Formazione Religiosa

Mercoledì, 27 Aprile 2011 10:06

Teologia dell'Antico Testamento. Cap. 7. Il futuro di Israele

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In questo capitolo parleremo di un certo numero di argomenti che, in genere, vengono trattati sotto il titolo  di “messianismo”.  Io non userò questo termine, perché non sono d’accordo con i presupposti che il suo uso implicherebbe.

Teologia dell'Antico Testamento

Cap. 7

Il futuro di Israele

1. Osservazioni generali

In questo capitolo parleremo di un certo numero di argomenti che, in genere, vengono trattati sotto il titolo  di “messianismo”.  Io non userò questo termine, perché non sono d’accordo con i presupposti che il suo uso implicherebbe.

Il termine “Messia” deriva dall’ebraico māšîah, che significa “unto”. Senza speci­ficazioni il termine generalmente indica il re di Giuda o di Israele; ma anche i sacerdoti erano unti. Il termine ebraico fu reso in greco con chrìstos, da cui deriva l’italiano “Cristo”, che è un titolo di Gesù di Nazareth. Questo titolo gli è attribuito nel N.T., ed è già di per sé una confessione che egli era il Re Salvatore atteso che avrebbe riportato Israele all’indipendenza politica ed infine ad una posizione di dominio sul mondo. Esula dai compiti di quest’opera dimostrare che questo è proprio il ruolo che Gesù di Nazareth cercò in ogni modo di evitare; senz’altro cercarono di evitarlo gli autori del N.T., e il Salvatore che creò il nuovo Israele non rassomiglia in nessun modo al re Messia di Israele e Giuda. Quale che sia il senso in cui viene inteso il Re Messia, non c’è messianismo nel N.T. che derivi dall’A.T.

Se consideriamo semplicemente l’elemento del linguaggio, il messianismo dell’A.T. è la sua cristologia. Esiste certamente un messianismo dell’A.T.; il giudizio espresso su di esso fino a questo punto è stato generalmente favorevole. Ma non esiste una “cristologia”, e con questo intendo dire che la teologia dell’A.T. in nessun modo predice o prepara la realtà storica di Gesù di Nazareth o l’atto salvifico che i discepoli di Gesù proclamarono compiuto in lui. La cristianizzazione dell’A.T. non ha mai fatto progredire la teologia veterotestamentaria. Il messianismo è un tema che appartiene alla teologia del N.T. e non a quella dell’A.T.

D’altra parte, però, Gesù di Nazareth è un personaggio che emerse in seno al Giudaismo; e non si deve dare l’impressione che, come figura religiosa, egli fosse completamente slegato dall’A.T. Il primo ad affermare questo fu Marcione. In tempi più recenti, Rudolf Bultmann ha quasi sfiorato il neomarcionismo. Al tempo stesso, però, il Giudaismo dal quale Gesù emerse è una realtà storica più vasta e più complessa dell’A.T. Scrivendo una teologia dell’A.T., non pretendo di scrivere né una storia né una teologia del Giudaismo. Ma il Giudaismo non può essere capito se non in riferimento all’A.T. Come figura religiosa Gesù si presenta come un uomo che sorse in seno al Giudaismo, e quindi in una certa misura dell’A.T. Certo non può essere considerato come un prodotto dell’ellenismo o dei culti orientali del mondo ellenistico. Detto questo, non si può dimenticare la parabola evangelica, secondo la quale Gesù versò vino nuovo in otri nuove (Mc. 2,22; Mt. 9,17; Lc. 5,37-38).

Per queste ragioni ho preferito parlare di «futuro di Israele» invece che di «speranza messianica» o cose simili. Gli Israeliti consideravano il popolo di Jahweh in cammino attraverso la storia – ma verso che cosa?

Ma nell’A.T. c’è di più che non un semplice orientamento verso il futuro. Troviamo in gran parte dei libri la convinzione dell’indistruttibilità, dell’eternità di Israele. L’eternità di Israele è il riflesso creato dell’eternità di Jahweh, che ha unito a sé Israele con l’alleanza e la promessa. Questa convinzione non attribuisce una forma ben definita al termine della storia di cui abbiamo parlato poco fa; la forma non ha molta importanza; ciò che conta invece è la credenza che non ci può essere Jahweh senza il suo popolo Israele.

Questa unione si fonda  su di una libera elezione da parte di Jahweh e non su di una struttura mitologica del cosmo come nelle altre religioni medio-orientali antiche. Ovviamente questa credenza nell’eternità del popolo di Dio è stata trasmessa sia al Giudaismo sia al Cristianesimo.

