Formazione Religiosa

Giovedì, 02 Settembre 2004 21:56

"Cerco i miei fratelli..." (don Filippo Morlacchi)

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Le seguenti note si basano su M.I. RUPNIK, Cerco i miei fratelli. Lectio divina su Giuseppe d'Egitto, Lipa, Roma 1998; e - in misura minore su C.M. MARTINI, Due pellegrini per la giustizia, Piemme, Casale Monferrato 1992.1 numeri di pagine tra parentesi si riferiscono al volume di Rupnik.

 Giacobbe e i suoi figli

(Gn 35, 22b-26)

Giacobbe

Lia

Zilpa

Rachele

Bila

1

Ruben

 

 

 

2

Simeone

 

 

 

3

Levi

 

 

 

4

Giuda

 

 

 

5

 

 

 

Dan

6

 

 

 

Neftali

7

 

Gad

 

 

8

 

Aser

 

 

9

Issacar

 

 

 

10

Zabulon

 

 

 

11

 

 

Giuseppe

 

12

 

 

Beniamino

 

 1. Giacobbe figura di Cristo

· Giuseppe è il figlio prediletto del padre

· Questo scatena l'invidia dei fratelli

· Giuseppe soffre ma non smette di amare i fratelli

· Giuseppe educa i fratelli ad una lenta riconciliazione

· "Dio mi ha mandato qui prima di voi per voi.." (Gen 45,5.7)

· Riscoprire la paternità è frutto della fraternità ritrovata

 2. L'amore scatena l'odio

La predilezione per Giuseppe scatena l'odio dei fratelli. Non capiscono la storia del padre (finalmente la sua amata Rachele le ha dato un figlio, donato da Dio) e non accettano di essere confrontati con lui. Gesù, il Figlio prediletto (Mc 1,11- battesimo; 9,7 - trasfigurazione; 12,6 - parabola dei vignaioli) è stato "odiato senza ragione" (Gv 15,25). L'amore vero ha sempre un aspetto drammatico, può suscitare anche rifiuto e odio; solo dopo salva. L'amore è ricambiato solo da chi già ama.

È illusorio pensare che amando si possa automaticamente suscitare l'amore. È una sorta di idealismo spirituale. Amando si può suscitare l'amore delle persone già purificate. Altrimenti l'amore viene frainteso (p. 11).

Giuseppe, come figlio prediletto, è stato mandato in Egitto per esser lì prima dei fratelli per salvarli, ma questa predilezione è passata attraverso la cisterna, la prigione e tanta solitudine. È... una parabola sul discernimento. Ci fa discernere la via per la vera vita dalle scorciatoie facili e il senso vero da quello immediato, che soddisfa, ma non salva (p. 14).

 3. Il di più dell'amore

"Ogni persona ha l'amore necessario per realizzare la propria vita" (p. 14). Dio vuole la felicità dell'uomo e gli dà tutto ciò che gli occorre che realizzare la sua vocazione. La gelosia (= il confronto) è la radice del male, nella sfiducia verso Dio ("mi ha dato di meno, non è giusto...") Ne scaturisce una "fame insaziabile" di essere amati di più che impedisce di godere dell'amore che già si riceve. Il peccato di invidia chiede in folle "divellamento al basso": i fratelli non vogliono essere amati di più (il peccato non vuole mai la felicità): vorrebbero solo che Giacobbe amasse di meno Giuseppe!

Chi si è sganciato dall'abbraccio dell'amore... non percepisce più quanto egli stesso è amato, ma guarda geloso come è amato l'altro (p. 17).

Il "di più" Dio offre a Giuseppe è proporzionato alle esigenze della sua vocazione e della sua missione, molto più impegnative di quanto non venisse chiesto ai fratelli - e proprio per il loro maggior bene! Gesù farà lo stesso, in misura maggiore: lui, sacrificato dal Padre ci insegnerà a respingere la tentazione della gelosia.

