Formazione Religiosa

Sabato, 17 Aprile 2010 11:17

Più vicine etica ed economia. A colloquio con Giannino Piana (Biagio Bonardi)

Vota questo articolo
(3 Voti)

A colloquio con Giannino Piana. Nel suo ultimo libro, il teologo e docente di etica cristiana ed economica affronta, con la sua grande competenza, un tema di estrema attualità: il rapporto tra mondo etico e mondo economico.

A colloquio con Giannino Piana

 Più vicine etica ed economia

di Biagio Bonardi

Il dominio crescente della tecnica tende a un lento ma progressivo deterioramento delle capacità umane e, purtroppo, di quelle naturali, in nome dell'efficienza e del profitto. Considerazione evidente, ma al momento non ancora risolta in modo esaustivo. La conferma viene da una recente intervista del sociologo americano Richard Sennet: «Sono infatti convinto che noi avremmo un diverso ordine sociale, se ci dedicassimo allo sviluppo delle capacità umane. Questo ci consentirebbe di mettere l'accento sulla collaborazione, piuttosto che sulla competizione, come metodo migliore per sviluppare le competenze... Investire, come fa l'Occidente, solo sulla capacità di pochi, trascurando quella dei molti, non è una questione solo etica, ma anche economica» (la Repubblica, 7.12.08, p. 27).

Queste e altre simili questioni vengono affrontate con grande capacità di analisi e competenza dall'ultimo libro di Giannino Piana Efficienza e solidarietà. L'etica economica nel contesto della globalizzazione, Effatà 2008, Cantalupa (To), pp. 174, € 13,00. Piana è un noto teologo moralista, autore di molti libri di successo. Docente di etica cristiana all'Università di Urbino e di etica economica alla facoltà di scienze politiche di Torino.

Economia ed etica sono state a lungo in conflitto. Oggi si assiste invece a un loro avvicinamento. È realmente così? E quali sono le ragioni di questo cambiamento?

«È vero. In passato economia ed etica non erano considerate soltanto realtà radicalmente estranee ma addirittura istanze contrapposte, al punto che il richiamo all'etica veniva drasticamente respinto dagli economisti come un elemento disturbante, come la indebita intrusione di un fattore esterno che impediva alle leggi economiche di dispiegare pienamente le proprie potenzialità.

«Questa situazione, a lungo perdurante e strettamente legata a una visione rigidamente positivista della scienza economica concepita come scienza "naturale" ed esatta, appare oggi superata. Si è fatta sempre più strada infatti la convinzione che l'economia è una scienza "umana", soggetta come tale alle scelte dell'uomo, ed è cresciuta soprattutto la consapevolezza che le leggi della massimizzazione della produttività e del profitto, che si riteneva possedessero un carattere assoluto, erano invece frutto di una visione della realtà di stampo illuminista incentrata sull'idea di un progresso indefinito e lineare oggi largamente contestato nei fatti.

«Ciò che, in altre parole, a tale modello mancava era, da un lato, la coscienza del limite delle risorse disponibili e della gravità dei processi di inquinamento ambientale e, dall'altro, la disattenzione alle pesanti sperequazioni tra le classi sociali e tra i popoli e ai conflitti da esse derivanti. Questi fenomeni infatti non hanno soltanto ricadute negative sul terreno etico, ma anche su quello economico: si pensi alla riduzione del patrimonio energetico necessario alla produzione, ai costi sempre più alti del disinquinamento e alla crisi dei consumi dovuta allo stato di precarietà e di instabilità sociale.

«Ciò che dunque fino a ieri veniva giudicato come eticamente inaccettabile, appare oggi anche economicamente improduttivo. Di qui l'emergere, all'interno dell'economia, di una domanda di etica motivata da ragioni di ordine economico, funzionale cioè alla buona conduzione del sistema economico».

Efficienza e solidarietà sono i valori attorno ai quali ruota il rapporto tra economia ed etica. Come vanno intesi? E come è possibile istituire tra essi un rapporto fecondo?

«A dover essere ripensata nella prospettiva precedentemente delineata è anzitutto l'efficienza, che è il valore proprio della razionalità economica e che è andata soggetta in passato a una interpretazione di ordine rigidamente quantitativo: il paradigma dominante era infatti quello della moltiplicazione dei beni e di conseguenza dell'espropriazione incondizionata della natura come via obbligata per perseguire tale moltiplicazione.

«Questo paradigma è oggi giustamente criticato per i motivi ricordati. La verifica dell'efficienza economica non può infatti avvenire facendo riferimento a un criterio puramente quantitativo; deve fare spazio a un criterio qualitativo, che si preoccupi cioè della qualità della vita di ciascuno e di tutti. Ciò comporta, in primo luogo, la necessità di porre attenzione a una equa distribuzione di quanto viene prodotto in modo da rispondere ai bisogni dell'intera collettività, a partire dalle categorie che vivono in stato di maggiore disagio e di più grave marginalità.

