Formazione Religiosa

Sabato, 23 Luglio 2011 18:06

Il laicato, teologia incompiuta (Giordano Frosini)

Vota questo articolo
(2 Voti)

Nonostante sia stato messo esplicitamente a tema nel concilio vaticano II, la sua elaborazione risulta ancora non del tutto risolta.

La distinzione clero-laicato è ormai da superarsi in tutti e due i sensi. All'interno della comunità cristiana, non c'è altra distinzione che, a partire dalla pari dignità conferita dal battesimo, quella imposta dai diversi carismi e ministeri. Più complessa e più ostica rimane invece la questione relativa all'impegno chiesa-mondo.
Il concetto di "laico", già oggetto di infinite discussioni nella sua accezione sociologica, non lo è meno nel campo specificamente teologico. Evidentemente, almeno in questo secondo senso, dev'essere nato sotto cattiva stella, se, nonostante tanti tentativi messi in atto soprattutto nel post-concilio, un soddisfacente accordo generale non sembra ancora a portata di mano. Eppure si sa molto bene che il Vaticano II intese trattare a fondo (per la prima volta nel corso di una storia bimillenaria) questo argomento, naturalmente all'interno della rinnovata concezione della chiesa.
Alla sua conclusione, si affermò addirittura che esso sarebbe pienamente riuscito solo se la bistrattata figura del laico (una vicenda lunga e accidentata, la sua) avesse trovato, o ritrovato, il posto che gli spetta di diritto all'interno della comunità cristiana. La promozione ecclesiale del laicato (il gigante addormentato) addirittura presa come criterio di riuscita dell'intero concilio. Se questo è vero, c'è subito da dire che la realizzazione di esso è ancora lontana da venire.
Va subito aggiunto però che, nonostante gli sforzi compiuti con l'aiuto anche dei maggiori teologi del nostro tempo, nei documenti conciliari, pure assai avanzati rispetto al passato, il nostro tema non fu sistemato a dovere, cioè con la precisione necessaria, collocandosi in tal modo fra gli argomenti che il concilio (punto di partenza e punto di arrivo sostanzialmente nella stessa proporzione) ha trasmesso alla riflessione successiva. Che non è affatto mancata, non riuscendo però ancora, come dicevamo, a offrire soluzioni che godano l'approvazione di tutti, con conseguenze e ricadute pastorali tutt'altro che secondarie. Una vicenda che si trascina ormai da troppo tempo. Si può pensare oggi a una sua soluzione definitiva?
Accade per questo che, nell'attuale desiderio pressoché generale di recuperare lo spirito del concilio Vaticano II (un vero segno dei tempi da prendersi da tutti in seria, serissima considerazione), si stanno moltiplicando gli interventi preoccupati dei diretti interessati, cioè dei laici, grazie a Dio non più digiuni di conoscenze teologiche come nel passato, i quali, da diversi punti di vista, chiedono insistentemente un supplemento di riflessione proprio sulla base delle fondamentali tendenze chiaramente espresse nell'ultimo concilio della chiesa.
I titoli di non poche pubblicazioni sono abbastanza espressivi di questa esigenza. Ne scegliamo uno fra tutti, tanto più efficace perché espresso da una delle ultime presidenti nazionali dell'Azione cattolica italiana, Paola Bignardi: Esiste ancora il laicato?
Un vero e proprio grido di allarme, che trova corrispondenti analoghi anche al di fuori del nostro paese, ma che più forte sembra risuonare, per i motivi ben conosciuti, nella nostra penisola. Così, mentre la voce dei teologi di professione negli ultimi anni si è alquanto affievolita, si sono fatti avanti gli stessi laici per esprimere, con toni molto preoccupati, la loro insoddisfazione e scontentezza. Un fatto da salutarsi pregiudizialmente in modo assai positivo e da seguire con la massima attenzione.

