Formazione Religiosa

Venerdì, 24 Novembre 2006 00:03

É pericoloso credere in Dio (Juan Luis Herrero Del Pozo)

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L'affermazione del titolo non è un'iperbole né una provocazione, ma un allarme sui pericoli di certi modi di intendere e vivere erroneamente la religione. Pericoli non ipotetici ma consentiti storicamente. È meno pericoloso un agnostico umanista integrale che un credente nell'errore. Come imperfetto seguace di Gesù, intendo offrire un'ipotesi di pensiero, contributo modesto ma sincero in un'epoca di crisi, tanto religiosa come di civiltà.

Introduzione

Lo schema è semplice.

Viviamo da molti secoli una religiosità che non è solo non è stata capace di impedire che l'umanità si trovi oggi in una oscura condizione, ma che è stata anche uno dei fattori del disastro: la religione, dunque, è stata pericolosa. Primo perché ha privilegiato l'ortodossia sull'ortoprassi, cioè la credenza in dogmi assoluti e liturgie dubbie e marginali invece della sequela radicale di Gesù, unica etica cristiana. A differenza di Gesù, da Dio abbiamo ripreso la verità e il potere più che il servizio e l'amore.

In secondo luogo, tanto la teoria quanto il comportamento, oltre ad essere scarsamente evangelici, hanno sofferto, come in altre religioni, il tarlo della magia. È pericoloso credere in Dio se questo non si traduce nella vita. E più ancora se ci sbagliamo su Dio, se la sua immagine è viziata. È molto rischioso perché le conseguenze sono molto gravi. Fino all'Illuminismo era, forse, qualcosa di inevitabile. Oggi no. Ma l'autorità ecclesiale e la teologia ufficiale, che hanno modellato una coscienza popolare acritica, non hanno compreso (e meno ancora superato) la crisi della modernità illuminista e si arroccano con ostinazione sul ritorno al modello di cristianità. Qui si annida precisamente il peggiore fermento di scristianizzazione tanto deplorato, in quanto ne è in parte la causa. Per questo è importante affermare che l'Illuminismo, malgrado i suoi errori, inaugurò una nuova epoca, unica a partire dal neolitico, e, tra altri successi, rese possibile individuare il virus della magia senza il cui sradicamento sembra impossibile "ripensare" la fede in un paradigma di pensiero credibile. Compito arduo, perché il nucleo della magia è metafisico (cosa per cui non siamo più allenati) e perché il pensiero magico lo portiamo incrostato nel nostro immaginario religioso subcosciente dalle origini dell'umanità. Tanto subcosciente che è più difficile del previsto uscire dal vecchio paradigma classico, anche per i teologi, ottenendo la necessaria coniugazione antropologica del pensiero. Per quanto, forse, esiste un cammino meno metafisico e più accessibile a tutti, quello della vituperata secolarizzazione, malgrado conduca alcuni alla miscredenza.

Con le riflessioni che seguono avremo solo rimosso il principale ostacolo del nuovo paradigma teologico, cioè la barriera del pensiero magico. Quello più grosso verrà dopo, ma oggi non ci sarà tempo. A questo riguardo, mi limito a indicare per dove bisognerebbe camminare: non mi aspetto che questo paradigma venga assunto facilmente né rapidamente; non ci metteremo d'accordo né nelle Chiese, né tra le religioni. L'ecumenismo teorico è utopico. Ma c'è qualcosa che non può attendere: la dolente situazione umana. Se non possiamo metterci d'accordo sull'idea di Dio, facciamolo nella lotta per l'uomo. Scommettiamo sull'etica, sull'orto-prassi, nonostante si debba aspettare l'ortodossia. Credo che sia stato l'atteggiamento di Gesù.

Prima parte: i pericoli della religione

Storicamente è stata fonte di conflitti per la società e di immaturità, oscurantismo e coscienza schiava all'interno delle Chiese. Insisto su un dato decisivo: indico fatti, non distribuisco responsabilità morali; descrivo, non accuso.