«Ma comporta anche un'attenzione particolare a ciò che si produce e a per chi lo si produce - si tratta di beni essenziali o di beni del tutto superflui, destinati a una élite e magari indotti dalla pressione sociale? - e ancora a come lo si produce, cioè attraverso quali processi e con quale rispetto della salute e dei diritti dei lavoratori. Così concepita, l'efficienza rinvia alla solidarietà la quale, a sua volta, non può tuttavia prescindere dall'efficienza, se intende diventare operativa. È dunque evidente l'esigenza di un reciproco e costante confronto, ma più ancora di una vera e propria correlazione che fa dell'una il necessario supporto dell'altra».

La solidarietà è stata a lungo considerata prerogativa di una visione cristiana della vita, e anche per questo è stata spesso osteggiata. Ma da dove trae origine e come può essere definita? E in che rapporto sta con la giustizia?

«I motivi del rifiuto, o quanto meno della diffidenza e del sospetto, che hanno circondato in passato la solidarietà erano di natura diversa e persino opposta. Da un lato, il liberalismo, che ha dato origine al sistema capitalista, vedeva nella solidarietà una variabile esterna destinata a frenare il processo economico, a impedirgli di raggiungere cioè i suoi obiettivi; dall'altro lato, l'ideologia marxista considerava la solidarietà come un fattore destinato a moralizzare il sistema capitalista dominante, concorrendo in tal modo a renderlo più accettabile, e dunque a favorirne il consolidamento, mentre si trattava di demolirlo riconoscendone l'intrinseca negatività.

«D'altra parte, non si deve dimenticare che la stessa tradizione cristiana, nella quale la solidarietà è originariamente fiorita, non è stata esente da equivoci. Spesso essa veniva infatti identificata con la semplice elemosina o con forme di assistenzialismo, che non andavano alle radici dei problemi, che non erano cioè in grado di risalire alle vere cause delle situazioni di disagio e non proponevano pertanto rimedi realmente risolutivi. Oggi la situazione è profondamente mutata: la solidarietà è, almeno a parole, universalmente riconosciuta come valore, anche se questo non significa che venga nei fatti realizzata; anzi, paradossalmente, essa è, nel contesto sociale odierno, molto meno praticata di quanto non lo sia stata in altri periodi della storia.

«L'idea di solidarietà, d'altronde, non è univoca: nata in ambito cristiano, dove prima ancora che una istanza etica è un valore teologale - il credente è chiamato a vivere la solidarietà perché fa esperienza di un Dio solidale che diviene il modello cui ispirare la propria condotta - essa si è progressivamente laicizzata, radicandosi in una concezione relazionale, dunque sociale, dell'umano e assumendo, sul piano etico, i connotati della giustizia e dell'equità. Così concepita, essa implica pertanto il perseguimento della perequazione dei diritti e della soddisfazione dei bisogni di tutti; ma implica anche il pieno riconoscimento delle differenze soggettive, cioè la creazione di condizioni perché ciascuno venga messo in grado di sviluppare i propri talenti e perché si dia risposta alle dinamiche del desiderio il cui orizzonte non è mai del tutto oggettivabile».

Se non si vuole ridurre la solidarietà a un'astratta enunciazione di principio, ma s'intende renderla efficacemente operante, è necessario fissare alcune condizioni il cui adempimento è essenziale per la eticizzazione dell'economia. Quali, a suo parere, queste condizioni?

«La domanda meriterebbe una risposta ampia e articolata, ma non è questa la sede per svilupparla. Mi limito a richiamare qui l'attenzione su alcuni nodi critici, che vanno decisamente affrontati e risolti: dalla ridefinizione del modello di sviluppo nel segno della compatibilità ambientale e umana - in questo senso si parla oggi di sviluppo sostenibile - alla assegnazione di centralità al lavoro (o, come osserva Giovanni Paolo II nella Laborem exercens, all'uomo lavoratore); dalla ricerca del profitto sociale come prima istanza (e solo in subordine di quello aziendale) al pieno riconoscimento del primato dell'economia reale su quella finanziaria (che deve avere soltanto la funzione di mezzo), fino alla restituzione alla politica del ruolo che le compete, quello di fissare regole precise perché ogni attività umana, economia inclusa, venga orientata al bene comune».

La politica riveste dunque un'importante funzione in rapporto all'economia. Come deve esercitare tale funzione? Quali indirizzi è tenuta a fornire?

«Non si tratta certo di ipotizzare una subordinazione dell'economia alla politica, come è avvenuto nei paesi del socialismo reale attraverso il sistema di economia pianificata con i risultati che conosciamo: l'autonomia dell'economia dalla politica va assolutamente preservata. Ma ciò che sta succedendo nel mondo occidentale (e ormai in quasi tutto il mondo a seguito del fenomeno della globalizzazione) è esattamente il processo inverso: a perdere sempre più la propria autonomia è infatti la politica, che rischia di diventare una variabile dipendente del potere economico e di quello dell'informazione, i quali finiscono per asservirla ai propri interessi.

«A favorire questo processo di dipendenza contribuisce, d'altronde, anche il provincialismo che caratterizza ai nostri giorni la conduzione della politica, ancora strettamente legata agli Stati- nazione, in un momento storico in cui le grandi questioni che riguardano la conduzione della vita associata scavalcano ampiamente le frontiere nazionali per assumere contorni internazionali ed esigono pertanto l'intervento di autorità che godano di poteri più vasti.