Due interventi significativi

Per rendersi conto di quanto sta avvenendo, dobbiamo ricordare almeno due episodi, ambedue del tempo post-conciliare, che hanno messo in difficoltà l'opinione forse un po' ingenua che si era affermata nell'imminenza dell'assemblea conciliare.
Il primo di questi episodi consiste in una precisazione di Y. Congar, da tutti riconosciuto come il creatore della teologia del laicato, soprattutto per il suo libro Jalons pour une théologie du laïcat, dedicato a questo argomento nel lontano 1953; l'altro, in un'affermazione di Paolo VI, fatta in un discorso da lui tenuto nell'anno successivo. Due episodi, dunque, praticamente contemporanei.
Congar, a distanza di quasi venti anni, sentì il bisogno di fare una vera e propria retractatio rispetto alle sue impostazioni espresse nell'opera monumentale prima citata. È così che in un libro del 1971, Ministeri e comunione ecclesiale, correggeva il suo pensiero precedente affermando che, nella chiesa, «il binomio decisivo non è tanto quello di sacerdozio-laicato», usato comunemente fino ad allora, «quanto quello di ministeri e comunità».
La primitiva concezione, alla resa dei conti di carattere eccessivamente clericale, va sostituita sulla base del convincimento che «il battesimo appare come costitutivo di tutta la dignità cristiana». «La chiesa è una comunità composta da una comunità di servizi», e il laico si trova a pieno titolo all'interno di essa e, sul versante esterno, cioè nel rapporto chiesa-mondo, è proprio colui che va considerato come il cristiano vero, senza dover ricorrere a qualche aggiunta che lo distingua dagli altri cristiani. In tale campo, è caso mai il ministro ordinato a trovarsi in questa necessità. Si rovesciano in tal modo le posizioni. Nel complesso, il termine laico equivale né più né meno a quello di cristiano.
L'intervento di Paolo VI, fatto nel 1972 in un Discorso ai membri degli istituti secolari, confermava autorevolmente quanto già alcuni teologi stavano dicendo sulla base dello stesso concilio Vaticano II, che cioè la laicità è una caratteristica di tutta la chiesa: «La chiesa ha un'autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo incarnato, e che si è realizzata in forme diverse per i suoi membri - sacerdoti e laici - secondo il proprio carisma». Un'affermazione di fondamentale importanza.
Come si vede, siamo nell'ordine del riavvicinamento di quelli che il Decreto di Graziano aveva chiamato i duo genera christianorum, una classificazione da mettersi definitivamente in disparte, perché i cristiani sono semplicemente di un genere solo. Si tratta però ora di trovare un elemento distintivo fra le diverse categorie, senza rimettere in discussione quanto è stato autorevolmente (e giustamente) affermato. E siamo al nodo centrale delle nostre riflessioni.

Le coordinate del concilio

I due interventi, ambedue preziosi anche se non di uguale dignità e importanza, vanno ad inserirsi, precisandone i connotati di fondo, nella concezione dell'ecclesiologia tipica del concilio Vaticano II, un'ecclesiologia, come si sa, di comunione, di corresponsabilità e di compartecipazione, che si muove su un piano di sostanziale uguaglianza, non intaccabile in nessuna maniera dalla molteplicità dei carismi e dei ministeri in atto nella comunità ecclesiale, al suo interno e al suo esterno.
La distinzione clero-laicato è ormai da superarsi in tutti e due i sensi. All'interno della comunità cristiana, non c'è altra distinzione che quella imposta dai diversi carismi e ministeri. Possiamo al meno ricordare il n. 32 della Lumen gentium che appartiene certamente ai testi più perspicui e più forti dell'intero concilio: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri [si parla evidentemente del ministero ordinato nei suoi tre gradi, l'episcopato, il presbiterato e il diaconato], tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli nell'edificare il corpo di Cristo». Un testo da rileggersi in continuità, come normalmente non si fa, per non dimenticare mai il profondo e innovativo insegnamento che esso contiene.
Si ricordino, a questo proposito, le affermazioni sostanzialmente opposte di Pio X, all'inizio del secolo scorso, nella sua enciclica Vehementer nos.
L'accento ora è posto sul fedele battezzato, il christifidelis, l'appartenente al sacerdozio universale, se vogliamo, in qualche modo, sul "laico" nel senso originario della parola, naturalmente tenendo presente che nel concetto attuale di popolo di Dio sono inclusi anche i ministri ordinati. «Il christifidelis recuperato protagonista umano della chiesa», recita il titolo di un intervento del giurista-teologo P.A. Bonnet. L'unità fondamentale della chiesa è così affermata con forza e messa per sempre al sicuro. Un titolo, questo, che incoraggia una ripresa della dottrina dei due sacerdozi, di cui hanno parlato distesamente i primi capitoli della Lumen gentium, da considerare a ogni effetto i testi fondamentali della teologia conciliare del laicato. Forse da questa ripresa potrà guadagnare qualcosa anche la nostra ricerca.