La storia della cristianità non offre certamente un’immagine molto decente del Dio che proclamiamo. Senza dubbio vi sono santi, martiri e mistici, soprattutto nella base dei credenti. Ma con tutte le distinzioni che vogliamo fare, si potrebbe assicurare che ciò è avvenuto non grazie, ma malgrado l'organizzazione religiosa ufficiale. La configurazione rigidamente gerarchizzata, come nessun'altra, della nostra religione l'ha condotta all'ossessione per il dogma e per la legge più che per la libertà e la creatività dello spirito. Il potere, per quanto sia sacro ("gerarchia") è sempre un abuso e non dà buoni frutti. Abbiamo giustificato il potere perché lo abbiamo vincolato a Dio. Qui comincia la perversione: pretendere che si possa esercitare il potere in nome di Dio!

Verità e potere in nome di Dio!

In nome di Dio! Temo che il pericolo non sia nel parlar poco di Dio (scrupolo molto cattolico), ma nel metterlo in tutte le salse. Perché peggio che nominarlo invano, cioè nel vuoto o senza contenuto, è ornare l'ignominia con il suo nome. L'ignominia di una storia di diciassette secoli, da Costantino, durante i quali il tradimento del Vangelo di Gesù ha prevalso sulla fedeltà a lui. E la genesi del tradimento è consistita nell'aver sequestrato, nel nome di Dio, nientemeno che la sua verità e il suo potere e devastato tutto quanto non coincidesse con l'unica religione autentica "fuori della quale - sentenziò molto presto l'istituzione - non c'è salvezza". Diciassette secoli, e ancora andiamo avanti così, come "martello di eretici", difendendo e imponendo l'ortodossia "a cappa e spada".

Mai detto meglio, a cappa e spada... e con carceri, inquisizioni, roghi, crociate, guerre religiose, intrighi di palazzo, battesimi forzati, conquiste distruttrici di religioni e culture, commercio di schiavi, benedizione di cannoni... Anche dopo il Concilio esistono processi senza garanzie da parte della moderna inquisizione. E, anche nello stesso Concilio, parecchi vescovi negavano la libertà piena di coscienza rispetto alla verità: "solo la verità ha diritti", sostenevano. Possedere la verità su Dio è elevarsi con il suo potere. E il potere, come dominazione - che non è servizio! - degli uni sugli altri, diventa sacro, "gerarchia". Questo potere ha raggiunto il culmine dell'iniquità sacralizzando la dittatura monarchica papale nel governo e nel pensiero (infallibilità), proscrivendo, definitivamente, la democrazia nella Chiesa. Identificarsi con la verità e il potere divini è proiettare sacrilegamente su Dio il peggio del nostro peccato di presunzione e di prepotenza. Questi non sono più pericoli della credenza, ma aberrazioni storiche concrete e prolungate. Verso l'esterno e l'interno della nostra stessa casa.

Il tarlo della magia

L'appropriazione della verità e del potere di Dio e il pensiero magico sono i due ingredienti, uno antievangelico, l'altro antropologico, del modello di cristianità. Entrambi si retroalimentano per generare un mostro: una costruzione religiosa monumentale, costellazione di credenze, pratiche e organizzazione che si pretendono somministrate dalla rivelazione diretta di Dio. Parlando di magia, non mi riferisco al racconto mitico, legittimo in qualunque religione, per esempio del paradiso terrestre o dell'infanzia di Gesù. Il mito, oggi ben compreso in antropologia, è una delle forme espressive più ricche di contenuto e forza della comunicazione umana. La magia è un'altra cosa. È qualcosa che si nasconde rannicchiato nei sotterranei della coscienza credente e che, per questo, risulta più insidioso. Indico subito alcuni tratti.

