rinnovamento conciliare delle radici teologiche della Chiesa discende dunque la ne­cessità di una vera e propria «con­versione» dai modi più superficia­li (diffusi purtroppo anche tra gli stessi cristiani praticanti) di inten­derne la vita e la missione.

2. La Chiesa non è formata solo dal sacerdozio ministeriale e gerarchico, ma anche e fondamentalmente dal sacerdozio bat­tesimale di tutto il popolo di Dio.

Il Vaticano II, specialmente nel ca­pitolo secondo di LG (9-17), po­ne le basi teologiche per una ec­clesiologia comunionale e, all'in­terno di essa, per una riflessione rinnovata sulla teologia del mini­stero ordinato e del laicato. La ri­duzione «gerarcologica» dell'ec­clesiologia - secondo l'efficace espressione di Y. Congar - che giunge alle soglie del Vaticano Il e bussa alla sua porta, viene radi­calmente corretta ed integrata dal concilio.

La concentrazione dell'idea di «Chiesa» nel clero, e più ancora nell'episcopato, quando non addi­rittura nel solo papato, venne a po­co a poco allentata dai testi conci­liari attraverso il recupero della no­zione di «popolo di Dio» come de­scrizione globale e più adeguata della Chiesa. Si può dire che il po­polo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Tri­nità ne è il soggetto misterico e di­vino.

La famosissima inversione dei capitoli secondo e terzo di LG per cui ora risulta che la trattazio­ne sul popolo di Dio precede quel­la sulla gerarchia - è fortemente simbolica dell'enorme balzo com­piuto dal Vaticano II. La realtà ec­clesiale di base è quella battesima­le-cresimale-eucaristica, che com­prende tutti i membri del popolo di Dio; questa realtà poi si specifica di diverse direzioni, ruoli e compi­ti, alcuni legati alla natura della Chiesa e altri solo a certi momen­ti della sua storia. Il ministero or­dinato, dentro al popolo di Dio - non sopra accanto - svolge la funzione di richiamare efficace­mente l'origine continua della gra­zia, Cristo risorto nello Spirito, che continua a donarsi attraverso la Pa­rola, i Sacramenti e la Carità. La connotazione «battesimale» dell'ecclesiologia conciliare ha per­messo quindi di collocarvi il sa­cerdozio ordinato nella sua luce più adeguata, che è quella «ministeria­le». Si apre così lo spazio per un'ef­fettiva missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto es­si sono a pieno titolo - in virtù del battesimo e della fede - compo­nenti del popolo di Dio e quindi «soggetti» ecclesiali: e come tali collaboratori e corresponsabili e non semplici esecutori.

Anche questo secondo aspetto è lungi dall'essere assorbito nella co­scienza teorica e pratica dei cri­stiani. Per quanto sia sempre più frequente l'affermazione che la Chiesa è composta da «tutti noi», perdura la convinzione che «la» Chiesa è in realtà concentrata sul­la gerarchia. Sono ancora poco sviluppati - o maldestramente percor­si - i sentieri riaperti dal Vaticano II con la dottrina del «sacerdozio comune», del «senso di fede» e del­la dimensione carismatica di tutto il popolo di Dio (cf. LG 10-12).

3. La missione della Chiesa non è una fase episodica e pas­seggera della sua vita e attività, ma la sua stessa natura. È la base teologica per un'ecclesiologia mis­sionaria che superi le riduzioni ere­ditate nel corso degli ultimi secoli.

Una riduzione, prima di tutto, orizzontale: il discorso sulla mis­sione non veniva condotto avanti teologicamente per l'intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo ex­traecclesiale veniva chiamata missione solo l'opera che alcuni uo­mini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della de­lega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appun­to «missionari». In campo intraec­clesiale la missione veniva riser­vata ai preti e ai vescovi. Se inte­sa, infatti, in senso ampio, essa in­dicava l'azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all'attività sa­cramentale dei sacerdoti nei con­fronti dei fedeli, così che i primi erano considerati i soggetti e i se­condi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell'attività sal­vifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava l'abilitazione giuridica che veniva data al sacer­dote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all'in­terno della potestas iurisdictionis).