«Questo stato di debolezza è tanto più grave in quanto oggi il ruolo della politica appare estremamente necessario per il bene della comunità umana; e ciò soprattutto in ambito economico, dove, oltre a produrre — come si è già rilevato — le regole di cui il mercato necessita per essere davvero un mercato libero — niente è infatti meno libero di un mercato senza regole, dove ad avere il sopravvento è il predominio di pochi — la politica è chiamata a incentivare le attività produttive che hanno un importante significato sociale e a impegnarsi direttamente, attraverso il Welfare, a fornire i beni e i servizi destinati a soddisfare i diritti fondamentali dei cittadini».

Il modello, al quale si rifà nel suo volume per indicare una via alternativa all'attuale sistema economico, è quello dell'"economia civile". Si tratta di un modello che ha alle spalle una lunga storia. Come va inteso oggi? E quali piste vanno percorse per renderlo di fatto operabile?

«La crisi che l'economia oggi attraversa ha messo sotto processo i grandi sistemi che si sono sviluppati nel Novecento: quello collettivista, ormai definitivamente crollato, ma anche quello capitalista, le cui crepe appaiono ogni giorno più visibili. Stato e mercato da soli non bastano (anche quando si spartiscono reciprocamente i compiti) a creare un sistema economico che sia gestito in maniera partecipata e che soddisfi realmente i bisogni del singolo e della collettività. È necessaria l'introduzione di una terza variabile, quella della società civile, che deve diventare il perno attorno a cui far ruotare Stato e mercato, garantendo, attraverso forme di controllo e di partecipazione diretta, una effettiva democratizzazione dell'economia.

«Il concetto di "economia civile" risponde a questa esigenza. Le sue origini risalgo- rio all'illuminismo italiano - il primo a usare tale termine è l'economista napoletano Genovesi - e sono ancorate a una visione dell'economia come ambito di crescita delle virtù civiche e di perseguimento della "felicità pubblica". Questo concetto sottende una antropologia che guarda al soggetto umano come essere aperto alle relazioni, e fa dunque spazio al principio di reciprocità. I presupposti individualista e utilitarista, che hanno avuto in seguito il sopravvento nell'ambito della scienza economica, hanno cancellato questo modello. «Oggi esso ritorna di attualità di fronte alla crisi economica in corso. Ma il rischio è che si concepisca l'economia civile come un dato accessorio, volto a temperare gli effetti negativi del mercato o a supplire alle deficienze dello Stato, e non come un fattore strutturale, che va integrato appieno entro il mercato e lo Stato, introducendo in essi l'attenzione ai beni immateriali e relazionali e alla logica del dono, senza che questo significhi rinuncia allo scambio di equivalenti.

«Un ruolo di primo piano spetta, a tale riguardo, al cosiddetto "terzo settore" (in particolare all'associazionismo e alla cooperazione) il quale, laddove si dimostra economicamente efficiente, acquista una importante funzione simbolica, rendendo trasparente nei fatti la possibilità di dare vita a un sistema economico attento a valorizzare le potenzialità personali, a favorire la corresponsabilità decisionale e a puntare su una produzione di carattere qualitativo. Ma guai a ridurre tutto a questo ambito.

«Esistono (e sono già in parte attivate) altre vie che coinvolgono più direttamente l'economia di mercato nella sua versione più allargata: penso alla responsabilità sociale di impresa e ai bilanci sociali ma anche -  e qui a essere chiamato in causa è lo Stato - a una riforma del Welfare, che implichi l'instaurarsi di uno stretto rapporto tra le istituzioni pubbliche e le soggettività sociali, favorendo un processo di decentramento che esige, per essere adeguatamente attivato, un supplemento di responsabilità da parte di tutti o l'apertura, dopo l'acquisizione dei diritti, di quella che, a suo tempo e con lungimiranza, Aldo Moro chiamava la stagione dei doveri».

Di fronte all'attuale crisi finanziaria di portata mondiale molti hanno invocato in questi ultimi mesi l'esigenza di far ritorno all'etica. Si tratta, secondo lei, di una richiesta sincera o di un semplice fuoco di paglia destinato in breve tempo a spegnersi?

«Alla radice della crisi attuale, accanto alla grave disonestà di molti operatori finanziari, vi è soprattutto l'implosione di un sistema, in cui l'economia finanziaria aveva preso decisamente il sopravvento su quella produttiva, creando un crescente (e insostenibile) divario tra il valore fittizio attribuito al danaro e il valore reale. I provvedimenti in corso non sembrano in realtà muoversi nella direzione di una messa sotto processo di questo sistema nei suoi aspetti strutturali ma sono volti piuttosto a sostenerlo, limitandosi semmai - e finora poco si è fatto anche a questo proposito - a mettere in atto qualche forma di moralizzazione attraverso l'elaborazione di nuove regole. Al di là delle parole non mi pare che stia dunque producendosi una vera inversione di rotta».

(da Vita Pastorale, n. 4, 2009)

Letto 6219 volte
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search