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Martedì, 18 Settembre 2007 02:14

In cammino con Dio. Massa e Meriba: la crisi della fede (Antonio Nepi)

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In cammino con Dio

Massa e Meriba: la crisi della fede

di Antonio Nepi

«Ascoltate la sua voce: "Non indurite il Cuore, come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere"» (Sal 95,8-9). Posto dal salmista sulle labbra di JHWH, il «giorno di Massa e Meriba» resta scolpito nella memoria del Primo e Secondo Testamento come paradigma della crisi di chi è chiamato a camminare con Dio, nella tensione tra il già della liberazione e il non ancora del «riposo» nella terra promessa: il rischio di contestare Dio e le sue «vie», di non ricordare le sue misericordie, e di attaccare il cuore ai «doni di Dio» anziché a Lui che dona; più profondamente, di mettere in dubbio la sua compagnia nel cammino: «il Signore è in mezzo a noi sì o no?».

Nella storia fondativa del Pentateuco troviamo due narrazioni complete di questo «giorno» fatidico (Es 17,1-7; N m 20,1-13), nonche vari richiami nel libro del Deuteronomio e nei Salmi. Ci soffermeremo sul testo di Es 17,1-7.

La vocazione d'Israele come vocazione di Dio

Il libro dell'Esodo racconta un evento di importanza capitale: la liberazione d'Israele e la sua nascita come popolo. Per la prima volta il Dio della creazione, dei singoli patriarchi, ha interpellato una collettività in schiavitù, dimentica delle sue radici, facendosi conoscere con il suo «vero» nome JHWH (Es 3,14). Fedele alle sue promesse, le ha rivelato la sua paternità, la sua solidarietà di parente più prossimo (go'el) e l'ha chiamata ad entrare in alleanza con lui, ad essere la sua famiglia, la sua sposa (Es 6,2-8).. Si tratta di una scelta gratuita di Dio, dettata da un innamoramento (Dt 7,7-9). Il passaggio del Mare dei Giunchi è stato una nuova creazione: il «battesimo» di Israele come popolo. Ogni nuova creazione, come ogni liberazione, è coincidenza di morte e vita: libertà da una schiavitù ('abodah) disumana, libertà per un servizio ('abodah); morte ad una non identità e dispersione in Egitto, vita per una nuova identità e per una inedita vocazione. JHWH ha liberato Israele, perché solo da libero può scegliere di aderire al suo progetto di alleanza e di servizio. È al Sinai che Israele saprà cosa Comporti questa alleanza e questo servizio (cf Es 19,5-6): JHWH vuole fare di questo popolo la sua peculiare proprietà (segullah), un regno con la missione sacerdotale di rappresentare Dio dinanzi all'umanità e l'umanità dinanzi a Dio; una nazione (che avrà quindi terra e legge) chiamata ad essere santa, cioè a vivere e far trasparire la stessa vita e lo stesso stile di Dio. La vocazione d'Israele è la vocazione di Dio. Israele è ancora ignaro del dono e del compito che lo attende. Dinanzi ai suoi occhi il deserto, orrido ed ignoto.

La via del deserto

Perché Dio sceglie per Israele la strada del deserto, quando poteva condurlo per una strada più comoda (Es 13,17)?

Dt 8,2-5 risponde che è stato un test pedagogico della paternità di Dio. Nel linguaggio sapienziale del passo, il percorso del deserto è stato una scuola di sapienza e di correzione, dove il Padre «mette alla prova» il figlio, per togliergli le maschere del cuore, per educarlo alla ri-conoscenza (intesa nel suo duplice senso di riconoscimento e gratitudine). Nel deserto (midbar), cifra esistenziale dell'ambiguità e dei miraggi, Israele è stato chiamato a distinguere la Parola (dabar) dalle parole, a sperimentare la propria fragilità, la sconfitta delle proprie sicurezze per rendersi conto che la vita dipende unicamente da JHWH.