4. I sogni come discreta parola di Dio

La sua storia sembra una storia profana e "senza Dio" (non ci sono visioni di Dio, parole di Dio o sue promesse come in Abramo o Giacobbe; non ci sono preghiere, neppure nei momenti più drammatici come la prigione; Dio è nominato raramente, e di norma con il nome generico Elohim, quasi mai JHWH...); eppure Egli è misteriosamente onnipresente negli avvenimenti che Giuseppe riesce a leggere come provvidenza. Giuseppe è "aperto" ai sogni e li capisce perché vive nell'amore e tutto può parlargli di Dio (a differenza dei fratelli che non amano e non capiscono). Per lui

tutto è vivo e in questo tutto Qualcuno gli parla. Giuseppe non sa che è Dio che gli ha mandato i sogni, ma, dal momento che è nell'amore, è disponibile alla comprensione dell'amore. In questo senso la storia di Giuseppe è estremamente necessaria per la vita spirituale, perché anche nella vita del cristiano normalmente sono rare le teofanie [cioè le manifestazioni di Dio] esplicite, i veri flussi di grazia, ma Dio ci guida con la sua sapiente provvidenza attraverso gli incontri, le persone, gli eventi, i luoghi. Si tratta allora di avere la saggezza per discernere e vagliare come le cose che ci stanno capitando, la vita di ogni giorno fa parte della nostra vocazione (p. 27).

Di analoga apertura di cuore avremo prova nella disponibilità di Giuseppe ad incontrare le persone, anche in contesti negativi come il carcere: attraverso tali incontri la sua vita si risolleva (cfr p. 61).

5. Giuseppe assume un mandato

"Ti voglio mandare da loro... Eccomi... Va'." (Gen 37,13-14). Giuseppe affronta un viaggio impegnativo e pericoloso (da Hebron a Sichem 80 Km ca.) perché il padre lo invia a ricercare i fratelli e ricomporre l'unità della famiglia [analogia con l'incarnazione]. Giuseppe ha la forza di partire perché assume su di sé la responsabilità di un mandato. Nessuno "va" a titolo personale, ma è scelto e inviato, se vuol portare frutto (cfr Gv 15,16). Chi cerca di vivere per "autorealizzarsi" (cioè chi vive a partire da se stesso) è poco creativo e poco efficace; solo la vita come risposta ad una chiamata è dialogica, aperta e creativa, efficace e feconda (cfr p. 31).

6. Gli oggetti dell'odio: i sogni e la tunica

I sogni di Giuseppe scatenano l'odio dei fratelli ("ecco il Sognatore...: uccidiamolo" Gn 37,18-20). Tutta la storia presenta sei sogni: due di Giuseppe, due dei ministri in prigione, due del Faraone. Ma tutti ruotano intorno a Giuseppe, che li interpreta tutti. I due sogni di Giuseppe sono uno di carattere agricolo e l'altro astrologico. Sono forse fantasticherie da adolescente (il desiderio di compiere grandi imprese senza pagarne il prezzo). Irritano i fratelli perché li interpretano come volontà di dominio da parte del fratello prediletto.

L'ostilità dei fratelli è potenziata dal regalo di Giacobbe: la tunica dalle lunghe maniche, simbolo regale (le maniche lunghe rendono impossibile il lavoro nei campi: è una veste da "piccolo principe"; cfr p. 32). Notevole l'analogia con la veste di Gesù (cfr p. 32ss). L'odio diventa furioso: vogliono uccidere ili prediletto per impossessarsi dell'eredità, la vera eredità, cioè l'amore del padre. E sperano di riuscirci eliminando il prediletto, come se questo potesse far rivolgere il padre verso di loro! La paura e l'invidia vanno sempre insieme alla stoltezza (cfr p. 34s)

Tutto questo sarà smentito dai fatti: Giuseppe - figura di Cristi - prevarrà sui fratelli, esercitando la regalità preannunciata dai sogni, ma una regalità intesa come servizio, come dono di vita (Giuseppe darà ai fratelli il grano per sopravvivere alla carestia; Cristo darà a tutti il suo corpo come pane di vita eterna). Giuseppe non ruberà affatto la primogenitura (questo era lo scopo del farlo fuori), la quale passerà attraverso l'ultimo dei figli di Lia, Giuda. Giuseppe, il prediletto, non sarà menzionato tra gli antenati di Gesù. Compie la sua missione, dà la vita e scompare.