Abbiamo avuto occasione di far notare che la credenza nell’eternità di Israele non era condivisa da tutti gli autori dell’A.T. Tra questi si potrebbero citare Amos e l’autore della storia deuteronomista, e molto probabilmente anche Geremia. Persino J poteva concepire la possibilità dela distruzione di Israele e della nascita di un nuovo popolo di Jahweh (Es. 32,10; Num. 14,12). La credenza neotestamentaria secondo la quale la chiesa è il nuovo Israele è un’eredità di questo tema più che non del tema dell’indistruttibilità di Israele. La Chiesa però ha conservato il tema dell’indi­struttibilità, approfittando al tempo stesso del tema del giudizio e del rifiuto.

2. La speranza nazionale

Sotto questo titolo raggruppo tutti quei passi che non hanno evidenti implicazioni religiose, eccettuato il fatto che la sopravvivenza di Israele dipende dalla volontà salvifica di Jahweh. In generale, quindi, questi passi esprimono più che una speranza politica che non una speranza religiosa; ma devo ammettere che questa distinzione non trova nessun riscontro nel testo ebraico. Tuttavia essa si rivela utile per noi che leggiamo l’A.T.; e il cristiano moderno in modo particolare, se ha una certa familiarità con la storia della chiesa, conosce fin troppo bene l’incapacità delle varie chiese cristiane della storia di distinguere tra religione e politica.

Cercheremo di distinguere meglio che potremo le espressioni pre-esiliche della speranza nazionale da quelle post-esiliche.

Abbiamo già parlato del tema di promessa e compimento. Ci pare opportuno riprenderlo a questo punto, perché è certamente un’espressione dell’orientamento verso il futuro in termini di speranza nazionale. Questi testi appartengono molto probabilmente all’antica duplice monarchia. Presentano il possesso della terra come la conclusione di un piano divino ideato e annunciato molti secoli prima. Il possesso pacifico della terra diventa una realtà sotto David. Ci troviamo qui di fronte ad un tema che C.H. Dodd ha individuato nel N.T. e ha chiamato «escatologia realizzata». La speranza nazionale del futuro non andava più in là dell’abitare in pace nella terra che Jahweh aveva promesso ai padri e concesso ai loro discendenti.

Il numero dei passi sicuramente pre-esilici che esprimono la speranza nazionale non è grande, qualunque sia l’ipotesi critica che si segue; io mi limiterò a parlare di quattro passwi poetici, di cui nessun critico può negare l’antichità. Gli oracoli di Balaam (Num. 23,7-10.19-24; 24,3-9.15-19) risalgono probabilmente ai primi tempi della monarchia; Num. 24,17 fa riferimento forse alla monarchia di David. Il tema dell’unione tra Jahweh e Israele ricorre in tutti i passi. A causa di questa unione nessuna potenza ostile potrà avere successo contro Israele. Nessun accenno all’alleanza o alla promessa dei patriarchi. Israele ha preso possesso della propria terra, e per lui non c’è minaccia più grave di Edom; può darsi che, originariamente, gli oracoli non fossero rivolti al re di Moab. Alcuni oracoli alquanto oscuri che sono stati aggiunti successivamente (Num. 24,20-24) contengono forse alcune allusioni all’Assiria; questo paese però non si presenta con i tratti minacciosi che ha in Isaia. Riassumendo, quindi, gli oracoli si riferiscono al possesso pacifico della terra, promessa nell’antichità e realizzata sotto la monarchia. Gli oracoli appartengono alla categoria dell’escatologia realizzata.

I due poemi tribali di Gen. 49 (la benedizione di Giacobbe) e di Dt. 33 (la benedizione di Mosè) sono senz’altro paralleli. Era una presenza comune nel mondo antico che i vecchi saggi, al momento della loro morte, fossero in grado di leggere nel futuro; questi poemi sono degli esempi di “testamento” nel quale il patriarca predice il destino dei propri figli. Ambedue i brani si rivolgono ad una struttura di tipo tribale. La benedizione di Giacobbe dà particolare rilievo a Giuda e a Giuseppe; la benedizione di Mosè alla casa di Giuseppe. La «casa di Giuseppe» costituiva la componente più vasta e più forte delle tribù del nord; la tribù di Giuda era la tribù di David e di Salomone. Le parole della benedizione di Mosè a proposito di Giuda fanno pensare che il poema sia stato composto dopo lo scisma. L’elogio di Giuda nella benedizione di Giacobbe si riferisce certamente alla dinastia di David, e il poema risale con ogni probabilità alla duplice monarchia. In ambedue le composizioni il tema dominante è quello del possesso pacifico della terra, tema che abbiamo definito come escatologia realizzata.