Dt 32,10-12 rilegge il cammino esodico come il tempo dello svezzamento premuroso:

«Egli lo trovò in una terra deserta... lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata... lo sollevò sulle sue ali».

Il deserto è stato il momento della crescita di un popolo neonato (per Ez 16 di una bimba trovatella), che prende coscienza della sua liberazione, e deve imparare a muovere i primi passi non solo verso «la terra», ma «alla presenza di Dio», accogliendone le direttive. In tutto il libro del Deuteronomio, il deserto si configura come una palestra di solidarietà, in cui si impara a diventare «fratelli», a condividere quanto viene offerto da Dio e a difendersi insieme.

Questi due testi, però, presentano una visione retrospettiva del cammino, che ha il respiro di chi è alle soglie della meta. Ma l'Israele presso il Mare dei Giunchi questo non lo sa. Il deserto si spalanca minaccioso davanti ai suoi occhi come morte, desolazione, come luogo inospitale e invivibile, spazio degli agguati e dimora degli spiriti maligni, dove bisogna avere i beni vitali essenziali, saper gestire bene le proprie forze per poterne uscire. Certo, nel cuore d'Israele c' è la memoria euforica della prodigiosa liberazione e il futuro delle promesse. Ma restano, non del tutto rimossi, due inquietanti interrogativi; il primo suggerito da Faraone, il secondo dal popolo: «II deserto bloccherà Israele?» (14,3); «Mosè, che ha fatto uscire Israele dall'Egitto, lo farà morire nel deserto?» (14,12). Alle spalle la morte di Egitto, davanti la «morte» del deserto. Parafrasando K. Barth, il deserto è come una porta: dietro si può trovare Dio o il diavolo. Israele è chiamato ad una scelta: saprà affrontare il rischio della sua libertà giovane e prepararsi a divenire quel che è? Saprà fidarsi di Mosè e di JHWH, che lo ha liberato e credere che si tratta di un tempo intermedio, ma obbligatorio, perché momento di nuda e necessaria verità? Oppure la difficoltà, la vertigine di questa libertà, ridesterà l'illusione e il rimpianto della falsa sicurezza della schiavitù? Nel primo caso il deserto può essere la chance della più completa intimità fra i partners, e della provvidenza di doni impensati nell'ottica di Dio; nel secondo, il deserto diventa lo spazio dell'insofferenza, della protesta, dello smarrimento. È per questo che nella memoria profetica d'Israele, il deserto sarà un simbolo ambivalente: in un certo filone (Os 2,16; Ger 2,2) viene letto in chiave ideale e positiva come il tempo del «fidanzamento»; ma in un altro filone profetico, il deserto non è stato altro che il tempo di una continua e crescente ribellione: «Ma gli Israeliti si ribellarono contro di me nel deserto; essi non camminarono secondo i miei decreti, disprezzarono le mie leggi, che bisogna osservare perché l'uomo viva» (Ez 20,13). Nel racconto dell'Esodo e dei Numeri, pur con differenze, ritroviamo quest'ultima pessimistica conferma: dal Mar Rosso al Sinai (Es 15-17) ed anche dopo il dono della Legge (Es 32; N m 11-12; 13-14; 16; 20; 21,4-9;

25,1-5) Israele non ha saputo cogliere questa chance.

Dal Mar Rosso al Sinai

Nel libro dell'Esodo, il cammino di Israele verso il Sinai si apre con Mosè, che leva l'accampamento presso il Mar Rosso (Es 15,22) e si chiude con l'accampamento davanti al monte (19,2). Il racconto del viaggio nel deserto si configura come un intreccio di episodi (Es 15,22-18,27) narrativamente autonomi, in luoghi non facilmente identificabili, di cui prospettiamo la sequenza:

a) 15,22-27 la mormorazione aMara

b) 16,1-36 le quaglie e la manna nel deserto di Sin

c) 17,1-7Ia mormorazione di Massa e Meriba a Refidim

d) 17,8-16 il combattimento contro Amalek a Refidim

e) 18,1-27 incontro di Mosè e Ietro - istituzione dei giudici a Refidim.

