Formazione Religiosa

Lunedì, 22 Dicembre 2008 00:17

Sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale (Franco Brambilla)

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L’esigenza di pensare il ministero a partire dalla comune chiamata al culto spirituale, che rende possibile pensare il popolo del NT come il popolo “sacerdotale”, il popolo che esprime il culto della nuova e definitiva alleanza che si è compiuto nell’unico mediatore che è Gesù Cristo.

La discussione sul ministero ordinato segnala una certa ripresa a partire dagli anni '801. L’intensificarsi del dibattito denota una concentrazione della indagine storica e teologica sulla figura del presbitero o, più globalmente, sulla realtà del m.o. Il punto critico della diatriba degli anni precedenti verteva sull’«identità» del prete, soggetto ad un evidente trapasso di cultura e di epoca. Non mancavano voci che facevano risalire all’assise conciliare la responsabilità di aver gettato nella crisi l’immagine consolidata del m.o., oppure, inversamente, altre voci si richiamavano al Concilio per superare la figura “sacrale” e/o “sacerdotale” del prete ritenuta ormai desueta. Uno dei momenti decisivi di questa critica era la nuova relazione che doveva essere tracciata tra il sacerdozio “ministeriale” e il sacerdozio “comune” o “universale” dei fedeli. Sembrava che la rinnovata coscienza, introdotta dal Concilio, a proposito del sacerdozio comune in qualche modo oscurasse il sacerdozio presbiteriale e, in ogni caso, ne imponesse il ripensamento. Un Sinodo ha anche riproposto alcuni temi di questa discussione2.

D’altra parte non è possibile liquidare la problematica sul Carattere ”sacerdotale” del m.o. solo mediante la sostituzione con il lessico “ministeriale”, cancellando le complesse questioni implicate nell’aspetto sacerdotale del ministero.3

Non è possibile in questa sede riprendere la problematica. È sufficiente annotare e sviluppare brevemente l’istanza di fondo che emerge dalla vicenda. L’esigenza cioè di pensare il ministero a partire dalla comune chiamata al culto spirituale, che rende possibile pensare il popolo del NT come il popolo “sacerdotale”, il popolo che esprime il culto della nuova e definitiva alleanza che si è compiuto nell’unico mediatore che è Gesù Cristo. Di qui l’importanza di pensare il ministero sacerdotale non come una “mediazione” tra i credenti e l’evento di Gesù Cristo, ma come una partecipazione alla comune e universale incorporazione dei fedeli tutti al sacrificio pasquale operato da Gesù Cristo, secondo la prospettiva propria e singolare del ministero ordinato. Di qui allora la richiesta di pensare insieme l’inseparabilità e la differenza specifica rispetto al sacerdozio comune, o forse sarebbe meglio dire, in una prospettiva più ampia, rispetto alla struttura fondamentale della fede cristiana. Svolgeremo il nostro discorso in tre passaggi.

1) La fede come luogo del «culto spirituale» per ogni credente

Il primo momento deve svolgere la figura fondamentale dellafede cristiana e del credente cristiano in relazione a Gesù Cristo. Di qui le sue tre caratteristiche essenziali: essa è riferita insuperabilmente a Gesù Cristo; nèlla comune appartenenza alla comunità dei discepoli del Signore; e si esprime nella partecipazione di tutti alla missione della Chiesa.