L'amalgama dell'appropriazione della verità e del potere di Dio con il pensiero magico dà luogo alla seguente caricatura. La caricatura non mente per il fatto che riporta i tratti più caratteristici.

Una fantastica costruzione

Dio crea il mondo e l'essere umano "a sua immagine e somiglianza". A questo titolo ci consideriamo legittimati ad abbozzare l'originale, l'idea di Dio. Ma proprio qui risiede la possibilità della verità e il rischio dell'errore, Dio e i suoi feticci. Dio costruisce il "grande teatro del mondo" ma non si fida del tutto. Come organizzatore previdente trattiene nelle sue mani i fili degli attori della storia. La "storia della salvezza". Di questa è, anche, il principale e più illustre attore. Libero e onnipotente, interviene se vuole o se glielo chiediamo. Per la sua libera volontà introduce nel cosmo l'essere umano, perlomeno il suo elemento spirituale, l'anima. Tutte e ciascuna. Tra le innumerevoli razze e popoli, sceglie uno solo come veicolo della sua parola. E tra tutti gli esseri umani ne seleziona alcuni come intermediati. Senza dubbio, solo chi ci si mette di impegno "si danna", ma solo lui salva gli eletti al di là di qualunque merito. Attende milioni di anni per inviare nel più minuscolo angolo del pianeta l'unico salvatore di tutti. A tale scopo, una ebrea, senza sapere del portento, concepisce una creatura tanto pura da essere preservata dal peccato originale. Arrivato il momento, questa, già ragazzetta, concepisce a sua volta in maniera verginale, supplendo lo Spirito al seme maschile. Tutti gli altri contraggono quel peccato originale che comunque viene perdonato a quanti sono battezzati, anche senza collaborare e ancora più automaticamente ai bambini. Dato che l'immensa maggioranza dell'umanità non gode di tale privilegio, un Francesco Saverio e molti altri si sono sentiti angosciosamente spinti alla missione. Come prima gli ebrei, ora i cristiani - gli unici in tutta una storia millenaria - sono stati designati, per rivelazione divina, come portatori della virtù dell'unico salvatore. Abbiamo ricevuto esplicitamente in eredità un "deposito" di verità, un numero fisso di riti sacri efficaci, un'organizzazione e alcuni dirigenti (solo maschi). Questi costituiscono l'unico collettivo nella storia del cosmo che, saggio o incolto, virtuoso o mediocre, gode del permanente intervento dello Spirito di Dio perché preservi da ogni errore religioso o morale non solo la sua comunità ma l'intera società. Abbiamo, nella comunità cristiana, una celebrazione centrale portentosa in cui una sostanza inerte scompare senza sembrarlo per trasformarsi ("transustanziarsi") nel corpo e sangue di Gesù, secondo quanto ha definito "ex cathedra" il Concilio di Trento...

Non è una caricatura, è il dogma, il "deposito della fede" che è rimasto inalterabile e indiscusso fino alla modernità. Oggi, mediante erudite elucubrazioni o silenzi complici, vanno cadendo alcuni scampoli della costruzione secolare; un po’ di soppiatto perché la maggioranza del popolo non ne è informata.

Con questo nucleo duro della religione ufficiale convivono - ormai come minuzie - mille credenze e pratiche secondarie, alimentate, accettate o consentite dall'autorità per la disperazione di alcuni pastori: devozioni che garantiscono la salvezza, immagini, processioni e benedizioni che allontanano la tormenta o le malattie del bestiame; indulgenze che cancellano certe frange del peccato; esorcismi che scacciano demoni dal corpo e dall'anima; cliniche di esperti che filtrano presunti miracoli a Lourdes o a Fatima; o piuttosto comitati di specialisti in Vaticano in cerca di miracoli di personaggi che hanno interesse a dichiarare infallibilmente santi o che discernono le false apparizioni dalle vere che, si intende, sono sempre possibili per l'onnipotenza divina. Si sono riempite librerie con queste superstizioni, agli occhi dell'incredulo, ufficiali o popolari.