 7. Il complotto confuso

Ruben, primogenito, è il responsabile legale di Giuseppe (cfr 37,30: "dove andrò io ora...?") e vuole salvarlo. Ma non riesce nello scopo. È immagine della coscienza morale, che cerca il bene; ma lo sforzo morale senza l'amore non basta a creare l'unità della persona! È un inizio di bene che non riesce a maturare; cerca la l'unità, ma non ha la capacità di attuarla (cfr Rm 7,18).

Il principio della vera unità è il sacrificio della volontà propria. Ma sacrificare la propria volontà al di fuori dell'amore significa distruggersi (['. 37).

L'unità che non ha raggiunto lo stadio spirituale è una unità che esclude qualcuno, e dunque è costantemente minacciata:

la vita vera è solo una unità di tutti. Un’unità che dimentichi alcuni, che li escluda, non garantisce la vita, ma crea una situazione minacciata e precaria, costringe a proteggersi e a salvarsi. Essere al sicuro, mentre altri sono esclusi dalla sicurezza della vita, significa illudersi (p. 38).

8. La notte della cisterna

La cisterna è tipo/figura della tomba di Cristo. Da qui partirà la salvezza di tutta la famiglia. In questa "notte oscura" Giuseppe non ci si è buttato da solo, ma è voluta dai fratelli. È così anche nella vita spirituale.

La persona non può buttarsi da sola nella cisterna, sperando che questo atto come momento di ascesi e di dolore, sia la via per l'esito positivo e la gioia finale. Non si possono scegliere i sacrifici o le vie dove si prevedono i sacrifici [...]. Bisogna piuttosto trovarsi all'interno dell'intima dinamica della vocazione spirituale. Chi si muove in questa dinamica non si procura da solo le notti, sacrifici, mortificazioni, ma accetta quelli che gli procurano la vita stessa e gli altri [...].La pasqua non ci se la procura da soli, ma ce la preparano gli altri (p. 40).

Si può paragonare questa prima "notte" di Giuseppe (senza tunica, lontano dal padre, tradito dai fratelli presso i quali era andato per volere del padre) con quanto dice il Sal 21/22 ("Perché mi hai abbandonato?...") In fondo, la morte del figlio prediletto è la morte del padre: "voglio scendere nella tomba... " (Gn 38,36), e il ritorno alla vita del figlio è vita nuova per il padre ("rivisse lo spirito di Giacobbe..." Gn 45,27). Evidenti le applicazioni cristologiche.

9. Giuseppe in Egitto

Come Gesù (Mt 2,13-15), Giuseppe viene condotto in Egitto, venduto dai suoi fratelli non per trenta denari (Mt 27,39) ma per una cifra sconosciuta. Il Signore non ci fa mancare la persecuzione e la sofferenza, ma rimane con noi se noi non lo abbandoniamo: "a lui tutto riusciva bene..." (Gen 39,2). Come Gesù, non si lascia travolgere dal rancore: non rimane bloccato da quello che i fratelli gli hanno fatto soffrire e va avanti nel cammino, accompagnato dal Signore.

Se Giuseppe si fosse fissato su quello che gli avevano fatto i fratelli, avrebbe avuto gli occhi appesantiti dal rancore, da notti insonni, avrebbe covato la vendetta e non avrebbe mai visto che il Signore in Egitto gli apriva una strada [...]. Giuseppe non rimane bloccato su ciò che gli è accaduto. Sono interessanti a questo proposito i nomi che darà ai suoi due figli. Chiamerà Manasse il primogenito "perché, disse, Dio mi ha fatto dimenticare ogni affanno...." (Gen 41,51) (p. 48; molto utile circa il tema della memoria purificata, il "ricordo spogliato della passionalità negativa").

10. Il dono e la prova

Giuseppe si installa bene in Egitto; ma da quella che sembrava essere la sua fortuna scaturisce la tentazione.