Il canto di Mosè (Dt. 32) è a giudizio dei critici più tardo della benedizione di Mosè, e si tratta senz’altro di una composizione più raffinata. Il canto dimostra una conoscenza del peccato di Israele  e dei giudizi di Jahweh, l’uno e gli altri appartenenti al passato, ma ancora temuti, che è completamente assente nella benedizione di Giacobbe e Mosè.

Gli altri testi che prenderemo in esame sono tutti considerati come esilici o postesilici.

Delle profezie esiliche e postesiliche esamineremo innanzi tutto quelle di Isaia Secondo, non soltanto perché egli appartiene sicuramente al periodo esilico, ma anche perché è possibile che il tema della restaurazione di Israele sia stato formulato per la prima volta da lui.

La restaurazione di Israele è un nuovo esodo; il ricorso a questa figura era per Isaia Secondo il modo più approssimato per dire che si trattava di una nuova nascita – di fatto, di una nuova nazione. Il tema del possesso pacifico della terra è implicito piuttosto che esplicito. L’Israele restaurato non avrà né tempio né monarchia; Isaia Secondo è indifferente alle sue istituzioni politiche.  Il giudeo Isaia Secondo parla esplicitamente della restaurazione di Sion e non di Israele; non si può dire con certezza che egli, come altri profeti, pensasse alla restaurazione delle dodici tribù nell’intero territorio dell’Israele antico. Da questo punto di vista, era più realistico di altri visionari. La sua Sion restaurata non è una potenza politica e non si fa cenno ad alcuna conquista. Questi caratteri del suo Israele restaurato, uniti al tema del nuovo esodo, fanno pensare che non si tratti di una restaurazione vera e propria dell’Israele antico, bensì della creazione di un nuovo popolo. La continuità viene mantenuta grazie al ritorno degli esiliati da Babilonia; come Esdra e Neemia, Isaia Secondo immagina vuoto il paese, proprio come gli autori di Giosuè avevano immaginato svuotato il paese in seguito alle conquiste di Giosuè.

L’Israele restaurato ha sperimentato il perdono di Jahweh in modo nuovo e senza pari, così come l’antico Israele aveva sperimentato i giudizi di Jahweh in modo nuovo e senza pari. Isaia Secondo non attribuisce alcun merito ad Israele che gli valga il perdono; nel restaurare Israele Jahweh è altrettanto libero quanto lo era stato nel crearlo.

Nel nuovo esodo di Isaia Secondo, Babilonia svolge lo stesso ruolo che il Faraone aveva svolto nel primo esodo. È una figura simbolica, che rappresenta i cultori di falsi dèi. Se questi popoli si oppongono alla volontà salvifica di Jahweh, non solo vengono sconfitti, ma distrutti.

La raccolta chiamata Isaia Terzo (Is. 55-66) non può essere datata con sicurezza come Isaia Secondo. È difficile far rientrare i poemi di Sion (Is. 60-62) in questo periodo; la loro affinità con gli oracoli di Isaia Secondo e il loro ottimismo suggeriscono piuttosto una data più antica. L’autore riprende il tema del matrimonio tra Jahweh e Israele, già utilizzato da Osea, Geremia ed Ezechiele; in questi profeti, questo matrimonio terminava con un divorzio. Isaia Terzo vi accenna (Is. 62,4), ma l’unione che egli vede ora è indissolubile.

Il libro di Geremia contiene alcune parti abbastanza estese che esprimono la speranza nazionale (Ger. 30-33). Molti critici moderni considerano originaria gran parte dei capp. 30-31; essi ritengono che questi detti, all’origine dispersi, riguardassero la restaurazione dell’Israele del nord e che siano stati influenzati dal programma di restaurazione di Giosia.

La maggioranza dei critici ritiene che molto poche delle espressioni della speranza nazionale dei capp. 32-33 possano essere attribuite a Geremia. L’autore di 33,24 potrebbe avere voluto parodiare Geremia stesso. Geremia aveva senz’altro una speranza per il futuro, ma non si può dire che fosse una speranza nazionale. Nella sua proclamazione l’Israele e Giuda della storia erano finiti, morti e sepolti. Evidentemente i portavoce della speranza nazionale, quando questa sorse, non poterono limitarsi a scavalcare Geremia; dovettero riscriverlo.

Considero come espressioni della speranza nazionale in Ezechiele gran parte dei capp. 34,36-37 e 40-48.

Il passo sui pastori (Ez. 34,1-10) e quello sulle pecore, i montoni e i capri (34,17-22) costituiscono un doppione. Il resto del cap. 34 presenta i temi del possesso pacifico della terra, della prosperità e della sicurezza dai nemici esterni.