Crisi religiosa

Di fronte a tale corte secolare di abusi di appropriazione della verità e del potere di Dio da un lato, e di costruzione magica globale delle religioni cristiane dall'altro, chi si meraviglia che la nave faccia acqua da tutte le parti? Chi si stupisce della crisi religiosa? Cosa è rimasto di tutto il carico rivoluzionario, geniale ed entusiasmante, del messaggio del Nazareno? È o no pericoloso credere sbagliandosi su Dio?

A discarico del non credente e sia quale sia la sua onestà di vita, non ci deve meravigliare che la nostra storia religiosa e i nostri dogmi gli producano sentimenti di rifiuto o commiserazione. Ci vede creduli, immaturi, irrazionali e orgogliosi. All'estremo opposto, forse tra chi legge, c'è chi sente che le mie parole destabilizzano i fondamenti della fede. Che non tema, che le respinga. Dobbiamo avere sempre tolleranza e rispetto perché, in ogni modo, è possibile pensare in termini magici ed essere santi. Ma che non ci si chieda prudenza quando il rischio è oggi mancare di audacia. Abbiamo respinto dalla Chiesa molta gente onesta e non valgono troppi sguardi timorosi, più psicologici che di fede, a costo di altro scandalo per la maggioranza. È oggettivamente immorale far passare come mistero di fede quello che è costruzione magica. Non si può far correre con ruote di mulino l'uomo moderno. L'abisso tra religione e sensatezza si è fatto insopportabile.

A che si deve, in ultima analisi, l'abisso tra fede e ragione? Non è nel fatto di accettare o rifiutare Dio, ma in qualcosa di previo, nell'idea che ci facciamo di lui. Il Dio indiscusso per secoli entra in crisi perché il pensiero illuminista scopre che non è legittimo mettere in conto a Dio quello che si spiega per semplice logica delle leggi di natura e della libertà. I re non governano per grazia di Dio, tanto quanto non è Dio che manda la pioggia. L'illuminismo scopre l'autonomia del reale, intramondana e infrastorica, e dà origine alla distinzione tra scienza e teologia, tra trono e altare come acquisizioni irreversibili, e dà luogo al cosiddetto processo di "secolarizzazione". Un Dio che manovra i fili del cosmo e della libertà non è ricevibile. Bisogna negarlo o bisogna scoprire un altro paradigma o modello di intellegibilità, specialmente nella sua relazione e sinergia con quanto non è lui. Questo è il modello della crisi religiosa dell'illuminismo - da dove sorge la nuova epoca -, crisi tuttora presente, grazie soprattutto alla resistenza della vecchia forma di pensiero religioso trincerato nella teologia ufficiale.

L'ipotesi che difendo consiste nell'affermare che il modo in cui pensare relazione e sinergia fra Dio e tutto il resto continuerà ad essere fabbrica di atei od agnostici se non lo spogliamo del virus secolare che infetta ogni religione: il pensiero magico. Per non giungere a questa radice alcuni teologi rifondano la teologia trattato per trattato o settore per settore. Secondo me, è poco efficace. E come se, tappando buco dopo buco, fossimo convinti di distruggere il tarlo che scava le gallerie. Al contrario, se sopprimiamo l'aspetto magico, il resto si deduce con sorprendente semplicità e rapidità.

Il pensiero magico, pietra angolare del vecchio paradigma

Debellare il pensiero magico mi sembra, dunque, la pietra angolare del nuovo paradigma teologico. È impossibile sviscerarlo in pochi minuti. Mi limiterò perciò a tracciarne il filo conduttore. I passi sono i seguenti.