Il fascino fisico di Giuseppe... diventa per lui luogo di prima grande prova e di prima crisi nel paese straniero. [...] Ogni dono di Dio, prima o poi diventa motivo di tentazione. Più grande è il dono, il talento, più forte è la seduzione della tentazione. [Perciò] dove il talento è più spiccato, dove il dono è più ....... prevalente lì si consumerà la nostra pasqua (p. 51).

La tentazione ha caratteristiche ricorrenti:

  • è costante ("benché ogni giorno essa ne parlasse...": Gen 39,10);
  • scaturisce dai doni di Dio (1a bellezza era una benedizione);

· attacca sul punto debole (Giuseppe era solo).

Giuseppe è solo, senza parenti, in un paese straniero. In queste condizioni è molto facile cedere alla tentazione di unirsi a una donna accondiscendente. Ma lui resiste; dapprima per un senso di onestà verso il suo padrone, ma più profondamente per un vero amore verso Dio e i suoi fratelli. Se avesse acconsentito, avrebbe abbandonato la sua missione. Egli invece la vuol portare a termine, e per far questo non può allontanarsi da Dio e dalla giustizia. Il peccato si può evitare se si ha sempre presente la relazione con Dio, che (sub)ordina tutte le altre relazioni. La vera ascesi è vivificante unione con Dio.

Giuseppe è fedele a JHWH: "come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?" (Gn 39,9). [...] Io sono già unito, e unito alla fonte della vita, risponde infatti Giuseppe. Giuseppe lega subito la relazione a questa donna al suo rapporto con Dio. È l'uomo religioso che vede Dio che agisce in tutto. È proprio ciò che a noi riesce difficile, questo nesso immediato tra la storia, la nostra storia... e la salvezza (p. 54).

Giuseppe fugge nudo dagli abbracci della moglie di Potifar: prima la tunica, ora anche la veste... è un cammino di spogliamento progressivo. Ma è innocente, e non ha paura della nudità (come Adamo prima del peccato: cfr Gn 2,25).

11. Il bene frainteso e il perdono

Giuseppe resta fedele a Potifar e non cede alle ripetute lusinghe della moglie. Va in carcere ingiustamente, e vi rimane per ben due anni. Come mai Dio non è intervenuto a salvarlo, se era stato encomiabilmente fedele? [tipologia cristologica...]. Perché solo l'amore pasquale salva.

La storia di Giuseppe ci richiama continuamente alla sapienza della croce. La maturità spirituale consiste proprio nel mettere in conto anticipatamente la pasqua. [...] prima o poi ci aspetta la punizione per un bene compiuto. È molto frequente fare del bene ed essere totalmente fraintesi, essere giudicati in maniera completamente errata (p. 58; su questa "logica della pasqua", cfr le illuminanti riflessioni di p. 58s: "il bene punito").

La prigione, vissuta realmente da Giuseppe, è anche un simbolo: la malattia, la restrizione della libertà di azione a seguito di un fallimento, ecc. sono tante "prigioni" che possiamo incontrare nella vita. Come vivo "le mie prigioni"? Pongo la fiducia in Dio, come Giuseppe? Prego? Oppure faccio la vittima, mi colpevolizzo? O ancora medito vendetta amareggiandomi ulteriormente?

12. Il bene dimenticato

Giuseppe interpreta i sogni del coppiere e del panettiere; "ma il capo dei coppieri non si ricordò di Giuseppe e lo dimenticò" (Gn 40,23). Succede spesso. Va messo in conto. Il bene va fatto di nascosto, e non deve cercare il plauso o il riconoscimento degli uomini (Mt 6,1-3). Il bene va fatto davanti a Dio solo. Solo alla fine dei tempi tutto sarà chiaro:

in quel grande giorno di sorpresa assoluta si vedrà che le persone operanti il bene e dimenticate erano quel tessuto organico che, dietro le quinte di un mondo spensierato e accecato da non vedere che sprofondava nelle crepe del tempo, salvavano dal precipizio definitivo anche coloro che li affliggevano con il disprezzo e il rifiuto del loro bene (p. 67).

Anche questa ingratitudine fu sperimentata da Gesù: "passò sanando e beneficando tutti" (At 10,38), ma al processo non trovò neppure uno che lo difendesse...