Anzitutto, la fede cristiana non può pensarsi come un andare oltre Gesù Cristo. Ogni vita rimane contrassegnata nella sua qualità “cristiana” precisamente nell’essere riferita alla singolarità di Gesù di Nazaret, quale luogo della assoluta rivelazione di Dio. La singolarità della vicenda di Gesù dice ad un tempo la sua insuperabilità e normatività rispetto ad ogni ulteriore figura di credente. Il carattere singolare, unico, escatologico e normativo della vicenda di Gesù, in particolare la sua vicenda pasquale, diventa accessibile a tutti mediante l’azione saIvifica dello Spirito di Gesù. L’agire dello Spirito riconduce la libertà degli uomini alla comunione filiale con Gesù, plasma la loro storia conformemente alla vicenda di Gesù. Attraverso la libertà, la storia degli uomini ritrova il suo senso e il suo destino nella storia singolare di Gesù nei confronti del Padre suo. In tal modo l’azione di Gesù e l’azione dello Spirito non sono semplicemente accostate o contigue, ma esprimono il realizzarsi della vita trinitaria nella vita cristiana. Il cristiano è così “memoria” di Cristo e memoria “spirituale” dove però la seconda connotazione non dice “altro” e non va “oltre” la singolarità di Gesù, ma esprime il dinamismo con cui la libertà si compie in Cristo. Per questo l’esistenza cristiana è definita da Paolo come “culto” spirituale e da Giovanni come un “dimorare” in Gesù. Questo è ciò che connota il popolo del NT come popolo «sacerdotale», a cui è concesso senza ulteriori mediazioni di partecipare all’unico e perfetto sacrificio di Cristo.

In secondo luogo, la fede si determina dall’interno nella sua dimensione ecclesiale, cioè come una fede che “si fa carico” della fede altrui. Ora la forma ecclesiale della fede esprime un fatto obiettivo, prima che una responsabilità etica. La responsabilità nei confronti della fede altrui esprime la struttura testimoniale della fede, vale a dire il suo carattere “simbolico” (figurale). Appartiene in modo originario alla fede cristiana, sapersi “mostrare” come una libertà che è capace di “dire” Gesù Cristo. Il fatto che la fede cristiana “dica” che Gesù di Nazaret è il senso compiuto della libertà, la costituisce oggettivamente come “responsabile” della fede altrui, cioè come fede che “attesta” e rinvia alla storia di Gesù e all’azione dello Spirito (è questo ciò che significa fede testimoniale): Per questo la fede “sa” e “dice” dinanzi agli altri Gesù di Nazaret, ma “dice” Gesù come la verità di Dio. Essa non attira e concentra su se stessa, ma rimanda verso “quella” verità che è il senso decisivo del proprio agire. La fede si sporge verso gli altri ed è responsabile dell’annuncio verso tutti, perché è oggettivamente capace di rimandare alla verità di Dio, apparsa in Gesù. In tal modo la fede custodisce la differenza tra la vita cristiana e sua figura normativa che è la vicenda di Gesù. In questo senso nessuna figura della fede potrà mai pensare di dire o di esaurire la ricchezza singolare del mistero di Cristo, neppure in una forma (più) radicale di sequela.

In terzo luogo, si deve riflettere sulla modalità di espressione e di realizzazione della fede, ormai intesa chiaramente come fede ecclesiale. A necessario svolgere l’affermazione caratteristica dell’ecclesiologia conciliare, che intende la Chiesa nel suo complesso come popolo di Dio, cioè come popolo profetico, sacerdotale e regale. La totalità della Chiesa è il «soggetto» storico della sua missione: le ulteriori determinazioni devono essere pensate e attuate all’interno di questa sorgiva responsabilità. Una prima sottolineatura va posta sulla possibilità stessa di definire l’azione ecclesiale attraverso lo schema del triplice munus. La storia di questa tripartizione mostra che l’uso sistematico dei titoli emerge nella polemica tra Osiandro e Calvino, ma si ritrova anche nella teologia cattolica dei secoli XVIII-XIX, 4 ed è stato consacrato con particolare forza nel Vaticano Il 24-27.34-36; P0, 4-6).Tuttavia, nonostante la fortuna dello schema, bisogna essere cauti circa la sua capacità di dire adeguatamente il senso della missione ecclesiale e soprattutto di ritrovarne l’unità. Il tentativo di privilegiare uno dei (trianunera (precisamente quello «sacerdotale»), come punto di vista sintetico della missione ecclesiale, sembra destinato a non rendere bene il senso della sua unità. Essa infatti non potrà essere trovata che nell’azione dello Spirito che informa l’esistenza come culto spirituale e plasma l’uomo secondo l’alleanza. In ogni caso la questione decisiva non è tanto la plausibilità dello schema, quanto la sua funzionalità. La missione della Chiesa non potrà cioè pensarsi come un superamento o un trascendimento “spirituale” della missione di Cristo. Le categorie di profeta, sacerdote e re (ma anche molte altre) si sono compiute escatologicamente in Gesù Cristo, onde non è possibile rappresentarsi la missione della Chiesa come una «terza età» o una prosecuzione «oltre» Cristo. Il rapporto è più complesso, poiché l’azione di Cristo appare genetica e fondante (mediante la missione dello Spirito, appunto!) rispetto alla singolarità della storia cristiana.