Il credente afferma un Essere supremo come latore di senso ultimo di tutto l'esistente. Affermazione tanto ragionevole, almeno quanto la sua negazione o la semplice a-gnosis. È il salto al trascendente che implica affermazione e impegno, conoscenza e opzione di vita, e che costituisce propriamente l'atto di fede (Dio sarebbe l'unico "oggetto" della fede, a parte che, in più, ci avrebbe inviato un messaggio o rivelazione; ma bisognerebbe provare tassativamente che questo non è invenzione umana. Crediamo in Dio, non a Dio).

Affermando Dio, ogni idea religiosa successiva gravita e dipende per intero dal modo di intendere la relazione attiva e reattiva fra noi e lui. Ogni teodicea o teologia è vanazione di questa unica frase melodica. Ma, attenzione, questa rela­+zione è qualcosa di inedito per la nostra conoscenza che sa solo di relazioni tra realtà esistenti senza tener conto delle cose soprannaturali. Questo ci obbliga alla massima precauzione. Non sarà che, in effetti, comprendiamo la relazione tra l'Increato e il creato secondo i modi abituali di pensare, facendo cioè Dio "a nostra immagine e somiglianza"? Perché in questo stesso istante ci avremmo colato dentro quello che chiamo pensiero magico. In che consiste questo? Mi dispiace limitare questo tema di ambito propriamente metafisico - al quale Kant, malgrado il suo genio, ci ha disabituato - ad alcune considerazioni più accessibili sebbene riduttrici. Sicché dirò semplicemente: l'aspetto magico del pensiero consiste nel fare di Dio una causa, un attore in più - il più potente, senza dubbio -, ma uno in più, immerso nel cosmo e che agisce come una causa intramondana agisce su un'altra. Vulcano lancia la lava attraverso il vulcano; Dio corregge l'orbita di Giove o supplisce l'azione di un antibiotico e sana un tubercoloso; o separa le acque del Mar Rosso o ferma il sole secondo il volere di Giosuè. È pura magia addossare a Dio azioni o interventi al margine delle leggi create da lui. Una volta che l'Illuminismo ha affermato l'autonomia della realtà, non possiamo tornare indietro accettando un interventismo divino. Se non vogliamo usare una maggiore perspicacia metafisica, fermiamoci alla seguente antitesi: nella misura in cui c'è autonomia non esiste interventismo.

Sorge una difficoltà: con la tesi "autonomia sì, interventismo no", abbiamo inaugurato un processo di "secolarizzazione" che sbocca nell'assenza totale di Dio e, da lì, nella sua morte o negazione? Senza dubbio, è stato l'itinerario di molti pensatori moderni (teismo e morte di Dio). Ma l'equilibrio non è nell'affermare un Dio provvidente a costo dell'autonomia dell'essere come fa la posizione arcaica e magica del religioso.

Riconosciamo che l'essere più profondo della realtà, anche semplicemente umana, non ci è pienamente trasparente, è segreto e misterioso. Niente di strano che lo sia la sua relazione con Dio, supposta la sua esistenza, in quanto totalmente Altro. Per questo è limitata la nostra possibilità di metafisica. Alcuni hanno avvertito che possiamo dire di Dio solo ciò che non è e avventurarci appena oltre in forma di paradosso, come dialettica di equilibrio fra due estremi opposti. Nel tema di oggi, il paradosso consiste nell'affermare che la dipendenza dal Dio creatore non nega ma fonda precisamente l'autonomia del creato. Nella formulazione più accessibile, affermiamo simulatamente due opposti: Dio presente e Dio assente. Tanto presente che senza di lui la realtà, carente di humus, si dissolve nel nulla. Tanto assente che il nostro essere autonomi, fatta sempre salva la dipendenza ontologica, è quello che si costruisce da sé ed è responsabile della storia.