13. La seconda ascesa di Giuseppe

Grazie ad altri due sogni, fatti stavolta dal Faraone (quello del coppiere sembrava non essere stato utile a Giuseppe) Giuseppe torna a salire la china. Questo "recupero" è reso possibile anche dall'incontro con il coppiere - positivo, sebbene quegli non abbia ricordato il bene ricevuto -. Il bene sparso frutta sempre, a suo tempo. Due virtù caratterizzano l'ascesa di Giuseppe alle più alte cariche d'Egitto e al suo grande successo: l'umiltà e la saggezza. "Non io, ma Dio darà la risposta..." (Gn 41,16): l'umile non attribuisce nulla a sé, ma tutto riferisce a Dio, in cui trova il punto di stabilità (vedi p. 73-74 sull'umiltà). La saggezza poi è la capacità di vedere le vicende della vita come storia di salvezza, dove Dio opera.

Tale comprensione è possibile alla persona che matura la sua vita all'interno della relazione fondante con il Signore. Giuseppe ha parlato poco di Dio in questa storia, ma nei momenti cruciali e con una lapidaria chiarezza ha sempre messo in evidenza che per lui il Signore è il primo, che, malgrado tutto ciò che gli accadeva, il Signore era il primo e che i sentimenti di rancore, di odio, di ogni genere di passionalità non erano riusciti ad ingombrare questa relazione. [...] Solo un cuore integro può leggere la storia (p. 75).

Giuseppe raggiunge dunque la gloria. I fratelli sono affamati, con il loro padre triste e ignaro di tutto. Qui potrebbe finire un romanzo "umano", con la vittoria del "buono" suoi cattivi. Ma Dio vuole che tutti si salvino (l Tm 2,4), nessuno escluso, e che i "cattivi" diventino "buoni". Bisogna vincere il male con il bene (Rm 12,21). Non c'è salvezza, se uno solo è escluso (cfr p. 38). L'elezione (la "predilezione") non è un privilegio che separi l'eletto dagli altri, ma è la via che Dio scegli per salvare tutti. Deve adesso realizzarsi questa salvezza anche per i fratelli.

14. Il grano di Giuseppe il nutritore

In tutta questa vicenda, Dio ha un piano di fondo: vuole provvedere ai suoi. Per questo fine, sceglie uno di loro come strumento di salvezza per tutti. L'eletto viene tradito, venduto, allontanato; dopo aver risalito la china, ricade inspiegabilmente nel buio di una prigione per ben due anni. Quello che sembra - a prima vista - la rovina di tutto, diventa, non senza tortuose peripezie, la fonte di vita per tutti.

Il lento cammino di riconciliazione si realizza per tappe. Traggo dalle indicazioni di C.M. MARTINI la divisione i dieci episodi (Gen 42-46; 50, 15-26)

1. Gen 42,1-24: primo incontro di Giuseppe con i suoi fratelli. I fratelli giungono in Egitto inviati da Giacobbe, sono ricevuti da Giuseppe che li tratta con molta durezza, li accusa di spionaggio e li mette in carcere per tre giorni. Poi li libera, dà loro il grano da portare a casa, ordina che tornino accompagnati dal fratello più giovane, e, come pegno, trattiene in prigione Simeone, probabilmente perché sa che i due fratelli maggiori, Ruben e Giuda, non erano i veri colpevoli. Giuseppe li aveva ascoltati mentre dicevano: "Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello... Ruben prese a dir loro: "Non ve lo avevo detto io: Non peccate contro il ragazzo? Ma non mi avete dato ascolto"" (cfr Gen 42,1-24).

2. Gen 42, 25-32. Sulla strada del ritorno trovano il denaro messo da Giuseppe nei sacchi e i fratelli si spaventano dicendosi: "Che mai è questo che Dio ci ha fatto?" (v. 28). Probabilmente sono assaliti dal rimorso della colpa passata e cominciano a capire che in tutta la vicenda c'è un disegno di Dio che vuole portarli al pentimento. A casa raccontano tutto al padre, che si rifiuta di lasciar partire Beniamino, nonostante Ruben offra i suoi figli al posto del fratello.