L'unità narrativa di questo intreccio è data dal «deserto», dagli attori Mosè, Dio, il popolo, presenti in tutti gli episodi, contornati di volta in volta da altri personaggi.

Una sorta d'inclusione c'è tra il primo episodio dove Dio «istruisce» (yrh) e impone delle direttive (hoq + mispathoq + torot 18,16.20). Sin dall'inizio c'è la compagnia di una istruzione che sarà codificata al Sinai, nella Torah. 15,25-26) e l'ultimo, dove il compito di Mosè è farle conoscere (

Ogni episodio presenta generalmente lo stesso schema: c'è una mancanza di un elemento vitale (acqua amara, carne-pane, acqua, difesa dai nemici, amministrazione della giustizia), e la soluzione di questa mancanza, per la mediazione di Mosè (gesto e/o invocazione), che assume un ruolo sempre più determinante.

JHWH appare sullo sfondo del racconto; parla direttamente solo con Mosè (ed Aronne), che è il suo portavoce. In ogni episodio la mancanza vitale fa emergere un suo «titolo» (il Medico 15,26; il Saziatore 16,29; il Vessillo 17,15; il Liberatore - Più grande di tutti gli dei 18,10-11; a Massa e Meriba appare invece sotto l'interrogativo del v.7).

Il popolo, particolarmente attivo nei primi tre episodi, non sembra far altro che «mormorare» (15,24; 16,2.7.8; 17.3), «mettere alla prova» (17,2.7) e «protestare» (17,2.7). Questa protesta scompare completamente negli ultimi due episodi.

Come un sinistro e seducente basso continuo in ogni episodio compare il termine «Egitto/egiziani», che ha un tono diverso sulle labbra degli Israeliti (15,26; 16,3; 17,3) e sulle labbra di Mosè, del narratore e di Ietro (16,1.6;18,1.8.9.10.11).

Massa e Meriba

Nel libro dell'Esodo l'episodio di Massa e Meriba (17,1-7) appare al centro del viaggio verso il Sinai. Si tratta di una tappa che ricapitola e costituisce il culmine delle reazioni negative del popolo dinanzi alle mancanze vitali, che si sono finora susseguite. Nel contempo, le conclude, perché sempre a Refidim, si svolgeranno, a quanto pare, gli altri due ultimi episodi del viaggio (combattimento contro Amalek e l'incontro con Ietro), senza alcun accenno di reazioni negative.

Il racconto attuale costituisce un'unità autonoma, delimitata stilisticamente dall'inclusione tra «l'assenza» ('yn) di acqua nel v.1b e la domanda sull'assenza ('yn) di Dio in mezzo al popolo nel v. 7. Appare una spiccata fraseologia giuridica di lite.

La sequenza narrativa assomiglia a quella dei precedenti episodi: a) quadro: il popolo si accampa a Refidim (v. 1); b) complicazione: manca del tutto l'acqua e il popolo spinto dalla sete protesta e mormora (vv. 1b-3); c) la «svolta»: Mosè invoca il Signore, che interviene, ordinandogli il percuotere la roccia con il bastone per far sgorgare acqua: Mosè esegue l'ordine (4-6); d) conclusione: il narratore offre un' eziologia e la chiave interpretativa dell'episodio.