Dio presente

Dio non crea il cosmo come l'orologiaio che, fatta la sua opera, la mette da parte. Dio non lancia la realtà all'esistenza per abbandonarla alla sua sorte e disinteressarsi di essa. Dio la crea e seguita a sostenerla nel suo essere, senza la qual cosa essa cesserebbe di esistere. Come il feto che, tagliato il cordone ombelicale, morirebbe. O come il prisma di cristallo che non potrebbe esistere senza il fascio di luce che lo attraversa. Sono povere metafore che suggeriscono fino a che grado di profondità Dio sia il sostegno. Dio è il sostegno del nostro essere non come qualcosa di esterno, ma come facendolo permanentemente emergere da lui all'esistenza. Per questo dobbiamo parlare della massima vicinanza e presenza immaginabili. O di Dio come dono totale e irreversibile di sé. Dono totale perché qualsiasi limitazione proviene solo dal recettore. Solo il recettore è misura del dono. A partire da Dio nulla si può aggiungere. Nessuna presenza o intervento posteriore (sovrannaturali) hanno senso perché niente può essere aggiunto al dono totale. Con questa intuizione svaniscono tutte le presenze e tutti gli interventi divini della teologia tradizionale. Dio quando si impegna nell'atto creatore si manifesta limitato dalla creatura che lo riceve. Il dispiegarsi di Dio in essa, nel suo divenire, dipende dalla misura e dal modo che le leggi naturali e la libertà consentono. Non c'è posto per nessun impegno di privilegio da parte di Dio.

Dio assente

Sì, però... Appena affermata la dipendenza originaria della creatura, aggiungiamo immediatamente il polo opposto della sua autonomia. Allo stesso emergere dell'essere, Dio gli conferisce il divenire perché l'essere non è stasi, ma stretta evoluzione: panta rei diceva il filosofo, tutto scorre e tutto è scorrere. Un fluire o evoluzione che non dobbiamo immaginare come una successione di incessanti ritocchi o interventi del dito divino. Appena affermata la massima presenza divina nell'evoluzione, completiamo il paradosso che rispetta il mistero, affermando la massima assenza di Dio. È puro antropomorfismo immaginare che, a volte, qualcosa manchi o sia sbagliata o riuscita male che Dio poi debba completare, modificare o correggere. O che possiamo influire sulla sua volontà con la preghiera come se non a avesse dato tutto con l'essere, alla radice. L'autonomia in virtù del dono totale di Dio rende innecessario qualsiasi intervento posteriore. L'essere si dispiega dal momento dell'atto creatore come il grano dal chicco che racchiude in sé, autonomamente, tutto il suo splendente futuro. La metafora non è metafisica, ma giunge al profondo. In una parola, affermare che Dio è il sostrato permanente dell'essere significa negare interventi posteriori nel divenire. Questo interventismo ha un nome: azione magica.

Arrivati a questo punto, si sente una certa impotenza, quella di comunicare una percezione profonda, l'impotenza di introdurre il pensiero corrente, afferrato ai sensi, nel crogiolo metafisico per purificarlo dalla scoria magica che gli è connaturale. Se la nostra mente non si distacca dal sensibile quotidiano, rimane piana e aderente al suolo. Ma tutt'a un tratto può brillare l'intuizione come quando diciamo: ora cado! Questo "clic" mentale, o la sua assenza, dà luogo a due linee di pensiero, due cosmovisioni inconciliabili, due paradigmi teologici. Per fortuna, neanche in questo ci giochiamo la verità di cui siamo capaci. L'essenziale, lo vedremo, è da un'altra parte.

La mistica è la metafisica del cuore: "solitudine sonora"

Non nego la difficoltà di "addentare" la metafisica. Tuttavia non è qualcosa di inaccessibile perché appartiene all'esperienza religiosa vitale profonda, come appare nell'espressione dei grandi mistici di qualsiasi religione o nell'esperienza di vita di qualsiasi credente serio.