3. Gen 43, 1-14. Nel terzo episodio è descritto il ritorno dei fratelli in Egitto, per comprare altro grano. Nella tradizione elohista è Giuda che si fa garante di Beniamino e lo porta con loro.

4. Gen 43, 15-34. Il secondo incontro con Giuseppe è molto interessante e appartiene probabilmente alla tradizione jahvista. Apparentemente Giuseppe li accoglie bene, li invita a pranzo, ma il banchetto si svolge in un clima carico di mistero: egli mangia in un tavolo separato, i fratelli prendono posto ciascuno in ordine di età e a Beniamino viene portata una porzione cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. Il silenzio pesa sui commensali nonostante l'aria di festa, quasi presagio di un nuovo dramma.

5. Gen 44,1-17. Infatti, i fratelli ripartono e poco dopo sono raggiunti dagli uomini di Giuseppe che estraggono dalla sacca di Beniamino la coppa d'argento accusandoli di aver reso male per bene al loro padrone. Il momento è terribile e, tornati alla presenza di Giuseppe, tutti si offrono come schiavi per non abbandonare solo il fratello più piccolo (notiamo che tutto questo fa parte del cammino di riconciliazione). Tuttavia Giuseppe insiste nel voler trattenere soltanto Beniamino.

6. Gen 44,18-34. A questo punto interviene Giuda con un discorso che è un capolavoro dell'arte oratoria biblica, per commuovere il fratello. Le sue parole sono comunque piene di amore per il vecchio padre che non voleva staccarsi dal figlio più piccolo: "Ora, quando io arriverò dal tuo servo, mio padre, e il giovinetto non sarà con noi, mentre la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro, appena egli avrà visto che il giovinetto non è con noi, morirà e i tuoi servi avranno fatto scendere con dolore negli inferi la canizie del tuo servo, nostro padre" (Gen 44, 30-31).

7. Gen 45,1-14. Giuseppe, che fin dal primo incontro si era commosso e aveva pianto senza farsi vedere, non riesce a trattenersi e confessa: "Io sono Giuseppe, il vostro fratello... Non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita".

8. Gen 45, 16-20. Anche il faraone accoglie i fratelli e la riconciliazione familiare diventa sociale e politica perché egiziani ed ebrei stringono amicizia.

9. Gen 45, 21-28. È l'episodio del ritorno a Canaan per dare la buona notizia a Giacobbe - "Giuseppe, mio figlio, è vivo" -, per ripartire con lui verso il paese d'Egitto.

10. Gen 50, 15-26. Siamo all'ultimo atto di tutta la lunga vicenda: il padre muore, i fratelli temono la vendetta di Giuseppe che però li rassicura completamente. La riconciliazione avvenuta è rinsaldata.

Si manifesta così la sapiente pedagogia di Dio, che realizza le cose a tempo opportuno (Qo 3,11; Sir 39,16.33).

La prima tappa del percorso (Gen 42,2) è l'invio dei propri figli in Egitto da parte di Giacobbe, come una volta aveva mandato Giuseppe a cercare i suoi fratelli (Gen 37,16). È la paura della morte, la paura di morire di fame che - inconsapevolmente - spinge i fratelli incontro a Giuseppe. La fame (il bisogno, l'indigenza...) è spesso il primo motore che spinge a cercare la riconciliazione (cfr Lc 15,17). Ma c'è un lungo cammino ancora da compiere:

... i fratelli dovranno comprendere che non è soddisfacendo le necessità della carne, che in questo caso si fanno sentire attraverso la corporeità affamata, [...] che ci si salva. I fratelli dovranno arrivare a scoprire che si vive dell'amore e per amore. La storia non metterà in contrapposizione il grano, i viveri e la fede, la giustizia, l'amore, Dio, ma attraverso un'esigenza corporea molto immediata porterà alla scoperta della giusta gerarchia di queste realtà, cioè che solo all'interno dell'amore il grano diventa vero grano, cioè il fratello. Che è dunque l'amore del padre a rendere i figli fratelli. Ecco di nuovo il nesso immediato con Cristo che è il pane quello vero (Gv 6,32). [...] Va solo compreso che il grano senza amore rimane semplicemente grano, un cosa per cui si può arrivare anche a combattere, uccidere, morire. Rimane un cibo che nutre comunque per morire. Ma, nell'amore, il grano rivela il suo nesso organico con il fratello e diventa vero grano (p. 84).

