Formazione Religiosa

Mercoledì, 02 Febbraio 2011 16:41

Non c'è il sostare nella via di Dio (Faustino Ferrari)

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La percezione del sentirsi amati rappresenta la prima tappa di un’esperienza spirituale. Senza amore non c’è esperienza e non c’è spiritualità. Non c’è esperienza umana e non c’è esperienza religiosa.

La percezione del sentirsi amati rappresenta la prima tappa di un’esperienza spirituale. Senza amore non c’è esperienza e non c’è spiritualità. Non c’è esperienza umana e non c’è esperienza religiosa. Ma l’amore, per gli umani, è sempre segnato anche dalla sofferenza, dal dolore e dalla prova. Non è soltanto un sentimento dal quale si ricava piacere, soddisfazione, riconoscimento, gioia, benessere, appagamento, completezza, ecc. Nelle esperienze d’amore – se vere e profonde – si ritrovano anche le pene della lontananza, le angosce della solitudine, le afflizioni per i conflitti, i patimenti per la mancata corresponsione, i tormenti per i tradimenti… Ma la nostra capacità d’amore sorge come risposta a ciò che già abbiamo incominciato a sperimentare fin da quando siamo venuti al mondo: il sentirsi curati, accuditi, amati. E non possiamo pensare a Dio se non è già presente in noi questa iniziale percezione. Oh, sì, ci possiamo confrontare con le immagini del Dio onnipotente, giudice terribile, vendicatore… Queste immagini risultano essere, tuttavia, semplici idoli e ci permettono di considerarci dei bravi uomini religiosi – ma non ci aiutano ad essere uomini spirituali.

La solitudine nasce dalla nostra percezione di non sentirci amati. In un mondo che si misura sul possesso delle cose, sul potere e sul sesso (spogliato delle sue dimensioni relazionali ed affettive) resta ben poco spazio per l’amore. Ci sentiamo amati nel momento in cui qualcuno è disposto ad amarci, prima ancora della possibilità che abbiamo di ricambiare questo amore. Ma noi siamo sempre più segnati in profondità da una dimensione di narcisismo. Vale a dire da un bisogno estremo di sentirci al centro dell’attenzione degli altri; di essere non semplicemente meritevoli dell’amore altrui, ma necessariamente amati per il semplice fatto di esistere, senza percepire la reciprocità richiesta dalla relazione dell’amore ricevuto. Una società di soli narcisisti non conosce più la dimensione d’un amore disinteressato. D’un amore che per primo si assume il rischio di amare. Senza essere certi di riceverne in cambio. Narciso, immancabilmente, è solo, circondato dalle mille immagini riflesse dagli specchi con cui si circonda. S’illude d’avere una numerosa compagnia. In realtà non ha bisogno degli altri. E quando si rende conto di essere stato abbandonato da qualcuno, non regge alla frustrazione e desidera – e spesso non si ferma al desiderio, ma passa all’azione, alla realizzazione – la morte. Morte per sé e/o  di chi lo ha abbandonato. Narciso non solo è solo. È un necrofilo che semina morte intorno a sé. Perché se non c’è amore soltanto per lui, la morte deve regnare per gli altri.

Ci sono elementi all’interno dell’esperienza spirituale che non possono essere descritti. Il linguaggio risulta insufficiente. Nel buddismo il raggiungimento dell’illuminazione, del satori, non può essere spiegato a parole. Si possono raccontare le circostante all’interno delle quali si è avuto il risveglio o l’illuminazione, ma non può essere descritto il come. Né il maestro è in grado di sapere se il discepolo arriverà all’illuminazione e quale sarà il tempo necessario. Il satori può essere soltanto sperimentato. E questa affermazione, di per sé, risulta insufficiente, erronea poiché il satori non può essere sperimentato. Ma anche quest’altra affermazione risulta erronea… Ed è erroneo parlare di erroneità.

Ben poco si può dire dell’esperienza mistica. Qui il linguaggio usa l’analogia. Ma come, giustamente, sottolinea Wittgestein, di fronte a ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere. Il silenzio è ciò che meglio descrive l’esperienza mistica. Ed il nulla. Ma tenendo ferma la considerazione che silenzio, nulla, notte, deserto, ecc. sono sempre termini analogici.