La mormorazione d’Israele

Israele continua il suo viaggio. Quasi per ironia, nell'assonanza dell'ebraico, ogni tappa (ms') si è rivelata una prova (msh) di Dio. Si tratta di un test, che trova in una direttiva il proprio riferimento. Proprio nella prima difficoltà a Mara, Dio aveva dato a Mosè una «istruzione», che è nel contempo un limite (hoq). La bussola è una Parola, che finora si è dimostrata fedele; rispettarla è garanzia di protezione e di rotta ed impedisce di ricadere nella logica degli Egiziani. Mosè è il portavoce privilegiato di questa parola salvifica. Nel deserto Israele può fare solo questo: se non conosce la pista concreta, ha però una rotta precisa: ascoltare la voce del Signore e prestare orecchio ai suoi ordini (15,26). Sorge ancora una volta il problema di una mancanza vitale, che nel deserto è la mancanza per antonomasia. L'assenza totale d'acqua sembra tradire l'assenza di JHWH (cf v. 1 e v.7). La reazione del popolo è progressiva: la sete scatena la «protesta» e cresce in una «mormorazione» contro Mosè. La mancanza sfocia in un conflitto.

Soffermiamoci su questa reazione del popolo. Israele «protesta» contro Mosè. Il verbo usato (ryb) oltre ad avere un senso generico di protesta, scontentezza, rimprovero, che rivendica un diritto, è squisitamente termine tecnico giudiziale, il verbo della contesa bilaterale, dove i due contendenti devono risolvere la lite senza l'intervento di un terzo giudice. È lo stesso verbo che ritroviamo sulle labbra di Geremia e di Giobbe, che citano Dio in giudizio (Ger 12,1; Gb 9). Qui Israele mette sotto processo Mosè.

Israele «mormora» contro Mosè. Il verbo usato (lwn) ha il senso di brontolare, biasimare qualcuno, specie se è un capo; Israele critica la guida di Mosè. Ma processare e criticare Mosè, in realtà, è un processare e criticare Dio; Israele lo dimentica, il lettore lo sa dalle pagine precedenti (16,7-8); Mosè qui lo ripete, smascherandolo come un «mettere alla prova» (nsh) JHWH.

Forse uno dei testi più densi, in una situazione analoga, che riassume questo «mettere alla prova Dio», si trova nel libro di Giuditta. La città di Betulia è assediata dagli Assiri e il popolo è demoralizzato per la mancanza d'acqua; in preda all'esasperazione mette sotto processo il re e preferisce diventare schiavo degli Assiri, consegnando la città al saccheggio, se entro cinque giorni il Signore non interverrà. Dio appare come «colui che li ha venduti» (7,25) per farli morire di sete e di mali. A questo punto è Giuditta, a richiamare i capi alla saggezza:

«Chi siete voi che avete tentato Dio in questo giorno, evi siete posti al di sopra di lui, mentre non siete che uomini ? Certo voi volete mettere alla prova Dio onnipotente, ma non ci capirete niente, ne ora ne mai. Se non siete capaci di scorgere il fondo dell'uomo ne di afferrare i pensieri della sua mente, come potete scrutare il Signore, che ha fatto tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri o comprendere i suoi disegni? No, fratelli, non vogliate irritare il Signore nostro Dio. Se non vorrà aiutarci in questi cinque giorni, egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere. E voi non pretendete di impegnare i piani del Signore Dio nostro, perché Dio non è come un uomo che gli si possano fare minacce e pressioni come uno degli uomini. Perciò attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà» (8,12-17).

Tentare Dio significa prendere il posto di Dio ed insegnargli il mestiere, pretendere una manifestazione tangibile del suo potere, ed imporgli le proprie scadenze. La fiducia di Giuditta nasce dalla sapienza di chi sa che Dio ha i suoi ritmi e le sue scadenze imprevedibili per l'uomo, ma a cui resta puntualmente fedele, come Egli stesso ricorda (Sal 75,3; Is 5,19; Ez 12,21-28).

Nel nostro testo «tentare Dio» significa ribaltare i ruoli, perché solo lui può «mettere alla prova» Israele (15,25; 16,4) donando un'istruzione e una «strada» in cui Israele deve camminare (16,4.28). Questa prova è un atto di amore secondo Sir 2,1-18, che mira a purificare il cuore e a crescere nel «timore di Dio», inteso non come paura, ma come rispetto reverenziale e fiducia in Lui, come unico Signore.