La visione delle ossa disseccate (Ez. 37,1-14) è una garanzia che Jahweh restaurerà Israele, anche se l’impresa sembra impossibile.

La visione di Ez. 40-48 sarà trattata più avanti nel & 4, sotto la rubrica della comunità cultuale.

In Zaccaria ritroviamo quei temi che al suo tempo si erano ormai ben affermati; egli non vi aggiunge nulla di nuovo.

Un’ultima espressione della speranza nazionale si può ritrovare in Dn. 2, ora generalmente datato nel sec. II a.C., durante il dominio oppressivo dei re Seleucidi.

La speranza nazionale non esclude il concetto di rigenerazione morale, ma non lo include neppure necessariamente.

La speranza nazionale, che segue la sua logica interna, attribuisce alla nazione la stessa necessità che riconosce a Jahweh.

Ritorniamo ancora una volta ai luoghi comuni ella speranza nazionale. Sono la pace, la prosperità, la sicurezza dai nemici, o, meglio ancora, la vittoria sui nemici. Questi sono i beni che un governo normalmente dovrebbe garantire ai suoi cittadini. La speranza nazionale, sempre se segue la sua logica interna, è essenzialmente etnica.

3. Il messianismo regale

Abbiamo già parlato della geopolitica della monarchia israelitica. Questa teologia politica era diretta a fini immediati e pratici. La monarchia davidica fu proposta dai suoi profeti e dai suoi scribi come una sorta di escatologia realizzata; Jahweh aveva portato Israele all’obiettivo che aveva fissato per lui, e non c’era da aspettarsi alcun altro avanzamento. Dopo lo scisma di Israele e Giuda, la monarchia unita continuò ad essere considerata nella profezia e nella liturgia come l’ideale verso il quale Israele poteva sperare di ritornare. In molti passi relativi alla speranza nazionale la monarchia è inclusa nel concetto di restaurazione. Molti di questi passi sono del tutto convenzionali e non hanno bisogno di commento; la monarchia era una componente dell’antico Israele che doveva essere restaurato, e non si dava particolare rilievo al tema del Re Salvatore. In molti passi relativi alla speranza nazionale, la monarchia non è neppure menzionata.

Isaia 9,1-7 contiene un oracolo sul re futuro che è stato per lungo tempo oggetto di vivaci discussioni, e la divergenza delle opinioni ne rende impossibile un’in­ter­pretazione sicura. Che si parli di un re futuro, è fuor di dubbio; la questione è di sapere quanto avanti nel futuro intendesse spingersi Isaia. Molti critici sostengono che il re futuro cui si fa riferimento è Ezechia, il successore di Akhaz. Se questa interpretazione è corretta, il passo non dovrebbe essere preso in considerazione nell’esame della speranza nel futuro. Secondo altri interpreti invece Isaia non avrebbe potuto immaginare un personaggio così idealizzato come ce lo presenta la sua descrizione in un orizzonte prossimo. La questione critica non può essere risolta in questa sede; sfortunatamente il significato teologico del passo in questo caso dipende dalla soluzione data alla questione critica.

Il messianismo regale di Zaccaria è unico nel suo genere. Innanzi tutto egli unisce il re ed il sommo sacerdote in modo nuovo (Zc. 3,6-10; 4,6-14). Egli non chiama re Zorobabele, ma di fronte ad un uditorio capace di capire non avrebbe avuto bisogno di usare il termine.

4. La comunità cultuale

In questa sezione prenderemo in esame alcuni testi che testimoniano come almeno alcuni membri della comunità esilica e postesilica  guardassero ad un futuro che era di tipo religioso e assolutamente non politico. Le guerre babilonesi avevano distrutto Giuda come entità politica. Questi Giudei accettarono questo fatto come un giudizio; se avevano raccolto gli scritti dei profeti, dovevano avere ampie prove in favore di questa conclusione. Sembra che fossero contenti del fatto che Jahweh non avrebbe creato di nuovo un popolo dotato di indipendenza politica. La sua volontà si sarebbe realizzata in una comunità che viveva in pacifica sottomissione all’impero persiano. Non avevano progetti  che andassero al di là dell’impero persiano ma i loro progetti potevano sopravvivere ad ogni impero. Il destino di Israele era di rendere un culto a Jahweh in modo adeguato – vale a dire, nel modo che egli stesso aveva rivelato.

Questa speranza cultuale è espressa da Aggeo (2,1-9). Aggeo si dichiara convinto che il primo dovere della comunità restaurata è di ricostruire il tempio. Egli non sa che cosa Jahweh farà nel futuro; sa però che, qualunque cosa farà, la farà nel suo tempio, il luogo della rivelazione.