Giuseppe diventa "il nutritore", colui che dona il pane. Ma - in quanto figura di Cristo - educa lentamente i fratelli a cercare non solo la sopravvivenza, ma il pane che nutre davvero, il pane della fraternità.

15. Una pedagogia esigente

Infatti non è solo Dio a dare prova di una pedagogia graduale e sapiente, ma lo stesso Giuseppe. Egli dà prova di una capacità straordinaria di "ascesi delle emozioni". Il sogno da lui fatto tanti anni prima si sta realizzando: i fratelli si prostrano davanti a lui con la faccia a terra (Gen 42,6), come profetizzato nel sogno dei covoni (Gen 37,7). Di fronte a questa scena, Giuseppe fa il duro e dissimula i suoi sentimenti, che lo porterebbero istintivamente a rivelarsi e a piangere di commozione. Perché? Non certo per spirito di vendetta: egli ama - nonostante tutto - i suoi fratelli. Il motivo è che i fratelli non sono ancora pronti per ritrovarsi come fratelli. Il motivo che li ha spinti lì è solo la fame! All'accusa di essere spie rispondono con una verità parziale, dichiarandosi figli di un sol uomo, e solo incidentalmente esprimono la loro fraternità (Gen 42,11.13), tanto espressamente riconosciuta da Giuseppe (vv. 7.8). Perciò Giuseppe li mette in prigione tre giorni e fa vivere anche a loro l'ascesi delle emozioni che lui stesso esercita su di sé. Anche i fratelli - in piccolo, e "tutelati" dal fratello minore - compiono il percorso di Giuseppe nell'oscurità del carcere.

Quando viviamo difficoltà, sofferenze, tensioni, si è tentati di aggiustare le cose il più presto possibile, in genere sistemando tutto con verniciature superficiali. Giuseppe, al contrario, sotto un'apparente durezza, porta avanti una pedagogia che li conduce ai veri presupposti per i quali si possono riconoscere (p. 94).

È un tentazione perenne: già Geremia diceva dei falsi profeti: “essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: “Bene, bene!” ma bene non va...” (Ger 6,14). Invece Giuseppe inizia un cammino lento in cui tutti e dodici - lui compreso! - devono lasciarsi trasformare. È una ferita vecchia (sono passati tanti anni dall'eliminazione del fratello) e le posizioni si sono di certo irrigidite. Occorre tempo per riconciliare nel profondo le persone: non ha senso imporre riconciliazioni alla spicciolata o approssimative. In particolare, l'unità familiare (o ecclesiale) non si può ricostruire in modo affrettato sulla base di una semplice buona volontà di aggregazione psicologica: ci vuole l'amore (cfr i tentativi falliti di Ruben). Giuseppe davanti ai fratelli si trova nella posizione di un re onnipotente; avrebbe potuto reagire vendicandosi o, al contrario, accoglierli con un "bel gesto" di generosità ostentata. Al contrario, dà inizio ad un grande gioco, molto complicato, perché vuole lasciare emergere nei fratelli un rimorso sincero, vuole lentamente ricostruire i legami di affetto guastati in tanti anni di menzogne. Una vera guarigione richiede tempo ed intelligenza (da confrontare con una prassi della riconciliazione della Chiesa spesso troppo sbrigativa e superficiale, che non corrisponde ai tempi reali della psiche umana).

16. La situazione si sblocca con l'amore

Giuseppe pone come condizione che tornino con Beniamino, l'altro figlio di sua madre, Rebecca. Solo ora i fratelli collegano la loro vicenda e il loro senso di colpa (“certo su di noi grava la colpa di nostro fratello”: Gen 42, 21) con la presenza di Dio (“che è mai questo che Dio ci ha fatto?” Gen 42,28). La carovana, lasciato Simeone come pegno, torna a casa per ritornare con Beniamino. Giacobbe è disperato: “Voi mi avete privato dei figli! Giuseppe non c'è più, Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere. Su di me tutto questo ricade!” (Gn 42,36). Ruben, il primogenito, fa il suo tentativo: offre i suoi figli (42,37) al padre, come pegno. Non arriva ancora a offrire del suo: offre i suoi figli.