La seconda riduzione - pasto­ralmente conseguente ma teologi­camente precedente la prima - si può definire verticale: non si par­la, se non sporadicamente, di Chie­sa per natura missionaria fino al Vaticano II. Il concilio ha posto in­vece la dimensione missionaria al centro stesso della sua ecclesiolo­gia, facendo della missione non più un tema occasionale e periferico, ma una dimensione irrinunciabile dell'ecclesiologia: la Chiesa è es­senzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al no­stro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa - momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristia­no - il concilio, accogliendo sti­moli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non ces­serà mai, perché appartiene alla na­tura della Chiesa. Prima del conci­lio si trascurava la radice teologi­ca della missione, che è l'opera tri­nitaria: è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Fi­glio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa - tutta la Chiesa - è proiet­tata fuori di sé, verso il mondo. E la grande inquadratura di LG 2-4 e AU 2-4, che culmina nella seguen­te affermazione riassuntiva: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AU2).

La missionarietà come dato es­senziale, perché impronta trinitaria e connotazione comune dei battez­zati, non sembra ancora caratteriz­zare le comunità cristiane. Da più parti, anche molto autorevoli, si la­menta ancora, almeno nella Chie­sa italiana, un'eccessiva cura ver­so la conservazione dell'esistente (strutture, tradizioni e usi...) e una scarsa audacia missionaria. Sia Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II che Comunicare il Vange­lo in un mondo che cambia della CEI, invitano ad adottare decisa­mente il paradigma della missione: segno che ancora la coscienza e la prassi ecclesiale sono lontane dall'averlo fatto.

4. La Chiesa non è solo l'uni­versalità del popolo di Dio, ma anche e inseparabilmente la co­munità locale dei fedeli raccolti attorno al vescovo. È la base per una teologia della Chiesa locale che riconosca spessore alla dioce­si e, subordinatamente, alla par­rocchia. Il testo che fece da «pioniere» si trova, notoriamente, in SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipa­zione piena e attiva di tutto il po­polo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla me­desima preghiera, al medesimo al­tare cui presiede il vescovo, cir­condato dal suo presbiterio e dai ministri». Più volte definito «svol­ta copernicana», questo testo ac­coglie in casa cattolica l'ecclesio­logia eucaristica ignaziano-orien­tale, considerando la Chiesa come realtà sacramentale prima che co­me realtà societaria. In quest'otti­ca, dunque, la «più alta manifesta­zione della Chiesa» non consisterà nell'esercizio del potere primazia­le ai massimi livelli (era questa l'accentuazione del Vaticano I), bensì nella compresenza della ce­lebrazione eucaristica, del popolo di Dio che partecipa attivamente e pienamente, e del ministero nei suoi vari gradi, compresa la pie­nezza episcopale.

La prospettiva è ripresa in LG 26, dove si legge tra l'altro che nel­le comunità eucaristiche locali, «sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del qua­le si raccoglie la Chiesa, una, san­ta, cattolica e apostolica». Ma è so­prattutto LG 23 che, nel contesto della trattazione sulla collegialità episcopale, presenta le affermazio­ni più rilevanti sulla Chiesa locale: parla infatti delle «Chiese partico­lari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica». Il rappor­to Chiesa particolare/Chiesa uni­versale non è di somma o sottra­zione. Il testo citato delinea piut­tosto tale rapporto in due direzio­ni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare è di immanen­za: «tutta» la Chiesa è presente «nelle» Chiese particolari, le quali sono «immagine» della Cattoli­ca; dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale è di origine: «tutte» le Chiese conducono a forma­re la Chiesa universale, poiché è «a partire dalle» singole Chiese parti­colari che si forma concretamente la Cattolica.

Una Chiesa particolare/locale non è dunque semplicemente una parte di Chiesa, ma è tutta la Chie­sa presente in quel luogo, perché in essa è presente tutto il mistero di Cristo e non solo una sua parte. Con l'aiuto di CD 11, non è diffi­cile individuare gli elementi costi­tutivi della Chiesa particolare: il Vangelo, l'Eucaristia, il vescovo, l'azione dello Spirito Santo. E quindi presente l'intero mistero di Cristo nella Parola di Dio, che ri­suona integralmente in ogni Chie­sa locale; nei sacramenti, special­mente nel ministero pastorale del vescovo, guida di ogni Chiesa lo­cale, e in sommo grado nell'Euca­ristia, celebrata in ogni Chiesa lo­cale; è presente l'intero mistero di Cristo, infine, nello Spirito di ca­rità che si irradia in ogni Chiesa lo­cale, con doni, carismi e ministeri diversi. L'unità della Chiesa, così, deriva dalla presenza integrale dell'unico mistero di Cristo in ogni comunità eucaristica presieduta dal vescovo.