Come si manifesta nella vita concreta questa dialettica, questo paradosso del Dio massimo dono e presenza e, simultaneamente, grande silenzioso e assente...? Chi ha fatto, in qualche modo, anche debolmente, l'esperienza del Dio indicibile, come i mistici, finisce col balbettare. Giovanni della Croce: l'amato "per questi boschi passò con passo svelto e, guardandoli, con il solo suo aspetto li lasciò presi della sua grazia". Agostino di Ippona diceva: Dio è la realtà più profonda della mia stessa intimità (intimior intimo meo). Ignazio di Loyola afferma così il paradosso: "confidiamo in Dio come se tutto dipendesse da lui ma agiamo come se tutto dipendesse da noi". Cosa ci dicono questi e altri contrasti? Che il binomio Dio-cosmo o Dio-essere umano si può esprimere solo dialetticamente. Affermando una cosa e il suo contrario: "solitudine sonora" (Giovanni della Croce), Dio presente e assente. (Con minor forza e rilievo è, per i più, l'esperienza di ogni vita credente autentica). Gli autori spirituali hanno parlato sempre di momenti di consolazione e di sconforto, da non confondere con il sentimento e l'emozione religiosa, cioè con il movimento neuronale e meno ancora con stati maniaco-depressivi.

Diciamo che la fede è la scommessa ragionevole nel senso della convinzione che l'essere perde la sua intellegibilità ultima, cioè sprofonda, si perde, svanisce nella sua densità più profonda come essere se non è radicato nel divino.

Dio è la massima presenza, il dono totale, la vita vivificante, la roccia della nostra solidità, la luce illuminante, la forza che da dentro ci spinge a crescere... Non ha bisogno di intervenire da fuori chi sostiene la radice dell'essere. Nè ha motivo di intervenire nelle leggi che presiedono allo sviluppo chi lo ha creato come gravido di sé.

Fiducia e solitudine

Con queste affermazioni esprimiamo la fede come salto verso la trascendenza. Questo ci permette di collocare la nostra intera vita all'interno di un senso e in cammino verso una maggiore pienezza. Ma non ci offre nessuna evidenza non aggiunge nessuna nuova luce, nessuna conoscenza supplementare. Al contrario. Quello che immediatamente appare nel campo della coscienza è il contrasto tra la solida fiducia proveniente dalla scommessa interiore sul Dio nel quale confidiamo e la tempesta e la solitudine nelle quali ricadiamo, che non ci preservano dal dubbio né dalla "notte oscura" (e questa esperienza paradossale si accentua, semmai, quando ci purifichiamo dal supporto magico dei nostri modelli religiosi classici). Nel cristianesimo - come nelle religioni cosiddette rivelate - abbiamo confuso l'intima e feconda, per quanto silenziosa, presenza del totalmente Altro con questa "storia sacra" come catena ininterrotta di interventi dall'alto che sono solo metafore. Gli apostoli, dopo il fallimento della croce, fecero l'esperienza interiore del resuscitato, ma riuscirono ad esprimerla mediante racconti di apparizioni sensibili. Teresa di Lisieux fece l'esperienza interiore del fuoco dell'amore e la espresse mediante il dardo del trafiggimento. Mosè si commosse per le pene dei suoi concittadini e tradusse questo come ordine di liberazione venuto da Dio. Dio non lo si percepisce con i sensi nè con l'intelletto, sebbene per nominarlo ricorriamo ad essi, cioè alla metafora, quando la riflessione metafisica ci risulta troppo opaca o lontana. In una parola, il pensiero illuminista ha aperto il cammino al superamento del magico e, con questo, alla comprensione "secolarizzata" della storia sacra e della provvidenza divina.

Orbene, quanti hanno lavorato alla decostruzione del vecchio paradigma religioso percepiscono con molta maggiore intensità il contrasto tra il Dio presente e il Dio assente. Abbiamo interpretato la presenza di Dio convertendola in un Dio interventista, attore principale nella storia. Senza dubbio egli è il più immanente della storia ma in modo trascendente e non categoriale, direbbero i teologi. Egli è il totalmente Altro. Abbiamo sostituito Dio con un feticcio a nostra immagine. Di ciò si sono nutriti precisamente l'agnosticismo e l'ateismo: di fronte all'irruzione della ragione e del senso comune nella crisi della modernità, la religione è diventata una fabbrica di atei. È o non è un pericolo massimo credere in Dio intendendolo al vecchio modo?