La situazione si sblocca quando Giuda si rende garante in prima persona di suo fratello Beniamino: “se non te lo ricondurrò io sarò colpevole contro di te per tutta la vita” (Gen 43,9). Si capisce finalmente che nelle lotte tra fratelli chi ci va di mezzo è il padre.

Fino a quando Giuda non si propone come garante per Beniamino, le cose non possono cambiare. Solo a questo punto la storia prende una piega diversa, quando si comincia a capire che in gioco è il padre. Non si ricompone un'unità, una compagine sociale, una famiglia religiosa lavorando solo sulla dimensione socio psicologica, etica, del pentimento reciproco [...]. Questo non basta. Il motivo deve diventare uno solo: il Padre. Non possiamo essere realmente fratelli se non scopriamo che siamo figli di un unico Padre e che in gioco è appunto il suo amore (p. 95).

La scoperta che ancora i fratelli devono fare è che “non si può tornare al Padre anche se manca uno solo dei fratelli”. Ecco perché Giuseppe mette alla prova i fratelli dando a Beniamino una porzione cinque volte maggiore (tornerà a scoppiare l'invidia?), e poi nascondendo la coppa d'argento nella sua sacca (cercheranno di accusarsi a vicenda, o capiranno che la perdita di uno sole è una perdita di tutti?). La conclusione del processo si realizza quando Giuda si offre al posto di Beniamino: “1ascia che io rimanga invece del giovinetto...” (Gen 43,33).

Giuda chiude il cerchio: non solo io sonò garante di Beniamino, ma mi sostituisco a lui, affinché Beniamino possa ritornare a casa, dal momento che non potrei vedere il male che colpirebbe mio padre. Adesso, per la prima volta, in uno dei fratelli, commosso e colpito dall'amore del padre, matura la convinzione di non potere tornare a casa senza il fratello. "La vita dell'uno è legata alla vita dell'altro" (Gen 43,30) (p. 104s).

A questo punto i protagonisti sono maturi per una vera, profonda riconciliazione. Giuseppe vuole l'intimità e si rivela ai fratelli. La sua prima domanda è per il padre: “vive ancora?” (Gen 45,3).

17. Giuseppe capisce il piano di Dio

Quando la fraternità è recuperata, Giuseppe capisce il senso di tutta la sua vita, perché la vita si comprende a partire dalla propria vocazione e dalla propria missione: “Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita” (Gen 45,5). Non i fratelli, non l'odio, non la colpa, ma Dio. Tutta la propria vita diventa “epifania della grazia”, manifestazione dell'amore di Dio.

È quella che chiamo “teologia dello specchietto retrovisore”. La strada che Dio ci fa percorrere, riusciamo a vederla nell'insieme solo dopo averla percorsa; davanti non vediamo oltre pochi passi. È l'esperienza dei discepoli di Emmaus, ai quali Gesù spiega - aiutato dalle Scritture - il senso della sua vicenda (cfr Lc 24,26).

Si compie cosi nella figura di Giuseppe, all'interno del Libro della Genesi, la “prima restaurazione”, secondo il seguente schema:

1. Gen 3: peccato originale → separazione da Dio
2. Gen 4: Caino e Abele → separazione dal fratello
3. Gen 11: torre di Babele →separazione dalla terra (creato)

1. Abramo recupera nella fede il rapporto con Dio

2. Giacobbe recupera anche il rapporto con il fratello (Esaù)

3. Giuseppe recupera anche il rapporto con la terra: vive alla presenza di Dio; si riconcilia con i fratelli; ha un giusto rapporto con la terra, mostrando saggezza politica ed economica.

L'uomo così riconciliato si affida pienamente al Padre: sa di potersi fidare.

don Filippo Morlacchi

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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