Tuttavia ciò che rende importante questa menzione è il suo senso nella strategia del discorso. Essa intende riferire alla figura ecclesiale della fede la capacità di essere “soggetto” della missione ecclesiale, non quindi in modo derivato o delegato. Appartiene in maniera nativa alla coscienza ecclesiale (qui, certo, pensata antecedentemente alle ulteriori distinzioni) la reale capacità di attuare in questo modo la fede come culto spirituale. Anzi l’esercizio della missione ecclesiale è il luogo in cui si “esprime” e si “incrementa” la reciproca responsabilità della fede ecclesiale. Secondo la terminologia giovannea essa produce quel cammino di “conoscenza” di Gesù che introduce ad un sapere sempre più adeguatamente la verità di Cristo o, ancora, secondo Paolo, fa crescere sino alla pienezza del mistero di Cristo.

L’esistere storico della Chiesa, in quanto “soggetto” della sua missione, dice, dunque, la modalità con cui avviene la Chiesa nel tempo e costituisce il quadro prossimo entro cui pensare una teologia del m.o., senza che quest’ultima possa ricadere in una visione unilateralmente deduttivistica. Proprio su tale sfondo è possibile abbozzare più da vicino le coordinate essenziali di questa teologia.

2. La fede cristiana e le sue molte «figure»

Il secondo momento svolge la conseguenza sul versante delle diverse “figure” cristiane. Poiché nessuna vocazione cristiana può pretendere di esaurire la portata della vicenda di Gesù, ed è dunque inseparabilmente figura, rimando, segno di quella, la vita cristiana si dà necessariamente in una molteplicità di “figure”5. La strutturazione unitaria del carisma/vocazione/ministero/missione nella Chiesa (al di là della fluttuazione dei linguaggi) permette, dunque, di cogliere che l’azione diversificante dello Spirito (la molteplicità dei carismi) si radica sull’azione unificante del medesimo Spirito (l’unità di struttura dell’uomo spirituale in Cristo). Ciò si comprende mettendone in luce la dimensione trinitaria e, specificamente, cristologica, poiché nella Chiesa la rappresentazione molteplice delle figure cristiane non può pretendere di dire singolarmente la totalità dei mistero di Cristo. La logica cristiana mette in luce che il molteplice non divide né rappresenta adeguatamente l’unicità inesauribile del mistero di Cristo, ma lo dice in una figura “simbolica” che da lui prende forma e significato. D’altra parte, ogni figura spirituale è capace di dire la struttura fondamentale della libertà cristiana: infatti, essa rimanda simbolicamente alla inesauribile ricchezza di Cristo. Anche qui una fenomenologia teologica del carisma deve mettere in luce la circolarità tra universalità e singolarità del credente cristiano, tra struttura fondamentale e forma storica in cui si rappresenta.