Alcuni hanno iniziato l'itinerario del nuovo paradigma religioso. Cosa constatano? E noi, cosa percepiamo in loro? Un doppio sentimento contraddittorio. Da un lato, avvertono come una liberazione interiore, un alleggerimento dell'anima di fronte ad una divinità più affidabile: "lo sentivo, dicono, che le cose non potevano essere come ce le hanno raccontate". Dall'altro lato, sentono come una destabilizzazione, un vuoto a causa della caduta degli schemi dell'infanzia. È come chi rientra nel vecchio tempio e non trova le immagini familiari perché sono state fatte scompare. Ad alcuni la liberazione produce vertigine e paura. Allo svanire delle vecchie rappresentazioni di Dio temono di rimanere senza di lui. Credono che gli muore Dio perché non sopportano la sua assenza.

Dio, appena lo percepiamo, nella nostra vita, come il grande "presente", come il "tesoro nascosto" unico, imprescindibile, tutt'a un tratto si occulta, si nasconde, scompare dalla nostra vista e ci sentiamo abbandonati. Soprattutto in situazioni di difficoltà e di sofferenza, Dio non interviene per toglierci le castagne dal fuoco, assolutamente mai. E, siccome ci assale costantemente la tentazione di ritrovare la magia del passato, dovremo scoprire che, ancorati con la fede alla rocca di Dio, dobbiamo vivere come se Dio non esistesse" (ut si Deus non daretur), come se tutto dipendesse esclusivamente da noi. Il superamento della magia ci restituisce alla verità sebbene non ci risparmi il dubbio e la opacità dolorosi della "notte oscura". Peraltro, la prima comunità di seguaci di Gesù percepì il momento decisivo del suo itinerario spirituale (il fallimento della sua morte) come assenza dolorosa di Dio: "La mia anima si strugge fino a morire", "Allontana da me questo calice ", "Dio mio, perché mi hai abbandonato?". L'assenza e l'abbandono di Dio è parte integrante dell'esperienza credente.

Conclusione

È ora di concludere. Come vedete, mi sono limitato a un solo aspetto: è pericoloso credere in un Dio a nostra immagine, un Dio onnipotente con la cui verità sopprimiamo il dissidente e mediante i cui interventi magici costruiamo la storia. È decisivo scartare quello che Dio non è, ma questo non è tutto (non garantisce che viviamo bene la nostra relazione con Dio). Ho già rilevato che l'Occidente cristiano ha vissuto obnubilato dalla ortodossia. Per tre quarti gli anatemi lanciati dall'autorità furono contro presunti tradimenti del dogma piuttosto che delle beatitudini. Ebbene, il vangelo è inequivoco: non saremo giudicati in base alla fede ma in base al pane che neghiamo al fratello (Mt 25) (etica samaritana). Perché allarmarci per la crisi delle credenze e delle teologie? La verità e l'autenticità della religione non riposano nello scommettere tutte le carte su di essa - esisteranno sempre differenti religioni, il cristianesimo non sarà mai universale - ma nel compito di umanizzare, nella costruzione del Regno. Noi contribuiremo con l'esperienza e la testimonianza geniali di Gesù. Altri porteranno altre testimonianze. Tutti dovremo purificarci della parte dei nostri errori e delle nostre prepotenze. Ma tutti, credenti e non, possiamo darci la mano in un compito comune, la solidarietà samaritana, che oggi è indifferibile perché ci sanguinano l'umanità e la madre terra.

Juan Luis Herrero Del Pozo

(da Adista)

Letto 5700 volte Ultima modifica il Giovedì, 23 Maggio 2013 21:55
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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