Celebrare e presiedere l'eucaristia
L'accoglienza iniziale
di Gianni Cavagnoli
II primo segmento celebrativo dell'eucaristia è costituito dai riti di introduzione, così caratterizzati da OGMR: «Scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità e si dispongano ad ascoltare con fede la parola di Dio e a celebrare degnamente l'eucaristia» (46).
Tralasciando altri aspetti, ci si sofferma su due esigenze essenziali della celebrazione stessa.
Anzitutto il formarsi dell'assemblea, solitamente chiamata "comunità", termine per nulla scontato, come invece avviene nel gergo comune. Il verbo latino è volutamente al passivo, perché esprime un'azione divina: è Dio che raduna il suo popolo nella forza dello Spirito e mantiene solida questa unione, non permettendo che, benché ci si trovi in uno stesso luogo, non si avverta simile comunione.
Non si tratta soltanto di creare una giusta distribuzione di quanti partecipano, soprattutto in ambienti vasti e con penuria di frequentatori. Quante volte chi presiede si sente quasi costretto a invitare: «Venite avanti! Stiamo più uniti!». In altre circostanze si deve ritagliare uno spazio, ricercare una sedia per la comodità fisica dei presenti, pure importante ai fini di una reciproca interazione.
Soprattutto, però, è necessario creare quel "clima" per cui in una chiesa ci si sente accolti, a tutti i livelli. Non per nulla OGMR prevede, tra le figure ministeriali, anche «coloro che accolgono i fedeli alla porta della chiesa, li dispongono ai propri posti e ordinano i loro movimenti processionali» (105/d). Certo, ci si riferisce qui alle grandi assemblee, ma anche nelle piccole, quelle quotidiane, un cenno di accoglienza, sostanziato da un sorriso, da un soffuso "buongiorno", non stona affatto per sentirsi tutti a casa propria nel vivere un momento di autentica fraternità.
Per divenire più partecipi della ritualità, è indispensabile superare la "soglia", come oggi si afferma, per entrare nello spazio divino. Al riguardo l'Apostolo esorta ad «avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 15,5-6). Il "fare" corpo risulta essenziale ai fini della partecipazione all'eucaristia: ciò richiede piccoli accorgimenti umani da esperire ogni volta, i quali, senza trasbordare nel fracasso, favoriscono l’”ambiente" comunitario.
La fraternità traluce poi nella condivisione della medesima esperienza, che in questo caso è la celebrazione stessa. Di qui la necessità che venga introdotta con poche, ma sugose parole, non per sintetizzare le letture o altro, ma per richiamare il mistero di Cristo che la Parola di quel frangente celebrativo annuncia. Risulta di rara efficacia qualche sottolineatura, colta soprattutto dal vangelo, per esprimere la motivazione ultima del "fare un solo corpo", quello di Cristo. La varietà delle membra, espressa dai ministeri esercitati, non sminuisce affatto l'identità di figli del Padre da tutti condivisa, che si traduce concretamente nell'essere discepoli del medesimo Signore.
È questo il fervore, la devozione necessaria per "accogliere il mistero". Ciò va richiamato ogni volta, perché quanto si compie nell'agire rituale non passi sopra la testa dei presenti. Si tratta cioè di condividere la medesima condizione di vita, che la celebrazione garantisce e rinsalda.
Il canto, se eseguito da tutti, e ancor prima l'ambientazione musicale crea la "tonalità" adeguata, perché tutti si sentano partecipi, e non persone che assistono, né, tanto meno, estranee.
Anche la venerazione dell'altare e il saluto all'assemblea riunita, che le annuncia la presenza del Signore (cf OGMR 50), contribuiscono ulteriormente a rafforzare questa percezione del mistero vissuto nella celebrazione. Infatti, come annota un'acuta ricercatrice, «il saluto è quello di Dio, portatore dello stesso Spirito di Cristo, parola viva che risuona sempre di nuovo come forza vivificante della comunità ecclesiale. Esso si pone come atto simbolico familiare, tendente a mantenere vivo e dinamico il rapporto tra vita liturgica e vita nel mondo, a riscrivere ogni giorno l'identità e la natura della comunità ecclesiale» (M. G. Zappon).
Ne consegue un lavoro pastorale, la cui efficacia è costantemente da assecondare, in quanto ha al suo centro la volontà di ravvivare lo stretto legame tra il mistero celebrato e l'assemblea, perché sempre più sia saldamente unita in Colui che, unico Maestro, ci sospinge tutti a percepirci egualmente fratelli.
(da Vita Pastorale, n. 2, 2010)