3. La specificità del «ministero» sacerdotale

Il terzo momento delinea, su questo sfondo, la specificità del m.o. Il ministero nella chiesa si può comprendere come una funzione dell’”ordinamento apostolico”6. Il riferimento al fondamento degli apostoli dev’essere inteso nella linea della “successione” apostolica, ma tale successione costituisce non tanto il primo anello della catena, quanto il luogo imprescindibile di accesso all’originario della rivelazione. In un certo senso, quindi, la chiesa “succede” agli apostoli, ma in un altro senso essa rimane fondata sugli apostoli, nel senso che “accede”, attraverso di loro, all’evento fondante della rivelazione. 7 Per questo il fondamento apostolico partecipa alla originarietà insuperabile di Cristo, che è consegnata nella Scrittura, nel Sacramento e nel Ministero apostolico.

Da ciò deriva il principio della continuità/successione dell’ordinamento apostolico che appare in funzione della continuità della struttura della fede apostolica e della cura della vita apostolica: in una parola il m.o. ha la cura del permanere della Chiesa in quanto realizza la comunione con il Signore Gesù. In questo senso il ministero è «ordinato» all’esistere della Chiesa come la comunità di Gesù, come popolo del culto sacerdotale, e non può realizzare questo che all’interno del funzionamento della Chiesa stessa: come comunità che annuncia, celebra e testimonia.

All’interno della pluralità di modi con cui si trasmette la Chiesa («tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» DV, 8), il m.o. assicura che la recezione del Vangelo, operata da tutta la Chiesa nelle varie forme del suo esistere, è una accoglienza fedele e coerente con la tradizione apostolica. Naturalmente le forme di questa attestazione di fedeltà sono molteplici quanto sono i gradi e i modi di esercizio del m. (dal più impegnativo al più umile e quotidiano, tutti necessari in diverso modo per la comunione ecclesiale). Né si deve pensare solo all’intervento in forma di verifica e controllo, perché si introdurrebbe una comprensione o burocratica o giuridica di tale attestazione.

Per questo il m.o. presiede l’Eucaristia (e la celebrazione sacramentale), mostrando in tal modo che la comunione attuale al Signore Gesù è presenza del suo sacrificio pasquale, nella forma e nel senso che appartiene all’originario apostolico, e proprio in tal modo la Chiesa continua e si trasmette nel tempo. Proprio per il riferimento del m. alla trasmissione della Parola e alla presidenza dell’Eucaristia (sacramenti), destinati a suscitare la comunione del popolo della Nuova Alleanza con Cristo, si comprende anche il significato del sacramento dell’ordine, Il sacramento appare coerente con il senso del m.o. entro l’intero del mistero cristiano. Il mistero cristiano, infatti, comprende la Pasqua di Cristo e il suo “sacramento” che è l’Eucaristia, destinata a suscitare la Chiesa. Per questo il m.o. rimane destinato all’una e all’altra nel loro derivare dalla comune radice del sacrificio pasquale. «Il ministero nella comunità come (la prima) condizione o la premessa logica per l’attuarsi, insieme, dell’Eucaristia e della comunità stessa: cioè del sacrificio cristiano totale. È dunque il discorso sulla comunità, compresa nei momenti o nelle condizioni di esistenza sua come “chiesa”, che rimane fondamentale e “comprensivo” ».8 In questa sua omogeneità di struttura con l’Eucaristia e la Chiesa si trova, allora, la ragione per cui non solo c’è, ma ci dev’essere quella forma istituita del carisma che è l’ordine sacro. Il m.o. appartiene alla volontà del Signore, ma la comprensione del suo senso appare coerente con l’insieme del mistero cristiano.

Conclusione

Naturalmente questa ricerca esige di essere continuata, ma l’impostazione qui segnalata può essere proposta come un quadro interpretativo dell’attuale situazione ecclesiale del m.o. La chiarificazione concettuale delle prospettive teologico-pratiche del m. conferisce per parte sua a consolidare la motivazione obiettiva e l’investimento personale nel servizio che il prete rende alla Chiesa. Con la chiara consapevolezza che molte delle questioni che ancora affliggono la sua immagine sono le questioni pressanti della stessa missione della Chiesa. A nulla serve un ripiegamento intimistico sulla ricerca di una identità perduta, perché essa non può che essere ritrovata con una nuova coraggiosa ripresa della proposta dell’evangelo per l’uomo di oggi. Poiché l’essere prete è servizio alla comunità, quale luogo in cui si custodisce e si realizza la buona relazione con il Signore per venire offerta come segno per tutti, allora le questioni che riguardano il prete ultimamente coinvolgono l’immagine della Chiesa. La cura di questa immagine, perché sia segno trasparente e significativo, appare il luogo principe perché il m.o. acquisti quella evidenza personale, senza della quale esso non può essere proposto in modo convincente ad altri. E insieme trovi le ragioni e i percorsi per cui sia figura di vita cristiana persuasiva, nel quadro armonico delle vocazioni ecclesiali e dei ministeri cristiani.