Il Vaticano II, pur senza ap­profondirla, ha così offerto gli spunti per una vera e propria «teologia della Chiesa particolare/lo­cale». È chiaro che non si tratta di contrapporre la dimensione locale a quella universale della Chiesa:

ogni singola comunità presieduta dal vescovo è davvero «Chiesa» so­lo se si trova in comunione con tut­te le altre Chiese nel mondo; co­munione espressa e garantita dalla Chiesa di Roma. Non è più in virtù di un principio solamente giuridi­co che emerge la necessità della co­munione con la sede di Pietro, ma in virtù di un principio anzitutto teologico: non esiste «Chiesa» se non nella comunione universale. Sembra però che oggi, anche da settori autorevoli del cattolicesimo, si ricada ogni tanto e di nuovo in quel modello di assorbimento del locale da parte dell'universale che il Vaticano II in linea di principio aveva superato, mostrando la reci­procità dei due aspetti. E sempre in agguato la tentazione «centralisti­ca», che trascura la ricchezza teo­logica, spirituale e pastorale delle singole Chiese. E prevedibile che il lavoro di riequilibrio fra unità e molteplicità in questa chiave ec­clesiologica continuerà ancora a lungo.

5. La «Chiesa di Cristo» non è semplicemente identica alla «Chiesa cattolica», ma «sussiste in» essa. Esiste quindi un'appar­tenenza non piena ma reale alla Chiesa. È la base teologica per un rinnovato ecumenismo, che ap­prezzi gli elementi ecclesiali pre­senti anche nelle altre comunità cri­stiane. LG 8 rappresenta un vero e proprio «progresso» in campo ecu­menico, laddove afferma: «Questa Chiesa, in questo mondo costitui­ta e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, go­vernata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo orga­nismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di ve­rità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica». Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica: l'a­dozione dell'espressione «subsistit in», anziché del precedente «est», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione «subsistit in» fu intenzionalmente sostituita a «est», proprio per superare l'identificazione pura e semplice e permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre co­munità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cat­tolica (cf. UR 4). Allo stesso sco­po tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parec­chi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono do­ni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cat­tolica.

Un'altra importante e famosis­sima affermazione ecumenica si trova in LG 14: «Sono pienamen­te incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spiri­to di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti»... L'attuale plene sostituisce il reapse della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratel­li di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.

La mancata identificazione pu­ra e semplice tra «Chiesa di Cristo» e «Chiesa cattolica» e l'ammissio­ne di un'appartenenza «non piena» ma reale alla Chiesa, unite al prin­cipio della «gerarchia delle verità» formulato in UR 11 («esiste un or­dine o "gerarchia" nelle verità del­la dottrina cattolica, essendo diver­so il loro nesso col fondamento del­la fede cristiana»), hanno favorito grandi passi nel cammino ecume­nico: ne sono testimonianza, tra l'altro, l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) e la Di­chiarazione congiunta sulla giusti­ficazione firmata da cattolici e luterani nel 1999 ad Asburgo; testi il cui contenuto sarebbe stato del tut­to impensabile senza queste gran­di aperture del Vaticano II. La sfi­da, in questo settore, è soprattutto di carattere «esperienziale»: le co­munità cattoliche, provocate dalla presenza e dalla testimonianza di fratelli di altre confessioni cristia­ne, sono invitate a dialogare e te­stimoniare a loro volta la fede cat­tolica; nella persuasione reciproca - quanto diffusa? - che il dialogo non è automaticamente perdita di identità (solo chi non è sereno e persuaso della propria identità ha paura di dialogare) ma stimolo a re­cuperare l'essenziale e distinguer­lo da ciò che è secondario.

6. La Chiesa non è identica al Regno, ma ne è il germe e l'ini­zio (cf. LG 3 e 5): è la base teolo­gica per il riconoscimento di semi del Verbo ed elementi di verità e salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile, cioè per una nuova impostazione del tema in­terreligioso (cristianesimo e altre grandi religioni) e interculturale (Chiesa e mondo).