I due sacerdozi

Il rapporto fra i due sacerdozi è stato analizzato in lungo e in largo nella riflessione del recente passato. Come si sa, si tratta di due realtà sostanzialmente diverse, quindi non sovrapponibili, come se il ministero ordinato fosse un'aggiunta che colloca il sacerdozio ministeriale un gradino al di sopra del sacerdozio universale. Il ministro ordinato non è un "cristiano più" rispetto agli altri, anzi il suo sacerdozio va tassativamente concepito in funzione e al servizio del sacerdozio comune, il quale lega tutti allo stesso meraviglioso destino: quello di essere figli di Dio per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Figli nel Figlio (filii in Filio), come ci ricorda anche una preghiera liturgica postconciliare.
Nella comunione universale, il ministro ordinato è il sacramento (cioè il segno e lo strumento) di Cristo capo e pastore. Non semplicemente il segno di Cristo (alter Christus), una qualifica che appartiene a tutti i battezzati, ma colui che è destinato a continuare la missione pastorale di Cristo nell'ufficio di guida della comunità.
Su questo sfondo, la retractatio di Congar, di cui abbiamo appena parlato, è pienamente giustificata. Ma forse - come è stato detto - la pur necessaria distinzione ne ha sofferto alquanto. È ciò che ci ricordano oggi gli esperti laici, sulla base delle loro riflessioni e soprattutto delle loro esperienze.
Congar, distinguendo fra clero e laicato, si accorgeva giustamente di avere distinto troppo, ma con la sua attuale formula, non ha forse distinto troppo poco? In questa semplice domanda si può forse riassumere il problema come ci si presenta oggi.
La questione ha due facce, quella che riguarda la vita interna della chiesa e l'altra che concerne il rapporto della chiesa con il mondo. Il concilio avverte a questo proposito che «i laici esercitano il loro multiforme apostolato sia nella chiesa che nel mondo» (AA 9). La rivendicazione della loro presenza e della loro attività deve andare quindi in tutti e due i sensi.