Franco Brambilla *

Note

1) Ho analizzato questo dibattito in F. G. Brambilla, La teologia del ministero: stato della ricerca, in Il prete. Identità del ministero e oggettività della fede, Milano, Glossa, 1990, 51-112. Per uno sguardo più ampio rimando alle rassegne dove ho ripreso approfonditamente la bibliografia: Comunità e ministero: il dibattito sul prete, RivCIIt 68(1987)178-90; Nuove prospettive nella teologia del ministero, RivCIIt 68 (1987) 726-740.

2) Attorno al tema del Sinodo segnaliamo: Identità e formazione del sacerdote «Communio» 112 (1990) 5-139; La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, a cura di D. Tettamanzi, Roma, Logos, 1990. Oltre la bibliografia da me analizzala nei saggi citati alla nota 1, in questi ultimi anni sono usciti: Das Priestertum in der, Einem Kirche. Diakonat. Presbyerat und Episkopat, a cura di A. Rauch.- P. Imhof, Aschaffenburg, Kaffke Verlag, 1987; G. Rheinbay, Das ordentliche Lehramt in der, Kirche. Die Konzeption Papst Pius’ XII, und das Modeli Karl Rahners im Vergleich (=Trierez Theologische Studien 46) Trier, Paulinus Verlag, 1988; P. Hoffmann, Priesterkirche (=Theologie zur Zeit 3), Düsseldorf, Patmos, 1989; G. Martelet, Théo!ogie du sacerdoce. Deux mille ans d’église en question. T. II: Des Martyrs à l’Inquisition, Paris, Cerf, 1990; Id., Théologie du sacerdoce. Deux mille ans d’église en question. T. III: Du schisme d’Occident à Vatican II, Paris, Cerf, 1990; H. Barth, Einender Priester sein. Allgemeines Priestertum in ökumenischer Perspektive, Göttingen, Vandenhoeck &Ruprecht, 1990.

3) Si veda lo studio documentato di A. De Halleux, Ministère et sacerdoce, «Revue Théologique de Louvain» 18 (1987) 289-316.425-453.

4) Cf J. Fuchs, Origines d’une trilogie ecclésiologique à l’époque rationaliste de la théologie, RSPhTh 55(1969)186-211

5) Si veda il contributo P. A. Sequeri, Il ministero presbiterale quale figura di vita cristiana, in Il prete. Identità del ministero e oggettività della fede, Milano, Glossa, 1990, 191-226: a pagg. 196-201 parla di «raffigurazioni»: con ciò egli illustra insieme la relazione e la differenza tra la « figura» della vita cristiana e le sue molteplici « raffigurazioni ».

6) Sequeri, Il Ministero presbiterale, 204 ss.

7) Sequeri, Il Ministero presbiterale, 204-5: il gioco di parole usato da Sequeri rimette in luce, l’aspetto insuperabile dell’ordinamento apostolico («sul fondamento degli apostoli»), che partecipa all’unicità della rivelazione cristologica.

8) O. Moioli. Per una ripresa di coscienza della sacramentalità dell’ordine sacro, in Ip., Scritti sul prete, Milano, Glossa, 1990, 160.

* Vescovo di Novara

 

Letto 5628 volte Ultima modifica il Mercoledì, 24 Aprile 2013 16:31
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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