Malachia si occupa quasi esclusivamente della corretta osservanza delle norme cultuali. Le colpe che egli condanna nella comunità postesilica, con la sola eccezione dell’inosservanza delle leggi matrimoniali, si situano tutte nell’ambito delle norme cultuali e dell’istruzione sacerdotale (Torah). Nel futuro sarà offerto a Jahweh un sacrificio puro in tutto il mondo (1,11) e i sacerdoti infedeli di Gerusalemme non avranno parte in questo sacrificio universale. È nel tempio che farà la sua apparizione il “messaggero” di Jahweh (3,1-4).

L’A.T. contiene due importanti testimonianze letterarie che riguardano la comunità cultuale come concretizzazione della speranza nel futuro. La prima è costituita da Ez. 40-44. Centro dell’Israele restaurato è il tempio ricostruito; e l’intero blocco di Ez. 40-48 in realtà descrive la restaurazione della comunità cultuale più che non la speranza nazionale di cui abbiamo parlato al & 2.

Al servizio del tempio ideale è posto un clero ideale (Ez. 44). È la famiglia di Sadok, la stessa famiglia sacerdotale che aveva prestato servizio nel tempio pre-esilico.

Sia che si tratti di simbolismo o di ingenuo realismo, è dalla montagna del tempio che sgorga il fiume che rigenererà la terra (Ez. 47,1-12). Il simbolismo dell’acqua nella Bibbia è molto ricco e vario, e lo si può meglio apprezzare se si è sperimentato, in Palestina o altrove, quanto sia importante l’acqua in zone semiaride o alle estremità dei deserti. L’acqua è spesso identificata nella Bibbia con la vita; nel nuovo Israele, la nuova vita sgorga dal tempio, dove Jahweh abita in mezzo al suo popolo.

La seconda importante testimonianza letteraria della comunità cultuale come elemento della speranza nel futuro è costituita dai libri delle Cronache. Quest’opera, che i critici in genere uniscono ai libri di Esdra e Neemia sotto il nome di storia del Cronista, è una nuova stesura della storia di Israele da Adamo alla caduta della monarchia di Gerusalemme.

Il futuro di Ez. 40-48 e dell’opera del Cronista è certamente geocentrico. Il destino di Israele è di tributare a Jahweh il culto che desidera e che è degno di lui. In questo futuro non c’è posto per sogni di conquiste mondiali o anche soltanto locali, e non si aspettano vittorie di Jahweh portatrici di salvezza. La comunità cultuale non ha una struttura politica. Il tema della prosperità passa in sordina, e non ci si aspetta più che la ricchezza delle nazioni confluisca nel tempio.

5. La missione di Israele

Contrariamente al concetto di comunità cultuale, che, come abbiamo visto, è vlto verso l’interno, il concetto di missione di Israele considera completamente il futuro di Israele in rapporto al mondo esterno. Vedremo come non siano molti i testi nei quali compare questo tema.

Possiamo incominciare con un testo che si trova in due libri profetici, ma che originariamente, forse, non apparteneva né all’uno né all’altro. Is. 2,2-4 (= Mic. 4,1-3) non possono appartenere rispettivamente né all’uno né all’altro profeta, se non altro per l’espressione stereotipa: «Avverrà che, alla fine dei giorni…». La profezia pre-esilica non parla della «fine dei giorni». La preminenza di Sion e il convergere verso di essa di tutte le nazioni non esprime in nessun modo un’idea di conquista. Le nazioni vengono a Sion per imparare le vie di Jahweh; e soltanto da Sion esse possono ascoltare la “legge”, o meglio, l’insegnamento rivelato, e la parola del Signore, la parola ispirata. Se questo testo è veramente tardo quanto sembra, la parola del Signore è diventata sinonimo di Torah, legge. Dall’unione di tutti i popoli nell’insegnamento e nella parola, il profeta vede la fine delle guerre. La visione della pace universale si fonda sull’unione di tutti i popoli in una sola fede.

Zac. 8,20-23 esprime più o meno lo stesso tema, anche se con minore fantasia poetica. Il concetto di “missione” è un po’ vago; in effetti, le nazioni verranno a Gerusalemme per cercare il favore di Jahweh. Ma dovranno andare dai Giudei per trovarlo; e si presume che i Giudei lo faranno loro conoscere quando ne saranno richiesti.

Isaia Secondo ha fatto della missione il tema dominante ella sua attività profetica; essa spiega perché Israele sia stato restaurato – o meglio creato di nuovo.