Alcuni approfondimenti

La prima questione, trattata nei primi capitoli della Lumen gentium, sul piano teorico non presenta difficoltà. Secondo la dottrina conciliare, i laici partecipano al triplice munus (la triplice funzione), di Cristo, cioè alla funzione profetica (includendovi anche la modalità dell'insegnamento), alla funzione cultuale che si esercita in particolare nell'azione liturgica, alla funzione regale della comunità attraverso la loro molteplice e multiforme azione pastorale.
È la stessa impostazione usata dai testi conciliari per tutto il ministero ordinato: il triplice munus appartiene all'intero corpo ecclesiale, naturalmente in forma diversa. I ministri ordinati lo esercitano con la responsabilità del capo e del pastore, nel loro esercizio dell'ufficio di presidenza, nonché nel compimento del loro diritto-dovere - come si è soliti dire - dell'ultima parola (un'espressione sulla quale sarà necessario riflettere in modo più approfondito). Un ministero che si è sempre di più qualificato come il servizio reso alla comunione interna ed esterna della chiesa.
C'è, a questo proposito, un testo fortunato dell'episcopato italiano, che suona letteralmente così: «La grazia propria del vescovo non è la sintesi dei ministeri, come si poteva pensare in passato, ma è il ministero della sintesi, dell'armonizzazione e della generazione di tutti i ministeri volti all'edificazione della comunità. Per questa grazia il vescovo, in forza del dono ricevuto, diventa efficace segno e «principio visibile e fondamento di unità per la chiesa particolare a lui affidata»» (Evangelizzazione e ministeri [1977], n. 54). Naturalmente quello che è detto del vescovo, va ripetuto di conseguenza pure per i due ministeri ordinati inferiori.
Anche i due sacramenti riservati al ministero ordinato di primo e di secondo ordine, cioè la riconciliazione e l'eucaristia, possono essere giustamente qualificati come i sacramenti della comunione ecclesiale.
Suscitare con lo Spirito Santo i vari carismi della chiesa e nella chiesa, discernerli e coordinarli, sta diventando sempre di più il ministero caratteristico di coloro che hanno ricevuto il sacramento dell'ordine. Una valorizzazione e non una sostituzione, come purtroppo è avvenuto nel passato, nell'epoca da Congar giustamente definita della gerarcologia.
Afferma G. Greshake in Essere preti nel nostro tempo (Queriniana, 2008): «Nell'attività ministeriale… in nome e con l'autorità di Cristo, nella sua opera di insegnamento, santificazione e guida, il prete deve unire e mantenere unita la comunità» (p. 148). Una visione che può essere rafforzata anche dalla concezione del ministero inteso come «rappresentazione» della chiesa, oltre che di Cristo. La chiesa poi si è definita nel concilio come il sacramento «dell'unità di tutto il genere umano».
Più complessa e più ostica rimane invece la famosa questione relativa all'impegno chiesa-mondo. A questo tema sono dedicati il quarto capitolo della Lumen gentium e, in modo più ampio e disteso, il documento Apostolicam actuositatem; non va però dimenticata l'aggiunta al primo paragrafo del n. 31 della stessa Lumen gentium, da considerarsi verosimilmente come parte integrante della definizione (tipologica, non ontologica) del laico: «L'indole secolare (indoles saecularis) è propria e peculiare dei laici. Infatti, i membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano attendere a cose secolari, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido e singolare che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio».
La ragione della difficoltà sta nell'affermazione che la secolarità è propria e caratteristica, ma non esclusiva, dei laici. (Strano a questo proposito, da parte dei padri conciliari certamente esperti nel linguaggio scolastico, l'uso inesatto del termine "proprio"!).
La spiegazione di testi come questo è data dal documento Apostolicam actuositatem, che al n. 7 afferma: «È compito di tutta la chiesa lavorare affinché gli uomini siano resi capaci di ben costruire tutto l'ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo. Spetta ai pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l'uso del mondo, dare aiuti materiali e spirituali affinché l'ordine temporale venga instaurato in Cristo. Bisogna che i laici assumano l'instaurazione dell'ordine temporale come compito proprio e in esso, guidati dalla luce del vangelo e dal pensiero della chiesa e mossi da carità cristiana, operino direttamente e in modo concreto».
Appartenente a tutta la chiesa, la laicità va così gestita in modi diversi. Alla gerarchia spetta di per sé richiamare i principi; ai laici, «uomini della chiesa nel cuore del mondo e uomini del mondo nel cuore della chiesa» (Documenti di Puebla), ancora di per sé spetta la gestione concreta dell'attività destinata a iscrivere la legge di Dio nella storia degli uomini.
È sufficiente questa distinzione a salvaguardare la specificità caratteristica del laico, da una parte, e del ministro ordinato, dall'altra? La prassi consueta sembra smentire le affermazioni conciliari, dal momento che anche i ministri ordinati, magari insieme al ministero loro proprio, esercitano alcune professioni profane.