«Tentare il Signore» si traduce nel «mormorare». Mormorare contro Dio significa assenza di memoria. Israele dimentica JHWH, Signore unico della vita, che ha rivelato il suo potere sul cosmo in Egitto, che ha protetto i figli e il bestiame d'Israele (Es 9,3-4; 11,7; 12,12.31) ed ha trasformato il mare in terra asciutta; così come dimentica che è stato lui, nelle tappe precedenti, a trasformare le acque amare in acqua potabile, a donare carne e pane nel deserto.

Ma mormorare significa soprattutto rinnegare l' esodo, traviare il senso dei fatti. Ciò emerge nella domanda sarcastica: «Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto nel deserto, per farci morire di sete?» (17.3). Israele legge l'Esodo come cammino verso la morte, non verso la vita: come già era accaduto (14,11-12;16,2) perde di vista la terra promessa, vede il deserto non come luogo di passaggio, ma come «sepolcro» per sempre, beffa, o tradimento di un Dio sadico, o impotente (N m 14,15-16; Gs 5,9). Riemerge nel termine «Egitto» il cuore schiavo d'Israele, la nostalgia del passato, il rifiuto della libertà del presente e della vocazione futura: in altre parole significa ripiombare nella logica di Faraone. Se ripensiamo a Es 16,2 il popolo, come Elia, Geremia, Giobbe e Giona, preferisce morire, anziché accettare e dare ragione alla logica di Mosè e di Dio.

La svolta avviene con il grido-querela (s'q) di Mosè, che fa intervenire Dio, come a Mara (15,25). È un grido che nasce non soltanto dalla paura di essere lapidato; in gioco non c'è soltanto la sua vita, ma anche il nome di Dio ed il senso dell' esodo. La preghiera di Mosè è la reazione antitetica alla mormorazione e nasce dalla fiducia nell'intervento di Dio. Dio ordina a Mosè di percuotere la roccia, con lo stesso bastone con cui aveva percosso il Nilo. È uno strumento che fa memoria di una salvezza già avvenuta e disponibile. Mosè deve passare «davanti» al popolo, mentre Dio starà «davanti» a Mosè sulla roccia nell'Oreb. In questa posizione Mosè appare come «sacerdote», unico intermediario tra il popolo e JHWH. Il prodigio in se non viene descritto, ma si dice brevemente che Mosè eseguì l' ordine sotto gli occhi degli anziani, testimoni privilegiati e rappresentanti ufficiali del popolo. Diversamente dal racconto di Nm 20, non si accenna a nessuna reazione di fede, o incredulità del popolo, ne a qualche punizione o castigo.

«Il Signore è in mezzo a noi sì o no?»

Il racconto termina con una chiosa del narratore che spiega i toponimi Massa (= prova) e Meriba (= contestazione), ricapitola l'episodio e ne interpreta il senso con l'interrogativo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Se si legge il testo, ci accorgiamo che gli Israeliti non hanno mai fatto questa domanda. Non è la prima volta che il narratore esplicita parole mai dette dal popolo (cf 14,12). L'interrogativo rimette in discussione i precedenti titoli positivi di Dio compagno e aiuto nel cammino, il nome stesso di JHWH e della sua presenza in mezzo al popolo: nome che significa capacità di agire (3,12-15; 8,8). Il narratore lo lascia volutamente aperto ed è un invito a rileggere il racconto: perché e per chi? Per i lettori di sempre, dell'Israele che rilegge la storia e di noi che la rileggiamo oggi. Ecco allora che nel racconto dell'Esodo, «il giorno di Massa e Meriba» diventa un tragico anticipo del peccato di Es 32 (il vitello d'oro) e trascende un preciso momento storico per abbracciare tutta la storia e giungere al cuore della questione capitale del rapporto tra Israele e Dio. In questa parabola sapienziale il narratore retroproietta tutte le domande, i «deserti» e le «seti» dei momenti più drammatici di Israele, soprattutto la domanda e il deserto dell'esilio: «E forse la mia mano troppo corta per riscattare, oppure io non ho la forza per liberare?» (Is 5,20). Non si tratta di un quesito filosofico, né tantomeno della domanda di un ateo. È la domanda del saggio o dello stolto, ambedue in difficoltà nel capire l'eloquente «silenzio» di