La missione di Israele consiste semplicemente nel proclamare alle nazioni che Jahweh è il solo Dio. Israele lo proclama con la sua esistenza stessa; Israele è un “testimone” di Jahweh (Is. 43,10-13; 44,8). Il termine ebraico che abbiamo tradotto con “testimone” significa piuttosto “testimonianza”; Israele non ha bisogno di parlare. È un esempio vivente della giustizia di Jahweh. Questa giustizia si è manifestata innanzi tutto nel giudizio pronunciato su Israele; in secondo luogo nella restaurazione di Israele. La giustizia è l’attributo sia del giudice sia del salvatore, e Jahweh si è dimostrato pienamente giusto. La giustizia è anche l’attributo del vincitore; e soltanto Jahweh può emergere vittorioso da quella che sembra essere la completa distruzione del popolo che egli stesso si era creato.

Ho avuto modo in altra occasione di esprimere i miei punti di vista a proposito dei Canti del Servo Sofferente che, secondo me, sono opera di un autore diverso dell’anonimo che noi chiamiamo Isaia Secondo. Ritengo che il Servo non possa essere né completamente identificato con Israele né completamente distinto da Israele. Ciò significa che ho adottato un’interpretazione un po’ fluida del Servo come personaggio ideale e come «personalità corporativa». A chiunque intendesse riferirsi l’autore con il termine di “Servo” e qualunque fosse il rapporto del “Servo” con Israele, non c’è dubbio che il Servo è un personaggio cui è affidata una missione nella quale Israele è profondamente coinvolto. Gli interpreti discordano sul modo e sulla profondità di questo coinvolgimento.

Nel primo Canto del Servo (Is. 42,1-4) e nella rispettiva risposta (42,5-9), il Servo è considerato come un nuovo Mosè. Egli proclama il “giudizio” e il “diritto”, termini tradizionali per la rivelazione della “legge”. Si tratta della volontà rivelata di Jahweh, che dà delle direttive per un modo concreto di vita. Ma mentre Mosè aveva parlato ad Israele, il Servo parla alla “terra” e alle “isole”. Nella risposta, diventa “alleanza” dei popoli e «luce delle nazioni». La differenza tra la missione di Mosè e quella del Servo è stabilita in modo chiaro: il Servo dovrà fare per il mondo quello che Mosè fece per Israele.

Nel secondo Canto del Servo (Is. 49,1-6), la portata mondiale della missione del Servo è altrettanto chiara (49,6); e appare netto il contrasto tra lo scopo limitato di una missione ad Israele e quello molto più vasto di una missione alle nazioni. Jahweh si propone molto di più che non una semplice restaurazione di Israele.  La risposta (49,7-13) invece non riecheggi      con molta chiarezza il tema della missione.

Il terzo Canto del Servo (Is. 50,4-9) e la rispettiva risposta (50,10-11) non alludono in modo esplicito alla missione del Servo, bensì alle difficoltà che egli incontrerà nel fare quello che dovrà. Egli compare ancora nel ruolo di maestro (50,4).

Il quarto Canto del Servo (Is. 52,13-53,12) è la più grande crus interpretum dell’A.T. Come abbiamo osservato, l’idea di missione è chiara; ma dobbiamo sapere chi è il soggetto della missione, e a chi la missione è diretta. È proprio l’ambiguità di questi problemi che ha permesso agli interpreti cristiani di affermare, partendo dal N.T., che questo passo è una predizione della morte redentrice di Gesù Cristo. I critici cristiani moderni non possono più accettare questa interpretazione semplicistica; ma è ovvio che la comunità cristiana primitiva e, secondo l’opinione di molti, Gesù stesso, interpretano il suo ruolo nei termini del Servo sofferente. Infatti la missione del Servo nel quarto poema si realizza attraverso la sofferenza vicaria espiatrice. L’innocente con le sue sofferenze assicura al colpevole la liberazione dal castigo.