Una vera autoesclusione

Per rispondere, pensiamo sia necessario distinguere anche all'interno dei cosiddetti servizi secolari, di cui il documento della Cei Evangelizzazione e ministeri offre un lungo elenco (n. 72). In questo campo ci sono infatti ministeri e ministeri. Rifacendoci ai concetti espressi prima, ci sono ministeri che, di per sé, non ostacolano l'unità della chiesa; ci sono invece ministeri che possono mettere a repentaglio l'unità ecclesiale, come l'impegno della politica di altre discipline affini.
Il ministro ordinato, per un verso, e la chiesa nel suo complesso, per un altro, sono al servizio dell'unità e proprio per questo si autoescludono dalle attività che, per natura loro, portano in se stesse i motivi della molteplicità e della divisione. Certo, il ministro ordinato in se stesso - si direbbe in foro conscientiae - potrà fare le sue scelte concrete, ma non dovrà mai imporle in nome della sua ordinazione e della sua posizione di presidenza all'interno della comunità.
Dire che la chiesa potrebbe farsi promotrice anche di scelte tecniche concrete, purché intenda sottoporsi anch'essa al criterio della laicità, quindi mettendo le sue opzioni sul discutibile mercato delle altre opzioni, non risolverebbe il problema, perché, anche in questo caso, come l'esperienza ci può dimostrare, l'unità sarebbe ugualmente messa a repentaglio. Giustamente, quindi, la chiesa, per rimanere fedele al suo mandato, si autoesclude dall'agone politico concreto.
Si tratta di una "autoesclusione", perché effettivamente una società pluralistica come quella attuale potrebbe e dovrebbe consentire la presenza attiva anche della comunità cristiana e dei suoi ministri, come accetta l'opera di tanti altri enti intermedi o comunque si vogliano denominare. Ma è lei stessa che si ritira per difendere uno dei valori fondamentali di cui si sente portatrice.
Potremmo aggiungere anche altre considerazioni per giustificare questa autoesclusione dalle realtà secolari nel senso da noi inteso. Nel caso contemplato, sono in questione problemi complessi (si pensi soltanto a quello dell'economia) i quali richiedono studio e preparazione che non si improvvisano affatto. Campi in cui la chiesa come tale non ha né preparazione né autorità da fare valere. Come in tutti i settori della vita, anche in questi settori essa ripeterà i principi validi per tutti, certo attualizzandoli al presente (cf. OA 42), senza però portarli alle loro ultime determinazioni.
Questo lo faranno i laici sotto la loro responsabilità, non cercando coperture teologiche o ecclesiali, perché queste coperture, anche se ci sono state nel passato, oggi non ci sono più. Eccessive ingerenze della chiesa in questi campi sono anche fonte di quell'anticlericalismo che ai nostri giorni è tornato a farsi sentire purtroppo anche quando l'intervento della chiesa sarebbe di per sé giustificato. Non di rado, anzi, l'ateismo contemporaneo parte da constatazioni di questo genere.
C'è da dire però che, trattandosi di una autoesclusione, per motivi particolari, che almeno da noi si fanno sempre più rari, la chiesa può anche concedere a qualcuno dei suoi ministri ordinati la possibilità di prendere parte attiva nell'impegno socio-politico. A scanso di equivoci, si deve però fare in modo che tutti sappiano che si tratta di un'eccezione, accompagnata da una vera e propria dispensa.
Nelle motivazioni di questa autoesclusione c'è anche un'altra ragione da tenere presente: il comportamento di Gesù. Esiste a questo proposito nei racconti evangelici un fatto che può essere considerato come emblematico del suo comportamento generale. L'episodio, di cui non c'è nessun motivo per mettere in dubbio la storicità, è narrato nel vangelo di Luca.
A colui che gli chiese un giorno di dire a suo fratello di dividere con lui l'eredità, Gesù rispose testualmente: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». Aggiungendo subito dopo: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,13-15; cf. anche la rinuncia a una valutazione di ordine politico contenuta in Lc 13,1ss.). Un netto rifiuto di esercitare operazioni di carattere tecnico e, insieme, la ripetizione categorica di un principio che vale nei casi prospettati e in tutte le circostanze analoghe che potranno presentarsi nel succedersi delle vicende umane.
È esattamente la linea che lo stesso magistero post-conciliare ha costantemente indicato perché si possa distinguere il contributo del ministero ordinato o della chiesa nel suo complesso e il ministero laicale nella sua specificità. Così hanno ripetuto Paolo VI (per es. Evangelii nuntiandi n. 70), così Giovanni Paolo II (per es. Christifideles laici, n. 15), così anche Benedetto XVI (per es. Caritas in veritate, n. 9).
Leggiamo in quest'ultimo testo: «La chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende "minimamente di intromettersi nella politica degli stati". Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione. […] Questa missione di verità è per la chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera».
Il compito della realizzazione pratica di questo pensiero spetta ai cristiani, tenendo presente che il passaggio dal principio alla prassi consente anche, anzi normalmente, un pluralismo di opzioni e di realizzazioni.
Per questo, non possiamo che condividere quanto afferma G. Greshake nel testo prima citato a proposito del ministro ordinato, il quale «dovrà - per quanto è possibile - rimanere "al di sopra delle parti", al di sopra delle diverse opzioni e polarizzazioni, inevitabilmente condizionate dall'impegno nel mondo. Prelati politicizzati e curie coinvolte in processi di natura economica non hanno mai reso un buon servizio alla chiesa» (p. 151).
In questa prospettiva si valorizzano anche le riflessioni dei teologi che considerano il laico come il vero cristiano, definibile senza bisogno di aggiungere al sostantivo aggettivi delimitanti. Saranno, caso mai, i ministri ordinati e i religiosi, sempre alla luce della propria vocazione, a dovere specificare meglio il senso della loro attività nella chiesa e soprattutto nel loro rapporto con il mondo. Il laico fa suo tutto il programma della laicità, portandola fino alle sue estreme conseguenze. E lo fa in nome di una vocazione vera e propria che lo colloca statutariamente all'interno delle realtà secolari (cf. LG 31, dove si afferma che i laici vivono nel mondo «da Dio chiamati»).