Dio. Il lettore viene chiamato a decidere, a dirimere la «lite» tra JHWH e il popolo alla luce di quanto è accaduto e sa; è sempre il lettore che deve riconoscere la «presenza» di JHWH nell'«assenza» dell'acqua e nell’agire di Mosè. La risposta è sapienziale, perché riguarda due giudizi di valore: quello del popolo che stravolge il senso dell'esodo, interpretandolo come cammino di morte, strategia di un Dio sadico o assente. Quello di Mosè e degli anziani per cui Dio continua ad essere presente nell'assenza, a ripetere i suoi gesti salvifici. La scelta è anche fra due atteggiamenti dinanzi allo stesso bisogno o assenza: protestare contro Dio o supplicarlo come Mosè. I due atteggiamenti possono coincidere, come per Giobbe, Geremia, Abacuc (Ab 1,2): è possibile chiamare in causa Dio in una querela, che nasce dalla fede e si fida, pur inquieta, del suo disegno. Implicitamente il lettore è invitato ad avere gli occhi di Mosè e degli anziani e a far loro riferimento. Nell'abbandono della fede, come per Giobbe, è possibile approdare da una «conoscenza per sentito dire» di Dio ad una visione o esperienza fatta sulla propria pelle (Gb 42,5); ma questa sapienza passa inevitabilmente per la «lotta» di Giacobbe con l'Altro (Gn 32,23-33).

Il NT ha riletto il cammino del deserto come paradigma dell'esperienza cristiana: la prova autentifica la vocazione dei figli di Dio (cf 1 Cor 10). In particolare, nel sermone agli Ebrei, Massa e Meriba diventano paradigma del rischio e della crisi del credente, tra il già del battesimo e il non ancora della meta. Nel «viaggio», abbiamo il viatico e la bussola di una Parola viva ed operante, che chirurgicamente mette a nudo la verità del nostro cuore (Eb 3,7-4,13).

È in Gesù che troviamo risolto il ryb, la contesa tra il popolo e Dio. Figlio di Dio e Figlio dell'Uomo, nel corso del suo ministero si presenta con i titoli di JHWH: è il Medico (M c 2,17), il Saziatore (M c 6,41), l'acqua viva (Gv 4,13), nonché il vessillo salvifico (Gv 3,14) e la giustizia di Dio (1 Cor 1,30). Ma è soprattutto il Dio in mezzo a noi, l'Emanuele (Mt 1,22; 18,20; 28,20). Anche lui subisce le mormorazioni della gente, che contestano la sua Parola e Il suo modo di agire, fino a metterlo sotto processo.

Gesù ha sperimentato il deserto, accettando la prova (Mt 4,1-11). Ma è sulla croce, che ha avuto sete (Gv 19,28). Se al Getsemani ha lottato come Giacobbe (Lc 23,44), sul Golgota Gesù non solo attraversa, ma diventa il deserto stesso di Dio. Il suo grido-protesta «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,45; Mc 15,34) si traduce in fiducioso abbandono al Padre: «Nelle tue mani consegno il mio spirito/gola» (Lc 23,45). Ed il Padre lo trasforma in sorgente di acqua viva per l'umanità (Gv 19,34).

(da Parole di vita, 4, 1997)

Letto 12225 volte Ultima modifica il Domenica, 18 Novembre 2007 20:42
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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