Anche per il cristiano risulta difficile parlare delle sue ragioni della sequela Christi. Si possono raccontare tante cose, a livello razionale, sul perché della nostra scelta. Si può parlare delle nostre convinzioni più profonde. Si possono descrivere le circostanze, le persone, le esperienze che ci hanno segnato nel nostro cammino. Ma tutto ciò risulta insufficiente. C’è una parte che coinvolge il nostro intimo e che risulta indescrivibile. Come quando ci si innamora di una donna. Diremo che ciò è dovuto ai tratti del suo viso, al colore dei suoi occhi, alle forme del suo corpo, al fatto che si sta bene con lei. Ma tutto ciò non basta. Come non basta il fatto che gli scienziati ci spieghino che entrano in gioco i livelli di alcuni ormoni o le tracce genetiche contenute nei nostri cromosomi. Siamo coinvolti nel nostro intimo. E non ci sono parole capaci ad esprimere ciò che proviamo. Ma ciò non vuol dire che non siamo innamorati. Ma ciò non vuol dire, da un punto di vista religioso,  che Cristo ci è indifferente.

Anche alcune piccole esperienze spirituali non possono essere raccontate. L’umiltà, ad esempio, è una di queste. O, meglio, possiamo leggere i trattati sulle virtù, i racconti di esperienze personali, la descrizione psicologica dei vari passaggi… ma non sappiamo ancora cos’è l’umiltà. Il conoscere a livello razionale i vari aspetti ci lascia pur sempre ignoranti. E quando nella nostra vita ci si scontra con la possibilità di vivere alcuni aspetti di questa virtù, possiamo soltanto tacere. Poiché nel momento in cui se ne parlasse, ciò rappresenterebbe la negazione di tutto quello che si vorrebbe aver sperimentato. Usando il silenzio dell’umiltà, il rischio può essere anche quello di venire considerati da parte degli altri come buonisti, ingenui, persone senza carattere. Ma si tratta d’un rischio necessario.

Dunque, se le esperienze spirituali più profonde risultano essere indescrivibili, che cosa ci salvaguardia dal fatto di non vivere all’interno di un’illusione? Ognuno, infatti, potrebbe arroccarsi dietro alla maschera del silenzio per giustificare i propri abbagli od il proprio immobilismo[1]. Oppure, in buona fede, ci si potrebbe non accorgere che tutto ciò che riteniamo esperienza spirituale in realtà si sta rivelando come espressione di un grande inganno. Oggi si moltiplicano i supermercati delle esperienze spirituali, ove ciascuno può scegliere prodotti i più diversi, nel modo che ritiene più opportuno e senza dover rendere conto di alcunché a chicchessia. All’interno di questo modo di pensare e di vivere, possiamo, quindi, sentirci giustificati per tutto ciò che facciamo in campo spirituale. Ben presto ci si può già considerare maestri. Abbiamo consigli da dispensare. Scriviamo libri per raccontare le nostre esperienze più profonde. Siamo sedotti dalla lusinga di avere perfino dei discepoli…

Ritenere di non essere mai arrivati. Considerare d’essere sempre soltanto all’inizio del cammino. Confrontarsi con la saggezza e l’esperienza di chi vi si cimenta da tempo. Diffidare dei percorsi più facili. Avere la pazienza di soggiornare nel deserto. Ricercare le tracce dell’Unico. Sentirsi amati. Sperare…

Faustino Ferrari



[1] Leggiamo in Lutero: «Quia vere dicit B. Bernardus: “ubi incipis nolle fieri melior, desinis esse bonus. Quia non est status in via Dei: ipsa mora peccatum est”» ( Salmo 118, Scholae, W. 4, 364, 17 ss.).  Possiamo tradurre in italiano: «Perché giustamente afferma S. Bernardo: “Dove cominci a non voler diventare migliore, smetti di essere buono. Poiché non c'è il sostare nella via di Dio: la stessa sosta è peccato"».

 

Letto 6423 volte Ultima modifica il Domenica, 15 Gennaio 2017 21:04
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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