Il testo basilare per il rapporto interreligioso è LG 16 dove, rife­rendosi a coloro che non hanno an­cora ricevuto il Vangelo, si affer­ma: «Tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dal­la Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita». Anche LG 17 valuta positivamente l'am­bito non-cristiano: questa volta, però, non solo dal punto di vista delle singole persone ma anche da quello, più impegnativo, delle re­ligioni e delle culture in quanto ta­li: «con la sua attività, essa (=la Chiesa) fa in modo che ogni ger­me di bene (quidquid boni... semi­natum) che si trova nel cuore e nel­la mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato». NA 2, poi, afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Es­sa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quan­tunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e pro­pone, tuttavia non raramente ri­flettono un raggio (radium) di quella Verità che illumina tutti gli uomini».

Vi sono altri riferimenti che an­drebbero menzionati (in AU 3, 9, lì e 18; in US 22 e 92, ecc.): ma già questi sono sufficienti a rile­vare come il Vaticano II abbia impostato una valutazione delle al­tre religioni non più in chiave di sospetto o rifiuto, bensì di acco­glienza, discernimento e valoriz­zazione. Il concilio ragiona preva­lentemente in termini cristologici, ispirandosi soprattutto alla teolo­gia dei semina Verbi di Giustino: il mistero di Cristo, presente pienamente nella Chiesa, è pure presen­te - a diversi livelli - nelle altre tradi­zioni religiose. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptoris missio (1990) riprenderà la prospettiva an­che in chiave pneumatologica, in­vitando a valorizzare gli elementi che lo Spirito suscita anche nelle altre religioni (cf. specialmente 28-29). Il concilio non ha precisato i modi di questa presenza né ha esplicitamente trattato il problema del valore salvifico delle religioni non cristiane: si è limitato - e non è comunque poco - a tracciare il solco per la riflessione teologica successiva.

Analogo è il discorso sul rap­porto interculturale, almeno per ciò che attiene ai principi di fondo. Il testo-base è in questo cam­po senza dubbio il capitolo secon­do della parte seconda di US: «La promozione del progresso della cultura» (53-62); qui sono elènca­ti prima di tutto rischi e opportu­nità che il mondo odierno presen­ta all'annuncio del Vangelo, così che i «fatti deplorevoli non scatu­riscono necessariamente dall'o­dierna cultura, né devono indurci nella tentazione di non riconosce­re i suoi valori positivi», i quali vengono addirittura indicati come una praeparatio evangelica (cf. 57). In questo contesto complesso, afferma US 58, la Chiesa da una parte evita di legarsi in modo esclu­sivo e indissolubile a una qualche cultura, ma dall'altra è in grado di entrare in comunione con le più differenti forme; ed è una comu­nione che arricchisce sia la Chie­sa che le culture: il Vaticano lì adotta così uno schema bi-direzionale (si trovava già in US 40 e 44), che permette di fondare un vero e proprio «dialogo» con le culture, cioè un reciproco dare-avere. Il dialogo nulla toglie alla missione, se è vero che - come continua lo stesso paragrafo il vangelo di Cri­sto rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dal peccato, purifi­ca ed eleva la moralità dei popoli, feconda dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di cia­scun popolo.

Chi vuole restare fedele all'impostazione del Vaticano II - una tensione dei germi veri e santi, presenti dovunque in differen­te misura, verso il loro compi­mento nel mistero di Cristo - imposta un rapporto con le altre re­ligioni, le altre culture e i loro ap­partenenti in termini di dialogo e annuncio insieme: non solo dialo­go, che si risolverebbe in eserci­zio di pluralismo relativistico; né solo annuncio, che rischierebbe di portare a un neo-colonialismo mis­sionario; dialogo e annuncio si im­plicano e richiedono a vicenda, e l'equilibrio tra i due sembra an­cora piuttosto lontano dalla porta­ta delle nostre comunità cristiane e di tanti singoli battezzati, che sembrano oscillare continuamen­te tra le due forme estreme e più facili del relativismo e dell'inte­gralismo.

«Appunti» si intitolano queste pagine: il paziente lettore constata a questo punto che non si tratta di umiltà fuori posto, ma di una realtà innegabile: il Vaticano II è talmen­te ricco, complesso e... in buona parte inattuato, che solo una lunga consuetudine personale con i suoi testi e un'altrettanto lunga serie di esperienze pastorali potranno ve­ramente «recepirlo».

1) S. DIANICH - S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana Brescia 2002.

Letto 7486 volte Ultima modifica il Martedì, 23 Gennaio 2007 21:59
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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