6. Il futuro apocalittico

Il termine di “apocalittica” (dal greco apokalypsis, rivelazione) si applica ad un tipo di letteratura che fiorì in seno al Giudaismo a partire dal 200 a.C. e continuò in seno al Cristianesimo, fino al 200 d.C. Il nome deriva da una caratteristica che è comune a tutti questi scritti, e precisamente la pretesa di essere delle rivelazioni segrete comunicate a qualche antico eroe perché a sua volta le svelasse al tempo dell’autore, che si nasconde sotto il nome dell’antico eroe. La caratteristica principale degli scritti apocalittici è la visione di una catastrofe mondiale; le potenze del male, generalmente identificate con le grandi potenze politiche contemporanee all’autore, si uniscono in una gigantesca lotta contro Dio nella quale sono totalmente e definitivamente sconfitte. Inizia così il governo dei santi, identificati con Israele o con la Chiesa. Questo combattimento cosmico viene in genere descritto con un linguaggio simbolico molto complicato che a volte rasenta il grottesco, come nel caso dei mostri di Dn. 7-12 e dell’Apocalissi di Giovanni. Il simbolismo è generalmente chiaro;  per restare nei due libri che abbiamo citato, gli interpreti non hanno mai avuto difficoltà ad identificare la Bestia che viene dal mare o la Grande Prostituta. Gli autori non avevano alcuna intenzione di essere oscuri con le loro immagini; lo sono per noi soltanto quando non conosciamo sufficientemente bene il mondo loro contemporaneo e quindi non siamo sicuri delle identificazioni.

Si può discutere se l’A.T. contenga effettivamente della letteratura apocalittica. Io, per parte mia, considero certi passi come facenti parte, almeno agli inizi, dell’apocalittica.

La letteratura apocalittica è certamente escatologica, se con questo intendiamo uno stadio finale nel quale la storia si conclude; è così chiaramente escatologica, che viene addirittura da chiedersi se questo termine possa essere applicato a qualcos’altro. Così la versione P del diluvio si avvicina all’apocalittica, perché descrive il mondo ripiombato nel caos che precedeva la creazione; ma non è escatologia, perché Jahweh restaura ciò che ha distrutto senza alcun cambiamento sostanziale. Ma P, che non fu molto nel tempo dell’apocalittica biblica più antica, voleva dimostrare quello che Jahweh, se avesse voluto, avrebbe potuto fare nel giudizio.

È probabile che lo sviluppo dell’escatologia apocalittica sia da mettere in relazione con la protologia della creazione che noi abbiamo attribuito ad Isaia Secondo.

Il passo chiamato «apocalisse di Isaia» (Is. 24-27) è sicuramente un’appendice postesilica al libro. In Is. 24-27 invece, l’autore descrive la catastrofe mondiale così come la poteva immaginare.

Ci sono elementi apocalittici in Isaia Terzo 65-66.

Ezechiele 38-39 contiene una versione alquanto immaginosa della battaglia apocalittica; è dubbio che questo passo provenga dalla stessa fonte letteraria che è all’origine di gran parte del libro di Ezechiele.

Il libro di Gioele viene generalmente collegato dall’unanimità dei critici nel periodo postesilico, dopo Neemia. Non è neppure sicuro che la prima parte del libro (1,1-2,29) sia apocalittica.

I due più importanti scritti apocalittici, II Zaccaria e Daniele, sono generalmente datati dalla critica nel periodo greco (dopo il 330 d.C).

L’elemento apocalittico non è presente in tutti gli oracoli della raccolta di Zc. 9-14.

I temi apocalittici appaiono con maggior chiarezza in Zc. 12-14 e soprattutto nel cap. 14.

L’apocalittica del libro di Daniele si trova nei capp. 7-12.

La visione dei quattro mostri (Dn. 7) è quasi un esempio classico del simbolismo apocalittico. Gli interpreti non hanno difficoltà ad identificare i mostri con gli imperi dei Babilonesi, dei Medi, dei Persiani e dei Greci. Il quarto mostro è il grande conquistatore Alessandro Magno, le corna sono i suoi successori; il piccolo corno con una grande bocca è Antioco IV Epifanie (175-163 a.C.), il re Seleucide che divenne il grande persecutore dei Giudei.

La visione dell’ariete e del capro (Dn. 8) è parallela alla visione dei mostri. L’ariete è l’impero dei Medi e dei Persiani (due corna), e il capro è Alessandro; le quattro corna rappresentano i Diadochi, i quattro regni che succedettero al Alessandro. Il corno piccolo è ovviamente Antioco IV; stava ancora cercando di sottomettere la Giudea quando fu scritto il passo.

La visione delle settanta settimane (Dn. 9) è di difficile interpretazione a prescindere dalle ipotesi seguite. L’autore inizia con i settant’anni del dominio di Babilonia di Ger. 25,11-12 e 29,12. In Geremia questo numero significa la durata massima della vita umana di un individuo; nessuno che fosse stato vivo al momento in cui fu pronunciato l’oracolo sarebbe sopravvissuto per vedere la caduta di Babilonia.

La visione di Dn. 10-12 è una finta previsione degli avvenimenti intercorsi tra il tardo Impero Persiano e il 164 a.C.