I principi e i confini

Un'impostazione, se si vuole, basata più sulle accentuazioni che sulla sostanza. Uno spazio non molto largo in cui inserire la distinzione. Eppure, sulla base dei principi fondamentali della nuova ecclesiologia, non se ne vedono altri. È per questo che l'attenzione da parte di tutti dev'essere sempre vigile e coerente ai principi per non oltrepassare mai i propri confini. Certo, i laici devono mantenere le loro posizioni, ma anche l'eccessiva ingerenza della gerarchia, lamentata più volte ai nostri giorni, dev'essere accuratamente evitata.
L'autonomia dei laici andrà certamente seguita e in qualche modo anche controllata dall'intera comunità, mai però limitata e soppressa. Sono le esigenze statutarie della laicità, formalmente affermata nei documenti del concilio Vaticano II. Soltanto con l'accettazione di queste linee maestre si potrà arrivare ad un rilancio e alla ripresa del laicato, oggi affaticato e stanco, non solo per colpa propria.
Anche la cosiddetta mediazione storico-culturale necessaria sempre nel passaggio dal principio alla prassi, spetta in definitiva ai laici.
Intendiamo la mediazione culturale come il tentativo di trarre il massimo di possibilità applicativa di un principio concesso dalla situazione socio-culturale del momento. Non perché si rinuncia al principio (in qualche modo ogni principio è non negoziabile), ma perché non si può forzare la situazione oltre i limiti consentiti dalla realtà.
In conseguenza di questo atteggiamento, il cristiano sposta la sua attenzione verso la società per lavorarla dall'interno con la sua opera di persuasione e di convincimento, in modo che nel futuro divenga possibile quello che oggi ancora non è. È la parte di ragione che porta sempre con sé il pensiero di Giuseppe Lazzati.
Salva, dicevamo, in questa prospettiva la secolarità come atteggiamento di tutta la chiesa e salva anche l'affermazione che «tutto il sacerdozio cristiano è un sacerdozio fondamentalmente laicale» (Dianich), ma salva anche la tipicità del laico cristiano che, come afferma un documento della Conferenza episcopale tedesca, riecheggiando una famosa frase di Y. Congar, «è quel cristiano che vive in estrema serietà la propria fede nel mondo».
Una cosa però si impone oggi indistintamente a tutti: la necessità di una presenza piena del laico nel campo accidentato e tormentato delle nostre società, nonché, naturalmente, all'interno della chiesa.
È l'urgenza fondamentale dei nostri giorni, il segno dei tempi che continua a bussare con insistenza alle nostre porte e al quale dobbiamo saper dare urgentemente la nostra risposta. L'evangelizzazione rimane sospesa a questo indispensabile rilancio.

Giordano Frosini

(da Settimana, n. 4, anno 2011)

 

Letto 3033 volte Ultima modifica il Martedì, 07 Febbraio 2012 10:00
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search