L’accenno alla risurrezione è l’unica chiara allusione a questa credenza che sia presente in tutto l’A.T. Ebraico, anche se è molto probabile che questa credenza sia riflessa in Is. 26,19. Ogni speranza nel futuro è espressa nei termini del perdurare di un gruppo, non di un singolo individuo; ed è appunto in questi termini che ho parlato della speranza nel futuro.

Si può riconoscere nella letteratura apocalittica l’eterna voce degli oppressi; forse però essi non erano così oppressi come pensavano e non erano più oppressi di altri.

7. La legge come compimento del futuro

Abbiamo parlato della comunità postesilica come della prima comunità religiosa, fondata da Esdra sulla base di un documento. Questo documento era il Pentateuco della nostra Bibbia, conosciuto generalmente tra i Giudei come la Torah, che noi traduciamo, non del tutto precisamente come “Legge”. La maiuscola sta ad indicare che non esiste altra legge all’infuori di questa. Essa è la volontà rivelata di Jahweh, che ha assunto una forma fissa e inalterabile, una guida completa su come comportarsi, sempre suscettibile di chiarificazione e di ampliamento grazie all’opera degli scribi che la interpretano.

La differenza più grande tra la comunità della legge (e la comunità cultuale) e le altre forme di speranza nel futuro sta proprio nel fatto che quelle erano “realizzate”, che erano delle forme storiche. La comunità cultuale durò finché i Romani non distrussero il tempo nel 70 d.C.; i suoi rappresentanti formavano in seno al Giudaismo quel “partito”, conosciuto nel N.T. e in Giuseppe Flavio come partito dei Sadducei.

La comunità della Legge non insiste molto sulla fine della storia, quasi a dire, che non è molto importante che la storia abbia o non abbia una fine. La comunità della Legge non è apocalittica e non esprime alcuna speranza nella vittoria cosmica di Jahweh sulle nazioni, e ancor meno nel dominio del mondo da parte del popolo di Jahweh. Al tempo stesso, non esprime neppure la speranza che le nazioni si convertano al culto di Jahweh.

8. La rigenerazione morale del futuro

Questo tema non è legato ad un preciso codice scritto. I testi raccolti sotto la rubrica della rigenerazione morale sono tutti quasi sicuramente precedenti alla produzione della Torah, e quindi non intendono la rigenerazione morale come fedeltà alla Torah.

La rigenerazione morale è concepita come la rigenerazione collettiva del popolo e non dei singoli individui; e questa concezione è quella che sta alla base sia della legge dell’alleanza sia della Torah, nessuna delle quali si rivolge ai singoli. Come il giudizio cade sul popolo considerato come un tutto, così il rinnovamento sperato sarà quello del popolo considerato come un tutto.

La più antica espressione di questo tema si trova nel libro di Osea. Os. 2,14-17 è da tutti considerato come originale. Qui egli esprime la sua speranza in un nuovo esodo e in un nuovo soggiorno nel deserto. Per Osea l’esodo doveva essere un periodo di prova dal quale Israele sarebbe uscito fedele, sposa di Jahweh come al tempo della sua giovinezza.

Osea non perse mai la speranza nella riunificazione. L’immagine del matrimonio è così personale, che i detti di Osea non si lasciano incanalare entro i binari dell’alleanza e neppure rispondono ad una logica molto coerente.

La rigenerazione morale di Is. 32,1-8 è generalmente considerata come un’aggiunta posteriore.

Uno dei più importanti e al tempo stesso più discutibili testi del nostro gruppo è l’oracolo della nuova alleanza di Ger. 31,31-34. Geremia vide nella caduta di Giuda un colossale fallimento delle istituzioni; e la sua non è una visione di nuove istituzioni, ancor meno del ripristino di quelle istituzioni che aveva visto cadere. La singolarità di questo detto sta nel fatto che una di queste istituzioni fallite è la Torah.

In Ezechiele (36,25-27) il processo di rigenerazione avviene per opera di Jahweh; il rito simbolico della purificazione tramite aspersione raggiunge effetti meravigliosi. La nuova comunità riceve un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Il vecchio cuore era un cuore di pietra.

Il tema della rigenerazione morale è chiaro in Zc. 5 e in Zc. 8,14-17. In Zc. 5 vengono utilizzate due immagini: il rotolo volante che contiene la maledizione di quelli che rubano e spergiurano, e l’efa che porta via dal paese la donna chiamata Empietà. Il fatto che l’empietà sia una donna  non è insolito nella Bibbia.

Sof. 3,11-13, che probabilmente è una glossa postesilica, esprime anch’esso una speranza di rigenerazione morale. Il passo è interessante perché vede la rigenerazione morale come religiosità dei poveri. Riecheggia il detto di Is. 2,10-19 che condanna la superbia dell’uomo.

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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